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LA TERAPIA ANTIBIOTICA
Dossier a cura di
M. Casarola1, O. Codella2, E. Concia3, A. Conforti5, G. Cornaglia 6, C. Melotti1, P. Sandri1, T. Sandrini1, G.E. Senna4, M. Sighele1, L.Vettore7.
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1. MMG; 2. Internista, Medicina Interna A, Ospedale Policlinico di Verona; 3. Direttore Cattedra Malattie Infettive, OCM Verona;
4. Primario Servizio Allergologia, OCM Verona; 5. Ricercatrice, Dip. Medicina e Sanità Pubblica, Università di Verona;
6. Direttore Cattedra Microbiologia, Università di Verona; 7. Presidente Società Italiana di Pedagogia Medica.
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Questo “dossier” sulla terapia antibiotica è di dimensioni maggiori del consueto perché il tema riveste un’importanza particolare nella pratica professionale del medico.
Si è ritenuto opportuno definire nella prima parte le conoscenze teoriche, comunque essenziali e irrinunciabili, per
praticare in modo corretto ed efficace la scelta e la prescrizione della terapia antibiotica; il lettore vi potrà infatti trovare espresse in modo succinto, ma sperabilmente chiaro, le risposte degli Esperti ai seguenti quesiti:
- perché e come si sviluppano le infezioni?
- perché s’instaurano le resistenze batteriche e come il medico può ridurne l’impatto negativo sulle proprie decisioni terapeutiche?
- come e quando serve il laboratorio microbiologico?
- quali conoscenze sulle caratteristiche farmacologiche degli antibiotici sono indispensabili per consentire una loro
prescrizione corretta?
- quale strategia è consigliabile per scegliere l’antibiotico giusto quando possa essere solo presunta l’eziologia dell’infezione e non si disponga dei dati microbiologici e di sensibilità?
- come evitare i rischi gravi di reazioni allergiche alla somministrazione di antibiotici?
Nella seconda parte questi principi trovano applicazione concreta nelle indicazioni alla terapia antibiotica per le infezioni più frequenti: la polmonite nel paziente adulto a domicilio e in quello le cui condizioni consigliano il ricovero
in ospedale (le infezioni urinarie erano già state trattate recentemente su Dialogo sui farmaci).
Un ampio contributo sarà dedicato alla particolarità della terapia antibiotica per tutte le infezioni più frequenti nel
bambino.
Infine, vengono pubblicati i risultati ottenuti nel trattamento domiciliare della polmonite dell’adulto da un gruppo di
Medici di Famiglia veronesi, grazie all’applicazione di una linea guida da loro stessi concordata sulla base delle evidenze scientifiche internazionali e molto simile agli indirizzi terapeutici teorici riportati nel dossier.
Fisiopatologia delle infezioni
a cura di: E. Concia - Direttore Cattedra Malattie Infettive, OCM Verona
La strategia del nemico
La malattia infettiva costituisce il risultato della complessa interazione
tra microrganismo e ospite.
L’esito del contatto dipende da variabili appartenenti ad entrambi gli
organismi.
Per quanto riguarda il microrganismo i fattori determinanti l’esito sono i seguenti: patogenicità, virulenza,
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invasività, carica infettante e tossinogenesi.
La patogenicità consiste nell’attitudine del microrganismo a provocare infezione o malattia in un determinato organismo superiore. Tale
caratteristica è in genere speciespecifica e si manifesta nel tipo di
rapporto che il microrganismo è in
grado di instaurare con l’ospite con
cui viene in contatto. Su questa ba-
se i microrganismi possono essere
distinti in simbionti (rapporto di reciproco vantaggio), commensali
(moltiplicazione dei microrganismi
senza apparente vantaggio del microrganismo superiore), parassiti o
patogeni (rapporto a vantaggio del
microrganismo e dannoso per l’organismo superiore).
La virulenza costituisce la capacità
di singoli ceppi di specie patogene
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di produrre una serie di fattori che
ne favoriscono la sopravvivenza, la
moltiplicazione ed il superamento
delle difese dell’ospite.
L’invasività è l’attitudine a superare
le barriere di difesa superficiale dell’ospite propria delle specie in grado di provocare infezioni profonde
senza la liberazione di tossine. Tappa precedente all’invasione tissutale
è generalmente l’adesione dei microrganismi alla cute o alle mucose
dell’ospite attraverso specifici antigeni che legano recettori dell’ospite
condizionando anche specifici fenomeni di tropismo tissutale.
In alcune circostanze le suddette
proprietà non sono sufficienti a sbilanciare l’equilibrio ospite-microrganismo a favore di quest’ultimo in
assenza di una significativa carica infettante. L’entità della carica infettante, ovvero il numero di unità microbiche necessarie per provocare
l’infezione, è variabile a seconda
delle specie. La specie di microrganismo e la supposta carica infettante condizionano la scelta dell’antibiotico, tra quelli dotati di attività
soltanto batteriostatica o anche
battericida, e la necessità di ricorrere all’impiego di associazioni antibiotiche al fine di ottenere un effetto sinergico e quindi più potente,
soprattutto in presenza di elevata
carica infettante.
Vi sono infine alcuni microrganismi
la cui azione patogena è basata sulla
capacità di produrre tossine codificate su base genetica; la perdita di
questa proprietà determina in genere l’incapacità di generare malattia.
Le tattiche difensive
Per quanto riguarda le variabili relative all’organismo superiore, esse
sono tutte riconducibili alla capacità
di difesa, la cui compromissione può
essere determinata dalla presenza
di patologie o di condizioni a rischio o da fattori genetici.
I fattori di difesa si strutturano a vari livelli: prima e seconda linea di difesa e fattori aspecifici e specifici.
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Tra i meccanismi aspecifici esiste innanzitutto la barriera anatomo-funzionale rappresentata dalla cute,
dalle mucose e dai loro secreti che
oppongono un immediato ostacolo
all’entrata dei microrganismi anche
grazie alla produzione di sostanze
nocive per i microrganismi stessi (lisozima, alfa-1-antitripsina, pH acido).Altro meccanismo aspecifico di
primo livello è la presenza di una
flora batterica endogena che ha un
effetto limitante e competitivo sulla
moltiplicazione di potenziali patogeni.
Dopo il superamento del primo livello di blocco, si innescano altre
reazioni aspecifiche di difesa come
la produzione di proteine della fase
acuta e del complemento e il rilascio di citochine che aumentano la
permeabilità vascolare, determinano l’attivazione di cellule fagocitiche
e natural killer e possono avere di
per sé attività antinfettiva (azione
antivirale dell’interferone).
I meccanismi specifici di difesa costituiscono la risposta immunitaria
dell’ospite alle infezioni. Questa si
basa su fattori umorali, le immunoglobuline, che vengono prodotte in
presenza di antigeni ed hanno una
prevalente azione di neutralizzazione nelle infezioni virali e di opsonizzazione e innesco della batteriolisi
complemento-mediata nelle infezioni batteriche. Il braccio effettore
della risposta immunitaria è dato
dall’immunità cellulo-mediata che si
basa sull’azione di linfociti T helper,
implicati nell’attivazione dei macrofagi soprattutto nelle infezioni da
batteri intracellulari, e di linfociti T
citotossici, fondamentali nell’eliminazione dei virus.
Il delicato equilibrio tra microrganismo e ospite si gioca quindi sulla
prevalenza dei fattori di aggressività
dell’uno o di quelli difensivi dell’altro, con la determinazione di una
patologia infettiva classica quando
l’aggressività del microrganismo sia
tale da annientare un individuo sano
e di una patologia opportunista
quando microrganismi commensali
o a bassa patogenicità si confronta-
no con deficit dei meccanismi di difesa dell’ospite. Nel caso di pazienti
immunocompromessi è spesso necessario utilizzare farmaci battericidi e/o potenziare la terapia impiegando associazioni di antibiotici.
Tuttavia nemmeno tale complessa
strategia non consente sempre di
ottenere il successo clinico.
Il terzo elemento che può entrare
nel rapporto microrganismo-ospite
condizionandone l’esito è la terapia
antinfettiva. In generale l’azione dei
farmaci antinfettivi si esplica nel
neutralizzare a vari livelli i meccanismi effettori del microrganismo che
ne consentono la penetrazione, la
moltiplicazione e l’azione lesiva. Il
successo di una terapia antinfettiva
dipende da vari e complessi fattori.
Innanzitutto nella terapia empirica
occorre valutare quali sono i microrganismi più frequentemente
implicati e le caratteristiche di resistenza agli antibiotici che possono
variare a seconda dell’ambiente in
cui è stata contratta l’infezione.
Inoltre, a fronte di una dimostrata
azione in vitro, è necessario considerare gli elementi farmacocinetici
e farmacodinamici che condizionano l’adeguata concentrazione del
principio attivo nel sito di infezione
ed il mantenimento di livelli circolanti non nocivi per l’organismo
umano. Si deve tenere conto infatti
della Minima Concentrazione Inibente (MIC) dell’antibiotico nel sito
di infezione e le concentrazioni ivi
raggiungibili in vivo. La scelta dell’intervallo di somministrazione è condizionata dalle caratteristiche di dipendenza dal tempo o dalla concentrazione che le diverse classi di antibiotici possiedono.
Le scarse informazioni
epidemiologiche
Appare alquanto problematico ricostruire una visione epidemiologica delle malattie infettive di interesse prevalentemente ambulatoriale
poiché non esiste in Italia un sistema di rilevazione attendibile di tali
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patologie ed anche perché la diagnosi di certezza con specifico
orientamento eziologico spesso
non è possibile a questo livello di
assistenza.
Tra le patologie infettive di più frequente riscontro a livello comunitario figurano le infezioni delle alte e
basse vie respiratorie e dell’orecchio. La seconda causa di visita ambulatoriale, dopo l’esame routinario
del bambino sano, è l’otite media
acuta; infatti entro i primi 3 anni di
vita tutti i bambini manifestano almeno un episodio di questa patologia ed il 50% di essi è affetto da recidive. Altra problematica assai comune, soprattutto in età pediatrica,
sono le faringotonsilliti che motivano il 10% delle visite ambulatoriali.
In un’indagine condotta recentemente in Italia, l’incidenza di rinosinusiti risulta pari al 24-29% fino a
50 anni e al 17% dopo questa fascia
di età1. Per quanto riguarda le polmoniti di comunità, nel 1990 l’incidenza media in Italia è stata di circa
12 casi/1.000 abitanti ovvero circa
700.000 casi di cui il 3% ha necessitato di ricovero ospedaliero1.
Da alcuni anni l’Istituto Superiore di
Sanità effettua una sorveglianza dell’andamento dell’epidemia influenzale: da questo registro risulta che nell’inverno 2000-2001 si sono verificati
in Italia 55 casi/1.000 assistiti.
Il Ministero della Salute elabora annualmente un Bollettino Epidemiologico relativo alle patologie soggette a notifica (www.ben.iss.it), ma anche dal suo esame si traggono poche
informazioni utili sull’incidenza delle
malattie da agenti infettivi curabili
con terapia antibiotica e in particolare non sono disponibili dati che indichino la frequenza relativa delle malattie batteriche rispetto alle virali.
Secondo gli ultimi dati statistici for-
niti dall’Istituto Superiore di Sanità
e risalenti purtroppo soltanto al
1994, il tasso di mortalità per cause
infettive in Italia è stato pari a 3.388
casi/100.000 abitanti, ovvero le malattie infettive hanno causato in
quell’anno lo 0,3% dei decessi. Se si
considerano le polmoniti, calcolate
a parte, queste hanno rappresentato l’1,2% dei decessi.Tali valori sono
ovviamente trascurabili se si paragonano a quelli relativi alle patologie cardiovascolari (57% dei decessi) o ai tumori (28,2%)2. Non ci sono ragioni plausibili per ritenere
che i rapporti reciproci siano mutati significativamente in tempi più recenti.
