Cinema e storia – l’Italia della ricostruzione
di Maurizio Cau (FBK-Isig)
1. Il potere documentale delle immagini e il cinema come fonte della ricerca storica
Partirei da un elemento piuttosto ovvio, sul quale la cultura accademica (parlo in particolare di storici,
filosofi, esperti dei cd. Cultural Studies) ha iniziato a riflettere solo di recente: viviamo in quella che
potremo definire una “società degli schermi”. Ovunque ci voltiamo, vediamo schermi: dai salotti di casa alle
poltrone d’aereo, dagli schermi di pc, tablet e cellulari ai supermercati, siamo inondati di immagini, e si
tratta in buona parte di immagini in movimento; viviamo, si può dire, dentro uno “schermo onnipresente”.
Questa sorta di “dominio del visivo” ha disegnato un inedito scenario culturale; si tratta di un rivolgimento
epocale nella generale percezione della realtà, e con esso è necessario fare i conti. Come ha sostenuto di
recente Antonio Scurati, “Viviamo nell’epoca della riduzione del mondo alle sue immagini, dove il reale e
l’immaginario si contaminano senza più alcuna separazione né distinzione”.
La riflessione critico-filosofica ha da tempo cercato di aprirsi a questo nuovo fronte della riflessione ed è da
qui che vorrei iniziare per svolgere qualche riflessione in ordine al potere (al potenziale) documentale delle
immagini. Verso la metà degli anni ’90 si è iniziato a parlare, in coincidenza con l’uscita degli studi di
Gottfried Boehm e di Thomas Mitchell,di una “svolta iconica” degli studi umanistici, di una “ikonische
Wendung” (Pictorial Turn), per esprimere una nuova consapevolezza comune a differenti ambiti di ricerca,
quella della centralità delle immagini e del loro carattere “strutturante” (il mondo, la società, la cultura, il
pensiero si struttura “anche” per immagini). Da allora la formula della “svolta iconica” ha incontrato un
notevole successo e non ha mancato di riscuotere una favorevole ricezione in ambiti culturali molto diversi,
dalla storia dell’arte all’estetica, dall’antropologia culturale alla sociologia della comunicazione. In
particolare, tale approccio ha orientato in maniera significativa quelli che ora si usa chiamare Visual Culture
Studies, una corrente interdisciplinare che si dedica all’indagine della dimensione visiva della cultura nelle
sue varie forme, sotto il profilo storico, sociale, politico, ideologico…
Progressivamente ci si è andati interrogando sulla possibilità di esistenza di un “sapere per immagini”;
nell’ambito delle ricerche storico-filosofiche si tratta di una svolta significativa: la cultura (storica, filosofica,
giuridica, letteraria,…) è in larga parte una cultura linguistica. Andare ad interrogare i differenti fronti
dell’esperienza umana a partire dalle immagini che essa ha prodotto è una sfida molto suggestiva non
scontata nella sua pratica. I dubbi e i rischi non sono pochi: le immagini esprimono “autonomamente” dei
contenuti? Come interrogarle? Come si fa a “capire con gli occhi”? quello visuale è un mondo
concettualmente indipendente o la sua intelligibilità “dipende” da uno sforzo di codificazione dei significati
e delle esperienze che le immagini trasmettono?
Nonostante la complessità di questo approccio, la “svolta iconica” ha permesso di introdurre nel dibattito
internazionale e interdisciplinare una discussione sul valore epistemico delle immagini, sulla possibilità di
considerare le immagini una vera e propria “espressione del pensiero”, una “struttura formale dotata di
senso”; i confini dell’iconico sono instabili, ma alle immagini si è andati progressivamente attribuendo una
sempre più chiara “valenza gnoseologica”. Alle immagini, in altre parole, si è iniziato a guardare come a un
fenomeno che consente di “capire le cose”; non tutte, per carità, ma molte e non banali.
