Francesco Capuzzello
Romanzo CAPITALANDIA Cap. 8—1 ^ pag.
CAPITOLO 8
CELESTE
Celeste, elettrizzata per i preparativi della partenza e contenta di non dovere lasciare
solo il povero Peppe, che doveva pure avvertire anche se era certa che si sarebbe lasciato
portare da lei ovunque, compose il numero telefonico della villa per dare la notizia alla madre.
A Mondello Anna fingeva di essere sempre indaffarata, ma la sua occupazione
principale era di rendere piacevole a Sesto la permanenza lì e per nulla indispensabile
allontanarsene.
A questo scopo aveva parlato in segreto con suo padre, al quale aveva imposto che
scoprisse l'autore del delitto di Cesco e che cosa si nascondesse dietro la morte
apparentemente naturale del Professore.
Il vecchio medico aveva capito subito il vero interesse della figlia, ma non voleva
ammetterlo neppure a se stesso né, tanto meno, desiderava darle prova della sua
comprensione. Egli, infatti, pur rendendosi conto che lei aveva la sua stessa natura passionale,
non ammetteva affatto che una donna si lasciasse trasportare dai sensi come un uomo. Per lui
la donna doveva avere una moralità superiore e, proprio per ciò stesso, capace di resistere alle
tentazioni, anche se, da medico, per molti malesseri, alle donne estranee prescriveva maggiore
attività sessuale, come se avesse aumentato la dose di un farmaco. Ma, da padre, non riusciva
a liberarsi dell'immagine tradizionale della donna che, nella sua educazione, era più
coincidente con quella della Madonna che della madre. Perciò fu pronto a fornire alla figlia le
giustificazioni morali delle sue richieste, quali il legittimo desiderio di giustizia per la cara
Celeste che, altrimenti, non si sarebbe mai rassegnata e la ricerca della verità per un uomo che
di essa aveva fatto la ragione della sua vita.
Dopo aver parlato con il padre, Anna non si curò più tanto né di nascondere la sua
passione per Sesto, né di tenere nascosto lui. Anzi, sembrava che volesse rendere tutto palese,
come una sfida o come sfoggio di potere.
- Sesto, per favore, rispondi tu al telefono.
- Ma...se mi domandano chi sono?
- Di' che sei il giardiniere o chi vuoi.
Malvolentieri il giornalista rispose al telefono e ciò gli rinforzò
giunto il momento di togliere gl'indugi.
l'opinione che era
- Pronto. - Si limitò a dire con tono e con voce incerta, che non osava camuffare del
tutto.
- Chi parla? Mi scusi, forse ho sbagliato numero, è casa Aldisio?- Cantò la voce di
Celeste.
- Sì. - Ammise Sesto nella speranza di non essere riconosciuto.
- Ma... chi parla?
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- Il giardiniere.
- No, non è... . Ma..., tu sei Sesto, che ci fai lì? Domandò lei con tono allegro, che per lui era la prova che ignorava tutto, persino
l'incidente, del quale suo padre invece era certamente a conoscenza.
- Mi trovo qui...- disse, come per dire per caso, pur rendendosi conto di quanto ciò
fosse stupido.
- Domani ci trasferiremo anche noi; verrai a trovarmi?
- Sì, certo. Ti passo tua madre.
Anna, ovviamente, non era d'accordo né che padre e figlia venissero, né che
portassero Peppe, e lo gridò a telefono senza dare giustificazione e con voce alterata dall'ira.
A Sesto, invece, venne in mente di assicurarsi di potersi recare nell'abitazione del
Professore per cercare ciò che vi avesse nascosto.
- Dì a tuo marito che se ha chiuso la casa del Professore me ne lasci, per favore, la
chiave.
Anna, dopo aver riferito ciò a Celeste, si calmò ed anzi le fece la lista di ciò che
doveva portare.
Ovviamente, concluse mentalmente Sesto, aveva intenzione di seguirlo in paese. No,
non era possibile. Quella donna, che pure gli piaceva, lo stava ossessionando e non lo avrebbe
fatto lavorare. Doveva trovare un modo per liberarsene senza offenderla e senza renderla
cattiva.
Quel giorno stesso, ne trovò l'occasione. Dopo il pranzo, come ormai di consueto,
Anna lo portò in camera da letto per spalmargli un unguento sulle ferite. Per tale operazione, lo
denudò con molta lentezza, come se le ferite non fossero già cicatrizzate e lui fosse ancora
dolorante. Quindi iniziò a spalmare qualcosa che non aveva il solito lezzo officinale, bensì un
piacevolissimo profumo. Quindi trasformò, come di solito, pian piano i gesti in massaggi, a volte
lievi ed a volte frenetici.
