ALMA MATER STUDIORUM
UNIVERSITÁ DI BOLOGNA
FACOLTÁ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE
CORSO DI STUDIO IN EDUCATORE SOCIALE
Prova finale in Pedagogia Speciale
“Il centro diurno: tra condivisione e disabilità. Esperienza di un
educatore sociale nell’associazione Papa Giovanni XXIII”
PRESENTATA DA
RELATORE
MARCO ANGELONI
ELENA MALAGUTI
SESSIONE I
ANNO ACCADEMICO 2009/2010
“L’incontro con un bisogno comporta anche l’incontro
con una risorsa.
La persona che chiede aiuto non sempre è consapevole
dei suoi bisogni e delle sue risorse ma,
anche se latenti, entrambi necessitano il
riconoscimento per aiutare ad aiutarsi”
(Elena Malaguti)
La prospettiva inclusiva si collega implicitamente a
una doppia immagine che sinteticamente chiamo
“farfalla –caos”. Ciò significa che chi si avvia nella
prospettiva inclusiva può percepirsi in cammino verso
la farfalla o verso il caos. E questo spiega, in parte,
perché i singoli che si impegnano in questa direzione
non si sentano in compagnia, non sentano una
medesima appartenenza e appaiano a volte in
contrasto fra loro
(Andrea Canevaro)
Dove siamo noi, lì anche loro.
(Don Oreste Benzi)
INDICE
 Introduzione
pag. 3
 CAP. I Incontrare la disabilità oggi.
L’esperienza di un educatore sociale
pag. 7
1.1 introduzione al capitolo
pag 7
1.2 Incontrare la disabilità tra le pagine dei libri. Qualche cenno storico
per ricordare un percorso in continua evoluzione
pag. 8
1.3 Le parole fanno la differenza:”incontrare i significati”
pag. 12
1.4 Attraverso l‟associazione Papa Giovanni XXIII una risposta concreta di
condivisione diretta: l‟intuizione di un giovane prete di Rimini
pag. 14
1.5 “Le cooperative sociali: luoghi di integrazione e
di condivisione del sociale”
pag. 21
1.6 L‟incontro con la disabilità: “Un insieme di norme verso l‟integrazione”
pag. 32
 CAP. II Il centro diurno come possibile strumento d’integrazione.
un esperienza straordinaria nell’ordinario
pag. 47
2.1 Introduzione al capitolo
pag. 47
2.2 L‟incontro con la disabilità: una scelta radicale
pag. 48
2.3 Il centro diurno “il Nodo”.
Un esperienza piena di integrazione come risposta a tanti dubbi
pag. 50
2.4 Le origini del centro
pag. 54
1
2.5 L‟organizzazione del centro diurno “il Nodo”
pag. 61
2.6 Il processo di integrazione attraverso alcuni momenti della quotidianità
pag. 65
 CAP III : “Il dopo di noi”: l’urgenza di una progettazione
pag. 78
3.1 introduzione al capitolo
pag. 78
3.2 “il dopo di noi”: Un esperienza reale come punto di partenza
pag. 79
3.3 La casa famiglia il luogo del “dove siamo noi, lì anche loro”.
pag. 80
3.4 Il progetto:“dopo di Noi”
pag. 87
3.5 Il “dopo di noi” come continuazione dell‟esperienza d‟inclusione
pag. 92
3.6 Fondamentali del progetto “dopo di noi”
pag. 101
 Conclusioni
pag. 102
 Bibliografia
pag. 107
 Ringraziamenti
pag. 108
2
INTRODUZIONE
Mentre mi trovo a scrivere queste righe iniziali della tesi che conclude il mio
percorso universitario ripenso al momento più bello del mio incontro con la
disabilità. Il pensiero si ferma immediatamente al mio ambiente famigliare dove ho
la fortuna di condividere la quotidianità con fratelli con disabilità e di seguito
ripenso all‟università, dalla quale ne ho compreso i fondamenti teorici e didattici.
Infine, mi fermo a ripercorrere il mio lavoro quotidiano all‟interno del centro diurno.
Ne emerge la bellezza e ricchezza di un incontro davvero speciale. Ma le mie
emozioni si concentrano su una frase letta, mentre raccoglievo materiale per
questo elaborato. Questa citazione che mi ha profondamente colpito deriva dalla
convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. Nel primo articolo si legge:
“scopo della convenzione è promuovere, proteggere e garantire il pieno e uguale
godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle
persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità”.
Alla prima lettura di questo articolo, non ho subito ben compreso il profondo valore
del suo messaggio. Ma poi, fermandomi a riflettere su ogni parola e sul verbo che
l‟accompagnava ho cominciato a capire qualche cosa di sensazionale.
Di seguito ho cercato di approfondire questa scoperta cominciando a leggere un
testo che spiega in maniera esauriente quali siano i diritti delle persone con
disabilità. Da questa lettura, ho iniziato a sperimentare e comprendere quale sia la
“vocazione” e il servizio che quotidianamente con il mio lavoro sono chiamato a
svolgere: contribuire a creare una logica di integrazione sociale eliminando tutte le
barriere di discriminazione che escludono le persone con disabilità dalla
partecipazione alla vita sociale.
“Più barriere ci sono, più le persone sperimentano disabilità” […] (P.Baratella e
E.Littamè, 2009, introduzione). Coloro che sono persone con disabilità sono coloro
che hanno minoranze fisiche, mentali intellettuali o sensoriali a lungo termine che,
in interazione con varie barriere, possono impedire la loro piena ed effettiva
partecipazione nella società su una base di eguaglianza con altri. L‟essere un
educatore che vive al fianco di persone con disabilità, medio gravi, deve poter
incarnare questo profondo messaggio: eliminare ciò che ostacola l‟integrazione.
3
Proseguendo nella lettura attenta della convenzione si percepisce che essa ha lo
scopo di combattere differenze come la disuguaglianza, le differenze di trattamento
nell‟istruzione e nell‟educazione, definendo una nuova politica per le persone con
disabilità basata sulla tutela dei diritti umani, intervenendo in tutti i campi della vita.
La persona deve sempre poter usufruire di tutto ciò che gli sta attorno. Per questo
è necessario e urgente proporre delle politiche che sostengano una nuova cultura
dell‟inclusione. In questo delicato passaggio, da una cultura assistenzialistica ad
una di integrazione, si percepisce che “Le persone con disabilità non hanno diritti
speciali. Hanno gli stessi diritti di tutte le persone. Le persone con disabilità
possono avere bisogni speciali, o perlomeno bisogni diversi”. […] (P.Baratella e
E.Littamè, 2009, p.35). Il fatto di vivere condizioni di mancanza di pari opportunità,
ritenute ovvie dalla società, e di essere sottoposte a trattamenti discriminatori
ritenuti illegittimi, ha prodotto un triplice effetto: da un lato le persone con disabilità
sono diventate cittadini invisibili nelle politiche e nelle azioni sociali, dall‟altro esse
subiscono una vera e propria esclusone fino a ieri socialmente giustificata, e infine
la società ha progressivamente perduto competenze e saperi nel campo della
disabilità stessa.
L‟inclusione di cui si parla nel testo della convenzione si basa sulla comprensione
della condizione delle persone con disabilità, e sulla necessità di costruire regole
sociali, culturali e legali che offrano a tutte pari opportunità e non discriminazione.
Dalla metafora alla realtà sociale: ancora oggi le persone con disabilità
sono
coloro che, spesso, non rientrando nelle norme e negli stili di vita delle diverse
classi della società, vengono visti come elementi di incertezza, inquietudine e
paura. La situazione viene peggiorata dall‟incapacità da parte delle politiche di
gestire questa ricchezza umana che viene scambiata per “malattia” arrivando a
considerarle non più come persone ma “oggetti da conservare” in salute all‟interno
di spazi creati ad hoc.
Per questo, tra le tante chiassose voci del 2010, si deve far sentire con sempre più
fermezza un grido che chiede integrazione; integrazione intesa, come riscoperta di
un valore presente in ogni persona ma che viene nascosto da una società che
spesso cerca di trovare la strada più facile ed economicamente vantaggiosa:
“togliere coloro che hanno difficoltà nel produrre e che spesso sembra non portino
nessuna ricchezza per le casse di un paese”!. Oggi, purtroppo, chi non si adegua a
4
questo modello, chi non è in grado di produrre, chi non riesce a supportare la
società così come essa si è venuta a creare nei secoli è considerato inferiore e in
qualche caso pericoloso.
All‟interno del tessuto sociale deve poter cominciare a crescere una nuova
consapevolezza che restituisca visibilità alle persone con disabilità che in tal modo
entrano nella semplice e ordinaria realtà di ogni giorno.
Nell‟introduzione del testo “i diritti delle persone con disabilità” viene ribadito con
forza l‟urgenza di una nuova cultura di integrazione. Ma purtroppo, oggi le politiche
sociali dei paesi occidentali a fatica cominciano a osservare ciò
che la
convenzione suggerisce. Nel testo infatti viene ribadito che gli effetti della cultura
dell‟inclusione, si potranno vedere tra qualche decennio, “perché la logica
dell‟integrazione e dell‟eliminazione degli ostacoli richiede tempi molto lunghi per la
sua piena attuazione”. […] (P.Baratella e E.Littamè, 2009, introduzione)
Per questo, scopo della mia tesi è tenere alta la bandiera dell‟integrazione sociale.
Come educatore devo quotidianamente contribuire ad alimentare questa nuova
cultura con il mio impegno costante. Nella mia vita devo tenere sempre presente i
fondamenti della convenzione, affinché come già detto, essi possano entrare nella
semplice e ordinaria realtà di ogni giorno. Se ancora oggi è difficile attuare ogni
parola della convenzione, però è possibile cercare di contribuire con quello che è
già presente all‟interno della società per creare e dare spazio ai significati della
carta, certo che ogni posizione e ogni metodologia presente oggi all‟interno del
sociale debba sempre essere aggiornata e integrata verso un miglioramento che
tenda ai principi descritti dagli accordi ONU. Nel testo presento la mia esperienza
lavorativa di condivisione e di incontro con la disabilità che ha come scopo
fondamentale
quello
di
contribuire
all‟etica
dell‟integrazione
sociale
e
dell‟eliminazione delle cause di ostacolo e di esclusione. La tesi di fondo è
dimostrare che il centro diurno oggi, in un clima di incertezza sul tema della
disabilità e di una politica spesso non a favore dell‟inclusione, può fornire una
risposta utile e interessante per il lavoro con la persona diversamente abile.
Questa proposta è una delle tante strade che devono, per la loro storia e
organizzazione, tendere sempre di più e organizzarsi secondo i principi della
convenzione, affinché un domani non ci sia più un luogo per la persona disabile
che crei l‟integrazione, ma ci sia la persona con disabilità protagonista principale
5
della società. Oggi, questi luoghi, servono come trampolino di lancio per il futuro
che viene auspicato dalla carta dei diritti. Ripercorrendo la storia, durante gli anni
60‟
nasce la necessità di creare dei luoghi in cui le persone con disabilità
potessero sperimentare i primi momenti di questa nuova integrazione. Dopo 50‟
anni la convenzione è pronta a fare un nuovo passo in avanti. Ma come ho detto ci
vorrà ancora molto tempo affinché si realizzi l‟inclusione totale. Intanto, in questo
momento di passaggio, non resta che contribuire a questa nuova rivoluzione
cercando di progettare momenti di vita con la persona disabile che tendano
sempre di più all‟inclusione piena e totale nella società. La mia esperienza vuole
essere un contributo fondamentale, assieme a quello di tante altre persone che si
stanno adoperando per progettare un futuro, in cui il concetto universale di
persona come volto sociale e diritto umano sussistente, porti in sé anche il valore
dell‟unicità e della singolarità di ogni individuo. Non siamo tutti uguali, ma siamo
tutti titolari di uguali diritti. In questo senso l‟obbiettivo di ogni società inclusiva non
può essere l‟omologazione dei suoi cittadini quanto la possibilità di permettere a
ognuno di raggiungere il meglio per sé, nel rispetto delle regole condivise della
comunità di appartenenza.
Provare per credere.
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CAPITOLO PRIMO
INCONTRARE LA DISABILITÁ OGGI:L’ESPERIENZA DI UN EDUCATORE SOCIALE
1.1 Introduzione al capitolo
Chi si ferma ad osservare e a studiare l‟evoluzione del sistema sociale, in
particolare nel settore della disabilità, si trova di fronte ad un complesso e, spesso
malagevole, labirinto formato da molte strade che si intrecciano tra loro, e in molti
casi sembrano non condurre verso nessuna destinazione. Questa ardua analisi
non deriva tanto da una non curanza o poca progettazione in questo ambito della
nostra società, ma da una rapida e veloce corsa contro il tempo che ha portato ad
una evoluzione in questo settore, che dagli anni „60 ad oggi ha compiuto passi da
gigante e si è concessa pochi momenti di pausa.
Incontrare oggi la disabilità, non è sicuramente un aspetto facile, e spesso, il
compito richiesto è delicato e può sembrare impossibile.
Come ho già ben evidenziato nell‟introduzione alla tesi, il mio intento è quello di
raccontare quale sia il mio quotidiano “dialogo” con la disabilità, evidenziando
attraverso lo strumento del centro diurno, una delle possibili strade per
l‟attuazione del processo che tutti conosciamo come integrazione sociale.
Come educatore sociale, all‟ inizio di questo capitolo cercherò in un primo
momento di analizzare quale sia stata l‟evoluzione della disabilità nella nostra
società, mentre nella seconda parte mostrerò quali siano state le basi per la
nascita e l‟evoluzione del centro diurno all‟interno dell‟intuizione dell‟associazione
Papa Giovanni XXIII. In questa prima parte di tesi cercherò di illustrare quali siano
gli aspetti reali e concreti di questo incontro tra la mia esperienza e la disabilità,
evidenziando i tempi e i luoghi nei quali è iniziata una vera e propria rivoluzione.
Di seguito vengono riportati tre aspetti fondamentali che sono la struttura di
questa analisi, che si caratterizza per alcuni elementi specifici:
1 -la spinta dei movimenti (associazioni dei genitori, gruppi…) che hanno
fornito un valido supporto ai cambiamenti succedutisi nel tempo;
2 -le leggi di riforma che hanno modificato il riferimento normativo adattandolo ai
cambiamenti avvenuti sul territorio oppure, al contrario, avviando mutamenti
7
significativi nelle norme, e influito, successivamente, sulla prassi operativa dei
servizi;
3 -il contributo degli operatori impegnati nel campo che hanno dimostrato,
nella maggior parte dei casi, uno sforzo costante nel tentativo di adattare la rete
delle risposte al mutare dei bisogni delle persone interessate e delle loro famiglie.
In questo primo capitolo, oltre ad una breve analisi storica, analizzerò nel
particolare l‟impegno dell‟Associazione Papa Giovanni XXIII nella creazione delle
cooperative sociali di centri diurno. Infine cercherò di delineare il quadro
legislativo con i suoi cambiamenti sul tema “tutela della disabilità”.
Nel secondo e terzo capitolo affronterò da vicino il mio contributo come operatore
sociale impegnato nel favorire e creare continuamente l‟integrazione sociale.
L‟integrazione della “persona con disabilità”1 deve essere percepita come una
qualità e un diritto di tutti.
1.2 “Incontrare la disabilità tra le pagine dei libri”. Qualche cenno storico per
ricordare un percorso in continua evoluzione.
Il primo aspetto storico ed evolutivo sulla disabilità che voglio evidenziare,
riguarda un radicale cambiamento di pensiero sul tema della gestione della
medesima, ripercorrendo alcune tappe storiche. Di seguito alle grandi guerre,
nell‟ideale collettivo sorse una nuova idea: “la persona con disabilità” non è più
pensata come un soggetto pericoloso, scomodo o da nascondere all‟interno delle
proprie mura domestiche, ma come nuova identità capace, con un solido aiuto, di
sviluppare le proprie potenzialità” […] (S. Nocera,1996, p 28). Prima di questo
periodo c‟era una diversa concezione dell‟individuo con disabilità.
Di fronte alla segregazione che si può osservare
all‟interno degli istituti si
sviluppa una attività che ha permesso l‟incontro e la conoscenza di soggetti
esclusi e pertanto tutti uguali. Al contrario, si scoprirono delle differenze di
carattere, di capacità ed anche di bisogni: essi non erano tutti uguali e non erano
caratterizzati da un bisogno unico e comune. Allora fu necessario fornire loro
1
Nel testo viene usato il termine “persona con disabilità”. Questo è il termine ombrello per menomazioni ,
limitazioni dell’attività e restrizioni della (alla) partecipazione. Esso indica gli aspetti negativi dell’interazione
tra un individuo (con una condizione di salute) e i fattori contestuali di quell’individuo ( fattori ambientali
personali). La definizione di questo termine si trova all’interno della Classificazione Internazionale del
Funzionamento, della Disabilità e della sualute(pp.168) , Erikson, 2008
8
delle risposte. Queste risposte si affermano durante gli anni „60 grazie ad una
spinta innovativa e a un‟ inversione di rotta.
Prima degli anni 1960, la piaga dell‟istituzionalizzazione e della separatezza
aveva creato nell‟immaginario collettivo un idea di persona con disabilità definita
come “matta” -“pazza” -“ alienata”- “posseduta dal demonio”. Andrea Canevaro
ha affermato in merito: “Da parecchio tempo la persona con disabilità fisica e
mentale ha ispirato di volta in volta rigetto, paura,vergogna, disgusto o
colpevolezza. Egli ha sempre saputo di essere un uomo, anche quando gli altri
vedevano in lui solo il suo handicap”. […] (A. Canevaro, J. Gaudreau, 2009,
introduzione). Non a caso, anche sfogliando le pagine di qualsiasi manuale di
storia dell‟educazione ci si può imbattere spesso nei variopinti e svariati luoghi
creati ad hoc per le persone definite, per l‟appunto handicappate, con l‟intento di
ghettizzare questi soggetti così strani e particolari, affinché non potessero
disturbare la società nelle sue attività quotidiane. Già sotto il ré Luigi XV uomini
colti si chiedevano fino a che punto i bambini e le persone “anormali”, quali ciechi,
sordi e muti, “idioti” e soprattutto “souvages” facessero parlare di sé nel XVIII
secolo e abbiano, almeno a prima vista, appassionato medici e filosofi di
quell‟epoca […] (A. Canevaro, J. Gaudreau, 2009, p.28)
Dunque, per questi “poveretti”, spesso così definiti, non c‟era posto nelle grandi
città, negli ambienti di vita sociale e la loro unica ubicazione era “sparire per non
essere visti”. Quindi la storia stessa ha sempre fornito un‟idea precisa di come
venivano etichettate queste persone “diverse”, dall‟intera collettività.
Le cose non migliorarono nel corso del 1700, quando dall‟idea di “handicappato”
da discriminare, si passa ad un sentimento di compassione e pietà. Lo stesso
Rousseau secondo cui, “bisogna che il corpo abbia vigore per obbedire all‟anima;
poiché […] “un corpo debole affievolisce l‟anima”, afferma che non “si lascerebbe
mai accollare un bambino malaticcio e cachettico, dovesse pur campare
ottant‟anni”. […] (J.J Rousseau, 1964, p.29). La buona educazione per Rousseau
può funzionare solo se la persona è in buone condizioni sin dalla nascita.
Anche da queste parole si percepisce quale fosse l‟ideologia prevalente: ogni
tentativo di educazione o di progettualità è vano a causa dell‟ handicap, che è
interpretato come un ostacolo insormontabile.
9
A questo punto, è importante sottolineare il contributo di Pinel, medico psichiatra,
considerato come colui che “tolse le catene ai Pazzi”. Fu il primo che si propose
di curare metodicamente i pazienti psichiatrici gravi, e non solo di "custodirli" negli
ospizi. Pinel inoltre elabora coerentemente la dottrina del “trattamento morale”
già applicata, ma solo empiricamente dagli alienisti inglesi, fondata sul
riconoscimento che il folle non è semplicemente un “insensato”, ma un “alienato”,
“nella cui soggettività resta una parte di ragione mai del tutto smarrita con cui la
medicina mentale può istituire una relazione terapeutica - dialettica”. […] (A.
Canevaro, J. Gaudreau, 2009, p.31)
Proseguendo con l‟analisi storica, dalla metà del secolo XVIII, molti medici si
fecero portatori delle idee dell‟ Illuminismo e del suo spirito riformatore, divulgato
da pensatori di molte parti d‟Europa ed incoraggiato dal trionfo della Rivoluzione
Scientifica. Nell‟ottica del recupero della dignità umana, sotto tutti i punti di vista,
comincia a farsi strada l‟idea della salute come diritto a cui tutti devono poter
accedere. Successivamente, si afferma l‟ospedale come luogo deputato alla cura
del corpo della persona disabile, con l‟idea di “uomo in salute”. In seguito, questa
istituzione si costituisce come “contenitore di trasmissione del sapere” e comincia
ad essere inteso come “mesure d‟une civilisation”, istituzione curativa. Nello
specifico, si afferma con gran vigore il manicomio, un luogo nel quale, tramite
l‟uso dell‟ordine e della gerarchia, si cercava di migliorare o cambiare i problemi di
coloro che venivano definiti “folli”. Interi trattati medici, libri e parole furono scritti
ispirandosi a questi luoghi. Ogni idea e pensiero ha espresso il vano tentativo di
cambiare ciò che è impossibile convertire. Di sicuro, emerge, che in quella
precisa epoca storica non era ancora possibile concepire la persona con disabilità
come individuo pieno di risorse e di voglia di vivere. Tutto ciò non è una fiaba o
un racconto tramandato, ma una realtà cruda ben descritta ad esempio nell‟opera
manoscritta di Joseph-Guillaume Desmaisons Dupallans. […] (P.L. Cabras, S.
Chiti, D. Lippi, 2006), medico, che durante il 1840 circa visitò vari manicomi nel
territorio Italiano confermando questa difficile verità. Successivamente cambiò la
gestione e le finalità dell‟ospedale che assunse l‟investitura di luogo dove, non
solo si curavano le malattie della persona, ma dove queste ultime venivano
studiate a fondo. Si sviluppo un‟organizzazione del metodo scientifico con
innovazioni, regole e strutture. L‟ideale illuministico di trasformazione della
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struttura ospedaliera portò, ad inizio „800, verso un radicale movimento di riforma
del trattamento del “malato di mente” che ha come soggetto portante il
manicomio, inteso come strumento cardine per il recupero sia fisico che interiore
della persona. Dall‟altro canto ogni paese si impegnò con chiare normative a
controllare il ricovero dei “pazzi”. Ampie descrizioni di questo periodo storico sono
contenute nelle riviste specializzate e nelle relazioni di viaggio dei medici, che
giravano l‟Europa e con cura maniacale redigevano.