La possibilità di cogliere nelle immagini un significato (verrebbe da dire “una verità”) non direttamente
riducibile al modello linguistico costituisce un elemento di grande interesse e suggestione; si tratta di un
processo di risignificazione delle immagini che può condurre a risultati di grande interesse anche in ordine
allo studio e alla didattica della storia. Come la ricerca storica sta dimostrando negli ultimi anni, ci si sta
muovendo verso un nuovo rapporto con le fonti: le immagini (di qualsiasi forma e derivazione esse siano)
nascondono un evidente carattere documentario: le immagini sono prove, raccontano fenomeni o – cosa
non meno interessante – la percezione che di quei fenomeni si è avuta nel corso della storia. Come
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sosteneva Lucien Febvre, la ricerca storica deve riguardare “tutto ciò che, appartenendo all’uomo, dipende
dall’uomo, esprime l’uomo, dimostra la presenza, l’attività, i gusti e i modi d’essere dell’uomo”. Dunque,
anche il cinema.
Se il fine della storia resta la conoscenza degli uomini, lo storico ha il compito di “aggiornare” il proprio
bagaglio strumentale e di cercare un nuovo rapporto con le fonti. “Lo storico contemporaneo è ormai
chiamato ad alimentare saperi, a trasmettere conoscenze, a confrontarsi – possibilmente senza essere
sconfitto – con altri mille tipi di racconto storico che i media trasmettono con la loro straripante potenza.
Dal confronto con i nuovi media la storia può uscire rafforzata e irrobustita nella sua capacità di alimentare
nuovi percorsi di conoscenza e appagare nuovi bisogni culturali” (G. De Luna).
Si tratta di superare la tradizionale “critica delle fonti” basata sull’esame filologico dell’autenticità e
dell’esattezza dei documenti scritti, e di cercare coordinate metodologiche nuove. Lo storico, per appagare
quella che Bloch definiva “l’onnivoracità dello storico orco”, deve creare le proprie fonti, deve costruirle
epistemologicamente, inglobando nella propria pratica di ricerca tutto ciò che può risultare funzionale alla
comprensione dei fenomeni. Naturalmente si tratta di un processo conoscitivo delicato, che necessita di
alcune avvertenze: le “fonti figurative” non sono trasparenti, bisogna armarsi per saperle leggere e
interpretare, ma forniscono degli strumenti di grande interesse utili alla riflessione sull’evoluzione
dell’esperienza storica. Le immagini non sono un elemento puramente passivo, poiché sono il risultato di
precisi modelli di rappresentazioni dei fenomeni sociali; non sono dunque un materiale inerte, vanno
interrogate.
Il cinema come fonte storica
a. film come strumento di narrazione storica
-
espressione di un punto di vista sulla storia; i film di ambientazione storica sono una forma di
“storiografia”: spesso meno analitici del saggio storiografico, ma costruiscono una forma di
racconto della storia
-
Nel 1920, David Griffith, regista di Nascita di una nazione (1915) e di Intolerance (1916),
presagiva la graduale sostituzione dei libri di storia con i film storici, sostenendo che il cinema è
in grado di “insegnare in un lampo”
-
raccontano spesso più del presente che non del frammento di storia che si prefiggono di
narrare (vd. Antonietta, La nobildonna e il duca, Ivan il terribile,…) (Croce: la storia è sempre
storia contemporanea)
b. film come fonte
-
nel cinema si cristallizzano precise istanze e percezioni del presente, i film sono pertanto un
vero e proprio “materiale storico”
-
cinema come espressione dello “spirito di una società”: è una fonte che si colloca a cavallo tra
“espressione culturale originale” e “diffusione di massa”, tra “ispirazione” e “stereotipo” (in
parte il cinema orienta i sentimenti diffusi, in buona parte li assorbe e li rappresenta)
-
cinema come strumento per osservare in controluce lo svolgersi della storia e la percezione che
i contemporanei hanno degli eventi in corso (cinema come sismografo, come “spia
dell’immaginario”)
-