Lui, immobile, pareva che continuasse a subire dolorose ed indispensabili cure, quasi
ignaro dei mutati gesti, con gli occhi chiusi.
Lei ansava, pur controllando il respiro, scossa di tanto in tanto da tremiti ed
ondeggiando lentamente tutto il corpo.
Esasperatamente lente, egli fingeva ancora di subire quelle cure. Si sentì intimamente
avvolto da un eccezionale calore, stretto da insospettabili muscoli che gli facevano sprizzare
l'origine della vita e quindi munto fino all'ultima stilla, finché la udì esalare un respiro, quasi
fosse l'ultimo, tanto giacque a lungo ed immobile sopra il suo corpo.
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Quando la sentì passare dalla spossatezza al sonno, la estrasse da sé, pian piano,
con ambe le mani e la ripose accanto ancora dormente. Attese qualche minuto per assicurarsi
che continuava a dormire e si alzò
Mentre avviava il motore dell'automobile, sentì la sensazione di fuggire da chi, infine,
lo aveva aiutato e gli aveva donato ore di grande e piacevole passione. Ne ebbe rimorso.
Scrisse su un foglietto autoadesivo poche parole di ringraziamento non compromettenti, lo fissò
sul parabrezza della Mercedes di lei e partì.
Fuori sentì il piacere della liberazione e gli suonò all'orecchio il canto della voce di
Celeste. Come avrebbe fatto a guardarla negli occhi senza sentirne vergogna? Ma di che, poi, e
perché? Non aveva tradito nessuno. Perché mai il piacere deve essere considerato
peccaminoso? Perché mai l'uomo doveva essere destinato alla sofferenza del non avere, del
non ottenere e della rinunzia per non sentirsi immondo?
No, la vita offre ben poche cose con poco sacrificio, perché non approfittare di quelle
che venivano porte? Eppure continuava a sentirsi colpevole. Ma era lui colpevole, o
l'educazione, la morale, le convenzioni che avevano represso la stessa natura, rendendo la vita
una complessità inestricabile di norme vincolanti, pur essendo certo che pochi esseri umani
possedevano la forza di non violarle? Ed era certo che il Bene consistesse nel non violare le
norme e non nel rispetto della natura, purché non producesse altri mali? Da quanti secoli l'uomo
si arrovellava il cervello per trovare quelle risposte e non aveva trovato altro che una diversità di
norme che avevano la valenza diversificata per luoghi, quasi che la vita avesse origine diversa
tra le stoppie o sulle brughiere, sui deserti o sui ghiacciai, nei mari o sui monti, in Asia o in
Europa.
Era giunto nel punto in cui aveva incontrato per la prima volta Peppe. Soltanto in quel
momento gli sovvenne che Celeste lo avrebbe portato a Mondello e ne fu lieto. Tuttavia ebbe la
sensazione, chissà perché, che gli venisse a mancare un aiuto. Avrebbe detto a Celeste di
lasciarlo con lui e che poi li avrebbero raggiunti a Mondello. Doveva quindi recarsi a casa di
Celeste, anche per ritirare la chiave della casa del Professore.
Vedendo il bar dove aveva incontrato il cane randagio che lo aveva seguito, volle
domandare al cameriere se lo avesse visto. Il cameriere non c'era ed il proprietario gli disse
che aveva prestato servizio soltanto per pochi giorni e che era andato via senza farsi pagare.
Poi, aveva aggiunto con uno strano risolino e toccandosi un orecchio: - Quelli come lui, qui non
trovano clienti.
- Ah! - Commentò Sesto, ma non certo per approvarne il tono sarcastico, ed aggiunse : Potrebbe spedirgli quanto gli spettava; non le ha dato i suoi dati anagrafici?
Il proprietario lo guardò come se avesse detto una grande sciocchezza.
- Non sa neppure come si chiama?
- Si faceva chiamare Toni, ma forse avrebbe preferito Tonia.
Sesto, senza avere neppure chiaro il motivo, volle insistere nei rimproveri, forse perché
odiava coloro che deridono gli omosessuali.
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- Lei, quindi, fa lavorare nel bar il primo che viene, senza curarsi di sapere chi sia, senza
richiedere il libretto di lavoro e senza accertare che sia esente da malattie infettive.