BIBLIOGRAFIA
1. E. Concia: infezioni delle vie respiratorie.
1999 PG Edizioni Scientifiche.
2. Sito web: www.iss.it
Il nemico “intelligente”: i batteri
a cura di: G. Cornaglia - Direttore Cattedra Microbiologia, Università di Verona
Le resistenze batteriche
I batteri hanno imparato quasi subito a convivere con gli antibiotici,
sviluppando tutta una serie di meccanismi di resistenza che hanno da
sempre ostacolato la terapia delle
infezioni. Si noti che il fenomeno sta
per ripetersi anche con gli antivirali, via via che questi principi attivi diventano più numerosi e disponibili.
L’abbondanza di molecole sempre
nuove, resa possibile dagli sforzi di
ricercatori e case farmaceutiche
(con scopi certo differenti, ma con
risultati fortunatamente coincidenti) ha per anni reso possibile una
certa “non chalance” nell’uso di questi farmaci, tanto che molti antibiotici hanno spesso vissuto una stagione molto più effimera del dovuto, nell’illusione che, spuntata un’ar-
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ma, ce ne fosse dietro l’angolo sempre una disponibile.
Lo sfruttamento intensivo delle
strutture molecolari conosciute,
con una lunga serie di “variazioni sul
tema”, ha invece creato un vuoto,
che oggi non siamo in grado di
riempire né con la scoperta di nuove strutture da sfruttare né con ulteriori modifiche delle vecchie molecole. Le nuove tecniche scese in
campo, dalla modellistica computerizzata alle più aggiornate tecniche
di biologia molecolare e analisi del
genoma, non hanno dato finora i risultati sperati; anche a volere essere
ottimisti, sembra oggi molto improbabile che queste tecniche riusciranno a partorire prima di un congruo numero di anni qualcosa di utile (cioè non una brillante idea, peraltro ancora di là da venire, ma un
vero farmaco da somministrare a
un vero paziente).
Nel frattempo, le vetrine delle farmacie (ma anche quelle dei congressi internazionali) sono sempre
più desolatamente povere di nuovi
prodotti. Quel po’ che si vede sembra destinato a vita (prevedibilmente) effimera o possiede uno spettro
di attività talmente limitato da destinarlo alla sola funzione di prodotto di nicchia per patogeni o situazioni particolari.
In queste condizioni diventa ancora
più importante per il medico pratico usare bene gli antibiotici che ha a
disposizione, sia perché l’efficacia
“garantita” del singolo prodotto e la
possibilità di usarlo in situazioni cliniche diverse sono sempre meno
plausibili (per effetto, come abbiamo
visto, del ridotto spettro antibatteri-
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co di base e delle resistenze acquisite), sia perché quando un farmaco
funziona bisogna tenerselo caro ed
evitare di sprecarlo (non solo per
un pur opportuno senso civico-ecologico ma perché le alternative dietro l’angolo non ci sono più).
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha fatto osservare proprio quest’anno che, paradossalmente, le resistenze si creano sia usando “troppo” antibiotico che usandone “troppo poco”. Il primo rischio è ovviamente legato alla situazione di opulenza che genera spreco e, da un
punto di vista evolutivo, pressione
selettiva. Un pericolo non ancora
avvertito ma già presente è, per
esempio, l’aumentata frequenza delle infezioni fungine, conseguente allo
squilibrio indotto nell’ecosistema
dall’eccessiva presenza di antibiotici
ad azione antibatterica.
Ma anche il secondo rischio, quello
del “troppo poco”, non è affatto limitato a paesi del Terzo Mondo o con
gravi carenze sanitarie, ma si verifica
in modo subdolo anche alle nostre
latitudini tutte le volte che si prescrive una terapia antibiotica per periodi
troppo brevi (facilitati in ciò dalla
presenza sul mercato di principi attivi consigliati con queste posologie,
gradite ai pazienti), oppure non si
completa un ciclo di terapia, o si prescrivono dosi di antibiotico troppo
ridotte o distanziate tra loro, o si fa
ricorso a un farmaco scarsamente efficace per propri limiti intrinseci
(troppo vecchio, superato dall’evoluzione delle resistenze), o quando …
il paziente (o il medico?) prendono
dall’armadietto dei medicinali una
confezione (magari aperta) lasciata lì
chissà in quale occasione e per chissà
quanto tempo.
Ancora, l’avere a disposizione farmaci ad ampio spettro può essere rassicurante dal momento che nella grande maggioranza dei casi la scelta dell’antibiotico si basa su dei criteri empirici, ma purtroppo l’uso allargato di
antibiotici ad ampio spettro è uno
dei principali fattori responsabili dell’aumento delle resistenze.
Quindi, modificare l’uso improprio
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degli antibiotici e contribuire a limitare il dilagare delle resistenze batteriche significa in primo luogo tornare a
una corretta pratica diagnostico-terapeutica e considerare l’antibiotico
quello che è,cioè non un “male da evitare” ma un farmaco indispensabile,
non facile da conoscere e prescrivere.
Infine, per dare al problema tutta
l’importanza che merita, va sottolineato che la resistenza agli antibiotici può essere trasmessa da una persona ad un’altra attraverso i batteri,
da un batterio ad un altro attraverso
i plasmidi, da un plasmide all’altro attraverso trasposoni (unità genetiche
veicolanti resistenze multiple). L’isolamento negli USA e in Giappone di
ceppi di stafilococchi meticillino-resistenti, sui quali non è efficace la
vancomicina, ci ripropone l’inquietante scenario dell’impossibilità di
curare alcune malattie infettive.
Sorveglianza microbiologica
regionale
Nel 1998, il costante aumento delle
resistenze batteriche agli antibiotici
ha indotto la Regione Veneto a predisporre un Sistema di Sorveglianza
Regionale, tuttora attivo, che raccoglie i risultati degli antibiogrammi
eseguiti nei Laboratori di Microbiologia degli Ospedali dei capoluoghi
delle province venete. Il Sistema di
Sorveglianza è coordinato, presso
l’Università di Verona, dalla Sezione
di Microbiologia del Dipartimento
di Patologia, Centro di Riferimento
Regionale per le Resistenze ai farmaci antibatterici (diretto dalla
Prof.ssa Roberta Fontana).
Come esempio dei dati raccolti dal
Centro si rinvia al dossier sulle infezioni delle vie urinarie, pubblicato in
Dsf n. 3/1999, dove sono riportate
le percentuali di resistenza agli antibiotici calcolate - sui risultati di tutta la Regione Veneto - per i microrganismi isolati più frequentemente
da urocolture in pazienti non ospedalizzati. I dati microbiologici inte-
grali, aggiornati annualmente, sono
disponibili presso la Direzione Prevenzione della Regione Veneto (tel.
041-2791.352).
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Suggerimenti pratici per
l’utilizzazione del laboratorio
di microbiologia clinica
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Un uso intelligente del laboratorio
di microbiologia da parte del prescrittore può contribuire parecchio
a limitare la diffusione delle resistenze agli antibiotici, sia attraverso
una corretta identificazione del microrganismo sia, e questo è più intuitivo, attraverso l’antibiogramma.
Tale uso è ampiamente praticato
nell’ospedale sui più vari campioni
biologici (sangue, urine, escreato,
secrezioni, ecc.); al contrario, molte
ragioni - per lo più di carattere logistico - limitano il ricorso del medico di base al laboratorio di microbiologia e così, in gran parte delle
infezioni riscontrate sul territorio,
la terapia è essenzialmente empirica. L’incertezza sul microrganismo
implicato porta inevitabilmente ad
utilizzare antibiotici a largo spettro
nel tentativo di “non lasciare fuori
niente”. Una corretta diagnosi eziologica, che solo il laboratorio è in
grado di fare, consentirebbe l’impiego di farmaci più mirati, a spettro
più ristretto e, magari, anche più attivi su quel particolare microrganismo.
Di fatto l’indagine microbiologica sarebbe possibile anche nella medicina
del territorio sui tamponi faringei e
sui campioni di urine (sui campioni
spontanei di espettorato è forse meno utile per i molti falsi negativi); si
tratta infatti di materiali relativamente facili da ottenere senza alcuna manovra invasiva e per la corretta esecuzione dei quali basta osservare minimi accorgimenti di sterilità e tempestività nell’invio al laboratorio.
Anche la prescrizione e l’interpretazione dell’antibiogramma non comportano, per il medico di base, richieste o conoscenze particolari, dato che viene ormai effettuato di rou-
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tine su tutti i batteri patogeni. Ogni
laboratorio effettua l’antibiogramma
con un assortimento di antibiotici
prefissato, che generalmente è stato
scelto in base al tipo di batterio, all’epidemiologia delle resistenze a livello locale e possibilmente al tipo di
antibiotici realmente disponibili per
il medico (nel caso delle infezioni comunitarie, quindi, i tipici antibiotici
ospedalieri non dovrebbero figurare
sul referto, e viceversa).
Generalmente nell’antibiogramma
compare solo uno dei principi attivi
appartenenti alla stessa famiglia farmacologica (penicilline semisintetiche, macrolidi, tetracicline, chinoloni, ecc.), e quindi con sensibilità e
resistenze crociate: ciò rende equivalente la scelta terapeutica dell’uno o dell’altro principio apparte-
nente alla medesima famiglia. In linea di massima ciò è vero anche per
le molecole di sintesi più recente (e
pertanto meno sperimentate e
spesso più costose), le quali per lo
più si differenziano dalle meno recenti per le caratteristiche farmacocinetiche più che per diversità di
spettro; tuttavia non si può negare
che laddove la molecola più recente
raggiunga una migliore diffusibilità in
determinati distretti, oppure possa
essere usata a dosaggi inferiori e
quindi sia meglio tollerata, essa possa realizzare un’efficacia clinica
maggiore dei suoi congeneri verso
certi tipi d’infezione.
Si constata tuttavia una certa disaffezione di molti medici per gli esami
microbiologici, e in ciò anche il laboratorio ha la sua parte di respon-
sabilità, per lo più ascrivibile alla
scarsa tempestività della risposta.
Per questo, solo in pochi casi il medico a domicilio può attendere il referto microbiologico per prescrivere la terapia. Si può tuttavia osservare che comunque la risposta del
laboratorio potrebbe dare al medico valide indicazioni sulla correttezza della diagnosi presuntiva e dell’antibiotico scelto anche se nel
frattempo la terapia antibiotica fosse già iniziata, contribuendo così a
creare una mini-epidemiologia personale; naturalmente ciò comporta
nel breve periodo un certo costo,
verosimilmente compensato dalla
crescita nel medio periodo delle informazioni epidemiologiche ancora
così carenti nel nostro Paese.
Gli antibiotici, ovvero l’arma non letale
a cura di: A. Conforti - Ricercatrice, Dipartimento Medicina e Sanità Pubblica, Università di Verona
I farmaci antibatterici sono gli unici
farmaci realmente curativi che abbiamo oggi a disposizione.
Pochi farmaci si sono rivelati utili,
spesso “salvavita” come gli antibiotici,
tuttavia la terapia antibiotica non è
una terapia di comodo né una terapia
facile. Presuppone infatti, oltre alle
capacità cliniche, al senso critico e alla conoscenza delle proprietà del farTabella 1
maco usato, una serie di imprescindibili regole generali che derivano dalle
caratteristiche peculiari degli antibiotici, e sono riconducibili a dei concetti che si imparano sui banchi universitari ma che poi spesso rimangono in
quel bagaglio teorico di conoscenze
distante e distaccato dalla scelta prescrittiva.Tali regole potrebbero essere riassunte così: scegliere l’antibioti-
co giusto, somministrarlo alla dose
giusta per il giusto periodo di tempo.