il cinema propone precise letture sugli eventi; si tratta di proposte che a loro volta influenzano
il cd. immaginario collettivo
-
Anche il cinema, come le altre fonti, è di per sé una fonte muta. Parla solo se lo storico è in
grado di interrogarla
2
-
Prendiamo, ad esempio, il cinema
approfondire la storia politica del
scena la media borghesia). Ma se
rivelano straordinari documenti di
italiani
dei "telefoni bianchi". È poco interessante per chi voglia
fascismo (trasmetteva spensieratezza, svago, metteva in
cambiano le domande dello storico, "quegli stessi film si
come era strutturato allora l'immaginario collettivo degli
la distinzione tra documentario e fiction: un falso problema
-
entrambi si poggiano su forme della messinscena; hanno regole e codici diversi, ma sono
entrambi forme di “ritratto”: la fiction crea ciò che ritrae, il documentario ritaglia dalla realtà
ciò che ritrae; sempre racconto è…
-
dunque non sta in piedi la logica vero/falso nel distinguere tra documentario e finzione
riassumendo, i media sono diventati nuovi “agenti di storia”: immagini, film, musica, tutto diventa
strumento di racconto e rappresentazione della realtà e, pertanto, diventa di interesse per la ricerca dello
storico. Si tratta di fonti che spesso diventano fonti “inconsapevolmente” e solo “a posteriori”. È necessario
dunque interrogare le fonti cinematografiche con “domande forti”, perché è proprio grazie a domande forti
che il materiale visivo e sonoro può diventare fonte “suo malgrado”
2. la rappresentazione del fascismo nel cinema italiano postbellico
Un esempio di come è possibile fare storia attraverso il cinema interrogandolo con domande forti:
a. che rapporto c’è tra la rappresentazione del fascismo fornita dal cinema italiano del dopoguerra e
l’elaborazione dell’esperienza fascista maturata in seno alla società italiana?
b. Che fascismo è quello raccontato al cinema dal neorealismo?
c. La memoria e la rappresentazione del fascismo come hanno accompagnato l’evoluzione del sistema
politico e sociale italiano?
Il cinema, dunque, può valere come “strumento di verifica” per documentare l’evoluzione del rapporto tra
società italiana e passato fascista. I “significati” veicolati dallo schermo non sono evidentemente solo
“significati strettamente cinematografici”; rimandano a ciò che Pierre Sorlin definiva “il visibile” di un’epoca
(ciò che i registi “captano” di un’epoca e gli spettatori assorbono senza stupore). Il cinema è il prodotto di
un preciso contesto politico, culturale e sociale ma è al tempo stesso uno strumento “produttore” di senso;
il cinema è, dunque,
a. Un “soggetto agente” che contribuisce a consolidare o modificare l’immaginario pubblico
b. Uno specchio della mentalità collettiva
La società italiana e il passato fascista
Il progetto di ricostruzione dell’ordine politico e dello spirito nazionale doveva passare attraverso un
giudizio dell’esperienza fascista e sulla sua eredità. Le valutazioni compiute tra ‘43 e ‘47 su fascismo e
nazismo furono in Italia fortemente influenzate dalle esigenze politiche legate alla fine del conflitto e alla
stipulazione del trattato di pace. Per la cultura antifascista fu fondamentale la lezione di Croce, riconosciuto
come assertore principale della tesi del “fascismo parentesi” (fascismo come esperienza storica a se stante,
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avulsa dalle tradizioni nazionali, corpo estraneo rispetto alla società). Croce era legato anche all’idea del
nazismo come “rivelazione” della storia tedesca, contrassegnata da un dissidio spirituale col resto d’Europa
(debolezza dell’idea di libertà, autoritarismo,…). Croce contrappone dunque “Fascismo-Parentesi” a
“nazismo-rivelazione” (cfr. Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa, Laterza 1944): nazismo frutto di
una crisi terribile che covava nella storia secolare della Germania, fascismo frutto di una “superfetazione
estranea alla secolare storia italiana (cultura latina, umanesimo rinascimentale, risorgimento liberale).