- E a lei che gliene importa? E' forse un medico sanitario o un ispettore dell'INPS?
Sesto non prese neppure il caffè che aveva ordinato, gli voltò le spalle con disprezzo e,
mentre lo sentiva sbraitare, ripartì in automobile.
In quel momento, gli venne incontro correndo il cane randagio, come se avesse sentito il
suo arrivo e temesse che partisse senza di lui. Rallentò e gli aprì la portiera accanto. Il cane salì
con un balzo e per gratitudine, affetto e rispetto, gli baciò la mano.
- E' bene che ti metta un nome, te lo meriti più di molti uomini. Giacché io mi chiamo
Sesto, tu sarai Settimo. Ti piace? A me, sai, non hanno mica domandato se Sesto mi piacesse,
me lo hanno imposto. A volte mi domando se anche voi non abbiate un destino che rende
alcuni fortunati ed altri derelitti. Tu, ad esempio, sei un trovatello. Magari avrai provato la fame
ed il freddo, ma ora il destino ha voluto che trovassi un compagno, un amico che provvederà a
te. Pensa invece ai tuoi compagni, a quanti resteranno nelle campagne aspettando che venga il
contadino buono, che voi riconoscete facilmente, che dia loro un tozzo di pane rimastogli ed a
quanti, non sapendo che è domenica e che il contadino non verrà, si spingeranno fino al paese,
ai primi cassonetti dei rifiuti, ché più in là venite scacciati od accalappiati, nella speranza di
trovarne uno col coperchio aperto che contenga avanzi, anche se inaciditi dal caldo.
Il cane gli rileccò la mano e Sesto lo accarezzò sulla testa.
Giunto davanti alla villa di Celeste, Sesto aprì la portiera del lato di guida.
- Su, scendi. - Disse a Settimo. Questi guardò il padrone interrogativamente ed un po'
dubbioso, quindi, udita l'allegra accoglienza dei cani di Celeste, balzò fuori con sicurezza.
Anche Celeste, udito l'abbaiare dei cani e visto Sesto dal portico, balzò verso il viale per
andargli incontro.
Si salutarono con gli sguardi ed a lungo con le mani.
Quanto più fortunati erano i cani in ciò, ché liberamente manifestavano i loro sentimenti e
le loro passioni.
- Tuo padre è in casa?
- No.
- Sai se la casa del Professore è chiusa?
- Sì, ne ho la chiave. Ma... tu... aspetta, - gli disse prendendogli il volto tra le mani, - che
cosa ti è successo?
- Ormai è passato. Ho sbattuto contro una rete.
- Quando, come?
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- Non importa. Ormai sono guarito.
- Perché non mi hai chiamato dall'ospedale?
- Perché...non potevo. - Rispose dapprima, ma pensando che andando a Mondello
avrebbe saputo la verità, aggiunse: - Mi ha curato tua madre. Hanno tentato di uccidermi.
Celeste ammutolì. I suoi occhi cambiarono espressione, e da quel momento a Sesto
sembrò che gli parlasse con minore affetto di quanto invece ne riservasse al suo cane.
Seppe che Settimo era andato a cercarlo ogni giorno, certamente ovunque erano stati
insieme. Lei stessa lo aveva visto nei pressi dell'albergo e della casa del Professore, oltre che
qui nella villa.
Sesto avrebbe voluto invitare Celeste ad andare con lui a casa del professore, ma
non gli sembrò prudente dopo avere scoperto chi erano il padre ed il nonno.
- Se dovesse venire Peppe, digli, per favore, che mi venga a trovare o che si fermi qui.
Lo porterò io a Mondello.
- Perché? Volevo che mi aiutasse.
- Vorrei parlare con lui; ma se vuoi potremmo partire insieme.
- No, vado con papà.
- Dirai a Peppe di aspettarmi?
- Sì. Vieni, ti do la chiave.
Sesto entrò. Lei chiuse la zanzariera, lo guardò negli occhi e domandò:
- Quando hai avuto l'incidente?
- Lo stesso giorno che sono partito da qui.
Celeste non domandò altro. Distolse lo sguardo da lui nello stesso modo eloquente
con il quale lo aveva interrogato, come se avesse detto: ho capito.
Sesto, invece, non aveva il coraggio di guardarla, come se fosse l'aria della Sicilia a
tradurre gli sguardi in mute parole. Prese la chiave che gli veniva porta ed uscì. Il cane gli corse
dietro. Lui gli accarezzò la testa, gli aprì la portiera ed andò verso la casa del Professore.
