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La scuola rappresenta uno dei luoghi principali in cui si diventa
uomini, anzi è la prima comunità in cui si apprende l’arte
dell’amicizia civile, in una comunità di relazioni e di testimonianza.
Con lo straordinario successo dell’evento del 10 maggio scorso
la Chiesa è riuscita a guardare la realtà della scuola, a intercettare il
senso di fatica che testimonia e l’importanza che
riveste per la gente, per le famiglie, per i giovani.
non lasciamoci rubare
l’amore per la scuola
di roberto Presilla
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I
l 10 maggio scorso papa Francesco ha incontrato il
mondo della scuola italiana in una festa per molti versi
eccezionale. È stata forse la più grande manifestazione di
sempre del mondo della scuola, se si guarda ai numeri; il
fatto è tanto più rilevante, in quanto la Chiesa in Italia
aveva invitato a partecipare a una festa, a un incontro tra
il Papa e tutti coloro che sono nella scuola: insegnanti, personale non docente, studenti, genitori. Non è stato, insomma, un
convegno di studi e nemmeno una manifestazione di protesta: è
stato un incontro gioioso, che ha coronato un lungo cammino di
preparazione.
La scelta educativa
Per inquadrare questo appuntamento dobbiamo ripercorrere il
cammino che la Chiesa in Italia ha compiuto in questi anni. Gli
orientamenti pastorali del decennio – Educare alla vita buona del
Vangelo – hanno portato a un approfondimento della scelta culturale che aveva segnato il decennio precedente. La comunicazione del Vangelo «in un mondo che cambia» legRoberto Presilla
geva la scelta dell’evangelizzazione – compiuta
è aiutante di studio presso l’ufficio nazionale dalla Cei sin dal primo Convegno ecclesiale
per l’Educazione, la scuola e l’università della nazionale di Roma 1976 (Evangelizzazione e
Conferenza episcopale italiana (Cei), ed è
promozione umana) – alla luce del mandato
docente di Filosofia contemporanea alla
espresso da san Giovanni Paolo II nella Novo
Pontificia università Gregoriana di roma.
millennio ineunte. Una Chiesa missionaria nel
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nuovo millennio doveva preoccuparsi anzitutto della cultura, di
quello che Taylor chiamerebbe la mentalità (mentality) diffusa. In
questa prospettiva, il IV Convegno ecclesiale di Verona nel 2006
proponeva un approccio che mettesse al centro la persona umana
e la «questione antropologica»: con la scelta dei cinque ambiti
(vita affettiva, lavoro e festa, fragilità, tradizione, cittadinanza)
diventava possibile una revisione della pastorale in senso antropologico: l’annuncio evangelico si rivolge all’uomo e pertanto l’azione pastorale della Chiesa deve avere l’uomo come criterio fondamentale.
È proprio quest’attenzione all’uomo a spiegare la scelta educativa di questo decennio. Se è vero che, come scrisse Tertulliano,
«cristiani si diventa, non si nasce» (cfr. Educare alla vita buona del
Vangelo, n. 26), l’educazione indica una pista concreta per evangelizzare l’uomo e la cultura. La sfida educativa, come recitava il
titolo del primo rapporto-proposta del Comitato per il progetto
culturale (Laterza, Roma-Bari 2009), è lo snodo attraverso il
quale mettere in pratica le intuizioni e i principi individuati nei
decenni precedenti. Il passaggio verso l’educazione indica la
necessità di prestare attenzione non solo alla riflessione teorica,
ma anche e soprattutto ai modi con cui rendere operative le
opzioni fondamentali già individuate, individuando modi in cui
determinate scelte possono diventare efficaci attraverso i cammini personali di vita.
La Chiesa in Italia risponde così a un problema-chiave del nostro
tempo: gli incontri tra culture e popoli diversi e la complessità
crescente del nostro mondo spingono molti a chiusure fondamentalistiche o populistiche. Mettere al centro l’educazione
significa invece rendersi conto che la miglior risorsa per capire il
reale non è la somministrazione di schemi preconfezionati:
occorre invece aiutare tutti, in particolare i giovani, a costruirsi
da sé una visione critica e a vivere una vita buona sulla base di
scelte fatte personalmente.
La speranza anima dell’educazione
Al centro di questa prospettiva sta un’antitesi che rappresenta un
vero e proprio fil rouge dal Concilio Vaticano II in poi e che
oppone la speranza, virtù teologale, alla paura, segno biblico del
peccato. Tra i molti testi che potrebbero essere citati, alcuni sono
particolarmente suggestivi, a cominciare dal celebre discorso di
san Giovanni XXIII per l’apertura del Concilio: «Nelle attuali
condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere
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altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si
confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori… A
Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti
di sventura… Nello stato presente degli eventi umani, nel quale
l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza»
(Discorso per la solenne apertura del Concilio ecumenico Vaticano
II, 11 ottobre 1962, n. 4).
San Giovanni XXIII richiama il valore della speranza contro la
tentazione ricorrente di ripiegarsi su se stessi o di chiudersi nella
nostalgia di un passato mitizzato. Lo stesso sguardo è presente
nelle espressioni dei suoi successori, specialmente all’inizio del
loro pontificato (dal «non abbiate paura» di san Giovanni Paolo
II al «non siamo soli» di Benedetto XVI, fino a papa Francesco e
al suo «abbiamo bisogno di vedere la luce della speranza»).
