Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 12—1 ^ pag. CAPITOLO 12 TERREMOTO PSICOFISICO Sesto aprì gli occhi. La Duchessa non c’era più ed al posto del tetto a vele l’alba disegnava il cielo. Si guardò attorno. Macerie. Mura diroccate, pareti sbriciolate ed altre rimaste verticali soltanto per reggere un’effige sacra. Aveva sete. Che fosse stata distrutta Capitalandia? Con quale moneta avrebbe fatto erogare un poco d’acqua da un rubinetto? E se non fosse Capitalandia e si trovasse invece nella sua vecchia Italia, ove ancora l’uomo aveva un valore di per sé e lo si assisteva e dissetava anche senza il compenso di una moneta? Più guardava attorno a sé e più si sentiva rinfrancato nel costatare di non trovarsi in quell’orribile e disumana città. Già! Rinfrancato. Cioè libero, riscattato dalla schiavitù del capitale. Gli colava sangue dalla testa, ma una mano pietosa glielo tamponava senza avergli frugato nel collo alla ricerca dell’assicurazione, mentre un’altra gli accostava alle labbra un bicchiere di fresca acqua. Sentì il pianto di un bimbo, il correre di altri soccorritori, i rintocchi tristi di una campana mossa da un ulteriore tremito della terra e le orazioni a fior di labbra di quanti si trovavano vicini. Orazioni. “La religione è una necessità per non soccombere ai bisogni insoddisfatti, alle aspirazioni deluse, alle aspettative di difficile realizzazione. ”, aveva detto la Duchessa e lui s’era ricordato dell’altra sentenza, ancor più stupida, che la religione è l’oppio dei popoli. Era la super valutazione del materiale a discredito dell’immateriale o dello spirito, quasi che l’uomo avesse soltanto il fisico e non già anche una ragione, un “pensiero” assolutamente immateriale, che è alla base dei sentimenti e, quindi, della religiosità. Ma che ne sapevano di quel bisogno interiore, che nella disperazione pare un filo d’erba cui ci si abbarbica, ma senza del quale si precipita, ma anche di quella luce indescrivibile che hanno gli occhi di coloro che vedono al di là dei bisogni e dell’utile? Che cosa, della pace, della serenità, della felicità che infondono quel bisogno interiore e quella luce che non seguono le leggi dell’utile? Sesto non riusciva ancora a distaccarsi totalmente dalle sgradevoli sensazioni provate a Capitalandia, la più sgradevole delle quali era il vivere in una condizione costante di mercato. Là dove la vita è un mercato, anche l’uomo è una merce, mercede, prezzo del vivere a chi te ne lascia facoltà, a disposizione del capitale. L’alba sospingeva il sole aprendo il cielo al giorno. Certamente nelle poche scuole di Capitalandia le maestre stavano dicendo ai bambini che il sole era una grande moneta d’oro, che la notte pagava ai cieli perché aprissero al giorno, mentre altrove ne pagava la chiusura con l’altra grande moneta d’argento della luna. La terra tremava ancora, forse per ricordare l’instabilità del creato e, Deo gratias, anche delle immonde “costruzioni” sociali, politiche ed economiche dell’uomo. Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 12—1 ^ pag. Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 12—2 ^ pag. Sesto, finalmente, rinvenne del tutto. Si rese conto che una forte scossa tellurica aveva distrutto il paese e che miracolosamente si era salvato. Guardò chi lo stava amorosamente curando e vide Celeste, stagliata tra i meravigliosi colori del mattino, in una leggera e candida veste, in ginocchio davanti a lui, come l’aveva vista davanti alla nicchia della Madonna, ma non più diafana. Temendo che ancora una volta svanisse, le prese una mano. - Perché mi hai lasciato?- Le domandò in tono di rimprovero. - Ora sono qui e non ti lascerò. - Dove sono Peppe, Cesco e Settimo? Celeste avrebbe voluto non addolorarlo, ma il cane, sentitosi nominare, emise un guaito. Era ancora là la bestiola, sanguinante, impossibilitata a muoversi, quasi a guardia di Peppe e di Cesco che, serenamente, dormivano per sempre stringendosi le mani. Sesto, ad eccezione della ferita alla testa, non aveva riportato altre lesioni, pur sentendo dolori in varie parti del corpo. Il paese era distrutto al cinquanta per cento. La villa di Celeste sembrava intatta dall’esterno, e quasi lo era. Era caduta soltanto la parete tra il soggiorno ed il salotto, addossata