Posteggiò lontano e si avviò guardingo nel timore che qualcuno riprovasse ad ucciderlo.
Pensò anche che sarebbe opportuno non essere visto dal Maresciallo "Strica", ma non aveva
modo di evitarlo se quello si fosse trovato a guardare dal balcone della Caserma, sperò quindi
che si trovasse fuori.
Osservò che altre orme si erano aggiunte sull'asfalto antistante lo scarrozzo, ma non
poteva soffermarsi a cercare di distinguerle nel timore di essere osservato dalla Caserma; si
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accorse però che il buco del tacco della ben marcata impronta femminile era rimasto. Avrebbe
sviluppato le fotografie che aveva fatte per osservarle meglio.
Istintivamente toccò il taschino della giacca cercando la minuscola macchina fotografica.
Era ancora là, ma v'era anche qualcos'altro che prima non aveva.
Entrò nell'antica stalla che era stata la casa del Professore, preceduto da Settimo;
richiuse la porta ed estrasse il contenuto del taschino: la macchinetta e le fotografie già
sviluppate che aveva scattate il giorno del delitto. Dietro quella della grossa impronta femminile
v'era un appunto a stampatello: " Impronta di scarpa femminile n°40, nuova, marca italiana,
calzata da persona del peso di circa ottanta chili ed alta circa 180 centimetri. La corona che vi è
impressa non risulta appartenente ad alcun marchio noto." Sesto osservò le fotografie e si
soffermò su una che certamente non aveva scattato. Era il particolare ingrandito di quella
corona citata nella nota. Un buon servizio fotografico eseguito da un laboratorio molto
attrezzato. Ma chi si era dato tanto da fare? Soltanto Anna aveva avuto la possibilità di tirar fuori
la macchinetta fotografica e, certamente, aveva fatto ricorso all'aiuto del papà o del marito, ma
quest'ultima ipotesi era meno probabile. Ma perché mai gli aveva procurato quei dettagli?
Probabilmente, come gli aveva promesso, per dimostrargli che era in grado di aiutarlo nel suo
lavoro senza che si allontanasse da lei.
Senza avvedersene si era seduto su una di quelle casse che erano gli unici arredamenti.
Il cane gli strusciava fra le gambe. C'era un bel fresco lì dentro. Si guardò attorno e si accorse
che le mura erano state ridipinte di bianco, il pavimento era stato ben lavato, i letti erano stati
asportati ed era rimasta soltanto quella cassa. Si alzò e vi guardò dentro. V'era soltanto la
vecchia serratura sostituita e la lunga chiave con lo stesso altrettanto lungo chiodo a cui era
stata appesa per chissà quanti anni. Guardando il pavimento si accorse che non era proprio
possibile scavare in fondo alla ricerca di ciò che vi fosse nascosto, senza un'adeguata
attrezzatura. Ma subito si dette dello sciocco. Giacché il pavimento era composto da vecchi e
grossi mattoni di cemento, ve ne doveva essere qualcuno che ricopriva una buca, ma per
scoprirlo era necessario batterli uno ad uno, affinché il rumore rivelasse il vuoto sottostante. Si
guardò ancora attorno alla ricerca di un qualunque attrezzo adatto. Non v'era proprio nulla.
Settimo era sparito.
- Settimo! - Chiamò a bassa voce. - Dove ti sei cacciato?
Si girò e lo vide sornione dentro la cassa.
- Su, esci fuori, che ci fai lì?
Si chinò per aiutarlo ad uscire e vide che stava annusando la
lunga chiave.
- Hai ragione, quella mi può servire.
Con essa, infatti, cominciò a picchiettare i mattoni attorno e, visto che sembrava adatta
allo scopo, riprese a farlo iniziando da una delle pareti.
Settimo, uscito dalla cassa, si divertiva a correre da lui fino all'estremità della stanza,
tanto velocemente che a volte lo sentiva scivolare sui mattoni. Aveva già picchiettato i mattoni
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della seconda fila ed era già stanco ed incerto che in tal modo riuscisse a sentire un vuoto
sottostante. Quei mattoni, infatti, dovevano essere molto doppi e per quello scopo sarebbe stato
necessario un martello.
Scoraggiato, si risedette sulla cassa. Settimo, gli si mise tra le gambe in cerca di
carezze e gli tirò dalle mani la chiave.