Benedetto XVI ha poi legato la speranza all’educazione: nella
Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione (21 gennaio 2008) scrive che «anima dell’educazione,
come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile» e
aggiunge che «l’accoglienza della proposta cristiana passa, infatti,
attraverso relazioni di vicinanza, lealtà e fiducia». È chiara l’eco
di Paolo VI, che nella sua prima enciclica scriveva: «Bisogna farsi
fratelli degli uomini nell’atto stesso che vogliamo essere loro
pastori e padri e maestri» (Ecclesiam suam, 90).
Questo affresco rapidamente tratteggiato è lo sfondo su cui leggere il laboratorio nazionale La Chiesa per la scuola (Roma, 3-4
maggio 2013): l’interesse per tutta la scuola è volto a superare
chiusure e diffidenze di sapore ideologico, giustificate secondo
alcuni dalla scarsità di risorse. Le contrapposizioni tra scuole statali e paritarie, tra scuola e università, tra Stato ed enti locali sono
esse stesse un sintomo della difficoltà a mettere a fuoco la questione educativa in quanto tale e il ruolo della scuola in questo
ambito. Contro questo atteggiamento la Chiesa richiama alla
necessità di un «investimento di carattere culturale e morale, ma
anche di carattere materiale ed economico» (O. Grassi, in
Segreteria Generale della Cei, a cura di, La Chiesa per la scuola,
EDB, Bologna 2013, p. 51) e soprattutto al fatto che «la scuola
fa parte – una parte decisamente essenziale – del bene comune»
(mons. G. Ambrosio, in La Chiesa per la scuola, cit., p. 53).
«Per educare un figlio ci vuole un villaggio»
Dal laboratorio nazionale è partito un percorso che ha coinvolto
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le diocesi, le associazioni, le parrocchie e le scuole, costruito attorno a otto parole-chiave (educazione, insegnanti, Europa, umanesimo, generazioni e futuro, autonomia e sussidiarietà, comunità,
alleanza educativa). È questa mobilitazione diffusa a spiegare, in
ultima analisi, lo straordinario successo dell’evento del 10 maggio:
la Chiesa è riuscita a guardare la realtà della scuola, a intercettare
il senso di fatica che testimonia, però, l’importanza che la scuola
riveste per la gente, per le famiglie, per i giovani.
Durante l’incontro papa Francesco ha richiamato quattro ragioni del suo amore per la scuola: perché la sua maestra gli «ha insegnato ad amarla», «perché è sinonimo di apertura alla realtà»,
perché «è un luogo di incontro», «perché ci educa al vero, al bene
e al bello» (Discorso al mondo della scuola italiana, 10 maggio
2014). Il rapporto con l’insegnante, che deve amare la scuola e
deve rimanere per primo aperto alla realtà; l’incontro tra persone
diverse: insegnanti, genitori, studenti, presidi ecc.; i contenuti,
che non sono mai neutri ma sono o positivi o negativi.
Come dice il proverbio africano, «per educare un figlio ci vuole
un villaggio»: così papa Francesco ha sottolineato il rapporto tra
scuola e famiglia, un rapporto centrale per tutte le scuole.
Autorevoli studi sottolineano come le scuole di maggior successo
sono quelle che riescono a coinvolgere i genitori nel cammino
educativo dei figli. In modo analogo, è dimostrato che i figli
seguiti dai genitori hanno un maggior successo a scuola: il villaggio, sede della scuola e comunità di famiglie, deve essere coinvolto in toto nell’impresa di educare i “figli”. In questo modo si sottolinea la generatività dell’educare (cfr. Educare alla vita buona del
Vangelo, n. 27): il villaggio come comunità di famiglie – la polis –
diventa lo sfondo della scuola, proprio perché la scuola è parte del
bene comune. La presenza della sen. Stefania Giannini, ministro
dell’Istruzione, Università e Ricerca, ha confermato il senso anche
“politico” dell’evento: la Chiesa si interessa della scuola e invita
tutti a farlo. L’attenzione crescente per la scuola è un primo risultato, a un tempo civile ed ecclesiale, di questo percorso.
La lingua della mente, la lingua del cuore e la lingua
delle mani
Nelle battute conclusive, papa Francesco ha augurato a tutti «una
bella strada nella scuola, una strada che faccia crescere le tre lingue, che una persona matura deve sapere parlare: la lingua della
mente, la lingua del cuore e la lingua delle mani».
Questa attenzione alle tre dimensioni con cui si comunica sugdialoghi n. 2 giugno 2014
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gerisce un cammino ulteriore, che ha come tappa immediata il
prossimo Convegno ecclesiale nazionale di Firenze 2015. Il tema
del convegno – In Gesù Cristo il nuovo umanesimo – ci invita a
elaborare criticamente le complesse vicende, a volte mirabili a
volte nefaste, che hanno interessato l’umano negli ultimi secoli.
Costruire un nuovo umanesimo in Cristo implica appunto una
crescita nelle tre lingue in cui la scuola e la formazione professionale – da ricordare qui in modo non retorico – possono formare le nuove generazioni.
Occorre costruire insomma una visione armoniosa, che apra alla
realtà della persona e del corpo, oltre le ideologie – come quella
del gender – che tendono a colonizzarli, a bloccarli entro schemi
ideali. La scuola rappresenta uno dei luoghi principali in cui si
diventa uomini, anzi è la prima comunità in cui si apprende l’arte dell’amicizia civile, in una comunità di relazioni e di testimonianza. Non sfuggirà al lettore una certa assonanza con un linguaggio usato a volte per descrivere la comunità ecclesiale, assonanza che suggerisce una vicinanza maggiore di quella che a volte
siamo disposti a scorgere. Proprio per questo sembra opportuno
chiudere con le stesse parole usate da papa Francesco: «Non
lasciamoci rubare l’amore per la scuola!».
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non lasciamoci rubare l`amore per la scuola