Nicoletta Pirotta IFE ITALIA (Iniziativa Femminista Europea) “LA CRISI ACCENTUA LE DISEGUAGLIANZE DI GENERE” relazione presentata a : A) Seminario di “Altramente” "PER UNA NUOVA COALIZIONE DEL LAVORO IN EUROPA" Giovedì 10 e Venerdì 11 febbraio 2011 ROMA B) Seminario di rete@sinistra “IL LAVORO: DUE GIORNATE PROGRAMMATICHE” Sabato 19 e Domenica 20 Febbraio 2011 IMOLA / Hotel Donatello - Centro congressi Via Rossini 25 Rivista e presentata a : C) Seminario della CGIL Reggio Emilia su “IL LAVORO NELLA CRISI” Lunedì 28 maggio 2012 REGGIO EMILIA / Camera del Lavoro CGIL Il Neoliberismo prima della crisi : qualche numero L’occupazione in italia fra il 1970 e il 2009 aumenta di quasi 5 milioni (da 19 milioni ca a 24 milioni ca) (vedi “Aspetti delle trasformazioni del lavoro nel caso italiano” di Elio Montanari e Osvaldo Squassina,una ricerca che sarà presentata prossimamente a Brescia) Il settore dove l’aumento è esponenziale è quello dei servizi (+152,2%) La connotazione dell’aumento non è solo settoriale ma riguarda anche le posizioni professionali sia dipendenti che indipendenti. Le/ i dipendenti sono aumentate/i significativamente (nel 1970 circa 14 milioni , il 71% del totale, nel 2009 circa 19 milioni, il 76,6% del totale)Quindi secondo i dati di Montanari/Squassina l’occupazione negli ultimi 40 anni è aumentata in modo molto significativo e questo aumento ha riguardato soprattutto le lavoratrici e i lavoratori dipendenti in particolare nel settore dei servizi; se si dà un corpo all’astrattezza delle cifre si scopre che l’aumento occupazione ha riguardato soprattutto le donne ( I dati dell’ILO, cioè l’Osservatorio Internazionale sul Lavoro, indicano che il tasso di partecipazione femminile alla forza lavoro è passato , negli ultimi 30 anni, dal 50,2 al 51,7% (a fronte di quello maschile che è al contrario diminuito passando dal 82 al 77%. Con la conseguenza che il divario di genere nei tassi occupazionali è sceso da 32 a 26 punti percentuali,pur mantenendosi alto; anche in Italia l’occupazione femminile aumenta, nonostante secondo i dati ISTAT di qualche giorno fa una donna su due non lavora e che quindi solo il 46,3% lavora, a fronte del 66% della Germania e del 60% della Francia o del 71,5% dei Paesi Bassi o che secondo l’ultimo rapporto del Worl economic Forum sulla parità di genere nel mondo del lavoro e delle imprese ci pone al 74°posto dopo Malawi,Ghana e Tanzania per dirne alcuni. Nell’arco di un decennio, citando sempre i dati di Montanari/Squassina l’incremento della partecipazione delle donne alla forza lavoro è di 2,4 milioni di unità pari all’11,8%, doppio in valore assoluto rispetto a quello maschile e triplo in percentuale. IL NEOLIBERISMO ED IL PROCESSO DI FEMMINILIZZAZIONE DEL LAVORO Il modello economico e sociale neoliberista degli ultimi trent’anni , che si è fondato sulla costruzione del “mercato globale” e sulla messa in concorrenza sul piano internazionale della forza lavoro, si è caratterizzato anche per un processo di femminilizzazione del lavoro; tale processo deve essere inteso sia come aumento quantitativo di manodopera femminile sia come generalizzazione delle modalità di accesso e di permanenza al lavoro storicamente prerogativa delle donne (flessibilità, precarietà, part-time,…). Da questo punto di vista il processo di femminilizzazione consente di comprendere quanto intrecciate siano la contraddizione di genere e quella di classe; come tutti i fenomeni complessi il processo di femminilizzazione è fenomeno contraddittorio. Sul piano economico il processo di femminilizzazione è stato utilizzato (insieme a quello della “clandestinizzazione” della manodopera immigrata) per generalizzare le condizioni di lavoro prerogativa della manodopera femminile, come si diceva più sopra. Una sorta di eguaglianza verso il basso, con l’utilizzo di una manodopera costretta a dover fare i conti, spesso in solitudine, con i compiti di riproduzione sociale e quindi più abituata ad accettare flessibilità e precarietà . La femminilizzazione del lavoro in questo caso produce fatica, sfruttamento, ricatto, precarizzazione, ulteriore ineguaglianza (permangono infatti le “tradizionali” diseguaglianze di salario econdizioni lavorative) ed anche,paradossalmente, povertà (si veda la crescita della figura delle working’s poors, cioè le “lavoratrici