Le conoscenze utili
sul meccanismo d’azione
Classicamente gli antibiotici vengono suddivisi in batteriostatici,
quando producono inibizione tem-
- Meccanismo d’azione delle principali classi di antibiotici (esclusi gli antitubercolari)
Meccanismo d’azione
Antibatterici
Attività
Inibizione della replicazione
e trascrizione del DNA
chinoloni
battericidi
Blocco o deviazione della sintesi
proteica
macrolidi, tetracicline,
aminoglicosidi
batteriostatici/battericidi
Inibizione della sintesi della parete cellulare
betalattamine, teicoplanina
battericidi
Alterazione della membrana
cellulare
polimixine, amfotericina B
battericidi
Antimetaboliti
sulfamidici
batteriostatici
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poranea della crescita delle cellule
batteriche sensibili, e battericidi
quando si ha una inibizione definitiva della crescita e morte della cellula. In realtà questa suddivisione non
è rigida e dipende anche dalla sensibilità delle cellule trattate, dalle
concentrazioni di farmaco raggiunte e dai tempi di esposizione al farmaco: vi sono farmaci batteriostatici a basse concentrazioni, ma battericidi a concentrazioni più alte (ad
esempio alcuni macrolidi tra cui l’eritromicina). Nella scelta di un antibiotico batteriostatico o battericida
sono determinanti le risorse fisiologiche del paziente. La tabella 1
riassume i meccanismi d’azione dei
principali antibiotici.
L’uso intelligente
delle conoscenze
di farmacocinetica
Uno dei presupposti per il successo
di una terapia antibatterica è il raggiungimento nella sede dell’infezione di concentrazioni attive. In altre
parole, la concentrazione minima
nella sede di infezione dovrebbe essere uguale o superiore alla Concentrazione Minima Inibente (MIC)
del farmaco per il microrganismo,
anche se recenti evidenze suggeriscono che anche concentrazioni
sub-inibenti di antibiotici possono
indurre la fagocitosi e quindi essere
efficaci; d’altra parte concentrazioni
plasmatiche uguali o anche superiori alla MIC possono risultare inefficaci se analoghe concentrazioni
non vengono raggiunte nella sede
dell’infezione. Ciò dà ragione del
fatto che gli ascessi (e in genere i
“santuari” infettivi) per lo più non
guariscono con la sola terapia antibiotica, e necessitano pertanto di
essere drenati.
Queste considerazioni spiegano
l’indiscussa utilità dei dati forniti
dall’antibiogramma, ma anche la loro fallibilità, tanto che antibiotici indicati come attivi dall’antibiogramma possono talora fallire e al contrario si possono ottenere guarigio-
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ni con scelte terapeutiche effettuate su base empirica e non confortate dai risultati microbiologici; si noti
che in questi caso il risultato clinico
deve essere considerato più affidabile di quello laboratoristico, rendendo ancora una volta apprezzabile il detto:“squadra che vince non si
cambia”.
Solamente pochi antibatterici superano sempre, ai dosaggi consueti, la
barriera emato-liquorale e non tutti raggiungono il tessuto osseo, i
polmoni, le strutture oculari o la
prostata in quantità terapeuticamente utili. Cotrimoxazolo, macrolidi, fluorochinoloni e tetracicline
diffondono meglio nelle secrezioni
bronchiali, rispetto a cefalosporine,
aminoglicosidi, penicilline; gli aminoglicosidi raggiungono nella midollare renale concentrazioni anche 10
volte maggiori di quelle plasmatiche.
La scelta della via di somministrazione e del dosaggio dei vari antibatterici deve quindi tenere in considerazione, in funzione della sede
dell’infezione e delle condizioni del
paziente, le caratteristiche di diffusibilità e di concentrazione tissutale
dell’antibiotico.
Metabolismo ed eliminazione sono
fasi della farmacocinetica che pure
condizionano la scelta del farmaco,
anche all’interno di uno stesso
gruppo terapeutico. Per esempio,
tra i fluorochinoloni l’eliminazione
renale è predominante per ofloxacina, lomefloxacina e cinoxacina,
mentre pefloxacina è eliminata prevalentemente per via non-renale;
per questo essa non richiede aggiustamenti di dosaggio nel paziente
con insufficienza renale, mentre la
sua emivita aumenta notevolmente
nell’insufficienza epatica grave.
Tradizionalmente la dose e la frequenza di somministrazione di un
antibiotico vengono scelte con la finalità di ottenere concentrazioni
relativamente costanti durante tutto il trattamento; tuttavia oggi sembra dimostrato che per alcuni antibiotici, ad esempio gli aminoglicosidi, l’effetto terapeutico sia superio-
re quando alti picchi di concentrazione sono seguiti da periodi di attività sub-inibitoria.1
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Interazioni:
ogni giorno una nuova
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Lo studio delle interazioni tra farmaci rappresenta uno dei settori
della medicina dove appare più
marcata la distanza tra l’evoluzione
di conoscenze teoriche (gli studi
sono spesso condotti su modelli
sperimentali e volontari sani) e la
possibilità di tradurre i risultati in
suggerimenti clinicamente utili.
Di fatto, da una parte molte “potenziali” interazioni riportate in letteratura non trovano conferme sul piano clinico, e dall’altra, alcuni eventi
avversi gravi, dovuti ad interazioni,
sono riconosciuti con molto ritardo
e attraverso osservazioni casuali o
segnalazioni aneddotiche. Molti fattori contribuiscono al difficile riconoscimento delle interazioni che
possono essere mascherate dalla
malattia, o essere influenzate da variabilità individuale, fattori genetici o
ambientali.
Di fatto quelle clinicamente rilevanti durante una terapia antibatterica
non sono frequenti, ma possono essere drammatiche. Eritromicina, claritromicina e ciprofloxacina sono
degli inibitori degli enzimi metabolizzanti i farmaci e possono portare
nell’anziano ad un aumento degli effetti (terapeutici e tossici) di antidepressivi, carbamazepina, fenitoina,
ciclosporina e teofillina.
Esiste una discreta documentazione
sulla riduzione dell’efficacia dei contraccettivi orali da parte di tetracicline, penicilline e cefalosporine (attraverso una diminuzione del ricircolo enteroepatico) e da parte di
rifampicina (per induzione del metabolismo epatico).
La co-somministrazione di miorilassanti ad azione periferica non depolarizzanti (tubocurarina, mivacuronio) e aminoglicosidi può causare
un prolungamento del blocco neuromuscolare per un’azione additiva
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Il “pomfo per gli antibiotici” ovvero...
le cattive abitudini sono dure a morire!!!
a cura di: G.E. Senna - Primario Servizio Allergologia, OCM Verona
La teoria
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In merito all’uso inveterato di effettuare, prima di un ciclo di antibiotico-terapia parenterale, un pomfo di prova
per accertare l’eventuale allergia del paziente da trattare,
il “Memorandum” stilato dalla Società Italiana di Allergologia e Immunologia Clinica sulla “Diagnosi di allergia/
intolleranza ai farmaci” recita quanto segue: “…è comunque da proscrivere la pratica del cosiddetto “pomfo
di prova” effettuato per lo più da personale non specializzato e con metolodologia non corretta subito prima della terapia. Tale pratica è da considerare assolutamente
errata in quanto: 1) alcuni farmaci indiluiti possono dare
cutireazioni aspecificatamente positive; 2) la quantità
non controllata di un farmaco direttamente iniettato nel
derma può causare reazioni generalizzate anche molto
gravi”1.
La pratica
Uno studio condotto presso il Policlinico Universitario di
Verona sulla pratica del pomfo al quale hanno partecipato 17 reparti su 50 interpellati ha dato luogo a questi risultati2:
1) il pomfo di prova è prassi comune a tutti i reparti e
viene eseguito, letto ed interpretato da personale
paramedico nell’82,3% dei casi;
2) l’anamnesi allergologica viene regolarmente effettuata in 16 dei 17 reparti ed è raccolta da personale medico (69%), ma anche paramedico (31%);
3) il personale paramedico riceve disposizioni precise in
merito all’esecuzione del pomfo in 5 reparti (29%),
mentre negli altri le istruzioni sono solo verbali;
4) il pomfo è praticato indiscriminatamente per qualsiasi categoria di antibiotici e prevede l’inoculazione di
quantità variabili di farmaco che vanno da 0,01 mg a
30 mg, in singola o duplice somministrazione.
Le soluzioni
La prevenzione delle reazioni allergiche causate dall’assunzione di antibiotici propone soluzioni parzialmente
differenti a domicilio o in ospedale. Due elementi sono
tuttavia identici in ambedue le condizioni: l’impropriatezza assoluta della pratica del pomfo, e l’essenzialità di
un’anamnesi accurata per escludere precedenti allergici.
Si sottolinea con forza che tale anamnesi dev’essere raccolta solo da chi ne abbia la competenza professionale,
perché dalle informazioni ottenute dipende l’effettiva valutazione del rischio; la pregressa assunzione di antibiotici beta-lattamici senza alcuna reazione riduce fortemente il rischio attuale.
262
Stabiliti questi due punti fissi, le differenze essenziali nel
comportamento medico sono le seguenti.
a) Sul territorio, qualora l’anamnesi rilevi di fatto un rischio ragionevole di reazione allergica, il curante può
prendere tre decisioni efficaci:
- prescrivere un principio attivo non beta-lattamico
(cioè non penicillinico o cefalosporinico) tra quelli
presumibilmente efficaci nell’infezione da trattare;
- usare comunque la somministrazione per via orale e
non quella parenterale;
- chiedere la consulenza specialistica dell’allergologo.
Qualsiasi prova di sensibilizzazione all’antibiotico dev’essere sconsigliata a domicilio, cioè in condizioni di
per sé insicure.
b) In ospedale, dove le procedure terapeutiche possono
essere attuate in condizioni di maggiore sicurezza, le
decisoni efficaci da prendere sono le seguenti:
- nel caso di anamnesi positiva per diatesi allergica
generica (cioè non ancora documentata nei confronti di principi attivi beta-lattamici), scelta della
via orale e se possibile sostituzione dell’antibiotico
con un altro principio attivo di struttura differente;
- nel caso di allergia certa e specifica all’antibiotico,
sua sostituzione con un principio attivo con struttura differente (non beta-lattamica);
- nel caso eccezionale di assoluta insostituibilità del
principio attivo, si può procedere a test di sensibilizzazione in condizioni garantite di sicurezza: diluizione molto elevata del principio attivo in soluzione fisiologica (1:1.000.000, cioè una concentrazione che può rappresentare anche la prima tappa di una procedura di desensibilizzazione); predisposizione dei mezzi d’intervento immediato in caso di shock anafilattico (accesso venoso, adrenalina, ventilazione assistita, corticosteroidi, antistaminici, soluzione fisiologica per infusione e.v.);
somministrazione molto lenta e.v. della soluzione
iperdiluita dell’antibiotico sotto stretto controllo del
medico.
Nei casi dubbi, e soprattutto per la definizione precisa della condotta da tenere nel futuro del paziente, è
utile la consulenza specialistica dell’allergologo.
BIBLIOGRAFIA
1.Memorandum SIAIC sulla Diagnosi di allergia/intolleranza
ai farmaci. Giorn It Allergol Immunol Clin 1988; 8 : 56896.
2.Dama AR, Alberti A, Scroccaro G, Zanoni G, Crivellaro MA,
Bonadonna P, Senna GE. Giorn It Allergol Immunol Clin
1998; 8 : 535-8.
n. 6 • Novembre-Dicembre 2001
dossier
sulla giunzione neuromuscolare.
Anche i cibi possono interagire con
gli antibiotici, si consiglia quindi di
evitare la somministrazione vicino
ai pasti e l’assunzione contemporanea di prodotti che contengono calcio, ferro, vitamine e antiacidi.
I chinolonici possono aumentare i livelli plasmatici di caffeina se assunti
con caffè, cola, tè, cioccolato2.
In cauda venenum,
ovvero l’illusione
della tossicità selettiva
Agire selettivamente su strutture e
funzioni tipiche della cellula batterica è la caratteristica che differenzia
gli antibiotici da qualsiasi altro farmaco. Questo non significa purtroppo che gli antibiotici non sono tossici per l’uomo, come ricordano gli
esempi riportati qui di seguito.
La colite pseudomembranosa era
conosciuta prima dell’introduzione
degli antibiotici e può tuttora insorgere in pazienti che non ne fanno
uso; è tuttavia evidente che i casi
sono aumentati drammaticamente
in seguito all’uso degli antibiotici e
che in particolare i pazienti trattati
con lincomicina o clindamicina, cefalosporine, penicilline beta-lattamasi resistenti, o una combinazione
di più antibiotici sono a più alto rischio.