Da accennare in questa analisi anche il contributo, sul piano assistenziale, delle
strutture religiose, che a loro volta hanno svolto un ruolo ben preciso. Queste
istituzioni, basandosi sul messaggio evangelico, furono promotrici di azioni
caritatevoli verso coloro che venivano definiti gli esclusi della società.
Dalla seconda metà del secolo XVIII molto lentamente, cominciò a maturare
l‟ipotesi di un educazione della persona disabile, passando
dallo studio e
dall‟indagine scientifica alla “presa in carico della persona”.
Un contributo importante deriva dagli studi di Itard. Nei suoi scritti e nella sua
metodologia di lavoro sul campo, si percepisce certamente che l‟educazione è
coinvolgimento, e quindi implica un rischio maggiore rispetto a un intervento
protetto dalla neutralità di una tecnica. È, nello stesso tempo, coinvolgimento e
interazione nella ricerca della comunicazione reciproca.
Sul finire del 1800 un altro importante personaggio rivoluzionò il modo di pensare
l‟educazione della persona con disabilità. All‟interno della logica di Edouard
Seguin, alla base dell‟educazione, ci deve essere l‟obbiettivo di mirare “alla
socievolezza della persona nel suo ambiente nel quale vive”.
“All‟interno del processo educativo l‟educatore segue passo passo questo
sviluppo al quale pretende di contribuire”. (A. Canevaro, J. Gaudreau, 2009,
p.157) Dunque, non più la logica della cura e della semplice assistenza, ma
interazione comunicativa con finalità educative e di socievolezza.
Da questa breve analisi notiamo che nel corso dei tempi si afferma una vera e
propria messa in discussione di una prassi educativa che, con l‟avanzare della
civilizzazione e del principio di uguaglianza, si percepisce come errata e
inconcludente.
Mettere in discussione una pratica di educazione standardizzata significa, per
coloro che credono fortemente nel processo innovativo di integrazione sociale,
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cominciare
a
ipotizzare
la
necessità
e
la
possibilità
di
un‟alternativa
all‟inserimento in una struttura a “tempo indeterminato” della persona.
Con il procedere degli anni e il cambiamento degli ideali, cominciò a farsi strada
questa ipotesi che portò in sé una ventata di aria fresca e una visione più
intelligente dell‟educazione della persona con disabilità nella sua globalità.
Nel dopo guerra, precisamente dagli anni 50‟in poi, si giunse a capire l‟urgenza
di riorganizzare e progettare una nuova educazione che aveva come interlocutore
principale la disabilità e la sua integrazione.
Affermando la centralità della persona, l‟intera società cominciò, in maniera
sempre più radicale ad incamminarsi sulla strada della “pratica dell‟integrazione”.
A questo proposito il professore Andrea Canevaro, tramite una sua riflessione
scritta da me sugli appunti durante le lezioni di pedagogia speciale, ci aiuta a
capire in maniera molto chiara quale sia l‟importanza
dell‟inclusione: “non si
nasce al di fuori del contesto sociale per esservi successivamente integrati, in
quanto si è già inclusi”.
1.3 Le parole fanno la differenza: “incontrare i significati”
Un
ulteriore
aspetto
importante,
di
questo
incontro,
conseguenza
del
cambiamento di intendere la stessa, si evidenzia nel percorso di trasformazione
dei termini lessicali che definiscono una persona con disabilità. Le parole hanno
una storia e un significato. Comprenderli significa poterli usare con più precisione
e attenzione. Conoscerli, a volte, può portare a scegliere di non usarle.
Anche nella cronologia dei nomi che hanno definito queste persone si delinea
quell‟inversione di mentalità descritta nel paragrafo storico. Le parole che
accompagnano la storia della disabilità descrivono un viaggio: un viaggio che
parte da “Handicap” per arrivare a “persona”. […] (P.Baratella e E.Littamè, 2009,
introduzione).
Con chiarezza, si nota che,nell‟uso linguistico si procede verso un alternarsi di
alcuni termini che sottolineano e riprendono sia il pensiero delle persone comuni,
sia la terminologia specifica usata nell‟ambito medico.
Al giorno d‟oggi, possediamo un piccolo ma significativo vocabolario con
all‟interno dei termini che racchiudono interni anni di storia e di cambiamenti
12
sociali. Ad esempio, durante il periodo del 1700 e del 1800 coloro che
mostravano segni diversi dalle persone comuni, venivano definiti “pazzi” . Colui
che era definito con tale nome era paragonato ad un folle affetto da malattia
mentale. Per l‟opinione pubblica del tempo, un soggetto eccentrico, stravagante
che si comportava in modo bizzarro, veniva definito con tale termine. Tale
soprannome definiva, in sostanza, una situazione che non era comune alla
normalità, per questo doveva essere tenuta sotto osservazione ed studiata nella
sua evoluzione quotidiana. Da questi nomi si percepisce la paura che le persone
avevano degli individui con queste caratteristiche. Si credeva infatti che essi
potessero mettere in pericolo i ritmi della “calma e tranquilla” vita sociale. Oggi,
con uno sguardo verso il passato, possiamo delineare un problema chiaro legato
al fenomeno “pazzia”: il rifiuto di accoglienza di coloro che erano diversi con la
tendenza a giudicare “altri da noi” coloro che mostravano segni non stabilità.
Dalla metà dell‟800 in poi, progressivamente, cambiano anche i modi di intendere
e di definire una persona diversamente abile. Nasce l‟esigenza di sostituire
termini divenuti offensivi, con parole che esprimessero la “mancanza oggettiva”
della persona. In questa maniera, indicando il soggetto, si sottolineava e
evidenziava il suo deficit, quello che nel suo corpo non era ben definito o ben
funzionante. A partire dagli anni 60‟ si comincia a utilizzare il termine
Handicappato. Questo termine è stato utilizzato per descrivere le difficoltà che
una persona con disabilità incontra nella propria esperienza di vita. Handicappato
per alcuni anni descrive chi è svantaggiato, stimolando un approccio basato sulla
pietas e su un modello medico che confina la persona con disabilità in una
condizione di cura perpetua.
Un ulteriore tappa del percorso terminologico, vede l‟uso del termine disabilità. Il
termine porta con sé l‟identificazione della persona con disabilità con una
persona, a cui manca qualcosa e una relazione che contrappone chi è abile a chi
è disabile, chi è normale a chi non lo è. Un ultimo aspetto evolutivo del termine,
riguarda l‟introduzione della parola diversamente abile. A livello formale cambia
solo il prefisso, ma l‟accento si sposta dalle non abilità alle abilità diverse,
contribuendo a cambiare la cultura del dis-valore e a passare a una logica del
valore diverso. “Diversabile è una parola positiva e propositiva allo stesso tempo,
richiama la necessità di essere visti, letti, considerati in modo differente, di essere
13
ascoltati anche come portatori di novità e di risorse” […] (Malaguti in Canevaro e
Ianes, 2003 p.56). Oggi è fondamentale adottare questo termine, perché
considera una persona con un deficit all‟interno di un nuovo orizzonte. Questo
nuovo percorso mette in risalto sia la storia personale dell‟individuo, che la
possibilità di acquisire delle abilità che possano aiutare a superare le difficoltà.
È l‟ICF che introduce non solo il termine “Persona con disabilità”, ma un nuovo
modo di pensare la disabilità. Si percepisce che la disabilità è una condizione
ordinaria del genere umano, non una condizione di salute. La persona non è
disabile ma può avere o sperimentare disabilità. Il passaggio dall‟essere all‟avere
cambia radicalmente modelli di approccio, di relazione e di presa in carico.
Matilde Leonardi nella nota introduttiva all‟edizione italiana dell‟Icf , parlando della
persona disabile, sintetizza ciò che ho affermato precedentemente cosi:
“Che cosa abbiamo in comune? L‟essere persone.
“Che cosa ci differenzia? L‟avere caratteristiche, bisogni, storie, aspettative, sogni
diversi. A volte, una disabilità.” […] (M.Leonardi, 2007, introduzione)
Il 2003 è stato proclamato “l‟anno europeo delle persone con disabilità”, un chiaro
e forte segno di cambiamento terminologico e di pensiero. Si pensi che nel 1981
si era celebrato l‟”anno internazionale degli handicappati”.
Da questo breve percorso storico sui termini che riguardano le persone con
disabilità evidenzio un forte e chiaro cambiamento positivo. Parallelamente è
necessario studiare da vicino i cambiamenti sociali, che hanno posto le basi per
la cultura dell‟integrazione, che ha come pietre delle fondamenta anche e non
solo l‟uso di nuovi termini.
1.4
Attraverso l’associazione Papa Giovanni XXIII una risposta concreta di
condivisione diretta: l’intuizione di un giovane prete di Rimini.
Dopo aver illustrato un primo sguardo sull‟evoluzione dei termini legati alla
persona con disabilità, vorrei evidenziare un altro “speciale incontro” che ho avuto
in svariate occasioni.
Questo dialogo ha come protagonista la figura di Don
Oreste Benzi che, con la sua grande intuizione, ha dato vita ad una associazione
molto vasta che si impegna fortemente nel favorire e creare il processo di
integrazione che mi interessa studiare, conoscere meglio e vivere concretamente.
14
Prima di descrivere i tratti fondamentali di questo sacerdote, vorrei per prima cosa
evidenziare un aspetto che sottolinea l‟importanza della nascita nel nostro
territorio italiano di molteplici associazioni cattoliche, che si sono occupate in
maniera chiara dell‟integrazione delle persone considerate marginali.
Alla base dell‟evoluzione di questi movimenti, che ritengo fondamentale come
strumento di inclusione sociale, è fondamentale accennare l‟importante contributo
di alcuni grandi pensatori che, con il loro contributo all‟interno della chiesa, hanno
creato un sistema, sulla base delle linee dettate dai Vangeli. Questo ha dato la
possibilità di creare molteplici e variopinte realtà che con l‟aiuto dei laici hanno
contribuito a favorire il processo di inclusione di coloro spesso abbandonati. Le
associazioni e i movimenti di stampo cattolico si inseriscono all‟interno di un
ampio dibattito culturale a livello nazionale dove non sono le uniche che
cominciano a progettare questa nuova cultura di inclusione.
Dopo le grandi guerre, si delinea sempre di più la ferma convinzione che
l‟individuo con disabilità non deve essere custodito e trattato secondo percorsi
terapeutici individualizzati, ma contestualizzato all‟interno del proprio territorio di
appartenenza. Nel concreto, l‟obiettivo forte di queste associazioni era quello di
creare un acceso dibattito sul tema della disabilità
che producesse lo
svuotamento
una
degli
istituti
progettando
e
ideando
forte
cultura
dell‟integrazione, collaborando con le diverse forme di associazionismo anche
non religioso che in quel periodo si occupa di questo tema. Questo portò ad una
serie di azioni mirate che nel giro di un breve periodo avviò un capillare servizio di
domiciliarità (ad esempio un grande movimento di volontari che presso le
abitazioni di persone con disabilità, passano del tempo, li aiutano nelle autonomie
personali, pregano assieme a loro, li portano a passeggio,etc..) o dei servizi
residenziali o semiresidenziali di dimensioni contenute (come l‟affermarsi del
centro diurno che di seguito descrivo). Queste innovazioni, in collaborazione con i
vari enti interessati, venivano rivolte agli amministratori pubblici locali e alle
famiglie come punto innovativo di un percorso che fino ad allora non era riuscito a
favorire l‟inclusione di persone con disabilità.
Come già delineato, un grande contributo, tra i tanti, deriva da gruppi religiosi che
si impegnarono a creare comunità di persone con disabilità, case-famiglie e una
forte rete di volontariato. Il grande elemento cardine di questi movimenti è il forte
15
senso di integrazione che ha la pretesa di eliminare ogni situazioni nel quale una
persona sia chiusa e sfruttata per scopi terapeutici.
Per evidenziare quale sia il contributo di questi movimenti prendo spunto dagli
scritti di Salvatore Nocera […] (S. Nocera, 1999, pp.11-26) che in un articolo
delinea alcuni aspetti fondamentali dell‟evoluzioni di questi primi gruppi laicicattolici. Nel suo scritto si percepisce che le prime associazioni sono spinte alla
base dagli ideali innovativi del Concilio Ecumenico Vaticano II. Sfogliando
qualche pagina dei documenti Conciliari ho trovato alcuni aspetti che credo siano
utili per il mio lavoro. Ad esempio nella “lumen Gentium” […] (SARTORI L.
2003,pag.38) al numero 36° viene delineato questo spirito innovativo:
“I fedeli devono riconoscere la natura profonda di tutta la creazione, il suo valore
e la sua ordinazione alla lode di Dio, e aiutarsi a vicenda a una vita più santa
anche con opere propriamente secolari, affinché il mondo si impregni dello spirito
di Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e
nella pace. Nel compimento universale di questo ufficio, i laici hanno il posto di
primo piano”. Da queste brevi ma intense parole capiamo la missione che si
rivolge a tutti gli uomini: creare situazioni di giustizia e uguaglianza, eliminando le
condizioni di emarginazione e di violazione dei diritti.
Sulla base di questa radicale intuizione proposta dal concilio Vaticano II, molti
sacerdoti, convinti di queste parole cosi ricche di significato, hanno cominciato a
creare vere e proprie associazioni con lo scopo di garantire l‟uguaglianza a tutti
gli individui. In particolare intendo sottolineare il grande impegno che
l‟associazione Papa Giovanni XXIII dagli anni ‟60, investe, per promuovere una
vera cultura di integrazione all‟interno della condivisone e della gratuità. Il
movimento si configura all‟interno di un ampio e ricco dibattito dove all‟interno
sono presenti molteplici attori che si impegnano, ancor oggi, per garantire
l‟integrazione. Nella tesi riporto questa mia esperienza come una tra le tante
strade di integrazione, e non come l‟unica via.
Questo movimento si costituisce grazie all‟infaticabile opera di Don Oreste Benzi,
il quale nasce il 7 settembre 1925 a S. Clemente, un paesino sulle colline
romagnole vicino a Rimini, da una povera famiglia di operai, settimo di 9 figli.
All'età di sette anni sceglie di diventare prete e appena può, nel 1937, a 12 anni
entra in seminario. Don Oreste sceglie, sin dalla sua tenera età, di fare della sua
16
vita un continuo servire coloro che definiti marginali erano diventati lo scarto della
società, e nella maggior parte delle volte venivano esclusi.
Fin da allora, fu grande il suo interesse per gli adolescenti ed i giovani, per
proporre loro "un incontro simpatico con Cristo" [...] (V.Lessi, 2008, pag68).
Dopo il 1950, per diversi anni, è stato docente e padre spirituale al seminario di
Rimini. Successivamente insegnò religione in diverse scuole riminesi divenendo
riferimento per molti studenti liceali. Nel 1968, al termine del primo campeggio
estivo del settembre
avvenimento
a cui parteciparono numerosi giovani con handicap,
rivoluzionario
considerando
i
tempi,
Don
Oreste
Benzi
commentando gli effetti ed i risultati ottenuti, disse: "Ciò che è avvenuto si può
sintetizzare in una frase: il Signore ci ha fatto incontrare i poveri e i poveri ci
hanno fatto incontrare Cristo". Di seguito fonda l‟associazione con alcuni giovani
coinvolti nei primi campi con gli adolescenti e con persone con disabilità, in
montagna e al mare. Il 5 Luglio 1972 l‟associazione con decreto del presidente
della Repubblica viene riconosciuta quale “ente per la formazione religiosa della
gioventù”. Il 25 Maggio 1981 l‟associazione, verificata la presenza di tutti i requisiti
di ordine formale e sostanziale, viene riconosciuta come comunità dalle autorità
ecclesiastiche. (V.Lessi, 2008, pgg 72-88)
Il 7 ottobre 1998 il Pontificio Consiglio per i Laici riconosce la "Comunità Papa
Giovanni XXIII" come Associazione internazionale privata di fedeli, di diritto
pontificio, con personalità giuridica a norma dei cann.298a e 321 – 329 del
Codice di Diritto Canonico.
Finalmente con decreto datato 25 marzo 2004 solennità dell'Annunciazione del
Signore, il Pontificio Consiglio per i laici conferma il riconoscimento all'
Associazione "Comunità Papa Giovanni XXIII" come associazione privata
internazionale di fedeli di diritto pontificio, secondo i canoni 298-311 e 321-329
del Codice di Diritto Canonico, approvando definitivamente anche gli Statuti e la
Carta di Fondazione.
Tra le molteplici iniziative cominciate dal sacerdote ricordo le grandi battaglie
contro la prostituzione, la tossicodipendenza e l‟alcolismo. Infine l‟aspetto cardine
della sua intuizione è lo sviluppo di una concreta e viva cultura dell‟integrazione
che sviluppi atteggiamenti di scambio tra le persone e coloro che vengono
considerati solamente gli emarginati: barboni, immigrati, persone con disabilità.
17
Da sempre, don Oreste si è impegnato perché la cultura dell‟inclusione sociale
dei più deboli fosse garantita e sviluppata in tutte le sue forme.
Secondo il sacerdote: "Mossi dallo Spirito Santo a seguire Gesù povero, servo e
sofferente, i membri della Comunità per vocazione specifica s'impegnano a
condividere direttamente la vita degli ultimi; cioè mettendo la propria vita con la
loro vita, facendosi carico della loro situazione...".2
Nello specifico della disabilità secondo il sacerdote Riminese sono fondamentali
alcuni punti:
-il rifiuto di quell‟atteggiamento estremamente pericoloso e pietistico nei confronti
di chi è in situazione di difficoltà.
-la promozione di una cultura non assistenzialista;
-un chiaro stile di condivisione, che sfocia nel coinvolgimento radicale con la
storia dell‟altra persona;
-la territorialità dell'intervento per evitare di chiudersi nella propria struttura ed
aprirsi alle realtà circostanti;
-la logica della quotidianità come unico spazio in cui tutti hanno la possibilità di
crescere e di emanciparsi attraverso il lavoro e momenti di vita comune.
- la gratuità di molti gesti. Don Oreste Benzi fonda la sua opera nella città di
Rimini dove, assieme ad alcuni giovani, inizia a chiedere a gran voce che
vengano chiusi gli istituti diffondendo la cultura dell‟accoglienza e dell‟affido
familiare di persone disabili. La sintesi del pensiero di questo sacerdote, che ho
avuto la fortuna di conoscere e incontrare più volte, è racchiusa nella frase:”dove
sono loro, lì anche noi” […] (V.Lessi, 1991, p.27).
Con queste bellissime parole don Oreste amava sottolineare che è fondamentale
che ogni persona viva all‟interno della propria casa e possa godere degli affetti
dei genitori e famigliari. Non è con l‟istituto che si creano le condizioni per
l‟edificazione della società e l‟inclusione delle persone diversamente abili. Inoltre,
secondo la logica del vangelo, nella quale le membra più deboli sono le più
necessarie, don Benzi comincia a creare le case famiglia, oggi sparse in tutto il
mondo, dove i genitori, oltre ad accogliere i figli nati naturalmente, si adoperano
per accogliere coloro che sono in difficoltà o vengono emarginati “rigenerandoli
nell‟amore”.
2
Testo tratto dalla Carta di Fondazione dell'associazione denominata “schema di vita”.
18
Partendo dal 1968, il sacerdote, comincia una lotta per il riconoscimento dei diritti
degli individui con disabilità. Centrale diviene la battaglia per l‟inserimento nel
mondo del lavoro, per garantire il diritto all‟occupazione, sulla base del motto
“chiudiamo gli istituti e apriamo le “fabbriche” […] (V.Lessi, 1991, p.29).
Di
seguito,
l‟associazione
si
batte
molto
per
smantellare
le
barriere
architettoniche. Fondamentale diviene la costruzione di cooperative non per, ma
con le persone con disabilità, non solo per la produzione, ma per lo sviluppo
globale della persona. Oggi, con più di 400 casa-famiglia, tanti ragazzi hanno
evitato l‟istituto e possono vivere una vita serena tra le braccia di genitori che li
sostengono nelle loro difficoltà e li aiutano nella difficile, ma possibile integrazione
sociale. Nel 2010, come prova che diffondere questa cultura è possibile,
l‟associazione Papa Giovanni XXIII possiede in tutto il mondo le case famiglie e
soprattutto in Italia uno degli aspetti radicali è stata la creazione di numerose
Coperative sociali. Le tipologie di quest‟ultime sono:
-
di tipo A, per rispondere ai bisogni socio-assistenziali ed educativi delle
persone svantaggiate più deboli, che non sono ancora pronte o non
possono affrontare inserimenti lavorativi.
-
di tipo B, per l‟inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, anche in
territori dove spesso non ci sono opportunità di lavoro neppure per i
normodotati.
Le cooperative divengono così anche sostegno alla domiciliarietà e contro
l'istituzionalizzazione.
Per sottolineare l‟importanza di don Oreste e del suo operato ho deciso di
chiedere un contributo a colui che oggi continua l‟opera del sacerdote. Così,
tramite un intervista, mi sono rivolto al dott. Giovanni Paolo Ramonda3, attuale
successore di don Oreste Benzi alla guida del‟associazione Papa Giovanni XXIII.
3 Giovanni Paolo Ramonda: nasce a Fossano in provincia di Cuneo, il 3 maggio 1960, settimo e ultimo figlio
di Stefano e Maria. Nel 1979, a 19 anni, va a Rimini per conoscere la Comunità Papa Giovanni XXIII. Lì
incontra per la prima volta don Oreste Benzi che gli propone di fare il servizio civile nella casa famiglia di
Coriano. Nel 1998 diventa vice responsabile generale dell'associazione e il 2 novembre 2007, con la morte di
don Benzi, assume ad interim la funzione di responsabile generale. Il 13 gennaio 2008 l'assemblea
straordinaria dell'associazione, riunita a Rimini, lo elegge nuovo responsabile generale della Comunità Papa
Giovanni XXIII. Nonostante gli incarichi e l’intensa vita di condivisione con gli ultimi, Giovanni Paolo Ramonda
ha sempre dedicato particolare attenzione ed impegno allo studio, conseguendo il titolo di Magistero in
scienze religiose presso la facoltà teologica di Torino, la laurea in Pedagogia con indirizzo psicologico presso
la facoltà di Magistero di Torino, il titolo di Consulente sessuologo, assieme alla moglie Tiziana, presso
l’Istituto di sessuologia clinica di Torino. Dal 1996 al 2002 è stato docente di Pedagogia presso la Scuola
regionale per educatori professionali di Fossano.