alla quale v’era un’antica lettiga che Don Calò usava spesso come letto, in estate, per godere più facilmente del fresco del vicino giardino. Ed era ancora là, ritornato ad essere per sempre Aldisio Calogero, su cui si stende l’oblio della pietà umana e persino della giustizia. Ecco, pensava Sesto, accostando “A livella”, la bellissima poesia romanesca, al diverso livello di considerazione degli uomini non solo a Capitalandia, ma in tutto il mondo, ecco che la morte riconduce tutti gli uomini su un unico piano, ma ad un livello inferiore dei viventi, quasi a perpetuare la presunzione, la prepotenza e la pretesa supremazia di chi è, su coloro che più non sono. Sotto le macerie di un cascinale di campagna, fu rinvenuto il cadavere di un uomo, il cui unico segno di riconoscimento era un neo tra l’indice ed il medio della mano destra. Sul cumulo di terra della sua sepoltura fu apposta una targa di latta con la scritta: ”Sconosciuto”, cui Sesto antepose “TROVATO” alla data del rinvenimento del cadavere, quasi fosse un participio e non il suo cognome. Il cane Settimo si lasciò morire d’inedia sulla tomba di Cesco e di Peppe, riconfermando in tal modo che lo scopo della vita del cane è d’indicare agli uomini la magnificenza dell’amore, cui invece, con subdola prepotenza, si sta sostituendo il Capitale. La morte rattrista, debilita i viventi fino a non desiderare di sopravvivere, ma l’oblio, panacea dello spirito, sospinge alla vita. Celeste, quasi priva di una sua volontà, seguiva Sesto camminandogli a fianco. Uscivano dal cimitero ed avrebbero dovuto decidere dove recarsi. Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 12—2 ^ pag. Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 12—3 ^ pag. L’indagine giornalistica di Sesto era tragicamente e naturalmente conclusa e la Direzione del suo giornale attendeva il suo ritorno. - Ti riporto da tua madre. - Non voglio. - Disse perentoriamente Celeste. - Comunque andiamo a Palermo. Qui saresti sola. - Non voglio più abitare con mia madre. Tu, che farai? - Dovrei rispondere che torno a casa e che continuerò a fare il giornalista, ma mi pare di lasciare qualcosa d’incompiuto. Come ti ho raccontato, durante il delirio tu mi hai condotto in quella tristissima città, il ricordo della quale mi ossessionerà per la vita. Quel sogno aveva troppa attinenza con la situazione politica attuale perché non gli attribuisca un senso premonitore. Vorrei quindi continuare la ricerca, lo studio e la lotta di Cesco e del Professore per giungere ad una vera democrazia. - Che Iddio ti aiuti. Disse Celeste. - Oh, sì, lo spero proprio. Ancora una volta, questa notte, mi sono ritrovato a Capitalandia. Ero stanco di lavare stoviglie e latrine, avevo sete ed il rubinetto non erogava l’acqua, sebbene la feritoia avesse inghiottito tutte le monete. Nessuno mi ascoltava e non potevo accedere ad alcun luogo, perché non avevo monete da dare in compenso. Chiuso tra pareti di acciaio, pur soffrendo la fame e la sete, disperato per averti perduta, temendo di non poter lasciare quella città, sentivo la consolazione dell’esistenza di Dio e temevo soprattutto che la fredda ragione m’incutesse a dubitarne. - Ora posso venire con te - Gli disse Celeste. - Vorrei...e come lo vorrei! Tu sai che io ti amo. - Anch’io ti amo. - Ma il tuo è un amore diverso dal mio. - Anche tu, come tutti gli uomini, sbagli. Pensi che credere, amare e diffondere il verbo di Dio distacchi dagli uomini e dalla vita. Quante cose errate attribuiamo ai suoi comandamenti. Leggiamo i Vangeli e li interpretiamo estensivamente o restrittivamente, come se fossero le stolte leggi degli uomini. Gesù diceva chiaramente quale doveva essere il comportamento degli Apostoli, chi essi erano ed il loro compito, distinto dal comportamento degli altri uomini, cui spetta soltanto l’osservanza delle sue leggi per essere degni del Regno di Dio. E si servì delle parabole soltanto per farsi capire meglio. I suoi principi sono eterni e soltanto essi andavano e sono stati trasmessi. Il resto è temporale e passa con gli uomini, con la loro volubilità e con i difetti della loro imperfezione, comprese le loro interpretazioni della volontà divina. Amo la vita come Gesù c’insegnò a viverla e desidero trasmettere ai miei figli le sue leggi eterne. Celeste volle andare a salutare la madre a Mondello, da dove si era mossa soltanto per partecipare alle esequie del marito. Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 12—3 ^ pag. Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 12—4 ^ pag. Anna li accolse con la sua finta tristezza, vestita interamente di nero, con un abito che le fasciava procacemente il corpo. Sesto ne provò pietà. Era la rappresentazione dilettantesca del lutto di una vedova inconsolabile. Soltanto un’espressione aveva sincera negli sguardi lampeggianti che gli lanciava quando volgeva le spalle alla figlia: un represso, insaziabile ed insano desiderio sessuale. Quanta colpa di ciò avesse, come ciascuno di ogni comportamento, non si vaglia come fa la giustizia umana emanando sentenze con le sue attenuanti ed aggravanti. Sesto e Celeste partirono tenendosi per mano, come nel viaggio verso Capitalandia e lui non poteva fare a meno di costatare quanta affinità vi fosse tra la civiltà del sogno e quella reale. Nulla che si potesse ottenere senza l’introduzione di un’adeguata moneta nelle feritoie, nulla che non richiedesse una forma di pagamento in contanti, con assegni, o con carta di credito per gli oggetti, per il transito, il diritto di guidare i propri mezzi di trasporto, per possedere un’automobile, una casa e persino per prendere moglie. Anche la morte, aveva osservato, costava cara ai superstiti. E’ vero che ancora nessuno frugava sotto la camicia di un infermo prima di assisterlo, ma già il Capitale stava legiferando in tal senso. E’ vero anche che ancora esistevano le scuole pubbliche cui si aveva accesso con una piccola moneta, ma presto il Capitale avrebbe preteso una moneta sempre più grande, finché l’istruzione sarebbe stata riservata soltanto ai benestanti, gli unici in grado di acquistare diritti. E ciò costituiva soltanto l’aspetto materiale della vita, cui Sesto, come tutti gli uomini civili, era già tanto educato da ritenerlo indispensabile ed ineluttabile, ma v’era ancora l’aspetto attinente allo spirito ed alla libertà (che ne è la manifestazione), cui si stava mettendo una speciale gettoniera. Non v’è nulla che il capitale lasci senza gettoniera e, se talvolta la moneta è invisibile, il costo è di gran lunga superiore a qualunque moneta. E’ così per ogni forma di libertà, di dignità, di comportamento morale, di lotta per i diritti immutabili e perenni. Non possono essere lasciati alla libera disponibilità individuale perché, se vengono organizzati, costituiscono un potere maggiore dello stesso Capitale. Sesto aveva ripreso il suo lavoro, aveva sposato Celeste, aveva una buona retribuzione, otteneva quindi molti diritti e beni, ma era costantemente ossessionato dal pensiero che Capitalandia stava estendendo i suoi confini e che al più presto avrebbe invaso anche l’Italia. Già i suoi emissari e le sue truppe circolavano liberamente, e con arroganza e truculenta spocchia imponevano le stesse leggi di Capitalandia e le divulgavano attraverso le televisioni. Il grave è che convincevano, della loro giustezza e bontà di risultati, proprio coloro che non avrebbero mai posseduto neppure una piccola parte delle monete necessarie per ottenere il minimo dei servizi indispensabili per una vita civile. Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 12—4 ^ pag. Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 12—5 ^ pag. Di tutto ciò parlava spesso a Celeste, e talvolta aveva l’impeto di fuggire dall’Italia per non assistere a quella invasione e per sottrarsi al giogo che sarebbe arrivato anche su di lui. Ma dove poteva mai andare se ormai il mondo era suddiviso tra le terre d’invasione di Capitalandia e quelle neglette, sulle quali essa lasciava che altri poteri distruggessero quel tanto di umanità che avevano le popolazioni? In questi ultimi territori il Capitale era il dittatore assoluto, ma privo di sistema di riproduzione. Bastava quindi attendere che fame e pestilenze avanzassero, finché gli uomini si buttassero da soli sulle bombe e sulle acuminate ed affilate lame, per poi imporre la legge di Capitalandia in nome dell’ordine e, incredibile!, della democrazia. La stragrande maggioranza degli uomini sfida giornalmente l’indigenza con la speranza incubata, covata e lievitata nei