Una perdita dell’udito clinicamente
riconoscibile si verifica nel 2-4% dei
pazienti trattati con aminoglicosidi e
la percentuale si alza notevolmente
(fino al 44%) in pazienti con endocardite da Pseudomonas che ricevono per un periodo prolungato dosi
elevate di gentamicina. Anche il rischio di nefrotossicità, sotto forma
di necrosi tubulare acuta o più comunemente di una insufficienza renale non-oligurica ad evoluzione
graduale, appare legato alla dose totale di aminoglicoside (durata del
trattamento) e ai livelli ematici
(un’ora dopo la dose e subito prima
della dose successiva) oltre che ad
altri fattori come l’età, malattie concomitanti epatiche, disidratazione,
ipovolemia, sepsi e uso di ACE-inibitori, cefalosporine, diuretici, FANS e
ciclosporina.
Fototossicità, reazioni a livello del
sistema nervoso centrale, psichiatriche e tendinopatie sono effetti
avversi caratteristici dei fluorochinoloni, con marcate differenze fra i
diversi principi attivi in relazione ai
diversi gruppi chimici in alcune posizioni-chiave3.
1. Goodman&Gilman’s: The pharmacologic
basis of therapeutics, l0th edition,
2001.
2. Esempi tratti da: Garattini S, Nobili A:
Interazioni tra farmaci, Selecta Medica
2001.
3. Esempi tratti da: Dukes MNG, Aronson
JK: Meyler’s side effects of drugs, 40th
edition 2000.
a cura di: M. Casarola, C. Melotti - MMG,Verona; L.Vettore - Presidente Società Italiana Pedagogia Medica
n. 6 • Novembre-Dicembre 2001
tere profondamente “etico” – se
così si può dire – poiché si propone
contemporaneamente la guarigione
del paziente, la minima incidenza di
effetti collaterali, la riduzione del rischio d’induzione dell’antibioticoresistenza nel germe e infine il risparmio di risorse economiche della
collettività.
Occorre pertanto esaminare il problema tenendo conto di molti fattori, quali ad esempio l’età e le condizioni fisiologiche e patologiche
preesistenti del soggetto, il germe
presumibilmente implicato con più
probabilità in quell’episodio infettivo, la possibilità che l’infezione apra
la strada a complicanze, specie se
potenzialmente severe, l’eventuale
carattere di recidiva che l’episodio
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BIBLIOGRAFIA
L’oscuro oggetto del desiderio:
strategie per una terapia efficace
Nella pratica clinica della Medicina
Generale si presenta spesso la necessità per il Medico di impostare
una terapia antibiotica. Le patologie
più comuni riguardano l’apparato
respiratorio e le vie urinarie, e coinvolgono pazienti che, quanto ad età,
vanno dall’adolescente al vecchio.
La scelta dell’antibiotico corretto è
– o meglio dovrebbe essere – il
prodotto finale di un ragionamento
complesso che il medico applica a
quel particolare episodio infettivo
in quel particolare paziente, rifuggendo in egual misura i pessimi consigli della forza dell’abitudine, le suggestioni commerciali e la fretta di
decidere.
La “fatica” intrinseca a questo procedimento riveste tuttavia un carat-
D
ricopre, le altre terapie in atto in
quel paziente e così via.
In queste decisioni il medico ospedaliero può generalmente giovarsi con
maggiore facilità dei supporti tecnologici e laboratoristici che l’ambiente
gli mette a disposizione e ciò gli consente di affrontare con maggiore
tranquillità le infezioni più gravi spesso in soggetti con multimorbilità e
difese naturali più compromesse.
Tuttavia, nonostante queste opportunità, anche il medico in ospedale
raramente può instaurare “ab initio”
una terapia antibiotica mirata, cioè
con la scelta del farmaco strettamente indicato nella infezione specifica ed è spesso obbligato a scelte terapeutiche su basi empiriche. D’altro
canto il medico di famiglia dispone di
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sussidi diagnostici meno sofisticati,
ma ha il vantaggio di una conoscenza
del paziente, protratta nel tempo, e
dell’ambiente in cui vive che gli rendono più agevole la “personalizzazione” della diagnosi così come della terapia, cioè il loro adattamento su misura alle condizioni complessive del
singolo paziente, in situazioni sicuramente meno protette, ma generalmente anche meno impegnative di
quelle che s’incontrano in ospedale.
Dunque, in entrambi i casi la scelta
iniziale della terapia antibiotica avviene spesso su basi empiriche, nell’ospedale per la gravità che frequentemente non consente attese decisionali (anche se prima di ogni inizio terapeutico debbono essere avviate
tutte le indagini microbiologiche presumibilmente indicate dai segni e sintomi in atto), sul territorio per la difficoltà oggettiva di servirsi in tempi
utili dei dati laboratoristici e strumentali.
Pertanto, sia in ospedale che sul territorio, la scelta della terapia antibiotica richiede il rispetto di regole
tra loro simili e comunque sempre
metodologicamente rigorose; tali
regole spesso vengono applicate sequenzialmente attraverso ragionamenti impliciti o addirittura inconsapevoli; il renderli espliciti è verosimilmente un’operazione comunque
vantaggiosa.
Regole per la scelta
“empirica” della terapia
antibiotica
1. Valutare nel caso specifico la pro-
babilità di un’etiologia infettiva: richiede che si considerino i sintomi e
segni in atto, le condizioni precedenti e attuali del paziente, gli eventi della sua storia recente e passata, le
condizioni epidemiologiche e ambientali.
2. Distinguere su basi probabilistiche, in base alla situazione clinica e
a quella epidemiologica, una causa
batterica rispetto a cause virali, fungine o protozoarie; la distinzione
264
spesso non è semplice e può essere
facilitata dalla classificazione previa
della situazione contingente in una
delle seguenti tre categorie:
a) condizioni notoriamente dovute
nella maggioranza dei casi a etiologie non batteriche: per es. infezioni virali per la presenza di
quadri clinici classicamente causati da virus come il morbillo, la
varicella, la mononucleosi infettiva; sintomi del raffreddore, tanto più se con anamnesi di possibile contagio; sintomi a carico
delle alte vie respiratorie in periodo di epidemia influenzale;
micosi comuni come il mughetto. In queste condizioni, salvo
complicazioni intercorrenti, non
si giustifica alcuna terapia antibatterica;
b) condizioni notoriamente dovute
nella maggioranza dei casi ad
etiologia batterica: per es. tonsillite follicolare, otite media acuta
purulenta, sinusite acuta purulenta, eresipela, cistite della donna adulta, blenorragia, colecistite
acuta febbrile; altre patologie
acute infettive nelle quali sia stato dimostrato l’agente batterico
infettante (per es. faringite acuta
con tampone positivo per streptococco; uretrite con tampone
vaginale positivo per Chlamydia
trachomatis o per Ureaplasma
urealyticum). In queste condizioni è d’obbligo la terapia antibiotica (v. oltre per i criteri di scelta del principio attivo);
c) condizioni che possono essere
causate sia da batteri che da
agenti non batterici e nelle quali i
sintomi clinici e i dati microbiologici e/o strumentali non sono dirimenti: per es. affezioni acute
della basse vie respiratorie nell’adulto, in assenza di conferma radiologica; otiti acute non purulente; bronchiti acute in soggetti senza BPCO; faringite acuta febbrile
senza riscontro microbiologico.
In queste condizioni la prescizione di antibioticoterapia dipende
dalla valutazione complessiva degli elementi sotto proposti, con la
considerazione probabilistica dei
rapporti tra benefici, rischi e costi
della prescrizione rispetto alla
non prescrizione.
3. Definire la localizzazione e l’estensione dell’affezione morbosa
sulla base dei sintomi e dei segni locali e sistemici e – quando indicato
– dei risultati delle indagini laboratoristiche e strumentali.
4. Ipotizzare in ordine di probabilità il possibile agente etiologico sulla
base della localizzazione individuata
o presunta dell’affezione (apparato
respiratorio, genito-urinario maschile o femminile, gastroenterico;
sistema nervoso; cute e tessuti sottocutanei; setticoemia, ecc.) e dopo
aver considerato le condizioni epidemiologiche locali e le caratteristiche cliniche del singolo paziente
con particolare riferimento all’età,
alla gravità della condizione in atto
(spesso per la presenza di comorbilità), al rischio effettivo di complicanze. Nella formulazione dell’ipotesi etiologica è utile la consultazione di fonti aggiornate ad hoc (per
es. La Guida alla Terapia Antibiotica
periodicamente pubblicata da The
Medical Letter).
5. Acquisiti gli elementi che rendono probabile un’etiologia batterica
e indicata una terapia antibiotica,
scegliere “empiricamente” il principio attivo e la sua posologia in relazione ai seguenti criteri:
• sospetto etiologico basato sulla
clinica (v. sopra) e sui dati epidemiologici: agenti più probabili e
dati statistici sulle resistenze
(quando disponibili localmente);
• caratteristiche cliniche del paziente: età, gravità dei sintomi,
urgenza, patologie concomitanti,
funzionalità degli emuntori, ecc.
Una particolare attenzione va riservata ai pazienti anziani perché in essi sono frequenti una
diminuita tolleranza dal punto di
vista gastroenterico, una ridotta
capacità di eliminazione epatica
dei farmaci, una ridotta filtrazio-
n. 6 • Novembre-Dicembre 2001
dossier
ne renale, la concomitanza di altre terapie con l’aumentato rischio di interazioni farmacologiche, abitudini errate (autoriduzioni della posologia, sospensioni precoci del trattamento, scarsa idratazione durante la terapia,
ecc.). D’altro canto una condizione di gravidanza accertata o presunta obbliga alla scelta di farmaci
sicuri (penicilline, alcune cefalosporine, eritromicina) scartando
altri farmaci;
• ipotesi di scelta dei principi attivi
in base alla sensibilità presunta dei
germi sospetti (indicazioni utili
possono essere tratte da La Guida
alla Terapia Antibiotica di The Medical Letter). È questo il momento
di decidere l’ampiezza di “spettro”
più opportuna (per es. qualora
due agenti batterici abbiano probabilità simili di essere causa di
una specifica situazione, va privilegiato l’antibiotico probabilmente
attivo su entrambi);
• valutazione dell’opportunità di
effettuare associazioni antibiotiche per potenziare l’effetto, o
per allargare lo spettro, o per ridurre la probabilità di resistenza, o infine per diminuire il dosaggio e quindi gli effetti indesiderati;
• calcolo dei dosaggi in funzione
dei dati farmacocinetici (emivita,
diffusibilità, metabolismo) e delle
condizioni del singolo paziente
(età, dimensioni corporee, funzionalità degli emuntori in relazione al metabolismo e alle vie di
eliminazione);
• scelta dei tempi e delle vie di
somministrazione in relazione
alle caratteristiche farmaceutiche e farmacocinetiche del principio attivo, nonché alle caratteristiche e alle condizioni del paziente (la via parenterale trova
indicazione soprattutto quando
la via orale non sia praticabile
per ragioni farmaceutiche o per
intolleranza individuale), oppure
in condizioni di gravità che richiedano il raggiungimento tem-
n. 6 • Novembre-Dicembre 2001
pestivo di concentrazioni attive
elevate. Alcune condizioni che
limitano fortemente l’uso di un
prodotto orale che sarebbe di
prima scelta, in favore di un antibiotico iniettivo possono essere: la concomitanza dell’uso da
parte del paziente di molti altri
farmaci orali, la non-collaborazione del paziente per un handicap psichico o fisico, la presenza
di disfagia di origine neurologica,
un’anamnesi di severa intolleranza gastroenterica;
• previsioni di durata, dipendenti
dalla natura e dalla gravità dell’infezione: esistono in letteratura indicazioni in funzione del tipo d’infezione sulla durata standard, che va peraltro adattata alle condizioni del singolo paziente. La durata non va mai abbreviata, salvo la comparsa di effetti
indesiderati che richiedono la
sostituzione con altro principio
attivo; in previsione della necessità di terapie protratte sarà opportuno – quando possibile –
scegliere ab initio principi attivi
senza tossicità cumulativa;
• costo della terapia: a parità di efficacia e di effetti collaterali va privilegiato il farmaco meno costoso.