19
Lo scopo di questa intervista è dare voce ad una persona che quotidianamente si
impegna per l‟integrazione in molteplici campi del sociale. Il dott. Ramonda è
padre di 12 figli, alcuni nati naturalmente, altri “rigenerati nell‟amore” cioè in
adozione o affido. Alcuni di loro sono persone con disabilità.
Il primo quesito formulato chiede:
- Durante gli anni 70, don Oreste Benzi comincia la sua forte campagna titolata
“dove siamo noi, li anche loro”. Quale spinta ha portato il sacerdote a capire che
era urgente battersi per la chiusura degli istituti e creare un alternativa?
Risposta: “Don Oreste ha capito da subito che la persona ha bisogno di relazioni
significative, uniche, insostituibili che non possono essere assicurate in un
ambiente come quello dell’istituto dove vengono garantiti livelli assistenziali
adeguati, ma non quelli di tipo familiare e parentale garantiti da una figura paterna
e materna. La famiglia aperta, allargata con i bimbi, i giovani, i nonni ed anche i
diversamente abili, risulta essere una fonte di crescita armonica ed equilibrata per
lo sviluppo psicofisico del bambino. Una formazione all’alterocentrismo, alla
solidarietà, alla gratuità delle relazioni. Qui è realmente possibile una
integrazione, dove chi prima veniva istituzionalizzato a causa del suo handicap,
oggi diventa protagonista di storia, vivendo nelle realtà sociali dove ci sono tutti.
Scuola, lavoro, tempo libero”.
Analizzando alcuni passaggi fondamentali della risposta fornita dal Dott.
Ramonda possiamo percepire questa nuova scelta che ha caratterizzato a
quell‟epoca don Benzi. Le persone devono poter vivere la propria vita in mezzo a
quelle degli altri in un ottica di condivisione.
Nella successiva domanda si analizzano i due nuovi modelli che confermano
questa innovativa logica di integrazioni. Emerge come questi ambienti siano
collegati e necessari per lo sviluppo della persona diversamente abile. Ecco la
nuova domanda:
- Sia la casa famiglia, che le cooperative con i suoi centri diurni sono una delle
grandi intuizioni di don Oreste Benzi. Quali sono le colonne portanti, cioè gli
aspetti fondamentali di questi ambienti?
“La casa famiglia è un vero ambiente terapeutico in quanto persone che arrivano
da abbandoni precoci, con gravi handicap fisici, psichici, sensoriali e relazionali,
adolescenti affetti da psicosi e autistici, trovano in persone che diventano
20
riabilitatori a tempo pieno la base sicura per recuperare le capacità specifiche
presenti ma a volte tenute nascoste. La fiducia ricevuta garantisce quell’autostima
necessaria per affrontare le sfide che la vita impone ad ognuno.
Le cooperative sociali e i rispettivi centri diurni, garantiscono quel recupero delle
abilità educative ed occupazionali necessarie per ridare dignità a persone
fortemente segnate dal disagio. Attraverso attività di riabilitazione motoria, quali il
nuoto, ippoterapia, danza, musicoterapia, si recuperano le creatività molte volte
inespresse. La cooperativa di tipo b attraverso un’occupazione riesce a formare
all’attività
lavorativa
necessaria
persone
altrimenti
destinati
al
mondo
dell’emarginazione”.
Anche questa risposta propone un obiettivo chiaro e forte: eliminare le situazioni
che portano e favoriscono all‟emarginazione della persona diversamente abile
Profondo conoscitore dell‟uomo in tutte le sue dimensioni, don Oreste Benzi ha
sempre progettato il superamento degli istituti attraverso l‟affido familiare,
contribuendo a creare una profonda logica di integrazione sociale.
1.5 “Le cooperative sociali: luoghi di integrazione e di condivisione del sociale”
Dopo aver illustrato le linee fondamentali lasciate dal sacerdote riminese, cerco
ora di scendere nel dettaglio, affrontando da vicino quali siano gli aspetti che
costituiscono le cooperative sociali avviate dall‟associazione. Il mio intento è
quello di evidenziare gli elementi fondamentali che danno la forma e il significato
ai singoli centri diurni, che hanno, a loro volta, il compito delicato e spesso non
facile di “essere luoghi di integrazione”, evitando la logica dell‟esclusione e
dell‟assistenzialismo.
Ad oggi l‟associazione Papa Giovanni XXIII ha dato vita, come accennato, a
diverse cooperative sul territorio nazionale, che a sua volta sono composte da
diverse realtà.
La maggior parte di queste strutture sono centri diurno che hanno lo scopo
fondamentale di assicurare alla persona con disabilità quel processo di inclusione
nella società che non deve essere negato a nessuno.
Al fine di permettere alle diverse cooperative della Comunità di operare in unità
ed in sintonia, si è dato origine al Consorzio "Condividere Papa Giovanni XXIII"
21
quale strumento di coordinazione, sostegno ed animazione, così da definire
un'unica cooperativa, attraverso la figura giuridica consortile
Promosso dall'associazione "Comunità Papa Giovanni XXIII", il consorzio è nato il
24/06/1992 per creare quella che viene definita un "unica cooperativa".
L'associazione "Comunità Papa Giovanni XXIII" è l'elemento fondante e
costitutivo del Consorzio Condividere, ponendosi quale strumento operativo e
visibile della comunione e del legame esistente fra tutte le ragioni sociali
collegate, promosse e sostenute dall'associazione stessa.
Obiettivo di fondo del Consorzio è infatti completare quanto avviato dalla
"Comunità Papa Giovanni XXIII" per animare tutte le iniziative riguardanti il lavoro
e l'inserimento in centri educativi delle persone considerate, per vari aspetti, le più
povere dalla società.
Il consorzio, verificata la forma giuridica da applicare e le condizioni più opportune
sul come agire, lavora per promuovere, accompagnare e costituire nuove realtà
territoriali, specialmente dove la Comunità è già presente e radicata, secondo i
principi della società del gratuito.
Il principio fondante di questa “nuova società del gratuito” è fondamentale per il
processo di integrazione che in questa tesi descrivo: “questa società imposta tutta
la vita sociale partendo dalle membra più deboli. La costruzione della società,
l'organizzazione del lavoro, lo scambio dei beni, la scuola, vengono "formate"
(cioè ricevono forma) dalle membra più deboli. Le persone con disabilità, gli
anziani, , i bambini, gli immigrati, barboni, orfani, … vengono ad avere un ruolo
determinante in tutta la compagine sociale. In questa società si pensa a come
potere fare lavorare le persone con disabilità, evitando di rinchiuderli in istituti. Si
organizza la scuola su misura di chi ha più difficoltà a comprendere e ad
apprendere. Si costruisce la città rendendola agibile per gli anziani, i ciechi, gli
storpi, gli zoppi, i bambini. Il principio che dà forma alla società del gratuito è
“l'alterocentrismo”, contrapposto all'egocentrismo della società del profitto. La
dinamica generata da questo principio è la gratuità. La molla che spinge ad agire
tutti i suoi membri è il bene degli altri, nella consapevolezza che ognuno detiene il
bene dell'altro e che nel bene comune sta anche il bene del singolo.
L'indirizzo preso dal Consorzio per l‟avvio di nuove cooperative sociali, sia di tipo
A che di tipo B, si basa su alcuni passi fondamentali. Inizialmente si prepara e si
22
forma nel contesto locale la compagine sociale della nuova cooperativa. Ove non
vi fossero i requisiti per dare vita ad una nuova realtà cooperativa viene aperta
una sede operativa distaccata di una cooperativa già esistente, anche fuori del
proprio territorio di competenza originario. Successivamente, quando si creano le
condizioni di affidabilità ed autonomia, si da vita alla nuova cooperativa sociale
sempre con la supervisione e il sostegno del consorzio.
Il consorzio è interlocutore rispetto i vari enti pubblici e privati erogatori di
finanziamento o che sostengono in varie modalità, le attività svolte dalla realtà
sociale associata. All‟interno di questo paragrafo, sulla base dell‟idea del
consorzio e all‟interno del processo di attuazione della società del gratuito
ipotizzata da don Oreste Benzi, cerco di analizzare quale siano i principi cardine
che fan si che ogni cooperativa possa, attraverso il clima della condivisone,
attuare il processo dell‟integrazione sociale. Di seguito vengono evidenziati
(parole sottolineate) i requisiti necessari affinché la cooperativa con i suoi centri
possa corrispondere alle linee generali del consorzio e ai principi ideati da don
Oreste Benzi. Innanzitutto, dentro l‟associazione c‟è la ferma convinzione che il
centro
diurno
venga
ad
affermarsi
come
una
piccola
famiglia,
che
quotidianamente accompagna la persona verso l‟integrazione. Per ottenere un
risultato positivo è importante che, oltre alla buona progettualità, ci sia anche un
equipe preparata a sostenere la persona in ogni istante della sua giornata. Allora
un aspetto chiaro e fondamentale lo ricopre l‟equipe del centro, formata dalle
persone che si adoperano per l‟integrazione.
A questo proposito voglio riprendere un brano di Marisa Durante4, che spiega
bene le caratteristiche che deve avere una buona equipe all‟interno di una
struttura diurna e che si collegano perfettamente con lo stile dell‟associazione.
Dalla lettura del brano si percepisce che la persona diversamente abile non è un
oggetto da preservare ma un soggetto che deve essere messo nelle condizioni di
poter usufruire di qualsiasi servizio presente nella società. Per questo un
profondo scambio relazionale con l‟ambiente circostante crea le basi per questo
processo […] (M.Durante,1997, pp.33-43).
Da questo si percepisce che lo sguardo su ciò che sta attorno consente di
collegare l‟intervento del singolo centro con le iniziative che offre il territorio e
4
Marisa Durante è l’attuale direttore dei servizi sociali dell’azienda ULSS7 del veneto.
23
stimolando a sua volta il territorio a non dimenticarsi del disabile presente al
centro. L‟equipe del centro, formata dai suoi educatori, deve creare la base per
una comunicazione e relazione autentica di condivisone, mettendo la persona
nella situazione di poter contribuire nella società circostante.
Secondo l‟associazione, la possibilità di creare un forte senso di integrazione, che
si sviluppa attraverso l‟esperienza del centro diurno, ruota attorno alla creazione
di un clima di relazione attento alla persona, pronto a cogliere i suoi momenti di
malessere o benessere.
Un ulteriore aspetto fondamentale riguarda la creazione degli spazi e la
formazione di coloro che creano il processo di integrazione.
Ci deve essere buona professionalità degli educatori, che devono amare e
condividere il proprio ruolo con le persone con disabilità, rendendosi sempre
conto che non lavorano per uno scopo personale, ma sempre rivolto ad una
persona che si affida e si fida di loro. Dopo alcuni anni di lavoro presso un centro
diurno, mi sono reso conto che la buona relazione e la sicura preparazione di una
persona favoriscono questo processo di condivisione. Se manca uno solo di
questi due elementi non avviene lo scambio di informazioni che aiuta
reciprocamente nella crescita. Il buon educatore si rende subito conto che riceve
delle informazioni e le scambia, crescendo a sua volta. Tante volte affermo che
quotidianamente, ho tanti maestri, che attraverso le loro difficoltà mi insegnano
tantissime cose preziose della vita che spesso mi sfuggono. Nell‟educatore,
secondo l‟associazione, deve coesistere il “fare con l‟altro” assieme alla logica
della condivisone diretta, cioè dello “sporcarsi le mani con” come amava definire
numerose volte don Oreste Benzi.
Inoltre occorre una multidisciplinarietà delle professioni, che deve garantire uno
sguardo generale sia sulla persona che sul mondo circostante. All‟interno di un
equipe ben formata tanti devono essere gli attori che assieme alla persona
diversamente abile creano il progetto di questa integrazione sociale. Condizione
necessaria tra le diverse figure professionali deve essere uno scambio sinergico
di relazione, per evitare che ognuno navighi nel proprio mare, con una
dispersione di forze.
Inoltre ci vuole, un collegamento con l’equipe territoriale. Il centro diurno non è un
nuovo ambiente di segregazione, ma nasce come una prima risposta ad una
24
urgente chiamata di integrazione. La sua prima condizione necessaria, secondo
le linee del consorzio è il contatto continuo con l‟ambiente esterno che è la
società. Tramite questa relazione si comincia ad avviare quel processo che deve
portare la persona ad inserirsi gradualmente nei vari ambienti di un paese: il
lavoro (ove possibile), lo sport, il tempo libero, l‟associazionismo.
Inoltre, da sempre c‟è stata attenzione alla costruzione degli ambienti che
potessero rendere ogni spazio una casa accogliente, che servisse per un buon
servizio. Secondo l‟associazione i centri diurni nascono come luoghi di
accoglienza, dove le persone hanno la possibilità di essere capite e comprese,
dove hanno il loro spazio e la loro libertà. Questo diventa il trampolino di lancio
per favorire il contatto con la società che a sua volta diventa parte del centro e
della struttura.
Con la sua struttura il centro diurno comincia ad offrire una varietà di opportunità
e stimoli, affinché ogni persona diversamente abile possa raggiungere il massimo
dell‟autonomia possibile.
Un ulteriore aspetto fondamentale che qualifica il centro come “integratore
sociale” è l‟importanza, come già sottolineato, del progetto educativo che ogni
persona possiede. Il progettare equivale a interessarsi che ogni cosa vada nel
senso corretto. Con la nascita di un progetto si afferma il prendersi cura
totalmente di una persona, non vivendo al suo posto, ma aiutandola ad interagire
con l‟ambiente. Con il tempo questa progettualità ha assunto un valore primario
all‟interno del centro diurno, che si configura come un valido sostegno al sé
rispetto alle tendenze disgreganti che operano dentro di lui. Al centro di questo
progetto c‟è la persona con la sua disabilità, con i suoi rapporti familiari, con i suoi
interessi, con le sue possibilità. Il progetto deve sempre avere come scopo, quello
dell‟integrazione, cioè mettere la persona in condizioni di sentirsi parte utile del
mondo che lo circonda. Durante gli ultimi anni all‟interno delle nostre cooperative,
parallelamente all‟evoluzione dei servizi sociali e delle norme in materia di
integrazione, si è assistito ad una forte riorganizzazione del progetto educativo
(PEI) che ha assunto un ruolo cardine. Questo valido strumento è continuamente
sostenuto e aggiornato sia dall‟utente che è il protagonista, sia dalle figure
educative del centro, dal servizio territoriale e dalla famiglia. Con questo
procedimento non si vuole affermare che il progetto educativo è un “prodotto
25
pronto all‟uso” creato da persone esterne, ma che la progettazione è della
persona e il suo sviluppo coinvolge il territorio e la famiglia. Questa è la vera
integrazione. L‟elemento fondamentale per una buona progettualità sta nel
accorgersi quali siano le mancanze della persona e i suoi punti di sviluppo.
Secondo l‟associazione e l‟intuizione di don Oreste, l‟elemento fondamentale è
vivere assieme alla persona con disabilità accorgendosi delle sue difficoltà e
proponendo un vero e solido progetto di sviluppo affinché le potenzialità di una
persona, quali esse siano, vengano messe al servizio degli altri.
Assieme alla famiglia e, dove possibile, con l‟individuo si procede a creare un
progetto da realizzare, che, dopo un periodo di tempo prestabilito, viene
continuamente discusso, migliorato e integrato. La persona non è mai sola, ma
accompagnata da un valido strumento condiviso dalla famiglia e dagli operatori
sociali. Infine l‟individuo viene sempre pensato come una risorsa e mai come
persona senza alternativa.
Secondo le linee fondamentali della cooperativa, il centro diurno comincia a
delinearsi come un luogo nel quale la persona, a causa delle difficoltà che
incontra, trova uno spazio che lo sostiene. Grazie ad un ambiente ricco di stimoli
la persona si tiene in allenamento e sviluppa delle capacità che in altri luoghi
rischiava di non far crescere.
All‟interno di questa quotidianità il centro diurno, secondo le linee guida
dell‟associazione Papa Giovanni XXIII, riveste un ruolo importante di mediatore
tra i servizi sociali e la famiglia. Ben presto si comincia a diffondere l‟idea che
l‟ambiente diurno non è un luogo che separa, ma si delinea come un insieme di
forze che comprendono i genitori, i servizi competenti e gli operatori del centro.
Da questo legame nasce un nuovo modo di gestire quello che appariva l‟iniziale
disagio dell‟handicap che diventa ora una risorsa utile per la società. La famiglia
non è più sola e ha la certezza che qualcuno ascolta le sue richieste.
Ora la famiglia può contare su un progetto ben definito, al quale partecipa
attivamente.
Tramite
il
dialogo
e
questa
organizzazione,
si
elimina
l‟emancipazione costruendo degli interventi mirati e precisi.
Ogni individuo diversamente abile tramite la vita in famiglia, trova nel centro
diurno uno strumento necessario per integrarsi nella società. La persona
diversamente abile cresce nel proprio ambito familiare fatto di affetti e relazioni
26
profonde e tramite il centro diurno cresce all‟interno della società. È importante
sottolineare che il servizio deve essere, come dice il nome stesso, diurno, perché
ogni persona ha il diritto di vivere con i propri fratelli e genitori. Questo è un altro
elemento fondamentale che sta alla base della costruzione dei servizi diurni
soprattutto in quelli creati dall‟associazione Papa Giovanni XXIII.
Da sempre si è creduto fondamentale che il ragazzo potesse partire e ritornare
ogni giorno nella propria famiglia. La proposta innovativa è quella di una piena
integrazione fatta di lavoro quotidiano, relazioni con le persone e il vivere
nell‟proprio ambiente famigliare. Ogni persona è uguale all‟altra, tutti collaborano
e si aiutano a vicenda e una volta finito l‟orario di lavoro o di attività educative il
rapporto di relazioni affettive non può continuare in un centro residenziale, ma
può solo avere il proprio compimento all‟interno dell‟ambiente familiare dove si
ritorna per condividere assieme la seconda parte della giornata e dove si
racconta cosa è accaduto condividendo le gioie e i dolori comuni a tutte le case
del mondo. Dell‟ esperienza della famiglia a lungo se ne potrebbe parlare e
ciascuno
la vive in maniera personale, ma tutti ed allo stesso modo ne
avvertiamo il bisogno. Inconsapevolmente sentiamo il bisogno della famiglia, ed è
proprio per questa ragione che deve essere sana ed equilibrata. Dalla sua
disgregazione possono nascere dei problemi seri, ma non esistono regole che
fanno di una famiglia un nucleo modello. Se i componenti donano affetto,
sensibilità, partecipazione, vivacità e confronto c‟è famiglia! Ogni persona ha
diritto alla propria famiglia e se questa non c‟è gli esperti del settore educativo
devono cercare una mediazione con i famigliari (fratelli o parenti) di questa
persona, altrimenti si deve far in modo che una famiglia (esempio la casafamiglia) possa far sentire sempre a casa l‟individuo, continuando a donare
l‟amore è la comprensione di cui ha bisogno. Allora diventa molto forte e
fondamentale l‟urgenza di coltivare una buona relazione con la famiglia mettendo
a disposizione diversi strumenti: incontri periodici e un costante monitoraggio del
progetto che ogni persona ha su di se. Così ogni giorno i ragazzi, dopo il loro
lavoro e lo stare assieme quotidiano, tornano nella propria abitazione, anche se
per alcuni la convivenza con i genitori spesso anziani non è facile.
Oltre alla realtà della famiglia è molto importante anche quella del lavoro come
dimensione indispensabile dell‟esistenza dell‟uomo con la quale la vita è costruita
27
ogni giorno, dalla quale essa attinge la propria dignità, ma nella quale è
contemporaneamente contenuta la costante misura dell‟umana fatica. Nella
misura in cui l‟uomo si realizza nel proprio lavoro, è partecipe all‟attività ed è in
grado di aiutare ed amare.
L‟importante è che qualcuno
sia sempre pronto a mediare e a sostenere,
aiutando nelle difficoltà.
Marisa Durante, partecipando al convegno organizzato a Jesi nel 1997 sui centri
diurno, delinea un aspetto cardine che qualifica il centro diurno come possibilità
che crea continuità e sviluppo nella vita dell‟individuo: “l‟esistenza di questo
servizio diventa strategica perché consente la costruzione di corretti progetti di
integrazione a seconda dei bisogni, aspettative, possibilità concrete dei disabili e
della famiglia” […] (M.Durante,1997, pp.33-43). Cosi il centro diurno nasce come
risposta alle diverse esigenze della persona, dalla sua età, al suo handicap.
Di seguito a quello delineato dalla Durante, secondo la comunità Papa Giovanni
XXIII, bisogna fare attenzione a non creare interventi meramente assistenziali,
caritativi e compassionevoli.
Lo stesso centro diurno rischia di diventare un nuovo istituto se alla base non ha
come fine quello dell‟integrazione, della progettualità e della condivisione.
Per attuare questo processo sono possibili diverse maniere. Uno è lo scopo e
cioè l‟integrazione, diverse sono le forme per attuarlo.
Infatti, durante questi anni di lavoro con le persone disabili, tante sono le
domande e altrettante sono le risposte che nascono. All‟interno del “consorzio
condividere”5 si afferma una svariata pluralità del servizio.
Ben presto ci si rende conto che la persona diversamente abile ha una sua
propria personale esigenza che non è comune alle altre. Per questo nasce la
necessità di diversificare i percorsi per garantire una migliore progettualità volta
all‟integrazione. Di seguito evidenzio le maggiori risorse che sono nate all‟interno
delle cooperative del consorzio condividere e che quotidianamente si impegnano
a realizzare la cultura dell‟integrazione.
Elenco di seguito le varie tipologie di centro diurno:
- Centro Socio - Riabilitativo Diurno: questa tipologia di servizio nella norma
ospita soggetti adulti, dopo il compimento del 18° anno di età, portatori di
5
Il “consorzio condividere” è formato dalle diverse cooperative a sua volta formate dai centri diurno
dell’associazione comunità Papa Giovanni XXIII.
