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CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 13
DOMENICA 9 AGOSTO 2015
Terra straniera
Orizzonti Filosofie
di Alessandra Coppola
{
Il mito del multiculturalismo
«Il multiculturalismo non è fallito e non ha
trionfato: non è mai esistito». Se lo dice Hanif
Kureishi (in un’intervista a «El País»), bisogna
appuntarselo, perché questa è — da Il Budda
delle periferie in poi — la materia dello scrittore
anglopachistano. «Abbiamo — continua — una
società monoculturale dove domina il
neoliberismo. Non vedo altro. Quel che c’è è una
società multirazziale all’interno dello stesso
sistema, e non sembra che ci siano alternative».
Temi Come affermare
che qualcosa non esiste?
Se non c’è una realtà
di riferimento non ci si può
esprimere a riguardo. O sì?
La questione che arroventa
l’estate dei filosofi europei.
Con qualche ironia
Diana Al-Hadid (1981, Aleppo, Siria)
Nolli’s Orders (2012; installazione, acciaio,
intonaco, stucco, fibra di vetro, legno,
gommapiuma, alluminio, vernice acrilica),
Courtesy Marianne Boesky Gallery, New York
di GIOVANNI VENTIMIGLIA
M
olto rumore per nulla. Letteralmente. Nell’estate dei
filosofi, infatti, impazza
niente di meno dell’«essere» e, soprattutto, niente di
più «del niente». Da maggio ad agosto il
programma dei convegni, dei seminari
per dottorandi, delle Summer School di filosofia ha per filo conduttore proprio (il)
«niente» (e il suo miglior nemico: l’essere). Da Lugano (15-16 maggio) ad Ascona
(24-29 maggio), da Bergamo (1-3 luglio) a
Ginevra (4-5 luglio) fino all’imminente
Summer School di Grado (dal 24 al 29
agosto prossimi) — presenti le massime
autorità al mondo nel campo della metafisica come Enrico Berti (Padova), Kit Fine
(New York), Peter van Inwagen (Notre Dame), Anthony Kenny (Oxford), Kevin Mulligan (Ginevra) — i dibattiti dei filosofi
vertono sul «niente» e sui modi per distinguerlo dall’essere.
Sono gli eredi, di solito ormai solo anglosassoni, della Magna Grecia che, lasciatosi alle spalle già da tempo il nichilismo, non hanno tuttavia abbandonato
l’interesse per il nulla. Nella sua forma
breve il problema delle cose che non esistono è il seguente: 1) non esistono e 2) lo
dicono tutti (che non esistono).
Tutti noi, per esempio, diciamo che
Lord Voldemort, il mago oscuro della saga
di Harry Potter, «non esiste». Di più, siamo fermamente convinti della verità di
questa frase. Ora però, una frase è vera
quando corrisponde alla realtà ed è falsa
quando non corrisponde alla realtà. A
questo punto nasce spontanea la domanda: a quale realtà corrisponde la frase
«Lord Voldemort non esiste»? Proprio
perché non esiste, non vi può essere niente nella realtà che renda vera la frase «Lord
Voldemort non esiste». Eccoci giunti subito a un bivio: o eliminiamo la «non-esistenza» dal nostro linguaggio, oppure le
facciamo posto in qualche modo nella realtà. In altre parole, sull’argomento «nulla», linguaggio e realtà non possono convivere, quindi o cambiamo il linguaggio o
cambiamo la realtà (estendendola in qualche modo anche alle cose che non esisto-
Essere o non-essere è il problema
Tanto rumore per (il) nulla
i
Calendario
Il prossimo appuntamento
con il dibattito ontologico sul
tema dell’essere
e del non-essere,
Contemporary debate in
ontology, si svolgerà presso
le sale del Grand Hotel di
Grado dal 24 al 29 agosto,
organizzato dalla
International Summer
School in Ontology (Isso):
Per informazioni:
http://issogrado.com
Bibliografia
Emanuele Severino si
sofferma su questi temi nel
saggio Intorno al senso del
nulla (Adelphi, 2013). Se ne
occupano anche Barry Miller
in Dall’esistenza a Dio. Una
dimostrazione filosofica
contemporanea (traduzione
di Ciro L. De Florio, Carocci,
2013) e Francesco Berto in
L’esistenza non è logica. Dal
quadrato rotondo ai mondi
impossibili (Laterza, 2012).
Saggi non tradotti in Italia:
Graham Priest, One (Oxford
University Press, 2014); Saul
A. Kripke, Reference and
Existence (Oxford University
Press, 2013)
no). Ebbene, chi si cimenterà in queste
due impresucce da niente? I filosofi, ça va
sans dire!
La corrente più accreditata e persino alla moda, almeno fino a qualche tempo fa,
era quella di Frege, Russell e Quine, la
quale, seppure con qualche differenza al
suo interno, in proposito non mostrava
dubbi: bisognava correggere il linguaggio.
Così, una proposizione come «Pegaso (il
cavallo alato della mitologia greca) non
esiste» andrebbe riformulata più correttamente secondo loro nei termini seguenti:
«La proprietà essere-pegaso non è istanziata nemmeno una volta», ovvero «nulla
pegasizza». Come si vede, il predicato
«non esiste» (della frase «Pegaso non esiste») è magicamente scomparso.