Fascismo e nazismo avevano per Croce diversa origine storica e diversa natura (feroce il nazismo,
carnevalesco il fascismo). Dietro questa lettura c’era l’intento politico di ottenere per l’Italia sconfitta un
trattamento migliore rispetto all’ex alleato. L’obiettivo era di avere per l’Italia una pace non punitiva e di
tratteggiare l’antifascismo come la ripresa della autentica tradizione di libertà italiana (comuni, Cavour,
resistenza).
Le posizioni di Croce ebbero larga eco nella stampa italiana (fascismo come “morbo accidentale” mentre
nazismo era una “malattia ereditaria del popolo tedesco”). Si diffuse l’idea di un’Italia “fascista
contronatura”. Le posizioni di Croce ebbero seguito anche nella cultura cattolica e in quella marxista: la
cultura cattolica interpreta il nazismo come “neopaganesimo razzista”, come “barbarie pagana” che risale a
Lutero e alla Riforma (il percorso del male fu quello che da Lutero portò a Hitler). Vengono riprese le idee di
maritain, che parlava del fascismo italiano come di un “totalitarismo frenato dal cattolicesimo”; cultura
cattolica considerava il proprio “umanesimo” come un freno alla deriva statolatria (rispetto al nazismo,
fascismo italiano aveva per la cultura cattolica minore possibilità di radicamento storico e minore
pervasività).
Il marxismo diede vita invece a una lettura “classista” che interpretava il nazismo come reazione
antiproletaria dell’alta borghesia capitalistica, industriale e finanziaria alleata con la grande proprietà
terriera prussiana e col militarismo. Anche il marxismo lesse l’avvento del nazismo come lo sviluppo ultimo
del “Sonderweg” politico e culturale tedesco. Togliatti a Mosca (1943) difende l’antifascismo italiano con le
stesse argomentazioni di Croce (fascismo come parentesi, fascismo non in grado di penetrare in profondità
nell’animo degli italiani; vita italiana segnata da civiltà romana, civiltà cattolica, Rinascimento,
Risorgimento, tradizione democratica). Veniva diffusa la lettura del fatto che le qualità “negative” del
popolo italiano (scarso senso dello stato, indolenza, superficialità, enfasi retorica) avessero sì favorito
l’affermazione del fascismo, ma ne avessero anche limitato la capacità di presa reale sul paese. A “frenare”
fascismo ci sarebbero poi state le qualità positive dell’italiano, tendenzialmente pacifico, misurato, solidale.
Per contro, il nazismo sarebbe stato favorito dall’indole disciplinata e guerriera dei tedeschi, e ancora dalle
qualità positive dell’abnegazione, dell’amore dell’ordine, del rispetto della legge, della capacità
organizzativa.
Hitler era descritto con tratti satanici: sadico, crudele, deviato, demone della distruzione, incarnazione
dell’anticristo (da Salvatorelli a Gonella e Igino Giordani lo ritrassero come genio del male). Mussolini
invece era rappresentato coi tratti dell’uomo di stato mediocre; come già avevano sottolineato gli
antifascisti emigrati, Mussolini era un avventuriero fortunato, un demagogo vanitoso, un furbo agitatore di
piazze (falso genio, Cesare di cartapesta, manesco socialista romagnolo, effimero capopopolo, servo del
Fuhrer).
Montanelli ha parlato nel dopoguerra del “buonuomo Mussolini”, buon padre di famiglia e demiurgo mite,
guida di un regime all’acqua di rose che aveva salvato gli italiani dalla marea bolscevica; Mussolini era
dipinto come un “attore comico protagonista di un melodramma tutto italiano” mentre Hitler sarebbe stato
il grande attore tragico che si inserisce nel solco del “dramma tedesco”. Mussolini come un “sinistro
pulcinella” è l’emblema di una raffigurazione caricaturale del duce e del fascismo, di cui veniva rimossa la
componente più apertamente violenta e autoritaria. Furono così screditati I fondamenti culturali del
fascismo (screditato Giovanni Gentile e screditato il corporativismo).