28
handicap, non autosufficienti e/o autonomi, per minorazioni fisiche, psichiche o
sensoriali, per i quali non è stato possibile, al momento e in alcun modo,
prevedere forma di inserimento al lavoro, né normale, né protetto.
Il Centro può accogliere anche utenti dai 14 ai 18 anni di età.
L‟aspetto fondamentale di questo luogo è quello di offrire ospitalità diurna e
assistenza qualificata ad ogni singolo utente, attraverso interventi mirati e
personalizzati
atti
all‟acquisizione
e/o
al
mantenimento
di
capacità
comportamentali, cognitive e affettivo - relazionali. Inoltre si cerca sempre di
considerare ogni utente nella sua globalità, pur mirando a rilevarne le potenzialità
specifiche e a finalizzarle in attività riabilitative atte a creare nuove forme di
comunicazione e di linguaggio. Un altro punto fondamentale è quello del
sostegno e supporto alla famiglia, favorendo la permanenza della persona con
disabilità nel proprio nucleo. Si persegue, quindi, l‟integrazione sociale degli
utenti, rendendo attuabile la frequenza di strutture esterne a carattere sportivo e
sociale, sia formali che informali. Questo strumento diviene innovativo con il
passare del tempo e apre la strada della società a molte persone che sino a quel
momento non avevano questa possibilità. Inoltre questo luogo comincia ad
essere portatore di una nuova mentalità all‟interno della cultura. Ben presto si
scopre che il centro diurno si presenta come un grosso aiuto e un valido
accompagnamento nei momenti fondamentali della vita della persona, cioè
durante l‟adolescenza e la vita adulta. Qui l‟individuo si sente preso per mano e
accompagnato giorno dopo giorno sulla strada del suo sviluppo psicosomatico e
sociale. Alla base di questo percorso c‟è una relazione vera e autentica di
condivisione. Qualsiasi ragazzo o adulto all‟interno di questo spazio quotidiano
vive le gioie e le sofferenze comuni a tutti gli uomini avendo la liberta di mostrare
o comunicare le sue difficoltà.
- Centro diurno di Terapia Occupazionale:Il Centro ospita soggetti adulti, dopo il
compimento del 18° anno di età, portatori di handicap, non autosufficienti e/o
autonomi, per minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali, per i quali non è stato
possibile, al momento e in alcun modo, prevedere forma di inserimento al lavoro,
né normale, né protetto.
Le attività educative che vengono svolte, oltre a rivolgersi all‟acquisizione e al
mantenimento delle autonomie di base, sono finalizzate al recupero sociale,
29
psico-fisico e relazionale di ogni utente. I percorsi di integrazione sono soprattutto
di tipo occupazionale oltre che di tipo espressivo e sportivo.
Le attività lavorative sono strutturate per laboratori: (esempi comuni)
-laboratorio di falegnameria;
-laboratorio di assemblaggio di semplici oggetti;
In essi gli utenti rafforzano le loro autonomie personali e professionali e si
avvicinano al mondo produttivo e alla realtà esterna.
La strutturazione dei singoli laboratori è flessibile in quanto legata sia alla
tipologia dell‟utenza che alle richieste che il mercato pone.
- Centro diurno, laboratorio formativo di avviamento al lavoro:il centro offre a varie
tipologie di utenze la possibilità di un avviamento al lavoro che sia in contatto con
l‟ambiente esterno e che preveda la possibilità di un vero e proprio inserimento ad
esempio in una fabbrica, o in un luogo a misura della persona.
Con il passare del tempo si delinea una vera e propria carta di identità del centro
diurno con una sua precisa struttura e organizzazione.
Innanzitutto, i destinatari sono generalmente persone in età che va dai 15-18 ai
64-65 anni con disabilità medio grave per le quali è molto difficile ipotizzare un
impiego lavorativo. Durante i primi anni dell‟apertura dei centri gli utenti
provenivano dalle proprie famigli spesso da una situazione di reclusione o
nell‟ambiente familiare o nell‟istituto. Ad oggi ci sono rari casi di ragazzi che
arrivano dopo un breve percorso scolastico spesso a causa dell‟aggravarsi
dell‟handicap assieme ad una difficile e delicata situazione familiare.
In secondo luogo la capienza di un centro diurno è di 25-30 utenti. Le prime
strutture ospitavano al massimo 20 persone diversamente abili. Oggi, grazie ad
una riorganizzazione normativa e strutturale, alcuni centri sono progettati per
accogliere diverse persone.
Un ulteriore aspetto è l‟orario di apertura dei centri che va dalle ore 8.00 alle ore
16.00 della giornata (con assieme il tempo per il trasporto). Il c.d rimane aperto
dal lunedi al venerdi, per sottolineare l‟importanza del ritorno e della vita presso la
famiglia di origine.
Con il passare del tempo e l‟organizzazione normativa presso i singoli centri
nasce la figura di coordinatore. Il responsabile coordina il gruppo degli educatori e
tiene il contatto con i servizi territoriali.
30
Durante gli anni 90‟si è affermata anche la forte convinzione che all‟interno di ogni
struttura ci deve essere un equipe di operatori formati sul piano culturale e capaci
di relazione e condivisione. Di seguito vengono riportati i punti fondamentali che
sono le fondamenta che deve possedere una buona equipe:
1° Sfidare: proporre obiettivi sfidanti, spingere a fare di più, ad andare oltre.
Favorire l‟innovazione e la sperimentazione, promuovere il cambiamento,
vincendo l‟inerzia delle resistenze.
2° Coinvolgere (verso una visione comune): creare occasioni di comunicazione e
di scambio in cui tutti si possano esprimere, si rendano disponibili le risorse, le
informazioni e le conoscenze. Creare un consenso vero attorno ai valori e alle
finalità.
3° Allenare: rispettare e valorizzare le persone, costruire fiducia, investire
nell‟ascolto, sostenere l‟apprendimento continuo dall‟esperienza continuamente
riflettuta, verificata e condivisa, far crescere la coesione e l‟integrazione del
gruppo di lavoro…
4° Potenziare (empowerment): sostenere l‟espressione delle potenzialità
individuali e favorire il loro sviluppo, accrescere la presa di responsabilità di
ciascuno, stimolare le motivazioni a crescere e migliorare come persone e nel
lavoro svolto.
5° Condividere il protagonismo: imparare a lavorare in équipe;
Volontà di verifica e d‟imparare dalla vita, in modo speciale di lasciarsi verificare
dagli altri membri dell‟équipe.
Un ulteriore aspetto fondamentale sono i servizi che vengono offerti alla persona
diversamente abile all‟interno del centro diurno. Ogni singola attività ha sempre lo
sguardo verso un miglioramento delle condizioni di vita e verso la piena
integrazione, cercando sempre di essere radicati nel territorio condividendo questi
momenti assieme alle persone che lo abitano.
Con il tempo sono sorte attività di ippoterapia,idroterapia, fisioterapia per quanto
riguarda il miglior manto fisico della persona. Tutte le persone quando hanno un
problema fisico, dopo un accurata visita del medico, cominciano la terapia di
riabilitazione. Anche per le persone diversamente abili tutto questo avviene:
hanno la possibilità di migliorare i propri problemi somatici attraverso l‟uso di
molteplici forme di riabilitazione. Per quanto riguarda l‟area relazionale e della
31
socializzazione vengono proposte attività ludiche, gite, campeggi estivi e
invernali. Infine si è sviluppata l‟area che mira a sviluppare e favorire la manualità
e la creatività nell‟individuo attraverso i laboratori espressivi, manuali e artigianali.
Infine si sviluppa l‟area lavorativa dove ogni persona, con le sue possibilità,
contribuisce alla realizzazione di un lavoro, che può essere svolto all‟interno della
struttura (manutenzioni, imbiancare, lavare, spazzare o cose più semplici), fuori
dalla struttura (recarsi per alcuni periodi a lavorare presso delle fabbriche o in altri
luoghi) o per conto di aziende esterne (ad esempio il lavoro per “conto terzi).
Per ognuna di queste attività c‟è sempre stata la forte necessità di una chiara
definizione degli obiettivi, dei risultati e dei tempi di attuazione all‟interno del
progetto individuale che si crea assieme alla persona.
Il centro diurno rappresenta uno dei servizi importanti a favore delle persone con
disabilità grave e gravissima. Esso deve essere proposto alla persona quale
occasione per sviluppare le abilità residue e per mantenerle nel tempo.
Questo servizio deve essere integrato nella rete dei servizi territoriali e deve
garantire una sua continua apertura
alle
opportunità, ove possibile, di
integrazione della persona disabile nel contesto sociale e lavorativo.
Al fine di garantire la corretta gestione di questo servizio deve essere presente
nei singoli territori una attenta politica di integrazione lavorativa delle persone con
disabilità, condizione indispensabile per permettere al centro diurno di svolgere il
suo specifico ruolo.”
1.6 L’incontro con la disabilità: “Un insieme di norme verso l’integrazione”
Dopo aver delineato il mio incontro con la disabilità all‟interno di una panoramica
storica
e
successivamente
nel
concreto,
delineando
l‟esperienza
dell‟associazione Papa Giovanni XXIII da tempo impegnata su questo tema
delicato, continuo a descrivere l‟importanza del processo di integrazione sociale
aprendo una sintetica pagina riguardante i cambiamenti legislativi che hanno
accompagnato questa rivoluzione.
Di seguito, divisi per anni, descrivo in ordine di emanazione, quali siano stati i
principali regolamenti legislativi che hanno contribuito maggiormente a diffondere
32
e a tutelare questa nuova cultura dell‟integrazione, che ha come unico soggetto la
persona con disabilità.
Il primo aspetto che voglio evidenziare, e che ho già accennato nelle righe
precedenti è ribadire con forza, ancora una volta, il fondamentale cambiamento
culturale e ideologico avvenuto durante gli anni 60‟ che sta alla base delle nuove
regolamentazioni.
Si
comincia
a
percepire
che
non
è
più
possibile
l‟istituzionalizzazione della persona diversamente abile, ma è urgente un ritorno in
famiglia e un‟ apertura verso la società tramite le modalità precedentemente
illustrate. Sulla base di questa nuova coscienza culturale e sociale, il mondo
politico comincia ad interrogarsi, e si afferma un dibattito molto forte capace di
produrre dei cambiamenti significativi.
All‟interno del mio scritto non viene fatta né un analisi politica né giuridica delle
norme, perché ci vorrebbero interi capitoli che trattano solo di questo argomento,
ma per ogni legge citata effettuo una piccola analisi, che mostra i cambiamenti
avvenuti dagli anni 60‟ ad oggi.
Prima di illustrare l‟evoluzione legislativa, ritengo sia importante evidenziare
l‟importanza di questo aspetto tramite una domanda che ho rivolto a Marisa
Durante, esperta nel campo dell‟integrazione sociale della persona con disabilità
e che riporto di seguito: “Durante gli anni ‟60 avviene un cambiamento storico nel
modo di pensare la disabilità, non più intesa come oggetto da “recludere”, ma
parte integrante della società. Qual è l‟aspetto sociale e storico predominante
che ha determinato quest‟inversione di marcia?”
Negli anni ’60 e ’70 vengono emanati i primi provvedimenti legislativi che
interpretano i principi fondamentali quali quello della dignità sociale di tutti i
cittadini previsto dalla costituzione repubblicana (art. 3, 4, 38). Con le leggi
482/68, 118/71, 517/77, per la prima volta si tenta di concretizzare i principi
costituzionali favorendo l’integrazione dei disabili.
In questi anni si attua altresì il decentramento amministrativo che vede il
progressivo trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni, con la
conseguente produzione di provvedimenti a livello locale.
Le più rappresentative associazione di tutela delle persone con disabilità
nascono in questi decenni contribuendo alla affermazione dei diritti delle persone
in un quadro culturale ed economico più dinamico ed attento.
33
Con questa certezza posso ben partire all‟interno di questo breve percorso.
Innanzitutto il decennio, più fertile, nell‟ambito delle innovazioni legislative risale
dalla fine degli anni settanta. Successivamente, vi è stato un ulteriore periodo
fondamentale tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta.
Un primo e chiaro forte segnale di questo percorso ci viene fornito dalla Carta
Costituzionale Italiana che all‟interno dell‟articolo 38 […] (a cura di L.Sebastiani,
1997, pag 19) afferma che ogni persona, specie se inabile, ha diritto
all‟assistenza sociale.
“Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha
diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano
preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di
infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.
Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale.
Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o
integrati dallo Stato. L'assistenza privata è libera”.
Questo primo chiaro elemento indica che ogni persona deve poter usufruire di un
assistenza sociale che tuteli il diritto di colui che è inabile e incapace, cioè debole.
Nella parte conclusiva della legge viene sottolineato che chi si deve occupare di
questa assistenza sono gli organi e gli istituti che lo stato predispone per meglio
svolgere questo servizio, tra le quali le Regioni. Quest‟ultime giocano un ruolo
molto importante perché sono chiamate ad organizzare gli svariati interventi
nell‟ambito del disagio, della precarietà e dell‟esclusione. L‟articolo 117 della
costituzione afferma che la regione deve garantire: “determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale”, e la “previdenza sociale”. A questo punto è
bene fermarsi per evidenziare un primo aspetto fondamentale. Si sviluppa, infatti,
su tutto il territorio nazionale, una molteplicità di idee che avevano alla base
questa forte idea di una cultura dell‟integrazione. Le regioni cominciano a giocare
un ruolo fondamentale perché, per prime, si sentono coinvolte in questa
rivoluzione e cercano di creare svariati luoghi dove venisse creata questa
ideologia dell‟inclusione. Il dott. Claudio Caffarena6, sottolinea questa nuova
spinta innovativa evidenziando che, in questi anni e a livello territoriale, sorgono
6
Claudio Caffarena, Sociologo, Consulente e Formatore “Studio Il NODO”
34
diverse iniziative. Questo lo si nota dalla diversificata pluralità di termini utilizzati
per denominare lo stesso servizio: “(CST Centro-socio-terapeutico - CSF Centro
Socio-formativo - CSE Centro socio-educativo - CSR Centro Socio-riabilitativo CR Centro risocializzante - CEOD Centro Educativo Occupazionale diurno - CD
centro diurno – CAD Centro Attività Diurne - SSF Struttura socio-formativa…).
Questo elemento testimonia la varietà di ipotesi progettuali, accomunate dalla
necessità di fornire una risposta diurna, ma differenziate da vari fattori quali il
contesto di riferimento, le normative in vigore, le esigenze delle persone, le
risorse a disposizione, le prospettive di sviluppo ecc”. […] (C.Caffarena, 2006,
pp.10-16). In ogni regione si afferma una risposta diversa ma con una base
comune: quella di un inizio di integrazione.
Comincia, grazie alla spinta e alla maturazione politica, il servizio dell‟assistenza
per rispondere gli articoli 2 e 3 della Costituzione nella quale viene ribadito
l‟obbligo dello stato, di rimuovere le cause di diseguaglianza. Nascono cosi i
servizi di assistenza domiciliare sociale a sanitaria. Vengono anche progettati i
primi interventi psicopedagogici che comprendono oltre al sostegno familiare
anche l‟istituzione del centro diurno.
anni 60’: nel 1968 con l‟entrata in vigore della legge 482/68‟ ha inizio il percorso
di integrazione sociale per quelle categorie considerate “invalidi” al quale viene
assegnato un posto di lavoro obbligatorio. Osserviamo cosa dice il primo comma:
“1. (Soggetti aventi diritto ad assunzione obbligatoria). - La presente legge
disciplina la assunzione obbligatoria - presso le aziende private e le
amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le amministrazioni
regionali, provinciali e comunali, le aziende di Stato e quelle municipalizzate,
nonché le amministrazioni degli enti pubblici in genere e degli istituti soggetti a
vigilanza governativa - degli invalidi di guerra, militari e civili, degli invalidi per
servizio, degli invalidi del lavoro degli invalidi civili, dei ciechi, dei sordomuti, degli
orfani e delle vedove dei caduti in guerra o per servizio o sul lavoro, degli extubercolotici e dei profughi”.7
Si afferma l‟importanza e l‟urgenza di integrare coloro che si trovano in una
particolare condizione, all‟interno del mondo del lavoro, cercando di creare un
opportunità sociale ed economica. Proseguendo nella lettura del testo si nota che
7
Le leggi riportate in questo paragrafo, evidenziate in corsivo, sono tratte dal sito:
http://www.handylex.org.
35
che, però, non mancano delle contraddizioni. Infatti al comma 10 del testo di
legge si nota una piccola ma enorme problematica: quella del licenziamento.
Infatti c‟è scritto: “Oltre che nei casi di licenziamento previsti per giusta causa o
giustificato motivo, i mutilati e invalidi di cui alla presente legge possono essere
licenziati quando, a giudizio del collegio medico provinciale di cui all'articolo 20,
sia accertata, su richiesta dell'imprenditore o dell'invalido interessato, la perdita di
ogni capacità lavorativa o aggravamento di invalidità tale da determinare
pregiudizio alla salute ed incolumità dei compagni di lavoro, nonché alla sicurezza
degli impianti.” Nelle citazioni ho sottolineato la frase nella quale ci sono le parole
“giusta causa” o “giustificato motivo”. Evidenzio, che nella legge 482/68‟, c‟è una
grande contraddizione. Da una parte compare un obbligo di assunzione, dall‟altra
la possibilità di licenziare per giusta causa. Ogni luogo di lavoro, non avendo
specificato il caso in cui è possibile licenziare, si trova a gestire la questione a
proprio piacimento o con il foglio del medico (come riportato nel articolo 20) che
certifica la perdita totale della capacità lavorativa o un aggravamento
dell‟invalidità tale da determinare problemi alla salute e all‟incolumità dei colleghi
di lavoro o alla sicurezza degli impianti. Spesso nascevano delle incertezze
sull‟organo deputato a svolgere e determinare un licenziamento con sempre più
difficoltà e dubbi nella gestione delle assunzioni e dei licenziamenti spesso
numerosi e in alcuni casi ingiustificati. Ad esempio, con il varo del d.lgs 626 del
1994 si afferma la sindacabilità del giudizio della valutazione per un
licenziamento. Ricordiamo
a questo proposito che la legge 68 del 1999
ha
abrogato la 482/68‟.
Rimane costante un primo fattore positivo che sottolinea, se pur ancora in
maniera non chiara, l‟inizio dell‟integrazione della persona diversamente abile
nella società nello specifico del mondo lavorativo.
Proseguendo sul nostro percorso, sempre nel 1968 viene approvata la legge
406/68‟, che regolava le norme per la concessione di una indennità di
accompagnamento ai ciechi assoluti assistiti. Con questo decreto, alla categoria
delle persone diversamente abili “cieche”, viene concessa un indennità di
accompagnamento. Questo permette a tali persone di poter usufruire di un valido
aiuto e sostegno che faccia da guida nell‟ambiente domestico e in quello sociale.
Sembra banale, ma anche questa legge contribuisce a favorire l‟integrazione di
36
quei soggetti impossibilitati nella vista. Grazie a questo sostegno molte persone
cieche hanno avuto la possibilità di un‟ aiuto per raggiungere alcuni luoghi di
lavoro o per svolgere qualche piccola mansione, che prevedesse l‟uso delle mani
e dell‟udito
anni 70: Durante questi anni si registra un forte impulso legislativo. L'ingresso nel
mondo della scuola e del lavoro dell‟handicap sottolinea i diritti di cittadinanza
delle persone disabili limitando, di molto, una cultura dell'handicap inteso come
fatto sostanzialmente medico. Questo è un dato sicuramente diffuso anche se le
disomogeneità in Italia sono evidenti e quindi un quadro unitario è estremamente
difficile da tracciare. Termini come prevenzione, integrazione scolastica,
socializzazione, hanno segnato la cultura degli anni '70 ampliando enormemente
gli spazi di dignità per tanti bambini handicappati e per le loro famiglie. Durante
questi anni si afferma una fiorente evoluzione legislativa in materia dei servizi
sociali. Con la legge 381/1971 vengono tutelati i sordo muti con delle norme che
favoriscono la loro integrazione sociale con l‟ingresso nel mondo del lavoro e la
pensione reversibile. Successivamente con la legge 118/1971 si ha la prima
norma organica sull‟invalidità civile, con cui vengono create le provvidenze
economiche dell‟assegno mensile e della pensione di invalidità civile.
Durante il 1977 si compie un passo davvero importante che contribuisce a creare
ancor più integrazione sociale. Infatti la legge 517/77‟ sancisce l‟abolizione delle
classi differenziate per i disabili. Il testo dice al comma 2: “…Nell'ambito di tali
attività la scuola attua forme di integrazione a favore degli alunni portatori di
handicap con la prestazione di insegnanti specializzati assegnati ai sensi
dell'articolo 9 del decreto del Presidente della Repubblica 31 ottobre 1975, n.
970, anche se appartenenti a ruoli speciali, o ai sensi del quarto comma
dell'articolo 1 della legge 24 settembre 1971, n. 820 . Devono inoltre essere
assicurati
la
necessaria
integrazione
specialistica,
il
servizio
socio-
psicopedagogico e forme particolari di sostegno secondo le rispettive,
competenze dello Stato e degli enti locali preposti, nei limiti delle relative
disponibilità di bilancio e sulla base del programma predisposto dal consiglio
scolastico distrettuale..”
Grazie a questa legge viene stravolta la relazione educativa e didattica docentealunno con il passaggio dal programma alla programmazione, eliminando
37
l‟obbligo per il docente di creare programmi diversificati. Altri passaggi qualificanti
della 517 sono stati, la valutazione formativa, caratterizzata dalla rivisitazione
della programmazione di classe e disciplinare mediante interventi di feedback
sulle attività, metodi, obiettivi, volti a garantire all‟alunno disabile risposte
adeguate ai bisogni formativi; la flessibilità organizzativa e didattica, con la
strategia delle classi aperte; la personalizzazione degli interventi metodologicodidattici. Durante il 1978 all‟interno della politica avviene qualche cosa di
straordinario.
Il
dibattito
acceso
sull‟integrazione
sociale
delle
persone
diversamente abili porta alla creazione della legge 180/1978 ad opera del dott.
Franco
Basaglia.