impoverite”, una povertà dunque che genera dal lavoro stesso). D’altra parte però il processo di femminilizzazione produce e diffonde una migliore “coscienza di genere”, se posso dire così’, che ha una positiva ricaduta sull’auto-percezione delle donne. La femminilizzazione ha consentito e consente di rompere, in particolare al sud del mondo, antiche segregazioni, scardinare dipendenze totali, attivizzare sul piano sindacale, sociale e politico moltissime donne e mettere in crisi le strutture più soffocanti del patriarcato (Nel sud est asiatico,in India, in America latina, in molti paesi dell’Africa sono sorte reti e organizzazioni di donne e in particolare di lavoratrici che reclamano diritti a partire da loro stesse); e’ avvenuto più o meno lo stesso in Occidente ai tempi della rivoluzione industriale quando il considerevole ingresso delle donne nel mondo del lavoro consentì la messa in discussione dei rapporti tradizionali fra i sessi, svelò la natura sessista della nostra società e identificò la struttura di potere del sistema patriarcale. Una struttura che si fonda su uno schema che agisce sia nella vita sociale che in quella privata: le donne hanno meno diritti e meno opportunità degli uomini perché considerate secondo sesso (secondo la brillante definizione di Simone de Beauvoir) IL LATO OSCURO DEL LAVORO DELLE DONNE Se si analizzano i dati utilizzando lo sguardo di genere e di classe si colgono, ulteriori, sostanziosi intrecci; in Europa, nella fascia 20/49 anni la percentuale delle donne che lavorano scende dal 75,4% al 61,1% nel caso di donne con figli. Le donne con bambini quindi lavorano meno (-11,5 punti percentuali) di quelle che non ne hanno, mentre gli uomini che sono padri lavorano più di quelli che non lo sono (+6,8 punti). Le donne che svolgono un lavoro part - time hanno figli nel 23% dei casi contro il 15,9% di quelle che non ne hanno; secondo un’indagine di Isfol curata da Marco Centra e pubblicato nel 2010, il 40,8% delle donne che hanno lasciato l’attività lavorativa dichiara di averlo fatto per prendersi cura dei figli, dedicarsi esclusivamente alla famiglia, accudire persone non autosufficienti; Nella sua relazione agli Stati Generali sul lavoro delle donne in Italia, organizzata dal CNEL nel febbraio 2012, Linda Laura Sabbatini, dimostra che nelle coppie di occupati le donne tra i 25 e i 44 anni lavorano in totale 53 minuti in più dei loro partner , che il divario cresce in presenza di flglie/i e che in ogni caso il 71,9% delle ore dedicate al lavoro famigliare (lavoro domestico, di cura, di acquisti di beni e servizi) è a carico delle donne. Sabbatini dimostra altresì che l’asimmetria di carichi di lavoro familiare è diminuita negli ultimi 20 anni di 12 punti in percentuale. Però poiché sono più i tagli operati dalle donne che dagli uomini (1 minuto all’anno!) è probabile, aggiungo io, che questo abbassamento dell’asimmetria non si è determinato per un aumento dei carichi di lavoro maschile ma per l’utilizzo di figure quali le colf e le badanti. Cioè di altre donne. Questi dati mettono in luce, se lo si volesse vedere, quello chela sociologa Picchio chiama “ la faccia oscura del lavoro delle donne” , una faccia che viene arbitrariamente rimossa e con essa anche cioè che , per citare sempre Picchio, si può considerare “ “il senso di un’esperienza femminile in materia di sostenibilità del vivere”. Mi riferisco cioè a tutti quei lavori necessari alla sopravvivenza ed al benessere della specie umana che in quanto necessari non sono surrogabili: il cibo cotto, la casa in ordine, i vestiti puliti, l’accudimento delle e dei piccoli, l’assistenza alle persone anziane. Eppure la sostenibilità del vivere che, in ogni parte del mondo, viene garantita, a causa della mancata redistribuzione fra generi dei lavori di cura, quasi esclusivamente dal lavoro gratuito delle donne, diventa elemento di freno e di ostacolo all’ingresso delle donne nel mondo del lavoro retribuito; anche su questo piano, però, si vedono positive contraddizioni che ci parlano di un cambiamento di mentalità rispetto al passato. Alcuni esempi : nel saggio “Lavorare stanca” Lidia Cirillo raccoglie i punti di vista di molte donne giovani che si dicono disponibili a metter al mondo figli solo dopo aver raggiunto una miglior stabilità economica e sociale; recenti