recessi dell’animo, dicendo mille volte a se stessi, nonostante ogni diverso parere di sacerdoti e teologi, che è lecito chiedere al Padre Onnipotente il suo divino intervento risolutore dei loro affanni. Allo stesso modo Sesto anelava a scoprire un diverso e più giusto sistema di regolare la vita degli uomini, da quello imposto dal Capitale. Quanto avrebbe pagato per riavere quel libretto scritto da Cesco e dal Professore, che pure aveva avuto tra le mani e che era andato perduto durante il catastrofico sisma. Ciò che Cesco gli aveva riferito, non doveva essere la parte più interessante che era ritenuta “Una bomba sociale”. Ne ricordava parola per parola. In quel libretto v’era soprattutto una critica ragionata del perché nessun attuale sistema politico si potesse considerare veramente democratico, finché il popolo non fosse giunto ad un pari livello di cultura, nonché la dimostrazione di quanto danno arrecava all’umanità, il sistema politico basato sulle leggi del mercato. Ma non v’era nulla che potesse aiutare a ricercare come sostituire il capitale o ad indebolirne il potere eccessivo, senza cadere nell’opposto errore del Capitalismo di Stato, o Comunismo o Liberismo. E poi, le tre famose vie attraverso cui si poteva giungere alla democrazia, l’istruzione, la cultura e l’educazione, non erano le stesse sulle quali erano transitati tutte le dittature, compreso il nazismo ed il fascismo? L’uno e l’altro si erano premurati a sostituire con celerità i testi scolastici con altri, che i soliti cervelli asserviti al nuovo potere si erano premurati a redigere. Chi non ricordava, infatti, i piccoli Balilla istruiti alla scuola del nazionalsocialismo? Forse che il nuovo potere non stava agendo allo stesso modo, riformando l’istruzione scolastica per i fini che si proponeva di raggiungere il liberismo capitalistico? Purtroppo, concludeva mentalmente Sesto, quelle erano tre vie mobili attraverso le quali si preparava il popolo all’accettazione della volontà del potere, con la delittuosa complicità dei mezzi d’informazione. Ed era proprio qui il segreto, doveva essere per forza qui, in un diverso controllo dei mezzi d’informazione la vera bomba. Ma quale poteva essere il controllo efficiente che non fosse riconducibile al potere dello Stato? Verrebbe da dire quello del popolo, ma v’era implicita la stessa difficoltà della realizzazione della democrazia, perché i mezzi d’informazione influenzavano il popolo e quindi si creava un circolo vizioso. Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 12—5 ^ pag. Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 12—6 ^ pag. Allora il segreto doveva essere basato sulla proprietà dei mezzi d’informazione, una proprietà che fosse di tutti e di nessuno, in modo che gli operatori del settore non temessero di esprimere le loro opinioni e che l’asservimento ai poteri costituiti non fosse motivo di carriera, ma anzi d’ignominia se mirato a ad essa. Ma come giungere a tale indipendenza? La ricerca di ciò che avrebbe potuto ostacolare la mobilità di quelle importantissime vie della ragione ed anche il controllo impersonale delle proprietà dei mezzi d’informazione, travagliarono ancor più le notti di Sesto. Ma che scoperta era mai quella, se non venivano precisati i principi di democrazia e di libertà? Quante definizioni gli venivano in mente dell’una e dell’altra! Era certo che la democrazia si realizza attraverso un sistema di controllo inflessibile e rapido dei poteri dello Stato? Che la libertà deve trovare un ostacolo nei principi morali, i quali sono riconosciuti dal popolo come parte integrante della sua tradizione culturale? E quali sono i principi morali, se l’azione corrosiva del capitale sugli animi e sulle istituzioni forma un guazzabuglio di aspirazioni, desideri ambizioni ed ingordigie? Giunse, comunque, alla conclusione che le risposte a quei problemi erano più facili di quanto si potesse pensare. L’arroganza capitalistica era talmente dilagata in tutte le attività umane e s’era insinuata così bene nel pensiero comune, che bastava realizzare esattamente l’opposto di ciò essa si proponeva. Gli sovvenne poi che Don Calò, approfittando delle confidenze di Cesco, aveva cercato di ritagliarsi un pezzetto di potere attraverso il sistema telematico e, forse, anche attraverso il Capitale della mafia. Ma che mai poteva aver concluso? La sua ricchezza non gli aveva certo riservato un posto di riguardo tra le anime, e sua moglie, Anna, si stava godendo da sola i frutti della sua scelleratezza. Celeste, infatti, non aveva neppure voluto sapere quale fosse la consistenza della ricchezza paterna. Tuttavia, un giorno giunse perentorio l’ordine del giudice di entrare in possesso dell’eredità di Aldisio Calogero. - Si può rinunziare?