Questo
decreto
introdusse
una
importante
revisione
ordinamentale sui manicomi e promosse notevoli trasformazioni nei trattamenti
psichiatrici sul territorio. Il dott.Basaglia, medico psichiatra, sosteneva che dal
momento in cui si oltrepassa il muro dell'internamento, il malato entra in una
nuova dimensione di vuoto emozionale; viene immesso, cioè, in uno spazio che,
originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in
pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento
della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia
mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell'individualità, della libertà, nel
manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente
perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell'internamento. L'assenza di
ogni progetto, la perdita del futuro, l'essere costantemente in balia degli altri
senza la minima spinta personale, l'aver scandita e organizzata la propria
giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto
tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari
circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la
vita dell'asilo”. Egli propose una legge quadro che impose la chiusura dei
manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, creando i servizi di
igiene mentali pubblici. Le intenzioni della legge 180 erano quelle di abbassare
l‟uso delle terapie farmacologiche ed il contenimento fisico, instaurando una
nuova ideologia comunicativa basata sui rapporti umani rinnovati con il personale
e la società, riconoscendo appieno i diritti e la necessità di una vita di qualità dei
pazienti, seguiti e curati da ambulatori territoriali.
38
Successivamente, sempre, nel 1978 viene approvata la legge 833/1978 che
sancisce la creazione del Servizio Sanitario Nazionale. In particolare l‟articolo 64
dice: “La regione nell'ambito del piano sanitario regionale, disciplina il graduale
superamento degli ospedali psichiatrici o neuropsichiatrici e la diversa
utilizzazione, correlativamente al loro rendersi disponibili, delle strutture esistenti
e di quelle in via di completamento”… “E' in ogni caso vietato costruire nuovi
ospedali psichiatrici, utilizzare quelli attualmente esistenti come divisioni
specialistiche psichiatriche di ospedali generali, istituire negli ospedali generali
divisioni o sezioni psichiatriche e utilizzare come tali divisioni o sezioni
psichiatriche o sezioni neurologiche o neuro-psichiatriche”
Da questo momento in poi avviene un forte cambiamento all‟interno della società.
Coloro che erano rinchiusi nei manicomi o negli ospedali vengono tutelati e si
afferma per loro la necessità di costruire l‟integrazione sociale.
Vedremo di
seguito che dagli anni „80 si affermano le leggi che serviranno per tutelate e
creare
i
nuovi
luoghi
di
integrazione
sociale
come
alternativa
al
istituzionalizzazione, tra cui anche il centro diurno.
anni 80: Gli anni '80 sono stati particolarmente importanti dal punto di vista
culturale e legislativo nell'handicap, anni in cui la rivoluzione culturale del
decennio precedente aveva veramente posto le premesse consentire a persona
con disabilità, di "diventare adulti", anche senza tracciare linee di confine
invalicabili tra deficit fisici e deficit intellettivi.
E dietro a questo modernismo sono corse molte associazioni, molte persone
disabili, molti giornali e televisioni, spesso anche il sindacato e gli enti locali. Le
tecnologie informatiche, le barriere architettoniche (tema di confine con le
sensibilità ecologistiche esplose negli anni '80), le vacanze e il turismo, lo sport,
sono stati gli scenari su cui hanno agito politici "handicappati", giornalisti
"sensibili", persone con disabilità "che hanno scritto un libro", cantanti "attenti al
sociale", stiliste di moda "che si sono poste il problema".
Un ulteriore passo legislativo viene compiuto nel 1980 attraverso la legge
18/1980 che sancisce l‟entrata in vigore dell‟indennità di accompagnamento per
le persone diversamente abili. L‟assegno di accompagnamento diviene uno
strumento utile alla persona e alla famiglia che può contare su un valido aiuto
economico per accedere ai servizi che in qualche maniera migliorano la
39
situazione psico - fisica del soggetto e inevitabilmente aumentano la possibilità di
riuscita della persona all‟interno del processo di integrazione sociale.
Un ulteriore elemento significativo viene compiuto nel 1983 con la legge 184 che
regola la “disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori”. L‟articolo al
comma 1 dice: “Il minore ha diritto di essere educato nell'ambito della propria
famiglia”. Questo punto diviene fondamentale perché anche le persone con
disabilità assumono questo fondamentale diritto: vivere nel proprio ambiente
familiare. Nel caso di gravi difficoltà il minorenne ha la possibilità di essere
affidato o adottato presso un'altra famiglia. Grazie a questa legge, oggi molti
ragazzi diversamente abili hanno una famiglia evitando l‟istituzionalizzazione.
Un altro segno importante all‟interno di questo percorso avviene nel 1989 con la
legge 13 relativa alle "Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione
delle barriere architettoniche negli edifici privati."
Questo decreto sottolinea un importante momento storico, non solo nella
ideologia e nella cultura dell‟integrazione, ma anche nell‟architettura della società
che comincia a porre importanza al diversamente abile: vengono eliminate le
grandi barriere architettoniche dagli edifici. Lo stato si impegna a favorire questo
processo tramite, sia una norma severa e rigorosa contro chi non adempie questo
ordine e sia con l‟erogazione di un contributo economico. Con questa norma si
attua una vera e propria “rivoluzione copernicana” nel quale il legislatore
costantemente vigila sulla progettazione e sulla realizzazione dei nuovi edifici,
perchè vengano eliminati gli ostacoli che costituiscono un handicap per le
persone diversamente abili.
anni 90: durante gli anni novanta assistiamo ad una vera e propria rivoluzione
legislativa con il susseguirsi di molteplici norme che contribuiscono a creare
questa cultura di integrazione.
Nel 1991 con la legge 266 vengono istituite e regolamentate le associazioni di
volontariato. Questa legge è molto importante perché nei nostri comuni italiani le
associazioni già esistenti vengono formalizzate e si assiste ad fiorire di nuovi
gruppi di volontari che si adoperano nei vari settori della società. Il volontario
diventa una persona molto importante per l‟accompagnamento e il sostegno della
persona diversamente abile all‟interno della società. Ad esempio, molti centri
40
diurno cominciano sempre di più ad avere il sostegno dei volontari che diventano
ben presto una risorsa utile e necessaria.
Nel corso del 1991 viene creata, tramite la legge 381, una riorganizzazione e la
tutela delle Cooperative sociali. Questo decreto afferma: “Le cooperative sociali
hanno lo scopo di perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione
umana e all'integrazione sociale dei cittadini attraverso:
a) la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi;
b) lo svolgimento di attività diverse - agricole, industriali, commerciali o di servizi finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate.”
Tramite questa legge le cooperative cominciano ad essere regolarizzate e a sua
volta vengono riorganizzati anche i centri diurni che sempre più svolgono i compiti
sopra indicati dal testo di legge.
La legge 104/1992, denominata “legge quadro per l‟assistenza, l‟integrazione
sociale e i diritti delle persone handicappate”, è un chiaro tentativo più compiuto
di una norma organica relativa alla disabilità. Importante è analizzare le finalità
della legge che dimostrano una chiara e forte disponibilità ad un sempre
maggiore cambiamento verso una cultura dell‟integrazione. Il testo dice:
La Repubblica:“garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e
di autonomia della persona handicappata e ne promuove la piena integrazione
nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società;
b) previene e rimuove le condizioni invalidanti che impediscono lo sviluppo della
persona umana, il raggiungimento della massima autonomia possibile e la
partecipazione della persona handicappata alla vita della collettività, nonché la
realizzazione dei diritti civili, politici e patrimoniali;
c) persegue il recupero funzionale e sociale della persona affetta da minorazioni
fisiche, psichiche e sensoriali e assicura i servizi e le prestazioni per la
prevenzione, la cura e la riabilitazione delle minorazioni, nonché la tutela giuridica
ed economica della persona handicappata;
d) predispone interventi volti a superare stati di emarginazione e di esclusione
sociale della persona handicappata.
Nelle varie Regioni si assiste ad una diversificazione di interventi, che vengono
finanziati o dai Comuni per intero oppure in altre regioni dal servizio sanitario
41
regionale. Purtroppo, ancora oggi, molte norme di questa legge risultano
inapplicate o scarsamente applicate.
Attraverso la legge 724/1994, legge finanziaria del 1995, viene sancita la chiusura
(terminata solo nel 1999) definitiva dei manicomi.
Durante il 1996 con il d.P.R n°503 si costituisce il completamento sul territorio
urbano ed extraurbano in materia di barriere architettoniche, introdotta con la
precedente legge 13/1989.
Inoltre grazie al d.P.R del 14/01/1997 vengono dettati gli standard dei presidi e
dei centri di riabilitazioni, quali i centri diurno.
Un altro importante decreto legislativo è quello del 1998 n°162 sulle "Modifiche
alla legge 5 febbraio 1992, n. 104, concernenti misure di sostegno in favore di
persone con handicap grave". In questa legge vengono poste le basi per la
realizzazione di progetti sperimentali a favore di persone diversamente abili non
autosufficienti.
anni 2000: ll passaggio al nuovo secolo ha sicuramente portato una ventata di
cambiamento ancor più radicale. Infatti sono state ampliate e ridefinite alcune
norme create negli anni novanta.
Con la legge 328 del 2000 viene definito e riorganizzato il sistema integrato di
intervento dei servizi sociali. Al comma 1 viene ribadito un importante aspetto che
possiamo sottolineare con un solo nome: integrazione sociale. Infatti il testo cita:
“1. La Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di
interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita,
pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o
riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare,
derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non
autonomia, in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione.”
Aspetto fondamentale di questa legge è il comma 14 che affronta il tema delle
Disposizioni per la realizzazione di particolari interventi di integrazione e sostegno
sociale. Questa parte della norma evidenzia l‟importanza del Progetto Individuale
della persona. Questa progettazione non è da intendere, come già detto, come un
fattore di esclusione, ma come sostegno per l‟integrazione della persona disabile.
Inoltre la legge 328 delinea quali devono essere gli interventi territoriali e regionali
per favorire il processo di integrazione tra la famiglia, la persona disabile e la
42
società. Infine, con l‟articolo 27° viene istituita la “commissione di indagine sulla
esclusione sociale” che ha il compito di evidenziare le situazioni di disagio e
promuovere attraverso il contatto con il governo e le politiche sociali strumenti per
eliminare questi problemi.
Un altro passo importante nel processo di inclusione, avviene con la legge 383
del 2000 sulla “Disciplina delle associazioni di promozione sociale”. Nell‟articolo
2° viene descritto l‟identikit di un‟associazione: “Sono considerate associazioni di
promozione sociale le associazioni riconosciute e non riconosciute, i movimenti, i
gruppi e i loro coordinamenti o federazioni costituiti al fine di svolgere attivita' di
utilita' sociale a favore di associati o di terzi, senza finalita' di lucro e nel pieno
rispetto della liberta' e dignita' degli associati. A differenza dei gruppi di
volontariato, le associazioni non si limitano solamente alla mera soddisfazione
degli interessi e dei bisogni dei volontari, ma sviluppano una forte apertura al
sociale operando la promozione e la partecipazione della solidarietà attiva
all‟interno della società. Durante il 2000 viene emanata la "Legge quadro per la
realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali". Tramite questa
norma lo stato si impegna a: “assicurare alle persone e alle famiglie un sistema
integrato di interventi e servizi sociali, promuovere interventi per garantire la
qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza,
prevenire, eliminare o ridurre le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio
individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e
condizioni di non autonomia, in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della
Costituzione.”. L‟anno 2001 costituisce un ulteriore passo importante con il
Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151 che affronta la tematica delle "
disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della
paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53". Questa legge
permette un sostegno alle famiglie che hanno persone diversamente abili che
richiedono molto tempo per l‟assistenza. Anche questo è da considerarsi come un
segno preciso di questa nuova cultura di integrazione dove al genitore viene
concessa la possibilità di avere tempo per curare i progetti riabilitativi e di
integrazione costruiti per il proprio figlio.
Nell‟anno 2003 viene approvato il Decreto Legislativo 9 luglio 2003, n. 216, sul
43
"Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro". Questa legge sottolinea l‟importanza di
eliminare qualsiasi discriminazione in ambito lavorativo. Il decreto cosi inizia: “Il
presente decreto reca le disposizioni relative all'attuazione della parita' di
trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni
personali, dagli handicap, dall'eta' e dall'orientamento sessuale, per quanto
concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro, disponendo le misure
necessarie affinche' tali fattori non siano causa di discriminazione, in un'ottica che
tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione
possono avere su donne e uomini.”
Durante il 2003 tramite la Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 28
febbraio 2003 è stata indetta la "Giornata nazionale per l'abbattimento delle
barriere architettoniche". Questa giornata ha lo scopo di sensibilizzare fortemente
lo smaltimento di quelle situazioni che impediscono alla persona disabile di avere
accesso libero ai servizi presenti nella società.
L‟anno 2004 presenta un ricco percorso legislativo con molteplici norme che si
susseguono e che riguardano principalmente gli aspetti economici legati alle
pensioni e ai permessi per l‟assistenza. Un aspetto importante è da sottolineare
con la Legge 9 gennaio 2004, n. 4 sulle "Disposizioni per favorire l'accesso dei
soggetti disabili agli strumenti informatici." La Repubblica riconosce e tutela il
diritto di ogni persona ad accedere a tutte le fonti di informazione e ai relativi
servizi, ivi compresi quelli che si articolano attraverso gli strumenti informatici e
telematici. 2. È tutelato e garantito, in particolare, il diritto di accesso ai servizi
informatici e telematici della pubblica amministrazione e ai servizi di pubblica
utilità da parte delle persone disabili, in ottemperanza al principio di uguaglianza
ai sensi dell'articolo 3 della Costituzione.” L‟accesso alle tecnologie informatiche
per molte persone con disabilità diventa una risorsa molto importante per
comunicare, imparare. Si pensi a coloro che usano la comunicazione facilitata o
comunicano tramite pc.
Nel 2006 viene approvato il decreto n. 185 sul "Regolamento recante modalità e
criteri per l'individuazione dell'alunno come soggetto in situazione di handicap”.
Durante il 2007 viene emanato la legge 29 novembre 2007, n. 222
"Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1° ottobre 2007, n.
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159, recante interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e
l'equità sociale". Nel 2009 viene approvata l‟Ordinanza Corte Costituzionale 26
gennaio 2009, n. 35 “Previdenza e assistenza - Legge-quadro per l'assistenza,
l'integrazione sociale e i diritti delle persone con handicap - Assistenza a persona
con handicap in situazione di gravità, parente o affine entro il terzo grado,
convivente.
Come conclusione di questo breve percorso storico e legislativo, dove vengono
presentate in maniera rapida alcune tra le principali norme che favoriscono il
processo di integrazione, è bene sottolineare alcuni elementi fondamentali che
emergono da questa analisi:
1° Grazie alle leggi si capisce che l‟integrazione culturale è un percorso in
continua evoluzione e che viene messo costantemente in discussione;
2° Avviene il passaggio dalla filosofia dell‟ "assistenza" e della “protezione” della
persona disabile, alla filosofia della "vita autonoma" in tutti i campi della vita
sociale;
3° L‟attenzione alla persona con disabilità nella sua globalità,indipendentemente
dallo stato e dal tipo di handicap in cui si trova, con un approccio innovativo che
considera la persona disabile nel suo sviluppo unitario dalla nascita, alla
presenza in famiglia, nella scuola, nel‟ lavoro e nel tempo libero;
4° Il passaggio dall‟obbligo dell‟impresa ad assumere il soggetto con handicap, al
diritto soggettivo al lavoro della persona con disabilità.
45
Schema di sintesi del primo capitolo:
INCONTRARE LA DISABILITÁ OGGI:L’ESPERIENZA DI UN EDUCATORE
SOCIALE
INCONTRARE LA DISABILITÁ OGGI:
ESPERIENZA DI UN EDUCATORE
SOCIALE
EVOLUZIONE STORICA
DELLA DISABILITÁ:
passaggio
dall’assistenzialismo
all’integrazione sociale
PERSONA
CON
DISABILITÀ
L’IMPEGNO
DELL’ASSOCIAZONE
PAPA GIOVANNI
XXIII NEL FAVORIRE
L’INCLUSIONE
SOCIALE:
“li dove loro, li anche
noi”
_________________________________________
INCONTRARE LA DISABILITÀ: UN INSIEME
DI NORME VERSO L’INTEGRAZIONE
46
SECONDO CAPITOLO
IL CENTRO DIURNO COME POSSIBILE STRUMENTO D’INTEGRAZIONE:
UN ESPERIENZA STRAORDINARIA NELL’ORDINARIO
2.1 Introduzione al capitolo:
Nel precedente capitolo di questo elaborato è stato evidenziato sia il percorso
storico che quello legislativo, riguardante il mio incontro con la disabilità,
evidenziando un lungo processo di trasformazione che si sta attuando nel campo
dell‟inclusione sociale.
La mia tesi iniziale consiste nel dimostrare che in questo momento di passaggio e
di organizzazione dei servizi sociali a livello nazionale, un servizio territoriale
diurno può essere uno, tra i molteplici strumenti di integrazione sociale di persone
con disabilità, che in molti casi rischiano di essere reclusi nelle proprie abitazioni
per lunghi periodi della loro vita. Il centro diurno, diventa uno strumento importante
soprattutto nei luoghi in cui le politiche sociali e politiche ancora oggi sembrano
non accogliere la logica dell‟integrazione totale proposta dalla convenzione Onu,
sinteticamente illustrata nel introduzione di questa tesi.
Fondamentale, secondo la mia intuizione, è evidenziare che il centro diurno è una
delle possibili strade dell‟integrazione, ma non è l‟unica. Su questo passaggio,
infatti, bisogna fare attenzione a distinguere degli aspetti che assumono un ruolo
ben preciso. Nella mia esperienza, il centro nel quale lavoro, organizzato secondo
criteri ben precisi, ha assunto nel tempo, come risposta, una valenza fondamentale
per coloro ai quali è difficile, dopo una elementare scolarizzazione, l‟inserimento
stabile nel mondo del lavoro specializzato. Per evitare una chiusura della famiglia e
del proprio figlio verso un ottica di sola assistenza viene ideata questa struttura,
che ha come scopo quello di integrare le persone diversamente abili con la società
circostante, affinché tutti possano godere degli stessi diritti.
Sia il periodo storico, che la mentalità sociale degli anni ‟80, ci aiutano a percepire
il perché sia nato un centro che accoglie persone con disabilità e cerca la loro
integrazione con il mondo circostante. Da una parte il rifiuto delle famiglie
47
nell‟accettare la disabilità, dall‟altro, conseguente la chiusura dei manicomi e degli
istituti, la necessità di progettare nuove strade per l‟inclusione.
Cosi si afferma questa nuova idea che non è un nuovo modo di chiamare un
manicomio ma un ponte tra il difficile clima famigliare,il periodo storico, e il ragazzo
con le sue capacità verso l‟ambiente esterno.
Di seguito, viene riportata la mia esperienza personale, legata all‟ attività lavorativa
che ha come scopo quello di dimostrare ciò che fino a qui è stato scritto.
Parlare di un‟ esperienza potrebbe essere riduttivo o cadere troppo nel soggettivo.
Eppure reputo troppo importante affrontare questo tema così fondamentale, dando
una testimonianza che vivo sulla mia pelle in ambito occupazionale, famigliare e
nella vita che quotidianamente scelgo di vivere accanto alla disabilità.
2.2 L’incontro con la disabilità: una scelta radicale
Dalla mia nascita, ho avuto una grande fortuna e cioè quella di incontrare già nella
mia famiglia alcune persone con disabilità che, giorno dopo giorno, mi hanno
insegnano a vivere. Oltre alle molteplici parole qui scritte, dentro le mie scelte
quotidiane permane una forte convinzione che l‟integrazione sociale è una
condizione della realtà, che deve coesistere con gli altri aspetti della civiltà.
Oggi è ancora necessario battersi per l‟affermazione dell‟integrazione, anche se
alcuni passi sono stati raggiunti.
Come accennavo nel titolo di questo paragrafo, l‟incontro con la disabilità diventa
una scelta radicale, che deve essere sempre rinnovata. All‟interno di questo
settore non si può stare nell‟incertezza, ma bisogna con convinzione dedicarsi a
questo delicato compito favorendo l‟inclusione. Coloro che intraprendono questa
strada si trovano davanti ad un bivio che gli impone una scelta. Un prima via,
purtroppo prevede un percorso che da alla persona la possibilità di cadere
nell‟indifferenza: questa è la strada del “ci pensa qualcun altro”. Questa è molto
pericolosa perché, oltre ad essere radicata nella società odierna, rimanda ad altre
persone e altri tempi il compito dell‟integrazione sociale delle persone disabili. Ma
poco distante compare un'altra strada molto pericolosa che ancora oggi trova
molte persone che la percorrono. Questi individui sono coloro che scelgono la
strada dell‟inclusione sociale, ma si fermano alle sole motivazioni lavorative o
48
remunerative. Mi capita molto spesso di dialogare con alcuni educatori, che
affermano di occuparsi del vasto mondo della disabilità solamente per un fattore
economico o lavorativo: “è un lavoro come un altro”. Quest‟ultima è la frase che
spesso si sente proclamare da molte persone e che fa capire quanto sia difficile
creare una situazione di vero sostegno all‟integrazione.
Lavorare assieme a persone con disabilità non può essere solamente un fatto
economico, ma deve diventare una quotidianità vissuta accanto ad una persona
che ha bisogno di un sostegno per ritagliarsi un po‟ di libertà nella società che
ancora oggi, sembra negare questa possibilità. Per questo, compare un‟ultima
strada è possibile percorrere e cioè quella di una “scelta radicale”. Ogni persona
che si impegna in questa rivoluzione, deve, secondo la
mia idea, impegnarsi
radicalmente oltrepassando la logica del guadagno e instaurando un rapporto di
vera comunicazione empatica con colui che necessità di integrazione. Questa
scelta deve andare oltre alle ore lavorative e investire tutta la vita della persona
nelle decisioni e nella quotidianità, sempre proiettata verso una logica d‟inclusione.
Non è solamente assieme alla persona con disabilità che costruisco l‟integrazione,
ma essa viene formandosi anche dai miei discorsi, dalle scelte, dallo stile di vita e
da come annuncio ad altri la portata innovativa che possiede questo processo.