- Vuoi provarci tu? - Gli disse scherzando mentre se la portava nell'angolo più lontano,
dove c'erano i servizi igienici.
- Andiamo, può darsi che tu abbia ragione.
Giunto lì, il cane lasciò andare la chiave su uno dei mattoni al centro del quale v'era un
foro della stessa forma e grandezza della chiave. Sesto ve la infilò infondo e sollevò con forza.
Si sollevarono due mattoni. Era ben visibile un interruttore elettrico del vecchio tipo di porcellana
e con la chiavetta girevole. Accesa la luce, vide una scala di ferro lunga oltre tre metri che
giungeva al pavimento del vano sottostante e vi discese portandosi in braccio il cane.
Era la cantina dell'antico casato cui era appartenuta anche la stalla. V'erano antiche botti
e molte botiglie, ancora piene, impolverate e ricoperte di ragnatele. Di fronte si vedeva un
corridoio, verso il quale Settimo si avviò scodinzolando.
- Dove vai? Fermati. - Gli disse sottovoce, come se si sentisse un ladro.
Il cane si fermò all'intimazione, ma continuò a scodinzolare. Poco dopo si udì in
lontananza un cigolio, come di cardini di un cancello, e Settimo guaire leggermente mentre
scodinzolava ancor più.
Il guaito del cane doveva essere stato avvertito, oppure chi era entrato dall'altro lato
aveva notato la luce accesa.
Si udì, infatti, il rumore di passi affrettati e poi il cigolio del cancello e lo sbatter dei
battenti. Chi poteva essere entrato da quell'ingresso, che lui sconosceva, temendo più di lui
d'essere scoperto? Ormai era opportuno che conoscesse meglio il luogo. Infine, lui aveva avuto
la chiave dal proprietario e la presenza del cane gli dava sicurezza. Ma chissà se lo avesse
difeso in caso di bisogno, visto che aveva scodinzolato all'arrivo di uno sconosciuto. Ma era
davvero uno sconosciuto? I cani non si fanno ingannare dalle appparenze, né dai sospetti. Il
visitatore, quindi, era noto a Settimo che, però, era stato un cane randagio fino ad alcune ore
prima; quindi poteva avere scodinzolato ad uno qualunque che gli avesse dato del cibo o che,
semplicemente, avesse simpatia per gli animali. Il corridoio era lungo. Soltanto ora Sesto
notava che l'illuminazione, ch'egli stesso aveva accesa entrando dalla botola, proseguiva lungo
il corridoio. La galleria proseguiva ad ansa, poi con un'ampia curva a destra, un rettilineo,
un'altra curva a sinistra ed infine con un altro rettilineo lungo almeno cento metri ed infine il
cancello che aveva sentito cigolare. Chiuso con una serratura moderna e ben lubrificata. Vi
provò la chiave dell'ingresso avuta da Celeste. Non s'adattava punto. Al cancello s'interrompeva
l'illuminazione e due metri oltre anche la galleria che via via era divenuta sempre più stretta,
bassa ed irta. Era appena visibile un'altra scala di ferro.
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Romanzo CAPITALANDIA Cap. 8—7 ^ pag.
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Romanzo CAPITALANDIA Cap. 8—8 ^ pag.
Mentre col cane ritornava indietro, lui, giornalista del Nord, con la testa piena di fatti di
mafia e di storia della Sicilia, un po' confusa con i romanzi dei Beati Paoli, vi si sentì proprio al
centro.
Ritornò indietro e si soffermò nella cantina. Si trovava lì alla ricerca di qualcosa che non
sapeva, ma che non poteva essere che lì e non certo scavando sotto i mattoni che erano
identici a quelli della stanza superiore. Eppure lui aveva la fama di buon inestigatore. Doveva
soltanto osservare bene e riflettere. Ecco! Una sola botte era meno impolverata delle altre e non
aveva ragnatele. Provò a sollevarla e stava quasi per farla cadere, essendo vuota ed avendo
impresso al braccio più forza del necessario. Ecco, trovato! Un manoscritto. Un vecchio grosso
quaderno a quadretti, con la copertina nera, che usavano gli studenti degli anni sessanta. Se
era stato nascosto con tanta accuratezza doveva avere un certo valore ed era necessario
quindi...E se l'ignoto visitatore stesse cercando quel manoscritto? Lo avrebbe certamente atteso
all'uscita per levarglielo.
