Resistenza Memorie incerte Le molte morti del partigiano Scagliosi comandanti ha fatto sedere su una stufa rovente un prigioniero per “farlo parlare”. I giellisti della 1a divisione conoscono la casa di Pradleves (due passi da Cuneo) dove la polizia (partigiana NdA) di (Angelo) Spada tortura i fascisti. Quando attaccano col grammofono è segno che qualcuno lì dentro sta urlando di dolore». Nel «Sangue dei vinti» e nei libri successivi Pansa ha eluso la domanda fondamentale: perché il lungo silenzio dei tanti cittadini che avevano veduto e che sapevano? Quando e come si impose il mito della Guerra Partigiana quale intangibile tabù della «Repubblica italiana nata dalla Re- sistenza»? Nessun lume al riguardo reca il recente «Sangue, sesso, soldi» (Rizzoli), che nulla aggiunge a quanto quarant’anni addietro tanto efficacemente scrisse l’insuperato Beppe Fenoglio. Il 70° del 1943 lascia prevedere la solita fiumana di celebrazioni: un biennio di chiacchiere retoriche, cortei, fiaccolate, lapidi. Ma il mito della guerra partigiana è anche una condotta forzata di ancora cospicui finanziamenti pubblici che alimentano una miriade di rubinetti locali, anche, se non soprattutto, in regioni che non l’hanno neppure vissuta. Il 70° diviene così il pretesto per la sempiterna manipolazione dell’informazione scolastica. Per la legge dei vasi comunicanti essa sale anche ai piani alti delle istituzioni, che obtorto collo e pro bono pacis non si sottraggono a omaggi d’occasione ed eludendo il nucleo vero del quadriennio corso tra il 25 luglio 1943 (defenestrazione di Mussolini) e il del 10 febbraio 1947 («trattato di pace» ovvero la perdita della sovranità nazionale), lasciato tra parentesi dalla avvizzita retorica istituzionale sul 150° del Regno d’Italia (o unificazione nazionale che dir si voglia). Alla radice del mito vi è un fatto culturale sul quale occorre riflettere: nell’immediato dopoguerra la Democrazia Cristiana, che aveva modesti meriti «partigiani» da accampare Settant’anni fa prendeva le mosse, specie nelle zone alpine, la Resistenza. Subito il movimento trova scrittori e protagonisti pronti ad enfatizzare i successi e gli atti di coraggio e, allo stesso tempo, mettere la sordina sulle miserie e sulle atrocità che ogni guerra comporta. La «memoria» zoppa della Resistenza ha trovato, nel cuneese, in Giorgio Bocca e soprattutto in Nuto Revelli degli appassionati testimoni. Più appassionati che precisi. Come dimostra il caso – tragico e curioso – del capitano Giuseppe Scagliosi D di Aldo A. Mola a un decennio Giampaolo Pansa ha narrato alcuni aspetti della «guerra partigiana» e della scia di sangue che ne fluì per mesi dopo la resa tedesca e il crollo della Repubblica Sociale Italiana. Vi ha anche polemizzato con l’«Uomo di STORIA IN RETE | 38 Cuneo», cioè Giorgio Bocca, secondo Pansa «esempio perfetto dello schema mentale che ispira i Gendarmi della Memoria». Però sin dal 1966 nella «Storia dell’Italia partigiana» (Laterza), proprio Bocca aveva pubblicato righe coraggiose (cancellate nelle edizioni successive) persino sull’impiego della tortura dei «nemici» da parte dei «partigiani»: «I garibaldini in Valle Varaita usano sistematicamente fucilazioni simulate; uno dei loro Partigiani in marcia