E tutti vissero felici e contenti. Il problema è che, pur felici, non si capivano fra loro. Se il linguaggio, infatti, ha tra i suoi
scopi principali quello di rendere possibile la comunicazione fra gli uomini, che cosa se ne fanno questi di un linguaggio in
cui, pur di evitare di usare le semplici parolette «non esiste», ci si arrampica in incomprensibili quanto improbabili «nulla
sirenizza» (al posto di «le sirene non esistono») e «nulla cerchioquadratizza» (invece di «i circoli quadrati non esistono»)?
E potrebbe mai la figlia piccola di un seguace di Quine, svegliatasi di notte per
aver sognato Lord Voldemort, sentirsi rassicurata da un padre che dicesse: «Non temere bambina mia, la proprietà lordvoldemortizzare è istanziata zero volte»? Temo
che alle due di notte non sia precisamente
la frase più indicata per sperare di mettere
a letto la figlia e tornare a dormire.
Insomma, ci sono situazioni in cui
«non esiste» è proprio un’espressione insostituibile. Non resta, a questo punto, visto che non si può cambiare così facilmente il linguaggio, che provare a cambiare la realtà (o meglio il catalogo di ciò
che esiste), includendovi in qualche modo
anche gli oggetti non esistenti (precisamente quelli che renderebbero vere le frasi del tipo «Lord Voldemort non esiste»). È
quello che ai nostri giorni, in polemica
con Quine e i suoi seguaci, hanno fatto, tra
SSS
Tesi
AFFAMATI
DI SOLITUDINE
di DONATELLA DI CESARE
L
a solitudine è sempre più una
condizione sconosciuta, se non
una terra incognita. La parola
ha assunto una coloritura negativa,
divenendo sinonimo di disperazione,
abbandono, squallore. Soprattutto si
confonde la solitudine con l’isolamento. Ma essere soli non significa essere
isolati. Da quando la solitudine è divenuta tecnicamente impossibile, o
quasi, si finisce per cercarla saltuariamente in località recondite, nascoste e inaccessibili. Come se la solitudine fosse il genio del luogo. Per il resto
si subisce, non di rado senza saperlo,
un isolamento brutale, che si risolve
nella dispersione di sé, talvolta persino nel proprio annullamento. Si è
isolati nel mezzo di una moltitudine,
reale o virtuale, segnata e lesa dall’isolamento. Eppure tutti hanno l’esigenza di essere soli — ciascuno a suo
modo. Non trovare più la via della
propria solitudine, non riuscire a rimanere con se stessi, vuol dire non
poter più comunicare con gli altri.
Saper essere soli e saper dialogare
vanno di pari passo.
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gli altri, seppure in modi diversi, alcuni filosofi intervenuti ai convegni sopra menzionati, come Francesco Berto (Amsterdam), Alberto Voltolini (Torino), Kristopher McDaniel (Syracuse), Brian Embry (Toronto).
Alcuni di essi distinguono, con Meinong, «esistere» da «essere», sostenendo
che gli oggetti non esistenti non «esistono», ma «sono». Bene, ma se sono, «dove
sono» precisamente, dal momento che di
certo non esistono nel mondo materiale?
E qui le risposte rispolverano di solito i
«mondi possibili» di Leibniz, il «terzo regno» di Meinong, quando non direttamente il «mondo delle idee» di Platone: i
personaggi che non esistono, come Lord
Voldemort, Geronimo Stilton, Percy Jackson, insieme a cose come il valore dell’onestà, l’ideale della meritocrazia, l’idea
di giustizia «sarebbero» tutti lì. Seconda
stella a destra, questo è il cammino.
Ora però, a parte il fatto che l’esistenza
dei possibili, ossia di identità senza effettiva entità, è, appunto, tutto tranne che
scontata, resta sempre il problema della
bambina che si sveglia nel cuore della notte: sarà rassicurata, stavolta, nell’ascoltare
il papà seguace di Meinong che le dice:
«Lord Voldemort è ma non esiste»? Sospetto che, pur non sapendo nulla di filosofia, la piccola obietterebbe: «Ma papi,
insomma, c’è o non c’è?».
Non avrebbe tutti i torti, anzi la sua reazione sarebbe del tutto sana, se si considera che l’incapacità di distinguere ciò che
esiste da ciò che non esiste è precisamente
il sintomo di una patologia che, a chiamarla con il suo nome, si definisce «psicosi». Così, in un tempo in cui le ore di
esposizione ai display e ai mondi fittizi superano ormai quelle passate nel mondo
reale, le discussioni dei metafisici sulla
non-esistenza e la sua distinzione dall’esistenza, al di là dei loro esiti, suonano come una forma di resistenza umana contro
la tendenza globale psicotica, tipica di chi
ormai non distingue più facilmente tra la
realtà e la finzione, il reality e lo show, l’essere e il non essere.
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Essere o non-essereè il problema Tanto rumore per (il) nulla