Il nazionalismo fascista fu interpretato come “prodotto d’importazione” di provenienza tedesca (Nietzsche)
e francese (Maurras, Barrès), il fascismo come risultato di una degenerazione politica. Di conseguenza
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l’antisemitismo fascista rientrò in questa idea dello scimiottamento della politica nazista (Mussolini,
succube di Hitler, avrebbe ceduto all’estensione della pratica razzista in Italia); la stessa comunità ebraica
nazionale avallò nel dopoguerra questa idea. Si trattava evidentemente di ricostruzioni che puntavano
all’autoassoluzione dell’antisemitismo fascista come “copia blanda” del modello tedesco. Si sottolineava
l’adesione “passiva” degli italiani al disegno politico fascista, frutto di un calcolo opportunistico e di
sopravvivenza ; gli italiani risultavano insomma fascisti per “convenienza” e non per “convinzione”. Per
contro, la Germania era interamente avvinta dal morbo nazista (Croce: “gli italiani fanno i fascisti, i tedeschi
sono nazisti”).
Da sinistra si sottolineò più volte il tragitto compiuto da ex militanti del fascismo cresciuti nella gioventù del
littorio che poi passarono al socialismo e al comunismo (è il “lungo viaggio attraverso il fascismo” descritto
da Ruggiero Zangrandi nel 1948) e sottolineato da Vittorini, per il quale “quei giovani in realtà non erano
mai stati fascisti; il loro era stato un modo fascista di essere antifascisti”. E le migliaia di giovani arruolatisi
nella Repubblica sociale di Salò?
Due questioni di ordine politico alla base di questo atteggiamento:
A. Rimuovere il peso delle passate adesioni al fascismo
B. Conquistare i giovani cresciuti nel ventennio e spingerli dal conformismo all’opposizione
I punti di vista sulla resistenza
Le forze antifasciste la dipinsero come una guerra di liberazione nazionale che aveva coinvolto l’intero
popolo italiano. Fu una ricostruzione che valeva a legittimare politicamente le singole forze antifasciste e a
reintegrare l’Italia nel consesso internazionale. Ancorché politicamente motivato, il risultato fu un giudizio
inesatto e fuorviante.
Letture post-fasciste
Il fascismo venne ridotto al mussolinismo; per di più, Mussolini venne banalizzato entro una visione in
chiave intimistico-familiare. Montanelli ha avuto un peso rilevante nel tracciare I contorni di una dittatura
bonaria e paternalista (Il buonuomo Mussolini, 1947, ma anche tutti gli articoli apparsi fino alla fine sul
Corriere); Mussolini era presentato come incarnazione dei vizi e delle virtù degli italiani, Mussolini arciitaliano. Ne deriva l’immagine di un regime dominato dalla retorica e dalla teatralità ma da un basso tasso
di violenza e repressione.
Si è arrivati per certi versi a un ribaltamento dell’assunto antifascista (nessun italiano era stato fascista) in
nome di un «tutti sono stati fascisti, perché in fondo il fascismo non era un regime esecrabile». Si è giunti
dunque a una rivalutazione del fascismo: ha ristabilito l’ordine dopo il biennio rosso, corretto
funzionamento delle istituzioni, treni in orario, sicurezza, bonifiche…
Sia letture antifasciste che post-fasciste hanno fatto ampio ricorso al parallelo fascismo-nazismo; la vulgata
che si diffonde parla di inconsistenza ideologica del fascismo, assenza di razzismo e antisemitismo, uso
limitato della violenza, dittatura benevola.