6. Monitorare in itinere la terapia instaurata e ottimizzare i risultati mediante:
a) valutazione dell’efficacia: graduale
miglioramento del quadro clinico, oggettivabile al massimo dopo
3-5 giorni dall’inizio della terapia.
In sua carenza le decisioni vanno
riviste, considerando le seguenti
possibilità alternative:
• diagnosi errata;
• farmaco inefficace → sostituzione con un altro o più principi attivi;
• dosaggio insufficiente per ragioni posologiche, farmacocinetiche o di compliance → aumento
del dosaggio, e/o cambiamento
della via di somministrazione,
e/o associazione con altro anti-
biotico, e/o sostituzione dell’antibiotico di prima scelta;
D
b) sorveglianza e prevenzione degli
effetti indesiderati prevedibili e
imprevisti e decisioni conseguenti;
O
c) sorveglianza del decorso della
malattia e delle eventuali complicanze, con variazioni decisionali conseguenti.
Una scelta ragionata dell’antibiotico
corretto ha sicuramente una ricaduta positiva sull’andamento della malattia e contemporaneamente ha una
sicura valenza in termini epidemiologici e di costi sociali. Una prescrizione non ragionata o – peggio – indiscriminata, anche se in alcune fortunate circostanze decapita le infezioni
potenzialmente pericolose al primo
loro manifestarsi (si noti a tale proposito il crollo numerico delle infezioni reumatiche in epoca post-antibiotici e la relativa diminuzione delle
endocarditi), nella maggioranza dei
casi contribuisce allo sviluppo di ceppi batterici resistenti, all’aumento dei
costi sanitari, all’aumento nella popolazione delle reazioni allergiche e delle reazioni avverse (infezioni da miceti, effetti gastroenterici, epato o nefrotossicità, ecc.).
Va infine sottolineato che la pratica
della medicina generale e la conoscenza della storia del singolo paziente possono aiutare nella scelta
terapeutica, ma anche che in questo
contesto è talora necessario apportare dei correttivi a quella che sarebbe una scelta “ottimale” fondata
sulla evidence based medicine, condizionando la scelta stessa alla situazione che, vuoi per contingenze di
tipo ambientale, vuoi per la presenza di co-morbidità e di politerapie,
non consentono purtroppo di riprodurre le scelte risultate ottimali
nei soggetti reclutati per le sperimentazioni cliniche controllate in
condizioni ottimali quanto spesso
non realistiche.
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Il trattamento a domicilio delle infezioni acute
delle basse vie respiratorie
a cura di: M. Casarola, C. Melotti - MMG, ULSS 20 Verona
La diagnosi di malattia respiratoria
acuta nell’adulto si basa sulla anamnesi, sulla obiettività e talvolta sulla
radiografia del torace. La differenziazione tra forme ad esclusivo impegno bronchiale e forme ad interessamento parenchimale, infatti, può richiedere l’esecuzione di una radiografia. I criteri per la sua esecuzione
– oltre ovviamente alla concreta
possibilità di eseguirla rapidamente,
affidabilmente e senza eccessivi disagi per il paziente – possono schematizzarsi nei seguenti:
1. dubbio diagnostico reale, non risolvibile con gli strumenti clinici (è
inutile fare la radiografia se la diagnosi di broncopolmonite è già
molto probabile con i dati dell’anamnesi e dell’esame obiettivo);
2. decisioni terapeutiche effettivamente diverse in dipendenza dal risultato dell’indagine (è inutile fare la
radiografia se comunque si è intrapresa per altre ragioni di opportunità una terapia antibiotica adeguata; l’indagine può risultare più utile
in caso di risposta clinica non soddisfacente alla terapia antibiotica).
Al di là del dato della localizzazione
strettamente anatomica dell’infezione, occorre prestare attenzione
alla presenza o meno di segni o sintomi che possano far temere una
progressione di malattia con insorgenza di complicanze, necessità di
ospedalizzazione o pericolo di vita
per l’ammalato. Si tenga sempre
presente la possibilità che il quadro
clinico sia sfumato o francamente
atipico (ad esempio negli anziani, o
in pazienti trattati in precedenza
con antibiotici per altri motivi ecc.)
La presenza di alcune condizioni
deve allertare il medico conducendolo ad una osservazione più stret-
266
ta dell’ammalato, e può orientare la
scelta terapeutica; come si vedrà
poi in dettaglio, proprio alcune di
queste condizioni vanno analizzate
per decidere la necessita del ricovero ospedaliero:
• età superiore a 65 anni;
• malattie cardiache con stato di
labile compenso cardiocircolatorio;
• diabete;
• anemia;
• alcoolismo cronico e tossicodipendenze;
• malattie neoplastiche;
• stato di scadente nutrizione;
• deficit immunitario congenito o
acquisito;
• gravidanza;
• nefropatia;
• epatopatia;
• broncopneumopatia cronica.
In base all’approccio sopra descritto, che deriva dalla conoscenza del
soggetto, dalla sua anamnesi e dall’obiettività, cioè dagli elementi essenziali per una buona pratica clinica nella medicina di famiglia, occorre chiedersi quale sia l’agente infettivo più probabilmente implicato
nell’infezione in questione, tenendo
presente che nella pratica corrente
della medicina di base, è difficile
porre un sospetto eziologico sulla
base della sola clinica; necessiterebbe infatti, ma è raramente disponibile, la conoscenza delle probabilità
etiologiche sulla base della letteratura e dell’osservazione epidemiologica aggiornata del territorio. In
effetti, anche la letteratura conferma che in oltre il 60% dei casi di
polmonite acquisita in comunità
non è possibile identificare l’agente
infettivo. Le distinzioni seguenti
debbono pertanto considerarsi solo come indicative.
a) L’infezione “tipica”, cioè quella ad
esordio acuto, con febbre elevata,
tosse produttiva, talora cianosi e
dispnea o dolore toracico, impegno
cardiaco e respiratorio e positività
dei segni obiettivi, può orientare
verso una infezione da S. Pneumoniae, H. Influenzae, M. Catharralis o S.
Aureus, microorganismi più frequentemente implicati nelle età avanzate.
b) L’infezione “atipica”, cioè quella
ad esordio insidioso e progressivo,
sintomatologia sfumata, con tosse
secca e minore compromissione
dello stato generale, può orientare
verso un’infezione da Chlamydia
Pneumoniae o da Mycoplasma Pneumoniae, più frequenti in età giovane.
Tali distinzioni potranno orientare
utilmente nella scelta ragionata della terapia, che comunque richiede
quasi costantemente un approccio
empirico.
In base alle considerazioni sopra
esposte e agli attuali dati della letteratura gli antibiotici più indicati per la
terapia delle infezioni del tratto respiratorio inferiore sono: macrolidi,
penicilline semisintetiche, fluorochinolonici, tetracicline e cefalosporine.
Nel protocollo terapeutico (la descrizione del quale e i risultati della
sua applicazione sono riportati nell’articolo successivo) sperimentato
nel 1998-1999 da un gruppo di
MMG del territorio veronese e successivamente confluito nella Linea
guida del progetto PSAT del 2000, il
criterio fondamentale nell’adozione
dell’antibiotico di prima scelta è stato quello dell’età: al di sotto dei 60
anni veniva consigliato un macrolide
da associare, in mancanza di miglioramento del quadro clinico in terza
giornata, con amoxicillina-clavulanico (1 g per tre volte al dì); al di so-
n. 6 • Novembre-Dicembre 2001
dossier
pra dei 60 anni si consigliava invece
di iniziare con amoxicillina + clavulanico associando, in caso di insuccesso, un macrolide; nei pazienti allergici alle penicilline, un chinolonico di
ultima generazione da solo (levofloxacina o moxifloxacina) appare una
valida ed affidabile alternativa.
In assenza di studi clinici controllati
che forniscano dati definitivi in merito, una durata del trattamento a
dosi piene compresa tra i 10 e i 15
giorni era considerata congrua.
Va detto che nella letteratura internazionale sono presenti varie linee
guida per il trattamento delle infezioni respiratorie acquisite in comunità, spesso in contrasto tra loro
soprattutto nell’uso delle penicilline: infatti alcune linee guida suggeriscono l’utilizzo di una penicillina semisintetica da sola (amoxicillina), altre consigliano ab initio la sua associazione con un inibitore delle betalattamasi (ac. clavulanico). A nostro
giudizio, anche se le resistenze alle
penicilline dello S. pneumoniae sono
in Italia ancora contenute, la prescrizione iniziale sul territorio dell’associazione di amoxicillina con
acido clavulanico può giustificarsi in
molti casi per i maggiori rischi del
trattamento domicilare, connessi
alla difficoltà di attuare uno stretto
monitoraggio, e per l’opportunità di
ridurre al minimo i casi in cui si renda necessario il cambiamento dell’antibiotico in corso d’opera.
a cura di: P. Sandri,T. Sandrini, M. Sighele - MMG, ULSS 20 Verona; L.Vettore - Presidente Società Italiana di Pedagogia Medica
Nei primi anni novanta molti medici
di famiglia veronesi cominciarono a
rendersi conto che la gestione domiciliare, sia diagnostica che soprattutto terapeutica delle infezioni delle
basse vie respiratorie, stava diventando non più un episodio isolato, ma un
evento piuttosto frequente nella attività professionale del Medico di Medicina Generale (MMG).
D’altronde, la terapia delle infezioni
delle vie respiratorie superiori è di
competenza “naturale” della medicina di primo livello; e poiché la diagnosi differenziale fra infezioni delle
“alte” o “basse” vie respiratorie
non è sempre agevole, molti MMG
avevano iniziato a trattare a domicilio con successo questi pazienti soprattutto nei casi a basso rischio o
con sintomi non preoccupanti.
Tuttavia parecchi dubbi e incertezze
accompagnavano questa pratica;
proviamo ad elencare i più importanti:
• la difficoltà, se non l’impossibilità
frequente, di individuare l’agente
eziologico;
• la mancanza di dati epidemiologici “locali” relativi agli agenti mi-
n. 6 • Novembre-Dicembre 2001
crobici o virali e la conseguente
necessità di rifarsi a risultati di
studi effettuati altrove, quasi sempre in altri Paesi;
• la conseguente necessità di effettuare una terapia antibiotica empirica, grossolanamente mirata
sull’agente etiologico presunto
ma non accertato;
• l’utilità diagnostica effettiva della
radiografia del torace, soprattutto nei pazienti giovani e a basso
rischio;
• il ruolo terapeutico dei farmaci
non antimicrobici: steroidi, mucolitici e sedativi della tosse;
• i criteri per l’identificazione dei
pazienti che possono essere curati a domicilio, così da minimizzare
i rischi sanitari per il paziente, ma
anche quelli medico legali per il
curante.
La letteratura scientifica non forniva in quel tempo soluzioni esaurienti per questi problemi.
Obiettivi della ricerca
Nella situazione appena descritta
l’obiettivo principale della ricerca fu
la sperimentazione di una linea gui-
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Risultati dell’applicazione di un protocollo terapeutico
per il trattamento domiciliare delle polmoniti
Premessa
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da diagnostica e soprattutto terapeutica, “ragionata” e fortemente
“adeguata” alle caratteristiche organizzative e culturali del servizio
sanitario nella realtà veronese, che
permettesse al MMG di curare a
domicilio con sufficiente sicurezza
le infezioni delle basse vie aeree,
evitando tutte le volte in cui era
possibile il ricovero in ambiente
ospedaliero.
La terapia domiciliare rispondeva
sia ad una esigenza di razionalizzazione nell’uso delle risorse in una
ottica di buona economia sanitaria ,
sia alla legittima preferenza del paziente di essere curato a casa propria quando esistano i presupposti
scientifici per farlo.
Grazie anche al finanziamento da
parte della Regione Veneto di un
progetto obiettivo sul tema, 25
MMG di Verona e provincia decisero pertanto di preparare e sperimentare una linea guida per la terapia domiciliare delle polmoniti acquisite in comunità (CAP, Community Acquired Pneumonia).