indagini italiane (CGIL Lombardia. ISTAT…) evidenziano che solo 1/3 delle donne che lavorano a tempo parziale lo ha scelto per davvero , un altro terzo dichiara che ha dovuto accettarlo non trovando nulla di diverso e un altro terzo ammette di doverlo fare per poter continuare a svolgere i lavori di cura e di riproduzione sociale ancora non socializzati; la citata indagine Isfol rivela che la maggioranza delle donne (84,5%) “inattive” (cioè donne che non hanno un’occupazione e non lo cercano) sarebbero disposte a lavorare; Che cosa avrebbe potuto sostenere e consolidare questo cambiamento di mentalità? Un costante aumento delle donne nel mondo del lavoro e la presenza di un sistema pubblico di servizi che si fosse posto l’obiettivo della socializzazione e della redistribuzione dei lavori di cura e di riproduzione sociale. Così non è stato. La crisi irrompe e scombina le carte La crisi del modello neoliberista incide fortemente sulla struttura dell’occupazione femminile sia dal punto di vista quantitativo che sulla qualità del lavoro. Così come incide sulla struttura del welfare pubblico. A conferma che la crisi non riguarda solo la finanza ma investe il lavoro e quindi la vita delle lavoratrici e dei lavoratori; Nel biennio 2008-2010 l’occupazione femminile in Italia che , grazie all’aumento degli anni precedenti non sembrava toccata dalla crisi, è diminuita di 103mila unità (dati delle relazione di Linda Laura Sabbadini, qui citata) . Nell’industria diminuiscono più le donne (-12,7%) che gli uomini (- 6,3%), talvolta come è successo in una fabbrica metalmeccanica la motivazione dei licenziamento di lavoratrici torna ad essere quella che tutto sommato la donna ha comunque un’altra occupazione cioè quella casalinga! Non va meglio alle giovani donne per le quali nel primi tre trimestri del 2011 siu perdono 45.000 posti di lavoro; Sempre la Sabbadini rileva che diminuisce soprattutto l’occupazione qualificata (-270mila unità) mentre aumenta quella non qualificata ( +218 mila unità) , cresce il part-time nella sua componente non volontaria (soprattutto nel commercio, nella ristorazione e nei servizi alle famiglie) ed aumentano i fenomeni di segregazione verticale ed orizzontale, mentre si acutizzano le differenze “classiche” fra lavoratrici e lavoratori per quanto riguarda il salario, le carriere, gli orari; Sul versante del welfare, qui osservato nella sua componente relativa al sistema pubblico di servizi alla persona, la crisi consente di portare a compimento tutti i processi di superamento/trasformazione del sistema che già si erano visti all’opera nell’applicazione delle ricette neoliberista. Silvana Cesani, assessora alle politiche sociali del Comune di Lodi e attivista di IFE Italia, rileva che, con le due manovre finanziarie del 2011, le risorse messe a disposizione del sistema delle Autonomie Locali per la gestione del sistema pubblico dei servizi alla persona saranno tagliate tra il 2011 ed il 2014 per più di 40 miliari di euro (12 miliardi in meno ai Comuni, 2,7 alle Provincie e 27 alle Regioni). Se si aggiungono i tagli prodotti dalle manovre del governo Monti , la spada di Damocle del patto di stabilità e la follia dell’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio si può ben comprendere la portata delle trasformazioni in atto Processi reali e possibili scenari Stiamo assistendo dunque a consistenti tagli ai servizi pubblici (nascosti sotto il richiamo all'attivazione delle risorse delle comunità locali e alla responsabilizzazione di ciascuno di noi), che comportano ulteriori difficoltà nella conciliazione fra lavoro salariato e lavoro domestico e, conseguentemente, un aumento del lavoro gratuito di cura e di riproduzione sociale a carico delle donne (si veda a questo proposito l’articolo di Vertova/Vincenti “La ricetta anticrisi: tassare rendite e patrimoni, lotta all’evasione per la forza lavoro femminile”); i sistemi pubblici dei servizi alla persona , all’interno del modello neoliberista, sono divenuti “oggetti di desiderio per il mercato ” data la loro alta profittabilità sostenuta dal denaro pubblico. Come invita a considerare la sociologa Alessandra Vincenti questi sistemi si sono così trasformati da “welfare della parità” (che pur se in modo imperfetto, a causa di una forte impronta familista, come ben descritto