Inoltre, oltre al tempo dedicato al lavoro quotidiano in questo settore, occorre
anche della gratuità. L‟integrazione sociale richiede persone che si spendano
gratis, per far si che coloro, che non riescono con le proprie forze, possano trovare
un ambiente accogliente che risponda alle loro esigenze.
Questo, secondo la mia esperienza, è il lavoro dell‟educatore sociale, cioè di colui
che faticosamente durante l‟intera giornata crea le condizioni, affinché le persone
disabili possano sentirsi integrate nella loro società.
Per sottolineare l‟importanza di compiere una scelta radicale prendo alcune parole
dagli scritti di Don Oreste Benzi, fondatore di una delle tante cooperative nelle
quali quotidianamente condivido il lavoro con altre persone, che ben descrivono il
ruolo dell‟educatore.
“Non si accolgono i fratelli per istruirli, guarirli, toglierli dall‟abbandono, ma perché il
Signore li ama, ce li manda, e con essi ci si appartiene nel Signore e, perché si
amano, si cerca di guarirli, istruirli… ma si rimane con loro anche se sono
irrecuperabili”. […] (V.Lessi, 1991, p.30).
49
In queste parole si trova racchiuso il vero senso del lavoro educativo.
Tramite questa tesi ho la pretesa di dimostrare che anche coloro che sembrano
irrecuperabili, o che la medicina definisce come “gravi” possono essere integrati
nella società e vivere con altre persone la loro vita.
Nella struttura presso il quale lavoro c‟è una scritta nell‟ufficio che recita cosi: “È
fondamentale promuovere tutte le azioni ed attività possibili affinché le persone
diversamente abili, considerati fratelli e sorelle, siano inseriti nella società nelle sue
molteplici forme organizzative, al fine di renderli sempre più soggetti attivi e
protagonisti di storia”. Ogni persona deve sentirsi un attore principale in ogni
azione che compie durante la sua giornata. Tutti, ognuno con la sua specificità,
concorre al bene della società cercando di creare sempre più questa cultura
dell‟inclusione che ancora oggi trova qualche difficoltà. Ed è per questo, che ho
scelto di rispondere a questa chiamata durante la mia vita, intraprendendo sia un
buon percorso di studio, sia un attività giornaliera che mi porta ad essere un
promotore e “combattente” all‟interno di questa rivoluzione cominciata negli anni
60‟. Un ulteriore aspetto che mi sembra giusto inserire nella mia tesi, soprattutto a
conclusione di questo primo percorso universitario, riguarda la scelta dell‟iter di
studio. Certo che la mia vita avrebbe avuto come sfondo quello della vera
condivisione con le persone con disabilità, ho scelto Scienze della Formazione
perché credo sia la miglior strada per capire a livello teorico quali siano le
condizioni per riuscire bene all‟interno dell‟integrazione.
Questa scelta che si rinnova nell‟incontro con la disabilità, mi ricorda un importante
compito, cioè quello di trasformare le mie abilità affinché possano diventare mezzo
di inclusione per colore che ne hanno questo urgente bisogno.
2.3 Il centro diurno “il nodo”. Un esperienza piena di integrazione come risposta
a tanti dubbi
Durante la realizzazione di questo percorso mi sono più volte interrogato su come
un centro diurno possa essere strumento di integrazione sociale. Oggi il rischio è
quello di ricreare un ambiente chiuso che porta le persone ad essere sradicate
dalla società, un po‟ sulla falsa riga dei precedenti manicomi o istituti. In realtà, non
è proprio cosi, perché, come sperimento giornalmente, se questi luoghi vengono
50
organizzati
secondo
alcuni
criteri ben
precisi,
che
verranno
evidenziati
successivamente, allora può nascere l‟inclusione piena della persona disabile.
Ritengo importante cominciare questo complicato percorso, spiegando quali siano
stati i due elementi base che hanno portato alla creazione del centro diurno come
servizio di risposta per persone con disabilità. Questi sono:
- la situazione storica;
- la condizione delle famiglia dopo la chiusura dei manicomi;
Il primo percorso da compiere è quello di analizzare e ripercorrere la situazione in
parte storica e in parte ideologica che riguarda il territorio nel quale nel 1986 sorge
il centro diurno il “nodo”.
Per dimostrare la necessità di questo strumento nel processo di inclusione, è
fondamentale ripercorrere quali siano state le richieste da parte delle famiglie e
quali sono, ancora oggi, le risposte dei servizi o di coloro che decidono di
rispondere alla “vocazione” dell‟integrazione sociale.
Per prima cosa, all‟interno del territorio della Val Marecchia, oggi provincia di
Rimini, dobbiamo approfondire da vicino il contesto storico locale nel quale
cominciano a muoversi i primi segni di questa inclusione. Come in tutte le
situazioni, in principio l‟ambiente non si presenta così facile da gestire e da capire.
Se ripercorriamo la cronologia ci troviamo in un territorio nel quale l‟idea di
diversamente abile viene considerata come un problema: problema sia a livello dei
costi economici per la società e per i comuni locali, sia per i servizi che devono
essere erogati e infine problema per la mancanza di strutture idonee. Come
rivelano tante storie di vita, siamo di fronte ad uno scenario difficile da interpretare
e da comprendere, dove sono tante le famiglie che si trovano a dover fronteggiare
il “problema della disabilità”.
In queste ultime difficili parole, si nasconde un grosso primo pericolo: i genitori di
bambini e adulti con disabilità considerano la loro situazione come una “disgrazia”
o come un “destino sfortunato” e continuamente si piangono addosso, pensando di
aver sbagliato qualche cosa. È evidente che in questo clima così sfiduciato e
pauroso comincia e continua un atteggiamento di anti-integrazione, dove coppie di
genitori credono che, con la nascita di un figlio disabile, la vita bella e gioiosa
finisca e cominci quella della tristezza e dell‟angoscia. Dalle varie testimonianze,
che ancora oggi emergono saltuariamente dai dialoghi con genitori ormai anziani,
51
si percepisce con chiarezza la difficoltà, soprattutto dei padri, di accettare il proprio
figlio diversamente abile, spesso trattato come un bambino bisognoso di aiuto e
mai come adulto capace di sfruttare le sue diverse abilità.
L‟ambiente familiare preferisce nascondere la disabilità esprimendola come
aspetto pericoloso, che invece ad uno sguardo più attento si rivela una vera
“sorgente di risorse”. La conseguenza è catastrofica: i figli appena nati con qualche
evidente segno di diversa – abilità vengono considerati come “soggetti che
necessitano solamente dei bisogni passivi” (bisogni assistenziali e sanitari) e si
cerca sempre di nasconderli e chiuderli per evitare che troppi occhi indiscreti
possano assistere al dramma che si sta consumando all‟interno di un ambiente
familiare scosso, ad esempio, dall‟arrivo di un bimbo con la sindrome di Down o
paraplegico. Nelle menti di questi genitori, passano varie idee e le più comuni
vengono di seguito proposte.
Innanzitutto, un padre e una madre nella maggior parte dei casi vengono presi
dalla paura che qualcuno possa giudicare la loro situazione. Per questo si
barricano nelle loro abitazioni e addirittura cercano di evitare le visite con delle
scuse banali che ben presto non portano a nulla e cominciano a rendere
l‟ambiente nervoso e difficile da gestire.
Un secondo aspetto è la gestione dei bisogni del figlio. È chiaro che un bimbo con
disabilità ha bisogno di quelle attenzioni che sin dalla sua nascita lo sostengano
affinché si possa adempiere il processo di integrazione. Spesso le famiglie non si
fidano di coloro che possono essere d‟aiuto, considerando quest‟ultimi come dei
soggetti che con i loro discorsi da esperti voglio entrare bruscamente nella loro vita
e cambiare le cose. Così, come emerge da alcune storie, ci sono molte coppie di
genitori che cercano solamente nei servizi un aiuto miracoloso con un medico che
possa dire di aver trovato la medicina per far diventare il proprio figlio come quello
delle altre famiglie vicine, senza alcun tipo di impedimento. La conseguenza di
questo desiderio che non si avvera è duplice e ricade sempre sulla vita del
ragazzo.
Le conseguenze chiaramente, non sono delle migliori.
Il soggetto trasforma inconsciamente e inevitabilmente le sue diverse abilità in
condanne a vita; ad esempio se un individuo che ha difficoltà a camminare e
muovere gli arti, non viene stimolato attraverso dei percorsi motori o con delle
52
attività ben precise, il rischio è che la sua vita sia condannata su una carrozzina,
quando invece si poteva migliorare la qualità della vita della persona.
Di seguito il soggetto viene chiuso fisicamente in casa e la sua vita viene come
delimitata in un contenitore assistenziale, che nessuno deve andare ad aprire per
non scoprire cosa di “brutto” c‟è dentro.
I racconti di coloro che hanno aperto la realtà del centro “il nodo” evidenziano la
ventata di novità e grande innovazione che è stata la creazione del centro diurno
dove i ragazzi potevano sperimentare e respirare la liberta di poter muoversi
liberamente nella società.
Come appena sottolineato, ci troviamo di fronte ad un atteggiamento di paura che
investe le famiglie e le mette di fronte ad una bivio: da una parte c‟è la strada
faticosa e piena di insidie dell‟integrazione, mentre dall‟altra c‟è la strada piana e
facile da percorrere della segregazione o dell‟assistenzialismo.
Le conseguenze della non integrazione diventano pesanti. Il rischio è quello
dell‟assistenzialismo domestico e ciò della semplice cura del corpo di una persona,
di un assistere scandito dal ritmo di “turni di lavoro” che alternano persone che
lavano e somministrano il mangiare ad una persona con disabilità cancellando la
possibilità che esso possa far fruttare i propri talenti e cioè le sue diverse abilità.
La non integrazione equivale a cancellare la parte di una persona. Noi stessi non
possiamo stare senza amici, senza divertimento, senza far parte di un gruppo o
senza poter giocare, ridere e scherzare. Allora mi chiedo come possa un ragazzino
adolescente, costretto a vivere di nascosto dalla società per paura di scombinare
qualche equilibrio, dimostrare al mondo che ha delle capacità e che il suo ruolo è
fondamentale all‟interno della costruzione della società.
Dopo aver elencato e analizzato i principali problemi che emergono dall‟ambiente
familiare evidenzio quale risposta il territorio, grazie alle nuove leggi e al affermarsi
della prima cultura dell‟integrazione, ha cercato di dare come sostegno e aiuto per
lo sviluppo dell‟integrazione.
Durante l‟anno 1986 il
territorio della Valmarecchia ha sentito il bisogno e il
desiderio forte di costruire una realtà come segno tangibile di questa nuova era
dell‟ integrazione sociale.
53
2.4 le origini del centro
All‟interno del mio scritto è fondamentale ora, ripercorrere le tappe cronologiche,
che hanno generato e sviluppato questo innovativo servizio per il territorio preso in
questione. Per fare questo verranno ora evidenziati alcuni passaggi storici
fondamentali tratti dal lavoro di ricerca da me effettuato presso la documentazione
che è contenuta all‟ interno del centro diurno il Nodo, riguardante il giornalino del
paese nel quale vengono scritte anno dopo anno le varie vicende, tra cui quelle
della nascita e dell‟evoluzione del centro.
Il racconto cronologico ha uno scopo ben preciso: evidenziare che in 24 anni di
attività, partendo da situazioni urgenti di aiuto e bisogno, si è stati costruttori di
integrazione cercando di eliminare la logica dell‟assistenzialismo. Comincio questa
piacevole documentazione storica:
“Siamo nel 1986 e un gruppo di amici di Pietracuta (comune di San Leo), da alcuni
mesi sta lavorando alla realizzazione di un progetto stupendo e di grande
valore:aprire una cooperativa che promuova e gestisca iniziative economiche nel
campo dell’artigianato, tendenti al recupero socio occupazionale e psico-fisico di
persone portatrici di handicap.”8
Queste sono le prime parole di alcuni che hanno ideato questo luogo nel quale si
potesse unire il lavoro retribuito economicamente con persone, che non riuscivano
ad emergere nella realtà sociale, specie quella occupazionale per via del loro
handicap. Da notare è anche il linguaggio usato da coloro che scrivono: si usa la
parola handicap che a quei tempi e nei luoghi sopra descritti era una novità, visto
che ancora si usava il vocabolo (soprattutto tra gli anziani), matto, pazzo. Sono
sicuro che la realtà del centro diurno sia servita ad alcune generazioni per far in
modo che nell‟immaginario di coloro che abitano queste terre la parola matto o
handicappato fosse gradualmente abbandonata, per sostituirla oggi giorno con
diversamente abile. Oggi le persone che visitano quotidianamente il centro si
rendono conto che al suo interno si svolge la vita normale come in altri luoghi di
lavoro e non si scandalizzano se vedono alcuni ragazzi in carrozzina che
impagliano delle sedie, che restaurano dei mobili o che dipingono. Naturalmente il
cammino è stato lento e faticoso.
8
Le notizie storiche sono prese dal giornalino locale, (“Bloc Notes”) che racconta momenti di vita del paese e
della parrocchia.
54
Durante questi anni si comincia a scoprire l‟importanza di aprire una cooperativa
con fine lavorativo e artigianale, che promuova la persona con disabilità, sfruttando
a pieno le sue capacità per investirle nel mercato del lavoro. L‟impiego diventa un
primo e fondamentale modo di sviluppare l‟integrazione nella persona.
Tornando alla storia possiamo notare quali siano stati gli elementi cardini che
hanno creato le basi per la nascita e la necessità di questo centro: “il nostro piccolo
comune di San Leo (comune presso il quale si sviluppa il centro diurno il Nodo)
presenta diversi casi bisognosi di un sollecito intervento atto ad avviare un loro
recupero economico e psicologico”. […] (Bloc Notes n° 18, 1986)
All‟interno di queste parole si cela una profonda e urgente missione da compiere.
Molti giovani- adulti con disabilità chiusi nelle loro mura domestiche faticano a
trovare uno sviluppo della loro identità ed è per questo che necessitano di un
sostegno che li aiuti ad inserirsi nel paese e nella rete sociale.
Ci si trova davanti ad un urgente recupero economico e psicologico: per prima
cosa la persona deve essere accolta e ascoltata. Dopo un attento ascolto si
comincia una fase di progettazione nel quale si evidenziano i bisogni dell‟individuo
e si cerca di porre una risposta personalizzata che produca uno sviluppo. Il lavoro
nella maggior parte dei casi diventa l‟attività per eccellenza che sviluppa e potenzia
le abilità nella persona e nella quale si può costruire un rapporto di condivisione e
relazione autentica.
In particolare, con le attività di artigianato, si scopre l‟enorme valore pedagogico e
didattico che queste hanno sulla persona.
Con il passare del tempo aumentano le richieste di bisogno e nella coscienza delle
persone nasce la necessità di uscire allo scoperto e incominciare a orientarsi verso
un forte impegno nella realizzazione di un progetto che miri all‟integrazione
piena,totale e in alcuni casi indipendente di giovani che possiedono diverse abilità.
“Cosi si decide di avviare il centro diurno aperto dalla mattina al pomeriggio con il
rientro dei ragazzi \ e nelle proprie famiglie alla sera”. […] (Bloc Notes n° 19, 1986)
Da sempre si è creduto fondamentale che il ragazzo potesse tornare ogni
pomeriggio nella propria famiglia. La proposta che viene fatta all‟interno del centro
e della cooperativa è quella di una piena integrazione fatta di lavoro quotidiano,
relazioni con le persone e il vivere con la famiglia. Dopo appena 4 anni di vita del
centro alcune testimonianze recitano cosi: “c’è un buon coinvolgimento delle
55
famiglie che trovano nella realtà del centro diurno un sostegno e un supporto
umano e affettivo che ha permesso a molte di esse di uscire da un certo
isolamento, anche materiale (essendo la maggior parte sparse nella campagna).
[…] (Bloc Notes n° 20, 1986)
Si è creato anche lo stimolo ad una reciproca conoscenza e amicizia, attraverso
momenti di incontro tra famiglie dei ragazzi e famiglie del paese.
Con la creazione di questa nuova realtà, che promuove la logica dell‟integrazione,
comincia ad invertirsi la vecchia tendenza che vede l‟isolamento della famiglia che,
al suo interno, ha un figlio con disabilità. Il centro diurno oltre allo scopo di
integrazione della persona umana ha anche il compito di favorire un cambiamento
di mentalità nell‟ambito familiare.
Durante l‟analisi dei documenti, che tracciano la storia del centro, fa molto riflettere
una scritta che compare su un numero di un giornaletto cittadino del 1986:
“iniziative come il centro diurno il Nodo non dovrebbero esistere … tutti dovrebbero
avere un posto nella società”!! […] (Bloc Notes n° 18, 1986)
Cosi è quello che idealmente si dovrebbe praticare per una totale integrazione,
(come ho già sostenuto nell‟introduzione della tesi),
di ogni persona, ma quel
periodo storico così difficile imponeva una chiusura da parte di molte parti della
società a coloro che esprimevano della diverse abilità e il clima era difficile per
capire l‟integrazione! Bisognava procedere passo dopo passo.
Il motto con il quale il centro inizia il suo servizio è “non sia dato per carità ciò che
è dovuto per giustizia”. […] (Bloc Notes n° 21, 1986)
Comincia la storia di questa realtà che ha permesso che l‟integrazione avesse la
meglio sull‟assistenzialismo e sulla paura di riconoscere le persone con disabilità
come parte attiva della società. Lo stesso nome del centro, il “NODO”, indica la
grande possibilità di rafforzare tramite un legame forte, un intero paese con tante
persone con disabilità che si spendono per dar voce all‟integrazione. Legare
significa avvicinare due realtà, ma significa soprattutto, instaurare un rapporto,
condividere con i fratelli i momenti più semplici, quelli tristi, e quelli sereni.
Questo “forte Nodo”, che “tiene” da 24 anni ha avuto all‟inizio questo ruolo di
condivisione con coloro che erano o rinchiusi nelle proprie case e che non
potevano esprimere le proprie abilità in nessun modo o che dopo un breve
percorso di scolarizzazione non riuscivano a trovare un posto fisso nel mercato del
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lavoro. Continuando nella mia analisi storica, durante questi primi tempi di vita del
centro tra le persone, c‟è un forte senso di unione che serve da collante perché il
seme piantato possa ben presto dare molto frutto. Tra i primi operatori c‟è la ferma
convinzione che “si deve superare l’assistenza passiva per giungere alla
condivisione ed alla fratellanza”. […] (Bloc Notes n° 18, 1986)
Ancora oggi sono sempre più convinto che la strada dell‟assistenzialismo non sia
la maniera giusta per affrontare la disabilità. Oggi, come allora, occorre accogliere
le persone e accompagnarle in questo delicato passaggio dall‟esclusione
all‟inclusione. Tramite un forte legame tra individui, in una logica di empatia e
condivisione, si riesce a sviluppare un “fare assieme” che posso definire attivo e
dinamico. Tutto rimane in movimento all‟interno di un reciproco scambio di idee e
di progetti. Gli interlocutori sono molteplici, persone con disabilità e non, e assieme
si impara come si vive in maniera serena e corretta. Gradualmente si elimina la
logica dell‟assistenzialismo sostituendola con la strada della condivisione che
diviene l‟unico percorso per un integrazione che ancora oggi è possibile.
Questa prima esperienza del centro diurno il Nodo ha come obiettivo quello di
poter eliminare le cause che creano l‟emarginazione con una azione non violenta,
trasformandosi in voce di chi non ha voce.
Il centro diurno si mostra da subito un valido strumento. Dopo appena un anno ci
sono 6 accolti e la gente comincia ad interrogare le proprie coscienze iniziando ad
osservare da vicino ciò che accade con fare interessato.
Con questa realtà, che stravolge i cuori e le menti, un intera vallata si apre ad una
profonda e radicale novità. Da questi ultimi elementi emerge un aspetto
importante. Infatti secondo la mia analisi, il centro diurno comincia a diventare il
cuore che pulsa all‟interno di luoghi prima aridi e non pronti ad accogliere la
disabilità. Grazie a questa fondamentale e piccola realtà vengono cambiate molte
delle ideologie dominanti a quel tempo.
Così, ben presto, si percepisce che tra le mura di un paese e tra le strade di diversi
comuni c‟è una novità, un semplice centro che ha, al suo interno, ragazzi che
stupiscono per la loro bravura nel prodigarsi in diversi lavori. Tutto ciò cambia
perché l‟elemento alla base di questa rivoluzione è il contatto che si instaura tra le
persone del luogo e la realtà del Nodo, che porta ad una scoperta sensazionale:
l‟amicizia.
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Infine colpisce subito il clima di condivisione e amore tra coloro che
quotidianamente sono presenti al centro. Tutti i componenti della struttura hanno
un ruolo e uno scopo ben preciso: dimostrare che l‟integrazione piena e totale è
possibile. Una testimonianza di quel‟epoca descrive ciò che ho appena scritto:
“ Sono Giorgio, la mia vita è legata ad una carrozzella. In giugno sono arrivato al
Nodo. Mi sono reso utile tenendo i conti delle spese, scrivendo lettere etc.. ho
studiato per due anni da segretario da azienda a Rimini. La mia grande passione è
scrivere poesie religiose, sportive e d’amore. Stare al Nodo mi piace, perché ci
sono persone buone che mi insegnano tante cose e mi indicano che è bello fare
del bene. Stando al nodo ho avuto anche la possibilità di conoscere Ivan Graziani
(noto cantautore italiano morto nel 1995) che desideravo da molto tempo. Non mi
sono lasciato scappare l’occasione e gli ho proposto alcune poesie per farne dei
testi di canzoni. Ciao! […] (Bloc Notes n° 25, 1987)
Questa testimonianza rivela che ogni persona attraverso le proprie abilità riesce a
far del bene, qualunque siano i suoi problemi o le sue preoccupazione. Questo è
un forte segnale di integrazione che vuole dimostrare ce non c‟è un normo o non
normo dotato, ma tutti sono parte di un grande gruppo che si chiama umanità ed è
per questo che ogni persona, avendo un ruolo ben preciso, deve essere messo
nelle condizioni portarlo avanti con le proprie abilità.
Attraverso questa esperienza possiamo veramente capire che ogni persona ha
bisogno di spazio e liberta avendo necessità di mettere al servizio degli altri ciò che
riesce a donare. Da un ragazzo cieco che riesce a restaurare e ad impagliare le
sedie (questa attività è una delle mansioni fondamentali del nostro centro), posso
solamente imparare la pazienza verso il lavoro, il rispetto dei tempi di lavorazione e
il dialogo che continuamente è messo in atto per comprendersi durante il compito
da svolgere. Tutto ciò non è follia ma è la realtà, una realtà che solo in pochi oggi
amano perseguire e difendere.