La singolare aderenza tra letture antifascista e post-fascista ha di fatto permesso la diffusione a livello
popolare di una interpretazione auto-assolutoria e tranquillizzante del fascismo. In seguito la storiografia di
De Felice ha corroborato questa interpretazione; De Felice ha poggiato la sua ricostruzione sul confronto
tra fascismo e nazismo; al centro della lettura defeliciana c’è il modello comparativo/contrappositivo usato
dalla cultura antifascista e poi interiorizzato dal postfascismo. C’è insomma aderenza tra la vulgata
defeliciana e l’idea di fascismo già posseduta dall’italiano medio; dunque, fascismo come dittatura morbida
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e non totalitarismo, ridimensionamento dell’antisemitismo e della violenza coloniale.
La divulgazione (anche televisiva) condotta su questa falsariga da Giordano Bruno Guerri, Arrigo Petacco e
Antonio Spinosa ha reiterato questo modello semplificatore di un «autoritarismo in camicia nera» assai
diverso dal «totalitarismo d’acciaio» tedesco. A partire dagli anni Settanta la storiografia italiana ha iniziato
ad approfondire meglio gli aspetti legati all’ideologia fascista: Mario Isnenghi, Luisa Mangoni, Emilio
Gentile, Silvio Lanaro hanno sondato con attenzione l’ideologia fascista e il coté intellettuale
dell’autoritarismo in camicia nera; Angelo del Boca, Nicola Labanca e Giorgio Rochat hanno superato
l’immagine conciliante del colonialismo fascista dal volto umano; Michele Sarfatti ha gettato luce sulle
radici ideologico-culturali autoctone dell’antisemitismo fascista. Negli anni duemila ha preso avvio un vero
e proprio rinnovamento storiografico che ha portato a «prendere sul serio» il fascismo. Nella cultura di
massa però vale ancora la rappresentazione edulcorata del fascismo diffusasi nel dopoguerra. La
banalizzazione del ventennio è servita come «straordinario strumento di legittimazione» politica per la
destra italiana
Che ruolo ha avuto il cinema in questo processo di debole presa di coscienza del passato fascista?
“Il cinema italiano, nonostante avesse visto gran parte delle sue strutture distrutte o disperse durante gli
anni del conflitto, riuscì a fare dello schermo lo specchio e il punto di permeabilità assoluta rispetto alla
platea e il collettore delle speranze collettive di un’Italia che voleva rimettersi in cammino” (Gian Piero
Brunetta)
Il neorealismo
a. una rivoluzione dei canoni cinematografici
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“Tutti i treni portano a Roma città aperta” (Godard)
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è una “scoperta” della critica francese e americana: “”Sì, vedendo Paisà abbiamo ritrovato
l’Italia autentica, quella che amiamao, non quella dei fanfaroni isterici di Mussolini, dell’olio di
ricino, ma quella del popolo dei braccianti, delle avanguardie operaie, l’Italia della bellezza e
della miseria, l’Italia di Garibaldi, degli antifascisti e dei partigiani. Paisà è il film della
liberazione d’Italia, ma è altresì una rivelazione cinematografica. Ecco il cinema che attendiamo
e che auspichiamo ed è una clamorosa sorpresa che quest’arte rivoluzionaria ci venga dal paese
dov’è nato il fascismo, che venga dal paese più povero, più sprovvisto di risorse tecniche” (Tery,
L’Humanité, 1946)
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Rossellini rivoluziona i codici della rappresentazione cinematografica, riporta la macchina da
presa ad altezza d’uomo, ridona dignità ad ogni aspetto della vita, “restituisce al cinema il ruolo
di strumento di conoscenza umana e di presa di coscienza collettiva”
b. funzione critica della narrazione
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registi e sceneggiatori inventano una nuova etica del vedere, riaffermano il primato dell’etica
sulla politica e vanno alla ricerca di valori comuni
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è un modello di racconto che descrive in maniera corale le trasformazioni del dopoguerra,
costruendo una sorta di diario pubblico dell’Italia repubblicana
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viene ridefinito il patto comunicativo con lo spettatore, che viene invitato a “vedere” con gli
occhi della mente
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i registi
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spesso formatisi nel cinema di regime
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Rossellini: passa dal cinema di propaganda all’aperto antifascismo (è il percorso di molta parte
del mondo cattolico)
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Anche autori centrali del cinema italiano degli anni Trenta (Mario Camerini, Alessandro Blasetti)