negli anni da Chiara Saraceno, avevano comunque alluso ad una socializzazione dei lavori di riproduzione sociale) in “welfare materno”. Un “welfare materno” che si struttura sul principio della sussidiarietà orizzontale ( intesa come pareggiamento di funzione e natura fra il pubblico e il privato sostenuto paradossalmente dal finanziamento pubblico) , sull’ideologia familista e sulla enfatizzazione della “comunità” (assunta strumentalmente come realtà “omogenea” per rimuovere i rapporti di potere che la governano e le differenze che la attraversano) modificando radicalmente natura e funzione del sistema pubblico; la crisi, però per Silvana Cesani (prima citata) potrebbe produrre scenari ancora più destrutturanti rispetto al modello del sistema pubblico dei servizi che avevamo conosciuto. Il taglio netto alle risorse destinate al sistema pubblico (nella misura prima descritta); i pesanti licenziamenti dovuti alla crisi che riducono ulteriormente la base materiale ( cioè il lavoro garantito) su cui si è poggiato il sistema pubblico dei servizi; il superamento del modello di salario complessivo che fa sì che pagare le tasse non serve più ad ottenere dei servizi pubblici (sanità, scuola, assistenza sociale, …) ma quasi esclusivamente a contenere/sanare il debito pubblico; la difficoltà di tenuta della stessa logica sussidiaria a causa del costante affievolirsi del finanziamento pubblico costringono, secondo Cesani, a porsi una domanda di fondo : quando parliamo di Stato Sociale o di welfare pubblico possiamo ancora ragionare con le medesime categorie di pensiero o con gli elementi culturali del modello economico ,produttivo e sociale precedente? ALCUNE QUESTIONI APERTE Dentro scenari così dinamici e dagli esiti tanto incerti vale la pena proporre , con ottica di genere, alcuni spunti di riflessione riguardo : al tema del fondamento del valore economico ( come propone l’economista ed assessora al lavoro del Comune di Milano Cristina Tajani) Il lavoro è stato visto solo nella sua dimensione di fondamento e misura di ogni valore economico , cioè di salari e profitti, o di scambio cioè di produzione di beni o servizi aventi un prezzo. Come IFE Italia ci chiediamo : non è tempo di provare a considerare il lavoro come un’attività umana non alienata in grado di promuovere benessere collettivo? Cioè in una dimensione necessariamente sottratta all’ alienazione prodotta dal sistema di potere capitalista e fondata sulla logica del profitto e quindi dello sfruttamento; al tema del senso del lavoro considerato nelle sue componenti non solo economiche ma sociali e politiche, personali e relazionali. Come IFE Italia pensiamo che varrebbe la pena di indagare di più non solo sul “lavoro” in astratto ma sulle donne e sugli uomini che lavorano, sui loro sentimenti e sulle loro aspirazioni. Per le giovani generazioni di donne il lavoro è sostanzialmente precarietà. Il riflesso sul piano simbolico è che il lavoro ha smesso di saper/poter essere un “organizzatore” ed un “costruttore di soggettività personale e collettive fondate sulla comunanza e sulla solidarietà per trasformarsi in luogo di competizione solitaria e di insicurezza. Una simile trasformazione potrebbe agire sull’immaginario collettivo delle giovani donne per le quali, alla continua ricerca di lavori precari, sarebbe alla lunga preferibile il ritorno ai ruoli più “garantiti” e riconosciuti socialmente di moglie e di madre fra le mura domestiche, interrompendo quel processo emancipatorio che è strumento ineludibile per una maggior coscienza e consapevolezza di sé e dei propri diritti e quindi della propria libertà; al tema del significato del lavoro di riproduzione domestica , inteso come “pratica dell’agire solidale, recupero della relazione interpersonale nella dimensione collettiva del “prendersi cura” (Picchio). Un lavoro di riproduzione domestica liberato dalla dimensione alienata voluta dal sistema di potere patriarcale per espropriare e controllare il tempo di vita delle donne, e quindi non più delegato al solo genere femminile. Tutto ciò chiama in causa la capacità del genere maschile di mettere in discussione se stesso e quindi la natura sessista della struttura di potere che governa il mondo. Una soggettività femminista nuova Pur se l’onda lunga dei movimenti delle donne degli anni settanta