Sesto era in dubbio se rischiare di perdere il manoscritto cercando di scoprire chi
fosse il visitatore, o se attendere che quello si allontanasse per uscire. Ma, come poteva essere
certo che si fosse allontanato? Quindi, non aveva alternativa, doveva uscire con circospezione,
magari stando attento alla coda di Settimo che avrebbe potuto rivelare la presenzaa di chi,
almeno lui, a quanto sembrava, ben conosceva. Nascosto quindi il manoscritto sotto la camicia,
lasciò l'ex casa del Professore.
Mentre andava verso la sua automobile, si domandava dove avesse sbocco la
galleria che aveva scoperto e chi mai potesse avere la chiave del cancello, pur rimanendo vigile
ed osservando chi potesse tendergli un agguato.
Il sole era già tramontato, ma sembrava che la sua automobile ne avesse accumulato
gran parte del calore di tutto il meriggio, tanto che il cane esitò a salirvi.
Mentre metteva in moto il motore si domandò dove potesse andare. Non certo nel
locale albergo, né in quello di Palermo, sarebbe stato come notificare l'indirizzo ai suoi
attentatori. In quel momento Settimo si raddrizzò sul sedile rivolgendosi verso la strada e
scodinzolandogli in faccia. Si girò anche lui a guardare chi avesse attratto la sua attenzione e
dal lunotto posteriore vide Peppe che, con insolita andatura affrettata, cercava di raggiungere
l'automobile.
Per quanti altri Settimo avrebbe scodinzolato? Ora era sicuro che l'ignoto visitatore di
poco fa era proprio Peppe.
Lo fece entrare in macchina e Settimo dette libero sfogo alle sue carezze.
- Era forse il tuo cane?
- Un randagio non ha padrone.
- Eppure lui ha scelto me come padrone.
- T'illudi.
- Perché mai ti fa tanta festa?
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Romanzo CAPITALANDIA Cap. 8—8 ^ pag.
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Romanzo CAPITALANDIA Cap. 8—9 ^ pag.
- Sbagli anche tu. Il diverso non lo è in tutto.
- Perché sei scappato da lì sotto? Ero io in cantina.
Sesto, pur guardando avanti per guidare, s'avvide dello sguardo sorpreso di Peppe.
- Perché? - Gli domandò nuovamente.
- Le certezze di pochi sono spesso il dubbio di molti.
- Era da lì che il Professore spariva e ricompariva?
Peppe sorrise.
- Anche tu sai mentire. - Gli disse Sesto in tono scherzoso.
- La menzogna che non offende difende.
- Secondo te il Professore...
- Ucciso. - Rispose Peppe alla domanda non ancora posta.
- Tu sai chi e perché lo ha ucciso?
- Il nuovo.
- Ci risiamo con le risposte enigmatiche. Io sono sicuro che tu puoi rispondermi in modo
esplicito e chiaro, ma ancora non ho capito perché ti trinceri dietro questo linguaggio astruso.
No. - Aggiunse poi osservando che gli faceva segno di volere scendere dall'automobile, - Non ti
offendere. Io ti sono amico e ti voglio aiutare, perciò devi collaborarmi in modo esplicito e che ti
possa capire. Lo sai che hanno tentato di uccidere anche me? Guarda.
E così dicendo gli mostrò il reticolo delle ferite appena rimarginate sul viso e sul petto.
Gli occhi di Peppe domandavano come e quando, ma Sesto aveva intuito che nutriva
una sorte di ammirazione per Anna e temeva che, rispondendogli, col suo potente intuito
potesse captare la relazione avuta con lei.
- Chi, dunque, ha ucciso il Professore?- Volle domandare ancora una volta Sesto.
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Romanzo CAPITALANDIA Cap. 8—9 ^ pag.
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Romanzo CAPITALANDIA Cap. 8—10 ^ pag.
- Il nuovo. E' sempre riconoscibile, ma non sempre indica qualità superiore. Quando
guarirò, ti parlerò come vuoi.
Sesto capì che a nulla sarebbero valse altre insistenze e cambiò argomento.
- Hai parlato con Celeste?
- Sì.
- Vai con lei, o vieni con me?
- Dove con te?
- Già, hai ragione, anche se non sai perché. Non posso andare in albergo. Per ora
andiamo a casa di Celeste, decideremo dopo.
- In cantina. - Disse Peppe con l'intento di suggerire dove abitare.
- E' vero, ma...Don Calò sa della cantina?
- No. Il saggio scopre; l'ignorante non vede ciò che guarda.