La linea guida fu scritta dopo una
serie di incontri “alla pari” fra i
MMG aderenti volontariamente alla
sperimentazione, con la consulenza
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Box 1 - Scheda
raccolta dati
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n. 6 • Novembre-Dicembre 2001
dossier
metodologica di un docente universitario.
Furono necessari 5 incontri per
confrontare le idee e le esperienze
dei singoli MMG, raffrontare queste
con la letteratura internazionale e
stendere la linea guida di comportamento terapeutico.
Poiché i medici coinvolti erano soltanto coloro che avevano volontariamente deciso di partecipare al progetto e alle discussioni preparatorie,
si decise di comune accordo di:
a) stendere una linea guida solo terapeutica, lasciando ai medici
partecipanti la scelta autonoma
dell’utilizzazione o meno della
radiografia del torace per documentare l’esistenza di un focolaio broncopneumonico in presenza dei sintomi d’infezione
delle basse vie aeree;
b) preparare una linea guida capace
di fornire una serie di consigli di
rapida lettura, pragmatici, ed
orientati a professionisti “esperti “
del problema, cioè uno strumento
ben diverso dal consueto capitolo
sul tema dei trattati di medicina;
c) realizzare una scheda cartacea
agevole da compilare in ogni singolo caso di CAP, sia per monitorare il caso clinicamente, sia
per raccogliere i dati utili in modo ordinato e standardizzato, ai
fini di una loro successiva elaborazione e valutazione;
d) indicare dei criteri precisi per
orientare l’eventuale decisione
di ricovero ospedaliero al momento della diagnosi o durante
il decorso.
La scheda di registrazione dei dati clinici e terapeutici, è riportata nel box
1. I criteri per l’ospedalizzazione sono elencati nell’articolo di pag. 270.
Protocollo terapeutico
adottato
1) Nei pazienti di età < 60 anni,
senza altre patologie di fondo
concomitanti:
n. 6 • Novembre-Dicembre 2001
a) Terapia iniziale: macrolide
per via orale (per es.: Claritromicina 500 mg x 2/die; se non è praticabile la via orale, somministrare
per i.v.; oppure Roxitromicina 150
mg x 2/die; oppure Rokitamicina
400 mg x 2/die; oppure Eritromicina
1 g x 4/die, tutti per os).
b) In caso di risposta ancora insoddisfacente al terzo giorno
di terapia, sostituire con: amoxicillina + ac. clavulanico 1 g
ogni 8 ore al dì per os; se non è
praticabile la via orale: sulbactam
500 mg + ampicillina 1000 mg 1 fl
ogni 8-12 h i.m.
2) Nei pazienti di età > 60 anni
o < 60 anni con altre patologie
di fondo concomitanti (che consentano comunque la terapia a domicilio):
a) Terapia iniziale: amoxicillina
+ ac. clavulanico (da indicare nella scheda con A) 1 g ogni 8 ore al
dì per os; se non è praticabile la via
orale: sulbactam 500 mg + ampicillina 1000 mg 1 fl ogni 8-12 h i.m.
b) In caso di risposta ancora insoddisfacente al terzo giorno
di terapia, aggiungere macrolide per os (da indicare nella scheda
con M), ai dosaggi pieni sopra riportati (se non è praticabile la via
orale, somministrare per i.v.).
Solo per pazienti con problemi
particolari si giustifica la somministrazione di una cefalosporina di
2-3 generazione (per es.: Cefotaxime 1 g ogni 8 h i.m.; oppure Ceftriaxone 1 g/die i.m.); o di un fluorochinolonico (per es. Ciprofloxacina 500-750mg x 2/die per os).
Note:
- Indicare le motivazioni della variante terapeutica.
- Durata complessiva prevedibile
della somministrazione terapeutica: 10 giorni, o almeno fino a 3
giorni dopo lo sfebbramento).
- In caso di mancata o insoddisfacente risposta alla terapia sopra descritta a dosi piene in sesta giornata dal suo inizio, riconsiderare le
ipotesi diagnostiche e le scelte te-
rapeutiche, nonché l’opportunità
del ricovero ospedaliero.
D
O
Risultati
Hanno partecipato allo studio 25
MMG della ASL 20 di Verona - Regione Veneto.
I casi totali di CAP considerati furono 201: di questi 193 (96%) furono
immessi in trattamento e 8 furono
esclusi (4%).
L’età media dei 193 pazienti trattati
era di 55 anni; di questi 44% erano
maschi, 56% femmine.
Dei pazienti immessi in trattamento:
• 182 furono trattati con successo
(94,3%);
• 8 furono ricoverati in itinere per
polmonite (4,1%);
• 3 furono ricoverati in itinere per
altri motivi (1,6%).
Il periodo intercorso tra la comparsa
dei sintomi e la prima visita è stato:
• da 0 a 1 giorno nel 32%dei casi;
• da 2 a 4 giorni nel 50,5% dei casi;
• da 5 a 10 giorni nel 13,5%;
• da 11 a 20 giorni nel 3%;
• sopra i 30 giorni nel 1%.
I sintomi più frequentemente riscontrati sono stati tosse nel 98% e febbre nel 85% dei pazienti. In percentuali molto inferiori sono stati rilevati: mialgia (32%), dispnea (31%) e dolore toracico (24%). Cefalea,cianosi e
confusione si sono presentati rispettivamente nel 12%, 2% e 6% dei casi.
Ai 182 pazienti trattati con successo a domicilio i MMG effettuarono:
• 298 visite ambulatoriali (in media
1,6 visite per paziente);
• 334 visite domiciliari (in media
1,8 visite per paziente);
• 632 visite in totale (in media 3,5
visite per paziente).
Dei 201 pazienti che contattarono il
MMG con il sospetto di CAP per
102 (51%) fu richiesta una radiografia
del torace al momento della diagnosi
269
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dossier
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Figura 1 - Confronto
tra sensibilità diagnostica
dell’esame obiettivo e della radiografia del torace
80
74,30
E.O. positivo e Rx positivo
Figura 2 - Percentuali
d’uso
delle classi antibiotiche
fluorochinolonico
5,3%
aminoglicoside
0,4%
70
S
S
60
50
E.O. positivo e Rx negativo
E.O. negativo e Rx positivo
cefalosporina
11,1%
macrolide
50,0%
40
I
30
E
10
penicillina
protetta
32,2%
20
11,90
13,90
0
R
e per 49 (27% dei pazienti trattati)
come conferma della guarigione.
L’88% delle 102 radiografie iniziali
diede esito positivo per CAP; l’esame obiettivo polmonare (EO) è risultato positivo nell’86% dei casi;
nel rimanente 14 % il sospetto clinico fu confermato dalla radiografia.
I dati raccolti ci permettono inoltre
di effettuare un confronto fra l’esame obiettivo (EO) e la Radiografia,
rappresentato in figura 1.
Terapia
Nel 64,5% dei casi il trattamento antibiotico iniziale ebbe successo e pertanto fu mantenuto fino alla guarigione; nel 33% dei casi si rese necessaria
durante il decorso la sostituzione
con un altro principio attivo o l’associazione di due principi attivi; per il rimanente 3,5 % si dovette ricoverare
il paziente in ospedale.
Dei 193 pazienti immessi in trattamento domiciliare, 129 furono trattati in monoterapia (figura 2): in
122 di questi (94,6%) la scelta terapeutica ebbe successo, mentre i rimanenti 7 furono ricoverati.
Con la terapia di seconda scelta (associazione di due principi attivi e/o
sostituzione dell’antibiotico somministrato inizialmente) furono trattati
62 pazienti: 59 con successo (95,2%);
gli altri tre furono ricoverati.
Nel 91% dei casi trattati con monoterapia il trattamento farmacologico si protrasse per non più di 14
giorni e nel 28% non più di 7 giorni.
Nei casi che richiesero la sostituzione dell’antibiotico o l’associazione di
due principi attivi la durata del trattamento non superò i 14 giorni nel
89% e non superò i 7 giorni nel 47 %.
La media complessiva dei giorni necessari alla guarigione fu di 12,6.
Considerazioni
sintetiche conclusive
I medici partecipanti alla sperimentazione ritengono che i principali
obbiettivi del progetto siano stati
raggiunti, e che - in particolare – facendo tesoro dei risultati di questa
esperienza risulti in futuro più semplice:
1) diagnosticare i pazienti affetti da
CAP;
2) individuare con maggior sicurezza rispetto al passato i criteri
per la loro ospedalizzazione;
3) scegliere la terapia antibiotica
adeguata facendo riferimento alla linea guida terapeutica costruita sulla base della letteratura internazionale e successivamente validata da un gruppo di
MMG operanti nello stesso territorio.
L’ospedalizzazione dei pazienti con polmonite
acquisita in comunità
a cura di: O. Codella - Internista, Medicina Interna A, Ospedale Policlinico Verona
Il paziente con polmonite contratta
in comunità deve essere ricoverato
in ospedale quando non è possibile
iniziare o continuare un trattamen-
270
to domiciliare, e in particolare
quando si verifichi anche una sola
delle seguenti condizioni:
• insufficienza respiratoria medio-
grave con sintomi di allarme
(>30 atti respiratori al minuto a
riposo, presenza di cianosi labiale o alle estremità, utilizzo dei
n. 6 • Novembre-Dicembre 2001
dossier
muscoli accessori del respiro);
co e dei risultati dell’emogasanalisi.
• diabete insulino-trattato o dia-
bete di tipo II scompensato;
• cardiopatia in compenso abile
(classi II e III NYHA);
• insufficienza renale cronica con
creatinina superiore a 2,5 mg/dl;
• pazienti immunodepressi o con
ricorrenti fenomeni infettivi negli ultimi 12 mesi;
• cirrosi epatica scompensata;
• anemia con Hb < 8g/dL;
• stato di grave malnutrizione
(malattie infiammatorie croniche, neoplasie, etilismo, psicosi);
• condizioni socio-economiche o
psichiche che impediscano un
adeguato trattamento domiciliare;
• comparsa di uno dei precedenti
criteri durante il trattamento
domiciliare.
Questi criteri derivano da una semplificazione della scala di Fine1, che attribuisce un punteggio differenziato
ai vari elementi di rischio,così da prescrivere il ricovero quando il punteggio globale (> 90) comporti un rischio sensibile di morte (> 8 %).
Nei pazienti con polmonite comunitaria a rischio, dopo il ricovero in
ospedale, sono immediatamente indicati i seguenti accertamenti: radiografia del torace, emogasanalisi,
esame emocromocitometrico, colture dell’escreato e almeno due
emocolture (si noti che non in tutti
i laboratori di microbiologia è possibile eseguire una corretta coltura
anche in presenza di antibiotici nel
sangue, come spesso succede nei
pazienti già trattati a domicilio e
che non possono restare senza terapia).
Inoltre, se il paziente è immunodepresso è indispensabile isolare lo/gli
agente/i infettante/i, per cui appena
possibile è indicata una broncoscopia con aspirato bronchiale; infine, se
è presente versamento pleurico va
eseguita toracentesi per esami colturali.
L’opportunità di indirizzare il paziente in unità di cura intensiva va
valutata sulla base del quadro clini-
n. 6 • Novembre-Dicembre 2001
Sul trattamento antibiotico in ospedale delle polmoniti comunitarie non
c’è univocità in letteratura. Le linee
guida statunitensi differiscono notevolmente da quelle europee, per cui
non appare opportuno proporne alcuna. Dalle evidenze sperimentali si
possono tuttavia trarre risposte utili
alle seguenti domande:
1) È preferibile usare un solo
antibiotico ad ampio spettro,
oppure più antibiotici in associazione?
L’uso di antibiotici ad ampio spettro
non ha dato migliori risultati rispetto alle penicilline semisintetiche e ai
macrolidi. In uno studio2 condotto
su 12.945 pazienti con età superiore ai 65 anni, l’associazione tra amoxicillina o una cefolosporina di II generazione e un macrolide o, in alternativa, l’uso di un solo fluorochinolone di ultima generazione (levofloxacina o moxifloxacina) sono risultati entrambi ampiamente efficaci nel trattare empiricamente i pazienti ricoverati, con una diminuzione significativa dei decessi a 30 gg.