Il Nodo è sempre stato al centro del paese, in mezzo alle case. Con il tempo è
cresciuta una forte sensibilità verso questa realtà che è riuscita ad integrare nella
realtà quotidiana della vita, persone con varie problematiche, che prima creavano
solamente paura. Vedere concretamente possibile la vita insieme basata
sull‟amicizia e la condivisione, ha portato a superare timori e diffidenze ed oggi è
facile incontrare i ragazzi del centro per strada, nei negozi o al bar, salutati con
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simpatia e accettati da tutti. Ancora oggi, come allora alla base di tutta questa
esperienza c‟è la ferma convinzione che bisogna essere là dove sono gli altri, nel
lavoro, nella vita sociale, negli ambienti di svago e di tempo libero. Questo
contribuisce a modificare una mentalità e un atteggiamento chiuso verso le
persone diversamente abili. Permettere alla gente di conoscersi, di incontrarsi
anche nella semplicità delle azioni quotidiane, è un modo per superare le cause
che innescano meccanismi di rifiuto, di chiusura e di emarginazione nei confronti di
chi consideriamo solo fastidio, problema o inciampo.
Quello che si capisce ogni giorno vivendo questa esperienza, è che il problema di
chi non vede o non sente o non cammina non sta nella cecità, nella sordità o nella
non perfetta deambulazione, ma nel non poter fare quello che fanno tutti gli altri. Il
centro diurno oggi come 24 anni fa ribadisce questa sua sete di giustizia nei
confronti di chi troppo spesso viene lasciato ai margini di tutto.
Nel nostro territorio la realtà del centro diurno non è assistenzialismo, ma una
forma di integrazione capace di rendere ogni persona autonoma e indipendente,
valorizzando gli aspetti positivi e rafforzando quelli che risultano negativi. Molti
pensano oggi, che il centro diurno sia solamente un contenitore chiuso e sigillato
dove le persone che hanno delle difficoltà di movimento o di comunicazione stiano
tutta la giornata fermi su una sedia mentre l‟operatore chiacchiera di gossip o di
sport con il collega. C‟è molta paura e chiusura verso questi ambienti ed è molto
facile dare giudizi negativi non conoscendo o credendo verità fasulle.
Quello che rimane nell‟immaginario collettivo è solamente un individuo con il quale
non si costruisce giorno dopo giorno un pezzo di mondo, ma solamente un
individuo con il quale vale la logica dell‟assistenzialismo.
Oggi, chi dedica del tempo e delle ore di lavoro a questi ambienti si rende conto
che ciò che conta non è solamente un bisogno fisico, ma anche la comunicazione.
C‟è un aspetto veramente importante, che è alla base di tutte le società da molti
secoli e cioè la parola. Parlare vuol dire comunicare, affermare la propria volontà,
contrastare o appoggiare le idee di altri individui ed infine chiedere per soddisfare i
bisogni proprio di ogni umano. Ogni persona è unica e irripetibile e sente
costantemente il bisogno di comunicare per entrare quotidianamente a far parte
del mondo affermando la sua identità e difendendo i diritti personali. Dunque,
siamo davanti ad una vera e propria rivoluzione che ci impone di lasciar da parte
59
tutti i discorsi puramente basati su idee di assistenzialismo, e ci chiede di
cominciar a investire su luoghi capaci di ridare alla parola il suo ruolo di grido.
L‟educatore è colui che costantemente è “con chi urla”, con chi non riesce a
difendere i propri diritti perché investito da politiche che cercano di tagliare corto
sull‟integrazione e sullo sviluppo umano.
Comunque tornando al discorso iniziale, posso ora affermare che la costruzione
del centro diurno è servita per dare voce a chi non aveva parola, per ascoltare il
grido di tanti ragazzi costretti dalle famiglie e dalla logica dominante a rimanere in
casa e quindi a non”poter vivere”.
Con il passare del tempo, e l‟invecchiare dei genitori, alcuni ragazzi diversamente
abili non stimolati ad una vita autonoma e sociale hanno cominciato a denunciare
questa situazione mettendo in atto dei comportamenti che appesantivano il clima
familiare già problematico e cominciavano a non essere più gestibili.
Credo che tutto ciò sia più che normale. Proviamo a pensare che colui che sta
scrivendo, si trovi in una situazione analoga e che i suoi genitori per 20 anni
l‟abbiano tenuto segregato nella propria abitazione e non stimolato ad una vita
sociale. Come diventa la vita di costui ad un certo punto della sua vita? Come si
sente quando vede che i suoi fratelli ridono, scherzano, giocano, ballano? Come
riesce a far in modo che la sua diversa-abilità possa essere riconosciuta, integrata
e sfruttata al meglio?
Tante volte, tornando a casa dalla giornata, mi risuonano nella mente queste
domande come una voce inesorabile che si chiede come sia possibile tutto ciò. E
io ogni volta rabbrividisco a pensare le mie ore passate su una sedia o su una
carrozzina a vedere passare il tempo attorno a me e io senza interagire con esso.
Quanti ragazzi oggi sono spettatori passivi della loro vita perché hanno attorno a
loro barriere insormontabili.
Tutto quello che ho appena descritto si trasforma in un grido silenzioso. Ma
qualcuno , ormai da più di 25 anni ascolta questo lamento, e assieme a tante altre
realtà cerca di garantire la possibilità di proseguire nel processo di inclusione
sociale. Importante è sottolineare che questa esperienza nasce come bisogno di
appartenenza. All‟interno di questo luogo ogni persona si sente parte della società
sviluppando la sua identità e venendo ascoltato e rispettato nei suoi più semplici
60
diritti, come il lavoro, il tempo libero, il divertimento, gli incontri nelle piazze e nei
negozi …
Ogni giorno si incontrano tanti volti che chiedono di poter essere accompagnati
verso una piena integrazione sentendosi parte di un progetto comune e condiviso.
Se si parla con molti ragazzi si percepisce che la loro storia non viene spesso
capita e in molti casi viene bollata come un caso limite curabile solo con medicinali.
2.5 L’organizzazione del centro diurno il “nodo”
A questo punto, dopo aver seguito l‟evoluzione storica, è necessario delineare
quale sia, oggi, l‟organizzazione del centro diurno “il nodo” per capire a livello
tecnico come questo processo di integrazione avviene nei diversi momenti che
caratterizzano questa realtà.
Il Centro Diurno Socio-Riabilitativo IL NODO ubicato in San Leo, via Umberto I, n.
4 è gestito dalla Soc. Coop. Sociale “La Fraternità” con sede legale in Rimini, Via
Valverde N°10/B. Il Centro ospita soggetti adulti, dopo il compimento del 18° anno
di età, portatori di handicap, non autosufficienti e/o autonomi, per minorazioni
fisiche, psichiche o sensoriali, o con manifestazioni di sindromi psichiatriche e/o
comportamentali per i quali non è stato possibile, al momento e in alcun modo,
prevedere forma di inserimento al lavoro, né normale, né protetto. In relazione alle
finalità proprie della struttura, il Centro Diurno, persegue i seguenti obiettivi:
1°- offrire ospitalità diurna e assistenza qualificata ad ogni singolo utente,
attraverso interventi mirati e personalizzati atti all‟acquisizione e/o al mantenimento
di capacità comportamentali, cognitive e affettivo - relazionali.
2°- considerare ogni utente nella sua globalità, pur mirando a rilevarne le
potenzialità specifiche e a finalizzarle in attività riabilitative atte a creare nuove
forme di comunicazione e di linguaggio.
3°- sostenere e supportare le famiglie, favorendo la permanenza del portatore di
handicap nel proprio nucleo familiare.
4°- perseguire l‟integrazione sociale degli utenti, rendendo attuabile la frequenza di
strutture esterne a carattere sportivo e sociale, sia formali che informali.
L‟ammissione degli ospiti avviene su formale richiesta dell‟ Azienda USL di
residenza del soggetto al Responsabile del Centro fornendo tutte le informazioni
61
utili alla conoscenza del caso. Il Centro si impegna a fornire risposta entro 15 gg.
con motivazione scritta. Una volta decisa l‟accoglienza, il Centro concorderà con il
Servizio dell‟Azienda inviante la data e le modalità tecniche di inserimento. Durante
la fase di richiesta di ammissione, previo accordo con il Responsabile del Centro,
viene riconosciuta alla famiglia la possibilità di visitare il Centro e conoscere le
norme che ne regolano il funzionamento e le attività specifiche che vi si svolgono.
La presenza a tempo parziale di disabili che presentano particolari problemi, deve
essere concordata con il Servizio dell‟ A.U.S.L. inviante , sulla base di adeguate
motivazioni e programmata sia in vista di un inserimento a tempo pieno, sia in vista
di una partecipazione a specifiche attività di Palestra o Laboratorio. La persona
con disabilità viene dimessa dal Centro: in seguito alla verifica condotta dagli
educatori e dal Responsabile del Centro con la famiglia e con gli Operatori del
Servizio dell‟ A.U.S.L. inviante , del raggiungimento degli obiettivi previsti o della
necessità di trasferimento ad altra struttura o realtà sociale più idonea. Nel caso in
cui la famiglia manifesti la decisione di dimettere il familiare per motivazioni
strettamente personali la stessa provvederà a darne comunicazione al Servizio
dell‟ A.U.S.L. che effettuerà le valutazioni del caso in accordo con il Centro. Il
centro diurno può accogliere in questa fase un numero massimo di 20 utenti, di
entrambi i sessi, senza una rigida e predeterminata suddivisione dei posti per
soggetti femminili e maschili. Gli utenti possono provenire da qualsiasi servizio
inviante del territorio nazionale.
La vita del centro diurno si struttura attraverso orari precisi: è aperto 11 mesi all'
anno, con un periodo di chiusura di una settimana estiva e una invernale durante
le vacanze natalizie. Il centro è aperto tutti i giorni feriali, escluso il sabato, dalle
ore 8,45 alle ore 16,00. L' organizzazione della giornata è articolata nel modo
seguente:
7,30-8,00:
partenza giri (per il recupero dei ragazzi);
8,45-9,00:
arrivo e accoglienza degli utenti;
9,00-9,15:
momento di preghiera, comunicazione del programma delle attività;
9,15-12,00: inizio attività lavorative interne o esterne al centro;
12,00-13,00: pausa pranzo e riordino;
13,00-13,30: riposo, lettura di giornali, telegiornale,musica,ecc..;
62
13,30-15-30: preghiera, ripresa attività;
15,30-16,30: partenza e rientro nelle rispettive famiglie.
Le attività interne ed esterne vengono proposte agli utenti in base alle loro
esigenze o bisogni personali, e vengono realizzate all‟interno di piccoli gruppi
insieme agli operatori. All‟ interno delle proprie attività, il Centro organizza una
settimana di vacanza in località climatica, in cui educatori e utenti possono
continuare, essendo presenti a tutti gli effetti, il percorso educativo e lavorativo in
modo meno formale.
Il centro offre ospitalità comprensiva di vitto. Il trattamento alimentare risponde alle
tabelle dietetiche adeguate all‟età e alle esigenze particolari degli utenti accolti,
seguendo un menù settimanale vario e completo. E‟ possibile prevedere menù
personalizzati, concordandoli con il responsabile del centro sempre che non
costituiscano ostacolo al processo riabilitativo del soggetto stesso. Il trasporto
degli utenti dal luogo di residenza al centro può essere garantito concordandolo
caso per caso con gli operatori . Il centro provvede al trasporto degli utenti alle
varie attività esterne nell‟ orario di frequenza. La pronta reperibilità sanitaria in caso
d‟emergenza è attuata attraverso il ricorso alle strutture del Servizio Sanitario
Nazionale ubicate nello stesso territorio del centro.
La somministrazione dei
farmaci ad ogni singolo utente, avviene con autorizzazione scritta firmata dai
famigliari con copia della ricetta medica aggiornata dal medico curante. L‟utilizzo di
arredi e suppellettili personali sarà consentito solo laddove ciò abbia una valenza
terapeutica evidenziata dagli educatori del centro diurno, e in ogni caso sarà
consentito solo all‟interno dei momenti stabiliti dagli educatori.
Il programma delle attività del laboratorio protetto finalizzate al recupero sociale
psico-fisico e relazionale di ogni utente, viene svolto attraverso la seguente
articolazione di interventi e proposte :
a) recupero educativo dell‟utente finalizzato sia al raggiungimento del rispetto della
propria persona, attraverso una adeguata dieta, la cura della propria persona ecc..,
sia al rispetto delle regole generali e dell‟autonomia dell‟altro;
b) attività socializzanti, periodiche ed occasionali, volte ad abituare gli utenti a stare
insieme per collaborare e solidarizzare : gruppi di musica e pittura, gite mensili,
campeggi, momenti ludici ricreativi organizzati, ecc….
c) attività occupazionali -lavorative, volte a recuperare: sia tutte le potenzialità di
63
sviluppo personale e di relazionalità della persona, sia il valore del lavoro quale
“diritto/dovere” di ogni persona. Diritto, perché attraverso esso entriamo in
relazione con gli altri uomini con una precisa identità sociale, nel fare c‟è il mio
essere; dovere perché la relazione con l‟altro è sempre una relazione di
responsabilità, le capacità che io possiedo sono per un bene comune.
E‟ lo strumento privilegiato all‟interno delle attività riabilitative assistenziali , dove è
progettato a misura d‟uomo, rispettoso del vissuto e della originalità di ognuno:
a- stimola e favorisce il rapporto con la realtà (terapia della realtà);
b- contribuisce alla socializzazione, aiuto e vengo aiutato;
c- favorisce il recupero delle capacità specifiche di ognuno spesso,
precedentemente, non adeguatamente stimolate ;
d- sviluppa, attraverso il coordinamento dei gesti, un miglior equilibrio mentale,
favorendo l‟autostima.
Attività di animazione socio-riabilitative, rivolte al recupero attraverso forme nuove
basate sulla psicomotricità, avvalendosi di forme di intervento quali l‟acquaticità, la
danza-terapia, la drammatizzazione.
La metodologia seguita nell‟organizzazione del progetto globale della struttura
prevede il lavoro di équipe degli Educatori con il Responsabile per non frantumare
gli interventi e per dare un‟organica elaborazione e progettualità delle esperienze
vissute. All‟inizio di ogni anno educativo e nel momento della presa in carico delle
persone, si formula un progetto di intervento globale del Laboratorio e un progetto
di intervento individuale per ogni singolo utente. Il progetto deve prevedere
esplicitamente l‟ipotesi, gli obiettivi da raggiungere, le risorse e gli strumenti
necessari alla sua realizzazione. Inoltre si prevedono verifiche nel corso della
realizzazione per modificare o integrare l‟ipotesi iniziale.
Operativamente sono previsti:
-
alcuni incontri annuali di programmazione e verifica generale interni al
Centro;
-
un incontro settimanale in cui organizzare e ordinare le varie attività, i
compiti di ogni educatore, leggere e discutere le relazioni riguardanti le
attività svolte dagli utenti;
64
-
la partecipazione a giornate di formazione e aggiornamento per gli educatori
organizzati sia dal “Consorzio Condividere”, sia da altri Enti o Associazioni
pubbliche e private;
-
la compilazione di un Piano di Assistenza Individualizzato e di un Piano
Educativo Individualizzato per ogni utente;
-
incontri periodici di verifica del Progetto con il Servizio dell‟ A.U.S.L.
inviante;
-
periodicamente i responsabili dei Centri insieme al Presidente della
Cooperativa si incontrano per coordinare le attività comuni ai singoli centri e
valutare le richieste di inserimento.
E‟ previsto un registro delle presenze degli utenti quotidianamente aggiornato. Tutti
i documenti, le dichiarazioni, le relazioni sull‟utente vengono conservati in una
cartella che accompagna la persona durante il percorso riabilitativo e lavorativo
all‟interno del Centro. Tale cartella verrà aggiornata annualmente a cura del
Responsabile Tecnico e degli Educatori, che conserveranno ogni successivo
documento o referto relativo alla persona stessa.
Il Responsabile rappresenta il punto di riferimento per tutto il personale del Centro,
per la programmazione delle Attività educative annuali, per il Progetto Educativo
Individualizzato, per la verifica del Progetto, sia con il gruppo degli educatori, sia
con il servizio dell‟A.U.S.L. o Comune.
Il
rapporto
numerico
operatore
/
utente
rispetta
la
normativa
vigente.
Ogni utente ha un educatore come punto di riferimento a sostegno delle proprie
autonomie personali, sociali e familiari, che si integra nel lavoro di equipe.
2.6 Il processo di integrazione attraverso alcuni momenti della quotidianità
Dopo aver approfondito e spiegato quale sia l‟organizzazione del centro diurno
credo sia molto importante analizzare i singoli momenti della giornata, cercando di
mettere in risalto quali siano gli elementi di integrazione che portano allo sviluppo
della persona. Sicuramente questa parte del mio scritto è il cuore della tesi perché
da la possibilità di rispondere alla domanda iniziale: il centro diurno può essere uno
strumento di integrazione sociale per la persona con disabilità?.
65
Ad ogni momento della singola giornata cercherò di metter in relazione una
spiegazione che risponde al quesito sopra indicato.
Un prima tappa del nostro percorso riguarda il viaggio che i ragazzi percorrono
dalla propria abitazione verso il centro.
1-
Gli utenti ogni mattina, in accordo con alcune proposte studiate assieme ai
servizi sociali, tramite i nostri mezzi raggiungono il “nodo”. Per alcuni di loro il
trasporto è autonomo e consiste nel viaggiare con la rete dei pullman della zona.
Un aspetto molto importante è il fatto che per alcuni ragazzi, sia stato costruito con
il tempo un progetto autonomo di movimento con i mezzi pubblici. Il ragazzo in
queste fasi è stato aiutato a capire l‟importanza del trasporto autonomo, del
rispetto delle regole stradali e l‟attenzione del movimento lungo la strada. Inoltre
insieme è stato possibile capire il senso della puntualità e la pazienza di aspettare
la corriera alla fermata giusta e di riuscire a mettersi in contatto, tramite dei punti di
riferimento lungo la strada, se si perdono o sbagliano il percorso di ritorno. Anche
quello del tragitto per accogliere o riaccompagnare i ragazzi a casa è un momento
SIGNIFICATIVO: molti RAGAZZI ,infatti, aspettano con ansia che il pulmino o la
macchina della cooperativa alla mattina li passi a prendere sotto la loro abitazione.
A volte piccoli ritardi possono creare un po‟ di ansia o di attesa preoccupata.
Questo fattore è da leggere all‟interno di un discorso più ampio che caratterizza
ogni ragazzo.
Per alcuni soggetti, è difficile LA VITA IN FAMIGLIA per via di
genitori anziani e poco pazienti verso loro, per l‟ambiente di vita privo di stimoli e
per la mancanza di comunicazione o di gesti di affetto. Questo comporta una
grande attesa verso il NODO che diventa un punto centrale della loro vita, dove
possono avere relazioni forti e cariche emotivamente e soprattutto dove sanno che
ci sono persone che li comprendono e li capiscono.
La sola idea di saltare per qualche periodo la vita del centro o di non venire presi al
mattino per vari motivi, genera dentro i ragazzi rabbia e paura di rimanere tutto un
giorno a casa. La durata dell‟intero tragitto è di un ora e impiega l‟utilizzo di due
operatori per due distinti percorsi nei vari comuni della valle del Marecchia. I mezzi
per il trasporto sono sempre ben supervisionati e puliti. I ragazzi si occupano
anche di queste mansioni perché assieme a loro c‟è la forte convinzione che la
sicurezza sulla strada sia un elemento fondamentale della condivisione che
quotidianamente è condizione necessaria per la vita del centro diurno il Nodo.
66
Per stare bene assieme e evitare spiacevoli inconvenienti bisogna che ognuno sia
responsabile del proprio lavoro, del materiale che usa e della corretta gestione
dell‟ambiente: condividere la vita assieme ai ragazzi del centro equivale anche
faticare per preparare loro un ambiente sia accogliente, che sicuro. Per questo
ogni istante della giornata è monitorato dagli educatori che si richiamano a vicenda
se un attrezzo è stato lasciato fuori dalla sua sede di deposito o se una situazione
aumenta il livello di pericolo per la persona. Ad esempio gli armadi vengono chiusi,
alcuni lavori vengono fatti solo alla presenza educatore- utente o alcuni luoghi ,ad
esempio la falegnameria, vengono frequentate dai ragazzi del centro solo quando
certi macchinari per la lavorazione del legno sono senza corrente. Personalmente,
questo rigoroso metodo di sicurezza, imposto poi anche dalle leggi in materia di
sicurezza, mi aiuta molto anche nelle relazioni con gli altri che vengono ad essere
più ordinate sistematiche e meno confusionarie.
Dopo aver evidenziato questo primo passaggio, ricco di gesti quotidiani proviamo
ora a trovare un collegamento tra il gesto che il ragazzo compie e il processo di
integrazione che si sviluppa durante lo svolgimento dell‟azione.
Il primo aspetto che emerge da quest‟analisi riguarda il tema del viaggio sia verso il
centro che verso la propria abitazione. Assieme ad ogni ragazzo è maturato un
percorso di autonomia negli spostamenti che prevede diversi fattori:
- la puntualità e l‟attesa: ogni persona del centro sa che deve essere pronta per
una determinata ora perché altrimenti può perdere il tram o il passaggio del
pulmino del centro. Entro questo orario deve essere vestito e aver preparato le
cose che gli serviranno durante la giornata. Questo passaggio comporta una sorta
di grande responsabilizzazione che ogni individuo condivide, dove possibile, con i
propri famigliari che hanno una funzione di sostegno o supervisione. Ogni utente
ha maturato nel tempo la pazienza e anche un buon allenamento alla puntualità
come elemento essenziale per la costruzione di un buon rapporto di amicizia,
lavoro e condivisione. L‟essere precisi con i tempi comporta lo sviluppo di una
organizzazione personale dei tempi che in molti casi è gestita autonomamente.
Questo sviluppo della buona tempistica è segno di integrazione perché porta
l‟individuo ad essere consapevole che con la sua puntualità permetterà a tutto il
gruppo di arrivare nei tempi prestabiliti al centro per cominciare il lavoro.