- Vuoi dire che il Professore scoprì la cantina? Forse attraverso antichi documenti del
paese?
- Sì. - Rispose sorridendo Peppe in modo inequivocabile, come per ringraziare per
essere stato capito .
Sesto, in verità, stava per domandargli come mai lui ne fosse a conoscenza, ma se ne
astenne perché l'esperienza delle indagini gli suggeriva che non sempre è prudente o
conveniente dare ad intendere tutto ciò di cui si dubita o che s'intuisce.
Già da alcuni minuti aveva avviato l'automobile verso la casa di Celeste, ma prima di
arrivare, Sesto voleva sapere se Peppe era a conoscenza della vera storia di Don Calò e,
purtroppo, non trovava altro modo per scoprirlo che ponendo direttamente la domanda.
- Peppe, ascolta, ed intendimi a volo. Sai tutto di Don Calò?
Peppe parve sorpreso da quella domanda, tanto che istintivamente si voltò indietro,
come ad accertarsi chi stesse ad ascoltare, proprio dove stava seduto il cane che, vistosi fatto
segno di attenzione, la restituì a suo modo.
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Romanzo CAPITALANDIA Cap. 8—10 ^ pag.
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Romanzo CAPITALANDIA Cap. 8—11 ^ pag.
- Potere senza governo, governo del potere, religione senza fede, legge senza legalità,
ordine della violenza.Rispose Peppe a suo modo, e Sesto concluse:
- Uguale mafia. - Ma avrebbe voluto ancora una volta domandargli come facesse a
sapere tutto ciò lui, lui che era vissuto senza alcun rapporto con la popolazione, a casa, e
sempre in attesa o in compagnia soltanto della madre. Invece, poco prima di fermarsi davanti
alla casa di Don Calò, gli disse:
- Andiamo, quindi, in bocca al lupo?
- Porta fortuna.- Commentò sorridendo Peppe, scendendo dall'automobile assieme al
cane.
Ecco, diceva a se stesso il giornalista, gli stava accadendo ciò che accade a chiunque
voglia operare qui in qualunque modo; gira e rigira ci si trova davanti alla mafia, da cui si è
ignorati soltanto se si è ininfluenti sotto ogni aspetto, altrimenti si è costretti a richiederne la
collaborazione e, quindi a colludere con essa. Ma era proprio vero? Chi gli vietava di cercare
altrove le prove dei delitti, di non avere più rapporti né con Celeste, né con gli altri membri della
sua famiglia, anche se dovesse costargli la vita? Lui non aveva voluto evitare il rischio. S'era
imbattuto casualmente in Peppe e da lui, estraneo a tutto il resto, era derivato ogni altro
rapporto ed il primo contatto con la mafia. E non era ciò la prova che lì ci si imbatteva facilmente
nella mafia, e che dunque era talmente estesa che era impossibile evitarla? Ma che deduzione
era mai quella! Era tipica di coloro che volevano la separazione del Sud dal resto della
penisola, da un canto per una pretesa superiorità delle popolazioni nordiche e, d'altro canto, per
ottenere ogni vantaggio territoriale dalle migliori condizioni economiche raggiunte, come se ad
esse non avessero contribuito in vari modi, anche le pololazioni che ora disprezzavano.
Eccolo là, il soggetto dei suoi pensieri. E lui gli aveva persino attribuito una profondità
di pensiero ed una saggezza insolita. Ed insolita lo era davvero! Come potevano coesistere in
uno stesso uomo saggezza e spietatezza, amore per la famiglia e per la vita dei suoi membri e
disprezzo o indifferenza per quella altrui, capacità manageriali ed incuranza d'ogni norma
statale e morale. Ma quante personaltà riesce ad assumere uno stesso uomo?
Mentre pensava ciò, Don Calò gli venne incontro.
-Buona sera Dottore; come sta?- Domandò al padrone di casa il giornalista, che subito
rispose al suo stesso pensiero, maledicendosi delle sue stesse e molteplici personalità che
stava assumendo da quando era in Sicilia.
-Come i vecchi.- Rispose Don Calò.
-Celeste mi ha dato la chiave...
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-...della carretteria. Sì, me lo ha già detto. Ha trovato qualcosa d'interessante?
-Sono ritornato lì per descrivere meglio il luogo dove ha vissuto gli ultimi anni un vero
pensatore. Ho parlato con la mia redazione e mi è stato riferito che il Professore era noto tra i
migliori filosofi del nostro tempo, anche se non ha mai pubblicato alcun libro. Speravo di trovare
qualche appunto...(ne sentì il peso dentro le mutande)... ma non v'è rimasto nulla.