Le cefalosporine di III generazione,
le associazioni con inibitore delle
beta-lattamasi e gli aminoglicosidi
non hanno dimostrato una maggior
efficacia rispetto ai trattamenti sopracitati e dovrebbero essere riservati solo ai pazienti immunodepressi.
2) I nuovi antibiotici sono più
efficaci dei vecchi?
Dalla letteratura non emerge una
significativa superiorità dei nuovi
antibiotici; in particolare non è dimostrata una maggior efficacia dei
macrolidi di recente introduzione
rispetto all’ eritromicina, che risulta
solo meno tollerata. Anche le associazioni con inibitori delle beta-lattamasi non sono più efficaci dell’amoxicillina ad alte dosi. I nuovi fluorochinoloni sembrano invece più efficaci dei precedenti.
Tuttavia potrà sembrare singolare,
ma l’unico trattamento che realmen-
te riduce la degenza ospedaliera
sembra essere la ginnastica respiratoria con espirio contro resistenza
(bottle blowing physiotherapy).
3) Quanto incidono le resistenze batteriche sull’efficacia terapeutica?
Oltre a ciò che è stato detto in precedenza, è opportuno aggiungere
che, nelle polmoniti acquisite in comunità,il microrganismo più frequentemente coinvolto è lo S. pneumoniae.Ampiamente dimostrata è la resistenza di alcuni ceppi del microrganismo nei confronti dei macrolidi,
mentre non così significativa risulta,
almeno in Italia, la resistenza nei confronti delle penicilline. In uno studio,
su 135 ceppi solo 8 risultavano resistenti alla penicillina e nessuno mostrava alti livelli di resistenza; pertanto, un dosaggio elevato dell’antibiotico si dimostra quasi sempre sufficientemente efficace.
4) È preferibile la somministrazione endovenosa o quella orale?
La via di somministrazione di scelta
è quella orale. Molti lavori dimostrano che la somministrazione endovenosa non è più efficace di quella orale; pertanto l’uso endovenoso
dovrebbe essere riservato solo a
quei pazienti che presentino reali
controindicazioni alla somministrazione orale (per esempio, grave
nausea e vomito, shock settico).
In sintesi: il trattamento combinato di alte dosi di amoxicillina (1g x
3-4/die) associato ad un macrolide
sembra essere la migliore scelta
empirica nei pazienti ospedalizzati. I
fluorochinoloni di ultima generazione utilizzati da soli rappresentano
una valida alternativa nei pazienti allergici alla penicillina.
Evidentemente un approccio del
tutto diverso, che tuttavia non rientra negli obiettivi di questo dossier,
deve essere tenuto nei confronti
delle infezioni respiratorie contratte in ambiente ospedaliero, dove è
rilevante il rischio di contagio con
271
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dossier
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germi più pericolosi (gram negativi,
stafilococchi, ecc.) e frequenti sono
le multiresistenze agli antibiotici di
più comune impiego.
Analogamente, un discorso a parte
meriterebbe sia sul territorio che in
ospedale il trattamento della polmonite da Legionella pneumophila,
della quale peraltro non è nota l’effettiva frequenza nel nostro Paese.
Da poco tempo la diagnosi precoce
è facilitata dal dosaggio degli antigeni specifici nelle urine, di pari specificità (del 100%), anche se con sensibilità lievemente minore, della coltura dell’espettorato (70 vs 80 %);
la potenziale gravità dell’infezione
consiglia costantemente il ricovero
e la terapia antibiotica dev’essere
pronta e massiccia, giustificandosi in
questo caso anche la somministrazione endovenosa (macrolide alle
dosi maggiori, potenziato nei casi
più gravi dall’aggiunta di rifampicina
600 mg/die per os).
BIBLIOGRAFIA
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Linee guida per la terapia
delle più comuni infezioni pediatriche
a cura di: M. Previdi - Pediatra di Libera Scelta
Polmoniti di comunità
La diagnosi di polmonite nel bambino, a livello ambulatoriale, si basa
su criteri prevalentemente clinici:
febbre, tosse, tachipnea, rientramenti toracici, dolore toracico,
compromissione delle condizioni
generali. L’obiettività è indicativa di
interessamento alveolare in presenza di ipofonesi, soffio bronchiale e di
rantoli crepitanti.
Non sempre però, in particolare
nei casi lievi e in quelli iniziali, è
272
agevole la differenziazione tra forme con interessamento polmonare
e quelle che si limitano ad un interessamento tracheale e bronchiale.
La distinzione comporta notevoli
differenze sul piano terapeutico. Le
bronchiti sono infatti a prevalente
eziologia virale e anche quelle di
origine batterica non necessitano
in genere di terapia antibiotica,
avendo un decorso spontaneamente risolutivo.
Il metodo più pratico per differenziare i casi con interessamento pol-
monare è quello di valutare la frequenza respiratoria: si considera indicativo di polmonite, in presenza di
febbre e tosse, una frequenza respiratoria superiore ai 60 atti al minuto nei bambini di età inferiore ai 2
mesi, a 50 atti in quelli di età compresa tra i 2 e i 12 mesi e a 40 atti
in quelli oltre i 12 mesi. Naturalmente il bambino deve essere tranquillo e a riposo.
La conferma radiologica rappresenta il gold standard per la diagnosi di
polmonite ma questa non è ritenu-
n. 6 • Novembre-Dicembre 2001
dossier
ta necessaria se non in casi particolari, quali:
- condizioni patologiche preesistenti (patologia polmonare cronica, immunodeficit);
- sospetto versamento pleurico;
- persistenza o aggravamento del
quadro clinico nonostante adeguata terapia medica.
L’eziologia comprende forme virali (i virus rappresentano una causa
importante nei primi due anni di vita, con un’incidenza che supera il
50% dei casi, mentre nel resto dell’età pediatrica è intorno al 20%) e
forme batteriche.Tra queste ultime
i patogeni prevalenti sono rappresentati da Streptococcus pneumoniae,
Mycoplasma pneumoniae, Haemophilus influenzae, Chlamydia pneumoniae, Chlamidya trachomatis, Staphylococcus aureus, Enterobatteri.
L’importanza relativa dei vari batteri è fortemente influenzata dall’età
del bambino (tabella 1).
Non vi sono elementi clinici, laboratoristici e radiologici mirati a differenziare, in modo pratico, le forme di
polmonite in base all’eziologia. Pur
conservando la sua validità, non deve
essere intesa in senso rigido, la classica differenziazione tra polmonite
tipica (insorgenza rapida di febbre
elevata con brividi, dolore toracico,
tosse produttiva, con infiltrati lobari
all’Rx torace) indicativa di eziologia
batterica, e polmonite atipica (insorgenza graduale, condizioni generali non compromesse, cefalea, mialgie, tosse non produttiva, febbre modesta, con ispessimenti peribronchiali ed interstiziali e sovradistensione
polmonare all’Rx torace) indicativa di
eziologia virale o da M. pneumoniae o
da C. pneumoniae.
La terapia antibiotica è quindi
sempre indicata in tutti i casi di polmonite, anche nelle forme virali che
teoricamente non la richiederebbero.
La scelta dell’antibiotico e le modalità della sua somministrazione sono indirizzate soprattutto dall’età
del bambino, dalle sue condizioni
generali e dall’epidemiologia delle
n. 6 • Novembre-Dicembre 2001
resistenze delle varie specie batteriche.
Bambino di età inferiore
ai 6 mesi
C’è indicazione al ricovero ospedaliero e sono in genere indicati antibiotici per via parenterale. Nel neonato si consiglia in genere l’associazione ampicillina + aminoglicoside.
Nel lattante è indicata una terapia
con un beta-lattamico (cefalosporina di II o III generazione). Nel sospetto di una infezione da S. aureus
sono indicate la teicoplanina o la
vancomicina.
Nel caso di una polmonite da C. trachomatis (caratterizzata da un inizio
insidioso, tra gli 1 e 3 mesi di età,
con tosse persistente, tachipnea e
assenza di febbre; obiettivamente
sono presenti rantoli e, a differenza
delle forme da virus respiratorio
sinciziale, è assente il wheezing) sono indicati i macrolidi.
Bambino tra i 6 mesi e i 5 anni
Le specie batteriche prevalentemente coinvolte sono: S. pneumoniae e H. influenzae.
L’antibiotico consigliato in prima
battuta è l’amoxicillina 100 mg/kg/
die in 3 somm. per 7-10 giorni, considerato che il problema delle resistenze ai beta-lattamici di S. pneumoniae è nel nostro paese ancora
contenuto e che in ogni caso è superabile, anche in presenza di ceppi
resistenti, usando un dosaggio ele-
vato di amoxicillina (che presenta la
MIC più bassa rispetto agli altri beta-lattamici nei confronti di questo
batterio).
Per quanto riguarda l’H. influenzae la
percentuale di resistenze all’amoxicillina è circa del 20%, ma questo
batterio è presente soprattutto nei
paesi in via di sviluppo, o in bambini
con situazioni di immunodeficit o di
patologie organiche (bronchiectasie, fibrosi cistica).
Come seconda scelta è possibile
l’utilizzazione
dell’associazione
amoxicillina-acido clavulanico che
migliora l’attività nei confronti
dell’H. influenzae beta-lattamasi
produttore o di una cefalosporina
orale (cefuroxima-axetil 20-30 mg/
kg/die in 2 somministrazioni, cefpodoxime 8 mg/kg/die in 2 somministrazioni, cefprozil 30 mg/kg/die in 2
somministrazioni).
In caso di mancata risposta clinica
entro 48 ore dall’inizio della terapia
si dovrà prendere in considerazione l’impiego di un macrolide (eritromicina 50 mg/kg/die in 3 somm.
o equivalenti) per la possibilità di
un’infezione da M. pneumoniae o C.
pneumoniae, patogeni un tempo ritenuti esclusivi del bambino più
grande e dell’adolescente che, invece, sono presenti anche nel bambino in età prescolare (fino ad un 30%
dei casi).
Nei casi che già in fase di presentazione o nella loro evoluzione presentino caratteri di gravità (quali
- Frequenza dell’eziologia batterica della polmonite
in rapporto all’età del bambino
Tabella 1
Microrganismo
S. pneumoniae
H. influenzae
S. aureus
Enterobatteri
M. pneumoniae
C. trachomatis
C. pneumoniae
< 3 mesi
+++
+
++
+++
+
+++
-
4 mesi – 4 anni
++++
+++
+
+++
+
> 4 anni
+++
++
+
++++
++
++++ : molto frequente ; +++ : frequente ; ++ : occasionale ; + : raro
273
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compromissione dello stato generale, distress respiratorio e/o necessità di ossigenoterapia, presenza
di disidratazione o vomito ripetuto,
patologia di base – immunodeficit,
patologie organiche – mancata risposta al trattamento antibiotico,
inaffidabilità della famiglia) è indicato il ricovero ospedaliero con indicazione all’utilizzo di cefalosporine
di II o III generazione per via parenterale, eventualmente associate ad
un macrolide.
Bambino di età superiore
ai 5 anni
La maggior parte delle forme batteriche sono dovute a M. pneumoniae
e a C. pnuemoniae. In prima battuta
si raccomanda quindi l’impiego di
un macrolide (eritromicina 50
mg/kg/die in 3 somm. o equivalenti)
per 7-10 giorni.
Una mancata risposta clinica entro
48 ore può suscitare alcuni dubbi di
comportamento.
È noto che la risposta del micoplasma all’antibiotico può essere lenta
e questo potrebbe giustificare, se le
condizioni del paziente non sono in
peggioramento, il prosieguo della
terapia con il solo macrolide.
Potrebbe trattarsi invece di una infezione da S. pneumoniae resistente
ai macrolidi (nel nostro Paese la
percentuale di resistenze è del 2030%) o di una associazione micoplasma-pneumococco (questa possibilità aumenta con l’aumentare dell’età del bambino).
In questo caso è opportuno passare
ad un trattamento con amoxicillina
100 mg/kg/die in 3 somministrazioni o ad una cefalosporina iniettiva di
II o III generazione a seconda della
gravità del quadro clinico, eventualmente in associazione con un macrolide.