passano su posizioni critiche verso il fascismo
Roma città aperta
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iniziatore di un filone di film che indaga “per immagini” guerra e passato fascista
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simbolo della rinascita sociale, politica e morale dell’Italia
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pervaso da solidarismo cattolico
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manifesto di un intero movimento cinematografico
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visione fortemente critica degli occupanti; avversione morale verso i tedeschi (“i tedeschi si
portano via tutto…”); immagine dei fascisti come “subordinati all’alleato nazista” (vd. questore
e suoi rapporti con l’ufficiale nazista)
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fascisti come “semplici esecutori”; quelli davvero cattivi sono i nazisti
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fascisti sprovveduti, pasticcioni con scarse capacità operative perfino nei rastrellamenti, servili,
volgari, sciocchi
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l’elemento fascista è “secondario”
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grande successo di pubblico
Il sole sorge ancora (Aldo Vergano, 1946)
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collaborano Lizzani e Giuseppe De Santis
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Uno dei pochi film che tenta un'analisi lucida, approfondita e scrupolosa del movimento di
liberazione italiano. Prodotto dall'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia, il film prende le
mosse all'indomani dell'8 settembre. Le vite di chi sceglierà la lotta clandestina contro il
nazifascismo e le vicende di coloro che si adegueranno ben presto a una situazione storica
mutata per salvaguardare i propri interessi, sono raccontate coi metodi impietosi dell'indagine
storico-sociale.
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analizza la lotta di liberazione dipingendola come una “lotta di classe”
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visione marxista della resistenza (a fare la resistenza sarebbero stati i lavoratori, non i borghesi)
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visione dei fascisti come subalterni ai nazisti
Luigi Zampa
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Cercò con uno stile semplice e popolare di criticare le storture del passato fascista
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Concepiva il cinema come uno strumento di educazione civica; il cinema doveva “fissare il
colore dei tempi”
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Vivere in pace (1946): storia di un paesino dell’Appennino durante l’occupazione
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Durante la guerra due soldati americani, uno bianco (Moore) e uno di colore (Kitzmiller)
trovano rifugio nella fattoria umbra di Zio Tigna (Aldoabrizi). Una sera capita lì anche un soldato
tedesco (Bode) ma, grazie al vino, la situazione si risolve.
Premiato dai critici americani come miglior film straniero del '47, il film, sceneggiato dallo
stesso Zampa in collaborazione con Aldo Fabrizi, Suso Cecchi D'Amico e Piero Tellini, è una
commedia neorealista meno cinica di altri film di Zampa, ma riesce quasi sempre ad evitare la
retorica con una osservazione partecipe di un'epoca.
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Anni difficili (1948): una commedia intrisa di amarezza
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Nel 1935 un impiegato è costretto, contravvenendo al suo crdo politico, a prendere la tessera
fascista. Subito dopo la guerra, al momento dei conti, verrà accusato di essere stato fascista e
per questo verrà licenziato.
Visione buffonesca del fascismo; i fascisti sono in fondo povera gente (lavoratori, contadini,…)
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Fornisce messaggi per una pacificazione degli italiani
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Con Anni difficili (presentato tra le polemiche a Venezia) mette mano al passato fascista: storia
di un modesto impiegato siciliano che, nonostante l’odio per Mussolini, prende la tessera
spinto dalla moglie; insomma, la storia di un italiano medio che si piega al fascismo per
esigenze familiari
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I fascisti del paese ritratti con un misto di dabbenaggine e dispotismo, come parte di un
“ingranaggio” in cui alla fine non credono nemmeno loro
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Rappresentata la continuità tra fascismo e postfascismo (“Qui in Italia non si trova uno che sia
stato fascista!”)