- Peccato! Della sua vita, quindi, non resta che quella scalcinata biografia. Anna le ha
dato l'originale?
- Sì, grazie. - E si sentì accaldare ricordandone le circostanze. Magari fosse stato ancora
capace di arrossire! Sarebbe stato il segno di un residuo di dignità. In quel momento era però
preferibile che il colore delle sue guance non lo tradisse.
- Preferisce un the freddo, una bibita alla menta od un latte di mandorla?- Cantò la voce
di Celeste che, entrata silenziosamente nella stanza, pareva che gli facesse la radiografia con i
suoi occhioni.
- Un latte di mandorla, non ne ho mai bevuto.
Il signore Aldisio indossava un abito bianchissimo e scarpe bianche e nere, non più di
moda. Il suo panama bianco con fascia nera, stando per un quarto fuori dal bordo del tavolo,
pareva attendesse d'essere preso. Ora sì che aveva l'aspetto del mafioso, od era il sapere che
dava consistenza all'immaginazione?
- Mi dispiace,- disse Sesto,- vedo che stava per uscire.
- Non c'è premura. Celeste ha voluto anticipare la partenza per Mondello. Ma lei, ora,
dove dimora? So che ha lasciato tutti e due gli alberghi ed in questo periodo è difficile trovare
una stanza senza prenotazione. Se lei permette, vorrei farle una proposta. Anna le avrà già
detto che non sopporto di stare a Mondello; ci sarei andato soltanto per non lasciarle sole, ma
se lei accetta di essere ospitato lì, posso ben fare a meno di andarci io.
- Ma...
- E' soltanto uno scambio di favori, la sua protezione per le mie donne, in cambio
dell'ospitalità. Ben inteso che lei è libero di svolgere il suo lavoro, di lasciare la villa e di tornarvi
quando vuole.
- Ma...la signora Anna...
- Sarà felicissima di non avermi tra i piedi. Così U Lo..., così Peppe avrà compagnia e lei
sarà al sicuro, voglio dire che non avrà bisogno di trasferirsi da un albergo all'altro. Si meraviglia
di questa proposta? Un estraneo tra due donne? Alla mia età la gelosia è acqua passata, si ha
più fiducia e si è più sicuri di sé.
Celeste aveva sicuramente ascoltato la proposta del padre, ma finse, entrando, di non
avere sentito.
Francesco Capuzzello
Romanzo CAPITALANDIA Cap. 8—12 ^ pag.
Francesco Capuzzello
Romanzo CAPITALANDIA Cap. 8—13 ^ pag.
Peppe, invece, proprio lui che sembrava il meno interessato, disse a Sesto di
aspettarlo ed uscì, ritornando circa mezz'ora dopo con una valigetta elegante che, fu evidente
dallo sguardo di Celeste, era stato un regalo di lei a Cesco.
In realtà, Peppe, non era andato soltanto a casa a prendere ciò che gli serviva per la
permanenza a Mondello, ma s'era recato velocemente a casa del Professore attraverso il
passaggio segreto.
Verso le ore ventitré, Sesto, Celeste e Peppe, preceduti da una telefonata di Don
Calò, giunsero a Mondello.
Anna, nonostante ogni sforzo per nascondere il suo disappunto per la presenza della
figlia e di Peppe, continuò per qualche ora a rivolgersi a Celeste con tono sferzante.
Peppe, che evidentemente conosceva la villa, espresse il desiderio di occupare una
stanzetta dello scantinato e suggerì per Sesto la stanza accanto, ma Anna gli assegnò una
stanza con aria condizionata del primo piano ed alla figlia la camera matrimoniale del piano
terreno, riservando per sé l'altra matrimoniale del piano superiore.
Per Sesto era evidente la strategia da lei adoperata per venirlo a trovare durante la
notte; temeva che la manovra fosse stata evidente anche per Celeste, ma non volle soffermarsi
a pensarci. Appena fu solo nella sua stanza, tirò fuori, finalmente, il manoscritto che aveva
tenuto dentro i pantaloni ed assieme ad esso un sospiro di sollievo. Il sudore aveva intriso la
copertina e sbiadito la scrittura della prima pagina.
Francesco Capuzzello
Romanzo CAPITALANDIA Cap. 8—13 ^ pag.
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