non si è ancora arenata, la globalizzazione neoliberista ha inglobato “l’emancipazione e la libertà delle donne” nel proprio orizzonte di senso trasformandole in banali e vuoti refrain che non si sostanziano in scelte conseguenti sul piano dei diritti e del riconoscimento sociale; il femminismo perciò non può permettersi di “accompagnare” i processi in atto ma deve sentire il bisogno ed il desiderio di sovvertirli. Se il femminismo si “accoda” acriticamente alla ripetizione di ritornelli e slogan svuotati del loro carattere conflittuale rischia di non essere più capace di leggere e comprendere la realtà e quindi di non essere più in grado di promuovere coscienza critica, soggettività collettiva e pratiche conflittuali; per sviluppare un simile processo di soggettivizzazione, e quindi di politicizzazione, sono necessari “strategie” , categorie e paradigmi nuovi. Stimolate da alcune filosofe (Genevieve Fraisse, Nicole Edith Thevenin, Cristine Delphy) e giuriste (Martha Nussbaum) come IFE Italia pensiamo che una politica femminista oggi dovrebbe: a) saper tenere insieme il soggetto e l’oggetto perché nello stesso momento in cui astrattamente si riconosce alle donne lo status di soggetto i loro corpi vengono fatti ancora oggetto di consumo, di scambio, di violenza e di battaglia ideologica; b) risignificare il principio di “eguaglianza”. Oggi questo principio viene utilizzato, in modo strumentalmente “pacificato”, per “falsificare la concorrenza” fra i sessi. Questa risignificazione dovrebbe partire dall’idea che il principio di eguaglianza non può tradursi solo in una norma ( le “pari opportunità”) ma deve saper divenire un vero e proprio processo, cioè “un operatore di pensiero” e “un organizzatore di politica” da riempire di quel carattere conflittuale che gli ha consentito di animare le lotte delle donne in ogni parte del mondo; c) riaffermare l’”universalismo” dei diritti senza abbandonare o dimenticare il nostro sesso. Un universalismo, quindi, capace di contenere le contraddizioni, materiali e simboliche, fra l’eguale ed il diverso, fra l’uno ed il multiplo; d) agire pratiche coerenti attraverso lo strumento dell’educazione popolare di genere femminile BIBLIOGRAFIA “Ma noi siamo donne o bambole” Irene Tinagli / articolo su “La stampa” 25 gennaio 2011; “Aspetti delle trasformazioni del lavoro in Italia, in Lombardia e a Brescia” ricerca curata da Elio Montanari e Osvaldo Squassina, gennaio 2011 “Questa crisi sta accentuando le diseguaglianze di genere” Anita Giuriato e Nicoletta Pirotta / in “Alternative per il socialismo” novembre-dicembre 2010; “Genevieve Fraisse, la discordance des sexes” / interview nella rivista “ Regards” dicembre 2010; “Qu’est-ce qu’une politique feministe aujourd’hui” Genevieve Fraisse / relazione in “Le feminisme a l’epreuve des mutations geopolitiques – Congres international feministe , Parigi dicembre 2010; “Differenti ma non diseguali. Lavoro,welfare,eguaglianza,democrazia” Dispensa prodotta da IFE con alcuni interventi presentati a “Differenti ma non diseguali Prima giornata di studio IFE su: lavoro, welfare, uguaglianza” Università di Bergamo,24 aprile 2010; “La ricetta anticrisi:tassare rendite e patrimoni, lotta all’evasione per la forza lavoro femminile” Giovanna Vertova e Alessandra Vincenti / articolo su “Il Manifesto” 7 gennaio 2010; “Le buone occasioni della crisi” Cristina Tajani / 2008 sul sito www.cristinatajani.it ; Rapporto della “Commissione Europea sulla Parità” / 2008; Rapporto sul lavoro dell’”Organizzazione Internazionale sul Lavoro” (ILO) / 2008; “Giustizia e aiuto materiale” (Martha C.Nussbaum) “La sfida del genere: La faccia oscura del lavoro” Antonella Picchio / in “Quale Stato” n. 2/3 2001; “La femme mondialisè” Christa Wichterich / Solin 1999 “Crisi economica e sistema pubblico dei servizi alla persona” Silva Cesani (Seminario IFE /Lodi 16 febbraio2012) CNEL Atti del convegno “Stati Generali sul lavoro delle donne in Italia” 2 febbraio 2012 Nicole-Edith Thevenin intervento presentato nel ciclo di seminari 2010 “Il potere ha un sesso?” della fondazione “Gabriel Peri” di Parigi Sintesi del seminario “Dove stiamo andando su questa “tera” ….? IFE Italia :femministe in relazione per un’azione politica condivisa su potere, desideri, lavoro, diritti, laicità”, 24 e 25 marzo 2012 / Costa Serina BG