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Satira sugli aspetti esteriori della classe dirigente fascista
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Rappresentazione né assolutoria né realmente critica
Mario Soldati
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Fuga in Francia è il primo film in cui un gerarca fascista è al centro della narrazione
Riccardo Torre, criminale di guerra, cerca di espatriare clandestinamente dopo essere evaso dal
carcere. Le difficoltà non lo spaventano e, per raggiungere il suo scopo, non si tira indietro
neppure davanti all'omicidio di una donna. In un primo momento si unisce a lui anche il figlio
Fabrizio che viene involontariamente ferito dal padre. Al termine delle peripezie Riccardo cade
nelle mani degli inseguitori. Tra facce indimenticabili, con una tensione che deve molto al
cinema americano e adattando un suo racconto (e tra i collaboratori ci sono Cecchi, Flaiano,
Bonfantini, Cesare Pavese), Soldati fa un uso personale del neorealismo, utilizzando al meglio
un cast di altissimo livello (indimenticabili Germi e Lulli) e raggiungendo uno dei suoi migliori
esiti registici.
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Più che la rappresentazione delle atrocità del regime, è però l’incarnazione del male a tutto
tondo
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È un film di genere, dove la forza critica si stinge nel racconto (non si sa nulla del passato del
fascista, è una monolitica rappresentazione del cattivo)
La stagione del neorealismo poneva al centro dell'attenzione degli spettatori il senso di una sconfitta
collettiva, di un disorientamento incarnato in singole storie personali e in ritratti collettivi; gli autori
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neorealisti trattarono a volte il fascismo – per dirla con Paggi – come uno “straniero interno”, privo di
radici, come un male comparso all'improvviso che lasciava moralmente irresponsabile la massa degli
italiani.
A partire dal ’48 il fronte antifascista si ruppe: la DC fondò il proprio progetto politico sull’anticomunismo,
le sinistre sulla lotta al “nuovo fascismo”; entro il nuovo steccato della guerra fredda, l’esperienza bellica e
resistenziale ricevettero nuova luce. Prese lentamente forma una “memoria alternativa” rispetto a quella
antifascista; il cinema divenne però oggetto di profondo controllo e censura da parte del potere politico: il
fascismo al cinema divenne un tema guardato con sospetto.
Negli anni i governi democristiani (vd. il sottosegretario Andreotti) prestarono grande attenzione al sistema
cinematografico, per evitare che sullo schermo venissero messi in scena modelli capaci di minare le basi del
consenso. Molti progetti dedicati alla rappresentazione del fascismo si arenarono di conseguenza.
“Devo pensare che in Italia la critica al fascismo, che riscuote generalmente il consenso di molti a parole,
diventa anch’essa un argomento da evitare quando si propone, ad esempio, di affidarla a un formidabile
strumento di diffusione delle idee come il cinema” (M. Antonioni, 1952)
C’è peraltro da fare i conti con i gusti del pubblico, che negli anni della ricostruzione ha poca voglia di
interrogarsi sul recente passato: “La preferenza va ai prodotti popolari, alle pellicole che maggiormente
rappresentano la volontà di farla finita con le miserie e gli orrori appena vissuti: è significativo constatare
che, a guerra appena conclusa e col fenomeno neorealista al centro del dibattito culturale e dell’attenzione
internazionale, al vertice degli incassi per i film italiani si trovino opere d’avventura in costume” (S. Della
Casa). Più che il terreno dello scontro e dei conti col passato, il cinema sarebbe diventato nei primi anni ’50
un terreno di pacificazione sociale, basti pensare al successo di Don Camillo (1951)
Il silenzio che seguì a quella stagione è strettamente riconducibile al clima della guerra fredda. Se nel Paese
la spaccatura portò il centro a virare sull'anticomunismo come nemico presente e la sinistra riprese la tesi
del fascismo come servitore del capitalismo e lesse spesso, in ambito culturale, una continuità tra il regime
e il tempo presente, il cinema risentì di quel solco politico molto più di altri mezzi di comunicazione.
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Cinema e storia – l`Italia della ricostruzione di Maurizio Cau (FBK