Se il quadro clinico già dall’inizio
appare compromesso è opportuno
prendere in considerazione il ricovero ospedaliero (vedi le indicazioni
al ricovero nel paragrafo precedente) e l’utilizzazione da subito di una
cefalosporina iniettiva di II o III generazione in associazione con un
274
macrolide per 10-14 giorni.
In questi casi, se dopo 48-72 ore, si
è ottenuto un evidente miglioramento clinico è possibile sostituire
le cefalosporine iniettive con cefalosporine orali (cefuroxima-axetil,
cefpodoxima o cefprozil).
BIBLIOGRAFIA
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Faringotonsilliti
Eziologia
Nella maggior parte dei casi (50%)
l’eziologia delle faringotonsilliti acute nel bambino è di origine virale:
Adenovirus, Parainfluenza, Rhinovirus,
VRS, Echo, HSV, EBV, CMV, Influenza,
Coxsackie, più un 30% di casi in cui
non è possibile isolare alcun patogeno, ma che si ritengono comunque di origine virale.
Lo Streptococcus pyogenes o streptococco beta-emolitico di gruppo A è
la causa batterica più comune (15%
dei casi).
La diagnosi e il trattamento della faringotonsillite streptococcica è importante perché la terapia antibiotica, iniziata entro 9 giorni dal suo inizio, previene il rischio di malattia
reumatica. La terapia inoltre previene le complicanze suppurative e
comporta una più rapida risoluzione dei sintomi.
Altri streptococchi beta-emolitici (di
gruppo C e G) possono essere causa
di faringite, il cui decorso è tuttavia
autolimitante e non comporta il rischio di malattia reumatica.
Discusso è il ruolo eziologico di
Mycoplasma pneumoniae e di Chlamidia pneumoniae; il coinvolgimento faringeo in questo caso fa parte di un
più diffuso coinvolgimento dell’albero respiratorio e il beneficio del trattamento antibiotico è dubbio.
Diagnosi
L’obiettivo è differenziare le faringiti
da S. pyogenes, che possono giovarsi
del trattamento antibiotico, da quelle
causate da altri agenti eziologici.
La diagnosi si deve basare sull’integrazione dei test di laboratorio con
elementi epidemiologici e clinici
orientativi di infezione streptococcica:
• età superiore ai 2 anni;
• stagionalità: inverno ed inizio
primavera;
• decorso clinico: esordio rapido
di faringodinia, febbre > 38,5°C,
cefalea, vomito, dolori addominali;
• eritema faringotonsillare;
• essudato faringotonsillare (presente solo nel 50 % dei casi e
comunque presente anche in
forme virali, in particolare da
Adenovirus);
• linfoadenite cervicale;
• assenza di tosse e rinite.
L’esame colturale è il gold standard
per la diagnosi eziologica. La coltura, tuttavia, in assenza di valutazione
clinica, non è in grado di differenziare il malato dal portatore sano (circa il 10% dei bambini presenta lo S.
pyogenes come parte della normale
flora faringea ed è quindi “portatore” del batterio).
Utili possono essere i test rapidi
immunoenzimatici; questi test possiedono una elevata specificità, pari
a quella dell’esame colturale (95%)
ma hanno una sensibilità inferiore
(80-90%); un risultato positivo si ritiene quindi indicativo di infezione
streptococcica, mentre un risultato
negativo non va inteso in senso assoluto ma richiede un esame colturale di conferma.
n. 6 • Novembre-Dicembre 2001
dossier
La valutazione dei titoli anticorpali
(TAS, Streptozyme ecc.), che esprimono solo il riscontro immunologico di una pregressa infezione da
streptococco, non è utile nella diagnosi delle forme acute.
Terapia
È indicato il trattamento antibiotico
dei pazienti sintomatici con test
colturale o test rapido positivo.
Non è indicato il trattamento del
portatore asintomatico.
I contatti asintomatici di soggetti con
infezione streptococcica non devono
essere sottoposti a tampone faringeo e, nel caso di una sua positività a
trattamento antibiotico, tranne che
in presenza di una storia personale di
malattia reumatica o di familiari affetti da malattia reumatica.
La penicillina V (250 mg = 400.000
U, per 2-3 somministrazioni per 10
giorni nei bambini; 500 mg =
800.000 U per 2-3 somministrazioni per adolescenti e adulti) rappresenta l’antibiotico di scelta (non sono state mai rilevate resistenze dello S. pyogenes alla penicillina).
In assenza di un’adeguata formulazione pediatrica di penicillina V, l’amoxicillina (50mg/kg/die in 2 somministrazioni per 10 giorni) rappresenta una valida alternativa.
Una alternativa appropriata (soprattutto in situazioni in cui si sospetti una scarsa compliance al trattamento orale) è rappresentata dalla benzatinpenicillina: una singola
somm. intramuscolare (600.000 U
< 27 kg di peso; 1.200.000 U > 27
kg) è in grado di assicurare concentrazioni plasmatiche adeguate.
Nei pazienti allergici alle penicilline
sono indicati i macrolidi (eritromicina 50 mg/kg/die in 3 somm. o claritromicina 15 mg/kg/die in 2 somministrazioni per 10 giorni o azitromicina 10 mg/kg/ die in 1 somm. per
5 giorni), tenendo però presente
che in un 20-30% dei casi lo S. pyogenes è resistente ai macrolidi.
Nei pazienti allergici alle penicilline
che non abbiano avuto reazioni di
ipersensibilità immediata, di tipo ana-
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filattico, sono quindi preferibili le cefalosporine orali, in particolare quelle
di “prima generazione”, attive in prevalenza sui Gram + (cefalexina 50
mg/kg/die in 2 somm. per 10 giorni).
Naturalmente le cefalosporine vanno evitate nei soggetti con reazioni
di tipo anafilattico alle penicilline,
dal momento che fino al 15% di
questi possono presentare analoghe reazioni alle cefalosporine.
In caso di faringiti ricorrenti con coltura positiva per streptococco è indicata la ripetizione di un ciclo di trattamento con un antibiotico stabile alle beta-lattamasi (la presenza di copatogeni beta-lattamasi produttori
può essere responsabile del fallimento della terapia con penicillina): amoxicillina-ac. clavulanico 50 mg/kg/die
in 2 somm. per 10 giorni; amoxicillina
associata negli ultimi 4 giorni del ciclo a rifampicina 20 mg/kg/die in 2
somm.; una cefalosporina.
La profilassi antibiotica non è raccomandata tranne che per la prevenzione di ricadute di malattia reumatica.
BIBLIOGRAFIA
DI RIFERIMENTO
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prescrizione ambulatoriuale degli antibiotici, Bologna: Prescrizione ambulatoriale degli antibiotici nelle infezioni respiratorie. Medico e Bambino 19, 431442, 2000.
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infettive. American Academy of Pediatrics.IV ed. Italiana. CIS 2000: 522532.
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Streptococcal Infections. Pediatrics in
Review 19, 291-302, 1998
- Wald E. R. Antibiotic Treatment of
Pharyngitis. Pediatrics in Review 22,
255-256, 2001-09-13.
- Schwartz B et al. Pharyngitis – Principles
of Judicious Use of Antimicrobial
Agents. Pediatrics 101, 171-174,
1998.
Otite media acuta
Eziologia
Nel 70% dei casi l’eziologia è batterica: Streptococcus pneumoniae (25-
50% dei casi), Haemophilus influenzae non tipizzabile (15-30%), Moraxella catarrhalis (5-20%), meno frequenti lo S. pyogenes e lo S. aureus.
Nei rimanenti casi l’eziologia è virale.
D
Diagnosi
L’otite media acuta (OMA) è definita
dalla presenza di un versamento all’interno del cavo timpanico in presenza di sintomi e segni acuti di interessamento dell’orecchio medio.
La diagnosi eziologica non è attuabile se non con metodiche invasive,
ma dal punto di vista clinico è comunque possibile una discriminazione orientativa tra forme presumibilmente virali (moderata estroflessione della membrana timpanica) e forme presumibilmente batteriche (marcata estroflessione della
membrana timpanica).
Una differenziazione all’interno delle
forme batteriche è difficile, anche se
esistono studi che dimostrano come
le OMA sostenute da S. pneumoniae
siano più frequentemente caratterizzate da febbre elevata (> 38.3°), da
intensa iperemia della membrana
timpanica associata ad un forte grado di estroflessione.
È importante la differenziazione
delle forme causate da pneumococco dal momento che sono queste le
infezioni che difficilmente vanno incontro a risoluzione spontanea e
che sono a maggior rischio di complicanze (mastoidite, meningite).
S
Terapia
Si è molto discusso sull’opportunità
di effettuare una terapia antibiotica
dell’OMA, dal momento che l’80%
dei bambini non trattati guarisce
spontaneamente in 7-14 giorni contro il 95% dei trattati.
Un approccio ragionevole è quello
di trattare comunque, fin dall’esordio, tutti i bambini di età inferiore ai
2 anni, che sono i più a rischio di
complicanze.
Per quelli di età superiore ai 2 anni è
possibile un periodo iniziale di attesa
di 48-72 ore utilizzando solo analgesici per via generale (paracetamolo)
con successiva rivalutazione.
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dossier
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In caso di risoluzione spontanea dei
sintomi non è necessario somministrare antibiotici, che devono invece
essere prescritti qualora i sintomi e
i segni acuti persistano.
Un atteggiamento prudenziale potrebbere essere comunque quello
di trattare tutti i casi di OMA diagnosticati con elevato grado di sicurezza, che presentano cioè febbre,
forte estroflessione della MT associata a marcata iperemia (criteri che
corrispondono ad una probabile infezione pneumococcica).
Analogamente vanno trattati dall’inizio i soggetti con patologie organiche sottostanti o che presentano
otiti croniche o ricorrenti.
L’antibiotico di prima scelta è l’amoxicillina a dosaggio elevato (75-100
mg/kg/die in 2-3 somministrazioni) in
grado di superare anche le eventuali
resistenze presentate dallo pneumo-
cocco (resistente alla penicillina nel
nostro paese nel 10-20% dei casi).
In caso di mancata risposta clinica
entro 72 ore si possono utilizzare
l’amoxicillina-acido clavulanico (50
mg/kg/die in 2-3 somministrazioni)
o una cefalosporina orale (cefuroxime-axetil 30 mg/kg/die in 2 somministrazioni; cefprozil 30 mg/kg/die in
2 somministrazioni; cefpodoxime
8mg/kg/die in 2 somministrazioni),
oppure ceftriaxone IM 50 mg/kg/die
per 3 giorni.
Anche la durata della terapia è oggetto di discussione.
Si ritiene ragionevole effettuare un
ciclo “breve” di 5-7 giorni nelle forme non complicate e nei soggetti di
età superiore ai 2 anni, mentre è
opportuno un ciclo “lungo” di 8-10
giorni nei soggetti di età inferiore ai
2 anni o che presentano perforazione timpanica, o nei casi di mancata
aci
dialogo sui farm
risposta clinica al primo ciclo antibiotico.
BIBLIOGRAFIA
DI RIFERIMENTO
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prescrizione ambulatoriuale degli antibiotici, Bologna: Prescrizione ambulatoriale degli antibiotici nelle infezioni respiratorie. Medico e Bambino 19, 431442, 2000.
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si può fare. Occhio Clinico Pediatria 2,
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- Marchisio P. et al. Progressi e delusioni
in Otorinolaringoiatria. Medico e Bambino 20, suppl. al n. 3, 77-80, 2001.
- Dowell S. F. et al. Otitis media- Principles of Judicious Use of Antimicrobial
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In allegato il supplemento
LA SPERIMENTAZIONE
CLINICA
IN MEDICINA
TERRITORIALE
TAZIONE
LA SPERIMEN EDICINA
CLINICA IN MRIALE
TERRITO
Atti del convegno
io 2001
Verona, 19 magg
Atti del Convegno
Verona 19 maggio 2001
a cura di
AROLO D.
JOPPI R. E BASTriale, ULSS 20 - Verona
tico Territo
Servizio Farmaceu
I.R.
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n. 6 • Novembre-Dicembre 2001
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La terapia antibiotica