- Gli domandò Celeste, come se già fosse nauseata al solo parlarne. - Sì, si può. Ma proprio perché ne conosci l’origine sarebbe ancor più immorale che servisse solamente per i lussi della tua matrigna e, forse, per rafforzare il potere economico della mafia attraverso il padre di lei, il dottor Santi Abbatino. - Le rispose Sesto. - Potremmo devolvere l’eredità a favore di opere di beneficenza. - Questa è già una soluzione più morale, sebbene in molte di queste opere si nasconde un interesse diverso dalla beneficenza. Comunque, cominciamo col farci dire a quanto ammonta la tua parte di eredità. Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 12—6 ^ pag. Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 12—7 ^ pag. Finalmente, tramite il labirinto della giustizia, giunsero a saperne l’ammontare. Una cifra enorme, di cui chiesero più volte conferma, perché non era assolutamente credibile che Don Calò avesse potuto accantonare da solo una tale ricchezza. Ed infatti essi sconoscevano ciò che Don Calogero aveva cercato di realizzare, prima con l’aiuto del potere politico, ma successivamente soltanto a favore di quasi tutti gli affiliati alla mafia. Persino lo stesso potere politico, ignorava il suo vero ed ultimo progetto. Il primo, consisteva nel liberalizzare il capitale della mafia e di creare con esso un certo numero di imprese, in modo che i mafiosi, realizzando la promessa politica della creazione di molte migliaia di posti di lavoro, più che condonati, divenissero i benemeriti dell’economia. Il secondo progetto era nato invece quasi per caso. Don Calogero, infatti, spinto dall’urgenza di molti suoi affiliati che stavano per essere arrestati e dalla diffidenza sulle promesse, cui inizialmente egli stesso aveva creduto, di quell’Eccellenza che era andato a trovare nella terra della “prescia”, temendo che i suoi amici gli si voltassero contro e che si vendicassero su di lui, approfittò di una grande occasione che in quei giorni gli venne offerta. Nella sede della Società Telemodem, che egli aveva assiduamente frequentato quando credeva di potersi ritagliare un pezzetto di potere dalla divulgazione della telematica per il commercio, ma con subdolo scopo politico, aveva conosciuto un emissario di un Capo di governo di un piccolo Stato africano. Questi, gli aveva fatto comprendere, dapprima con circonlocuzioni e poi in modo sempre più esplicito, che il Governatore desiderava vendere l’intero territorio di quello Stato per ritirarsi in una lontana isola. Don Calogero, che non temeva certo di essere gabbato, neppure da un Governatore, sicuro della forza dell’esercito mafioso che sarebbe stato in grado di organizzare in breve tempo, dopo una sola consultazione generale con tutti i suoi affiliati italiani e stranieri, raccolse in pochi giorni l’intero capitale occorrente per l’acquisto e fissò, a brevissima scadenza, il passaggio di proprietà e dei poteri politici di quello Stato. Ma, poiché la mafia non è ancora giunta al controllo delle forze della natura, sopraggiunse il sisma a mettere fine a Don Calogero ed al suo ardito progetto. Sconoscendo tutto ciò, Sesto, e meno di lui Celeste, non poteva capire come avesse accumulato una tale ingente fortuna. Né era soltanto ciò che non capivano. Ricevettero in quei giorni la visita di un dignitario straniero, seguito da una dozzina di guardie del corpo, che domandò loro se erano a conoscenza dell’acquisto di un grande “territorio” da parte del loro caro scomparso. Sesto, che ben conosceva la differenza tra terreno e territorio, la spiegò con tatto al dignitario che, ringraziando, confermò di trattarsi, dunque a ragione, di territorio. Per tutta la notte, Sesto tenne Celeste per mano.S Segue 13° ed ultimo capitolo Æ Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 12—7 ^ pag.