67
Collegato a questo primo aspetto troviamo un altro elemento molto importante,
cioè quello dello sviluppo dell‟attesa. Ogni ragazzo quotidianamente percepisce
l‟attesa come tempo necessario ad allenare la propria pazienza. Aspettare
puntualmente l‟arrivo della corriera o del pulmino senza perdersi in giri inutili o in
altre attività dimostra una buona maturità nella capacità di attendere colui che ti
viene a prendere.
Come dicevo in precedenza, alcuni dei ragazzi usano le linee pubbliche per
spostarsi nei vari paesi limitrofi al centro. Anche per costoro i principi sopra
elencati sono gli stessi anche se chiaramente sono più evoluti e meglio sviluppati.
Per loro l‟elemento fondamentale è il pullman, che quotidianamente permette loro
di spostarsi in svariati tragitti. La loro buona integrazione si dimostra nello scegliere
la linea giusta, nel trovarsi presso la fermata nel momento opportuno e saper
aspettare con pazienza quando ci sono ritardi o scioperi. Importante è anche il
dialogo che questi ragazzi intrattengono con le persone, che quotidianamente
svolgono un pezzo di strada assieme con loro perché evidenzia il buon inserimento
nella società.
- un ulteriore aspetto da citare è quello che riguarda l‟attenzione e il rispetto per le
norme riguardanti la strada. Collegato al momento dei viaggi con i mezzi del centro
o quelli pubblici c‟è un insieme di azioni che richiede un buon sviluppo e capacità
di acquisizione delle regole. Ad esempio capita spesso ai ragazzi di attraversare la
strada o di dover camminare per qualche tratto prima di arrivare alla propria
abitazione. Il segno di una profonda integrazione, risiede nel saper chiedere
indicazioni se si è insicuri su una destinazione, nel domandare aiuto se compare
incertezza nell‟attraversare la strada.
Inoltre assieme agli utenti del centro viene chiesto un rigoroso rispetto delle norme
sulla sicurezza del viaggiatore. Prima di ogni partenza ogni individuo sa qual è il
comportamento che deve osservare durante il viaggio, allacciandosi le cinture e
rispettando le altre norme. Anche questo è un forte segno di responsabilità verso il
gruppo, perché il rispetto delle regole giova a tutti, e verso la società perché si
evitano pericoli o spiacevoli inconvenienti.
Settimanalmente, a turno, i ragazzi si occupano della sistemazione dei mezzi e
della loro pulizia come segno di rispetto verso il materiale del centro.
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Una volta arrivati al Nodo, continua la mattinata con un momento di preghiera che
si fa nella piccola cappellina presente al centro. Quando Don Oreste Benzi,
fondatore della cooperativa, ha aperto i centri ha voluto sempre sottolineare
l‟aspetto della condivisione attraverso la presenta di Cristo che è colui che nei
Vangeli ha voluto condividere per primo la propria esistenza con coloro che erano
considerati dalla società come degli scarti. La dimensione della condivisione con
chi è più debole parte dalla comunione nella preghiera.
Qui viene letto il Vangelo di giorno e poi assieme si cerca di capire bene il
messaggio che trasmette e di collegarlo con la giornata che si sta per cominciare.
Durante questo momento di dialogo, tutti i ragazzi sono in cerchio e dialogano tra
loro esprimendo liberamente le proprie opinioni sulla lettura. E‟ un‟occasione
privilegiata per far emergere molti aspetti della vita di ogni ragazzo: ad esempio
sono ricorrenti i temi della solitudine familiare, delle incomprensioni con i genitori,
della mancanza di stimoli durante il periodo in cui non si è al centro diurno e delle
difficoltà e paura di rimanere soli collegata alla morte dei genitori. A turno,
l‟educatore che guida questo momento cerca di collegare gli stati d‟animo della
persona agli insegnamenti del Vangelo e assieme si cerca di aiutare la persona in
difficoltà, fornendo delle prospettive di vita o per la giornata. Si conclude poi il
momento di preghiera con delle intenzioni spontanee che ogni ragazzo
liberamente esprime. Tutto ciò viene fatto nel rispetto delle convinzioni della
famiglia, e sulla libertà dell‟utente; Nella catechesi viene utilizzato un linguaggio
semplice fatto di immagini, gesti e canti. Durante i tempi della liturgia i sacerdoti o
gli operatori pastorali, curano, insieme agli educatori del Centro, il cammino di
catechesi e la celebrazione dell‟Eucarestia. Ad esempio i giorni nei quali ricorre un
compleanno o una festa in particolare, viene dedicato un momento alla
celebrazione eucaristica come parte fondamentale della vita del centro.
Anche su questo punto che riguarda il momento della preghiera vediamo le
connessioni tra l‟azione e gli elementi di integrazione presenti al suo interno.
- Il primo aspetto riguarda chiaramente il profondo momento relazione di gruppo
che si instaura nella preghiera, attraverso il dialogo e il confronto. Ogni ragazzo
assieme all‟ educatore è chiamato a confrontarsi sul senso che danno al vangelo di
ogni giorno, esprimendo liberamente qualsiasi opinione che spesso è positiva, ma
a volte anche negativa.
69
Per i ragazzi questo momento di estrema libertà assume un forte senso positivo
sulla loro identità, perché sono certi che nessuno li giudica o li mette a tacere se
esprimono un‟idea.
Spesso nell‟ambiente familiare sono costretti a lunghi momenti di silenzio e l‟unica
voce che sentono è quella della televisione, che spesso li accompagna durante il
pomeriggio - sera. Così la possibilità di esprimersi diventa un profondo momento
relazionale, che li porta a confrontarsi con persone diverse. Come già ampiamente
evidenziato, il dialogo è un aspetto fondamentale del processo di integrazione
perché da la possibilità alla persona di esprimersi in maniera libera e
incondizionata.
- Il momento della preghiera della mattina diventa anche uno strumento utile alla
persona per far emergere alcuni problemi personali. Quasi quotidianamente alcuni
ragazzi, durante il dialogo, evidenziano alcune difficoltà che spesso provengono
dall‟ambiente familiare e trovano nei compagni e negli educatori un valido
strumento di confronto e di sostegno. Anche questa la reputo una grande
possibilità che sta alla base dei rapporti di amicizia presenti nella nostra società.
Ogni individuo deve avere la possibilità di confrontarsi tra coloro con i quali vive
senza aver la pura che il suo pensiero possa essere di scandalo. Nessuno può
negare questo diritto.
Terminata la parte di preghiera, si comincia la giornata con la divisone di lavori : è
responsabile un educatore che ha esperienza del centro e sa bene come
impostare e organizzare le mansioni. Ad ogni ragazzo viene affiancato un
educatore che aiuterà l‟utente durante la giornata.
Ogni mattina l‟inizio dei lavori diventa estremamente delicato e fondamentale.
Anche qui vediamo i differenti punti che mirano all‟integrazione.
- Emerge ancora una volta la dimensione comunicativa che c‟è fra il soggetto e
l‟operatore: nel dialogo quotidiano viene proposto un lavoro che si decide assieme
in base alle proprie forze e alla personale conoscenza di una certa mansione.
Capita che in molti casi non tutti siano d‟accordo nello svolgimento della mansione,
per questo il compito di tutto il gruppo è di stimolare la persona verso un senso di
responsabilità, che va a favore dell‟intero centro diurno.
- Il momento lavorativo è segno di libertà e di partecipazione alla vita della società.
Durante la giornata vengono svolti sia lavori che servono per la vita del centro, che
70
lavori in collegamento con alcune fabbriche della zona. Durante ogni mansione il
ragazzo impara un mestiere e viene istruito su come lo deve portare a termine in
maniera corretta e in sicurezza dai pericoli. Da questo possiamo evidenziare il
significato di insegnamento che il lavoro porta in sé, nel quale ogni ragazzo può
fare esperienza e accrescere le proprie autonomie.
- Attraverso la dimensione lavorativa si instaura una forte dimensione relazionale
che porta l‟educatore non a fare al posto di, ma a fare assieme a … Così nel
tagliare l‟erba, restaurare un mobile o realizzare un lavoro di assemblaggio l‟utente
è sempre in continuo dialogo con l‟educatore, ideando, progettando e realizzando il
lavoro. Quest‟ultimo non è il risultato di sole due mani, ma di quattro mani e due
cuori che assieme hanno collaborato e che vicendevolmente hanno imparato
qualche cosa.
Terminata la suddivisione dei differenti lavori, comincia la seconda parte della
giornata, dedicata al lavoro quotidiano all‟interno dei diversi laboratori.
Le attività che si svolgono all‟interno dell‟laboratorio di assemblaggio prevedono la
composizione di alcuni pezzi, che provengono da alcune fabbriche della zona.
Questo lavoro permette di ricevere del denaro che poi viene riutilizzato per
consegnare a metà mese un assegno educativo.
I due maggiori lavori di assemblaggio che vegono svolti in questi ultimi anni sono:
composizione di sacchetti con materiale idraulico: qui, dalla vicina fabbrica
idraulica, ci vengono inviati alcuni parti che costituiscono pezzi e guarnizioni di
montatura dei termosifoni. Cosi noi predisponiamo una catena di montaggio sui
nostri tavoli, e riempiamo dei sacchettini con i pezzi del materiale che sono nelle
scatole. I pezzi vengono poi riportati alla fabbrica. In tutto questo, i ragazzi sono i
veri protagonisti: accompagnano l‟educatore a prendere il materiale, caricano e
scaricano le scatole, assemblano i pezzi e si divertono ogni volta a vedere che
hanno fatto ancora una volta un carico di questi pezzi e di questo ne sono sempre
molto soddisfatti.
Un altro lavoro riguarda l‟assemblaggio di viti: in questo lavoro i ragazzi devono
unire le viti ai propri fischer e inserirli in scatoloni che poi vengono inviati nelle
fabbriche e servono per la costruzione di mobili o altro mobilio per la casa.
In ultimo durante la vita del Nodo, si svolgono anche delle attività di piccola
falegnameria: questo settore è molto importate per il centro perché permette di
71
avere alcuni guadagni che poi vengono reinvestiti per le attività da svolgere con gli
utenti. Un operatore del centro si preoccupa sempre di cercare persone che hanno
dei mobili da restaurare, costruire, oppure sedie da impagliare o altro inerente con
il settore, crea una sorta di preventivo e decide assieme all‟equipe come eseguire il
lavoro e con quale ragazzo portarlo a termine. Nella falegnameria ci sono alcuni
macchinari pericolosi, per questo ad alcune fasi della lavorazione i ragazzi non
prendono parte. Anche in questo laboratorio è interessante osservare le relazioni
che si instaurano tra educatori e ragazzi, che spesso riescono a dare un proprio
contributo nel restauro di un armadio o nell‟impagliatura di una sedia. Ad esempio
gli utenti si occupano di prendere gli attrezzi, di pulirli, oppure di realizzare piccole
parti con il legno assistiti dagli operatori. Per quanto riguarda le sedie, aiutano nel
tirare la corda da un capo all‟altro oppure si occupano della preparazione o del
riordino di questa attività.
Posso con certezza affermare che per me è stato molto bello vedere e poter
sperimentare che le decisioni e la preparazione dei progetti da realizzare nel
laboratorio siano un risultato di decisioni prese tra gli educatori e i ragazzi. Questo
non è un aspetto secondario, anzi all‟interno di un clima di condivisione diretta, le
persone devono poter sprigionare le proprie potenzialità proponendo, nei limiti del
possibile, ciò che piace loro fare o che si sentono di realizzare donando il proprio
contributo o aiuto. Cosi emerge la bellezza del decidere e fare insieme a… e i
risultati sono sorprendenti e unici.
Infine, dopo il mio arrivo, abbiamo anche creato una quarta parte del centro che si
è avviata attraverso un laboratorio di giardinaggio. Qui assieme ad alcuni ragazzi
abbiamo cominciato a creare, partendo da un progetto, un giardino nuovo, delle
aree verdi e una siepe. Ad oggi stiamo concludendo il progetto con buoni esiti.
Vediamo ora nel dettaglio quali sono i punti, che tramite il lavoro, sviluppano nella
persona quelle libertà e autonomie riconducibili ad un processo di integrazione
sociale .
- Le attività lavorative giocano un ruolo fondamentale per ogni ragazzo. Esse
servono sia come occupazione, quindi tengono impegnati i ragazzi, e sia come
opportunità di mettere a frutto le proprie competenze che in altri luoghi vengono
con forza tenute a tacere o minimizzate. Il centro diurno investe molto su questo
72
aspetto cercando sempre di non far mancare questo servizio e di adattarlo, il più
possibile alle esigenze e possibilità di ciascuno.
- Il lavoro quotidiano è momento relazionale. Spiegare un lavoro, mostrare come si
fa, eseguirlo assieme ai ragazzi e gioire dei risultati sono tutte componenti molto
importanti. È chiaro che le incomprensioni tra gli utenti o con gli educatori sono
sempre dietro l‟angolo, ma si cerca sempre di affrontarle in maniera tranquilla. A
tale proposito, succede spesso che due ragazzi possano litigare, oppure non
capirsi durante il lavoro. L‟educatore sarà sempre colui che per amore del
prossimo cerca di oltrepassare il momento difficile mostrando la bellezza dello
stare assieme.
- Il lavoro giornaliero è un importante strumento di integrazione perché mette la
persona a contatto con la realtà esterna, con il mondo del lavoro e con l‟ambiente
economico. Ogni ragazzo sviluppa dentro di sé l‟importante idea che il lavoro è
fondamentale per la sua vita ed è per questo che, ogni giorno, deve impegnarsi. Il
suo prodotto sarà poi inserito sul mercato e altri lo potranno comperare.
- Inoltre i ragazzi hanno la possibilità di frequentare e visitare le fabbriche con le
quali collaboriamo, avendo la possibilità di osservare da vicino che cosa avviene e
come viene elaborato ciò che ogni utente produce. Mensilmente, a turno, ogni
individuo assieme all‟educatore si reca nella fabbrica a ricevere o consegnare il
lavoro.
- Ogni giorno è molto bello vedere i ragazzi che tornano stanchi, ma soddisfatti
nelle loro abitazioni, perché sanno che hanno fatto un buon lavoro e che hanno
guadagnato qualche soldo che poi permetterà loro di comperarsi degli oggetti o
investirli in cose piacevoli. Capita molto spesso che alcuni utenti del centro
raccontino nelle proprie famiglie le varie attività, che hanno intrapreso con grande
forza durante il giorno, evidenziando la loro contentezza.
- I lavori vengono sempre progettati tenendo conto di questo processo di
integrazione che deve essere sempre e costantemente favorito nella persona. Ad
esempio molti ragazzi si muovono liberamente nel paese per commissioni nei vari
negozi con la responsabilità di quello che comporta questo servizio.
Penso a coloro che provengono da un ambiente familiare chiuso e timoroso dove
questa possibilità di apertura è nulla. Sono sicuro che questa grande possibilità di
relazionarsi con la società circostante sia un opportunità veramente grande
73
soprattutto
per
coloro
che
hanno
diversi
handicap
e
che
rischiano
l‟istituzionalizzazione.
Lavorare significa esprimersi. Ogni utente, quotidianamente, può dimostrare il suo
valore anche attraverso una piccola responsabilità quale spazzare, avvitare un
bullone o lavare una macchina. Tutto deve sempre mirare verso la logica della
condivisione, dove ognuno ha un preciso ruolo e delle responsabilità precise.
Ad ogni modo proseguiamo nel nostro percorso evidenziando ulteriori momenti nei
quali viene sviluppato questo processo di integrazione sociale.
Durante il periodo invernale sono previste delle attività motorie di palestra e
piscina.
- Le attività motorie, da sempre, costituiscono un momento per eccellenza nel
quale si uniscono molteplici fattori dal beneficio fisico al momento ludico e, nel
caso di un centro diurno, lo sport diventa occasione di riabilitazione.
- Queste attività hanno come scopo un confronto diretto tra ragazzo e struttura
pubblica. Settimanalmente, ogni utente si trova a dover fronteggiare una situazione
particolare dove incontra sempre volti diversi, comunica con persone sconosciute e
deve essere attento nell‟uso dello spogliatoio, che diventa un luogo di grande
responsabilità.
- L‟ambiente della piscina e della palestra è comunicazione. Spesso i ragazzi
dialogano con le persone presenti di svariati temi, che vanno dal calcio ai problemi
della vita comune. In quel momento si percepisce un ulteriore elemento che apre la
strada all‟integrazione. L‟utente si sente libero di relazionarsi con chi gli sta davanti
sapendo che deve rispettare le regole della comunicazione dando spazio di replica
e non sovrastando l‟interlocutore. Un altro aspetto importante è quello che riguarda
la comunicazione durante l‟attività motoria, che diviene l‟elemento per la
collaborazione, il gioco di squadra e lo strumento per raggiungere gli obiettivi
proposti dall‟insegnante.
- Lo sport si trasforma in sostegno e sviluppo fisico. Come sappiamo, un giovane
adulto che pratica sport trae del beneficio fisico sulla propria salute. Assieme ai
ragazzi si ritiene fondamentale praticare uno sport per avere un mantenimento o
un corretto sviluppo corporeo. Per questo l‟esercizio fisico sviluppa le varie parti
del corpo e serve come mantenimento della buona salute fisica.
74
- Il momento ginnico diventa occasione di esperienza. Attraverso un‟ attenta
organizzazione delle attività ogni persona apprende le regole da rispettare, la
corretta posizione da mantenere e la giusta ordinazione motoria per portare a
termine il proprio compito.
- Ogni anno come segno di integrazione, vengono organizzati dei tornei di calcetto,
di basket o atletica che coinvolgono sia i ragazzi del centro, che persone esterne.
Si tratta di momenti speciali durante i quali i ragazzi socializzano e si integrano con
altre persone scoprendo i loro limiti e cercando di superarli rafforzando quindi
anche il carattere e la loro personalità.
Un ulteriore aspetto del nostro centro riguarda le uscite che mensilmente si
svolgono presso diversi luoghi. Queste gite hanno un valore sia didattico che
ludico. Ad esempio nel periodo estivo ci rechiamo in località turistiche come parchi
e laghi per un po‟ di riposo e relax. Durante l‟estate viene svolto una vacanza di
una settimana presso un albergo. Anche questi momenti di integrazione totale
hanno diversi scopi. Vediamo quali sono
- Come per ogni persona, anche per i ragazzi è necessario alternare il lavoro e la
vita del centro ad un periodo di ferie nel quale viene data la possibilità di riposarsi e
non pensare alle fatiche quotidiane. Il riposo è un aspetto benefico sia sulla
persona che sull‟intero gruppo dei ragazzi.
- Le gite e le vacanze sono momenti nei quali si sperimenta la responsabilità di
essere lontani dall‟ambiente del centro diurno e dalla famiglia. Questo aspetto è
importante e riveste un ruolo cardine nel processo di indipendenza di ogni singolo
ragazzo. Ognuno, attraverso la propria esperienza, viene chiamato ad essere
capace di svolgere le sue autonomie di base cercando di potenziarle e svilupparle.
- Le vacanze e le uscite sono momento di grande dialogo e condivisione. Qui ogni
ragazzo ed educatore sperimenta la gioia del trascorrere del tempo assieme
visitando una città, pescando al lago, oppure mangiando al ristorante. Questo
dialogo fraterno poi si trasmette in automatico verso le persone che si incontrano
instaurando nuovi rapporti di amicizia.
Anche il rapporto con la famiglia di ogni utente è fondamentale e sta alla base di
molti progetti e di alcune iniziative che ogni anno vengono proposte. Ad esempio
molte famiglie faticano ad accettare, se pur dopo tanti anni, le difficoltà dei figli. La
non accettazione della disabilità porta il tessuto familiare in una sorte di crisi o
75
depressione costante, che nel corso degli anni, se non è sostenuta o convertita,
aumenta il suo livello e può portare a conseguenze gravi. Non a caso alcuni
genitori decidono di inserire i propri figli in strutture residenziali cosi ne sentono
meno il peso.
Anche a me capita spesso di riaccompagnare a casa i ragazzi e di assistere a
ripetuti sfoghi di madri o padri che sono allo stremo delle forze e come dicono loro
stessi “<< non riusciamo più a gestirlo\a, non ne possiamo più; più si va avanti più
è peggio”>>. Questi sono i risultati di un grave errore che è stato commesso sin
dall‟inizio della nascita di queste persone e cioè il non aver sostenuto e lavorato
assieme ai genitori per capire quali fossero le debolezze da sostenere nel ragazzo
e quali i punti di forza sul quale scommettere e creare un percorso di sviluppo
psicofisico. Cosi emerge un identikit di genitore sfiduciato, affranto, poco
disponibile al dialogo e fuggitivo nei confronti dei servizi sociali che seguono e
sostengono il figlio. Ad esempio con gli assistenti sociali alcune famiglie non
dialogano da tanto tempo perché litigi o incomprensioni hanno deciso di tagliare i
ponti con queste figure fondamentali, e preferiscono “fare da soli”, con le proprie
gambe, che ormai stanno cominciando ad avere troppa stanchezza per andare
avanti. Evidenziamo ora gli aspetti fondamentali all‟interno di questo punto.
- Come abbiamo evidenziato nel percorso storico la famiglia si trova ad essere
sfiduciata e timorosa è ha sempre più bisogno di persone capaci di dare sicurezza
e serenità. Questo è uno dei compiti del centro diurno che con i suoi educatori
deve creare un clima di dialogo tra la famiglia, il servizio e il proprio figlio. Questo
dialogo serve per cominciare questo rapporto che porterà all‟interno del processo
di integrazione.
- Con l‟instaurarsi di un rapporto di fiducia la famiglia diventa disponibile a
collaborare. Sia afferma cosi l‟inizio della progettazione come punto di inizio e di
incontro tra l‟individuo e la società.
- Il centro diurno diventa il primo strumento per coloro che non riescono, per vari
motivi, ad essere inseriti nel mondo del lavoro specializzato e si trovano come
unica alternativa quello dell‟istituzionalizzazione o della chiusura nei vecchi
manicomi.
- Il dialogo con la famiglia diventa fondamentale come sostegno la dove ci sono
coppie che stanno invecchiando e cominciano a faticare fisicamente.
76
Concludendo questo paragrafo posso dire con certezza che durante la
quotidianità, nel nostro piccolo, miriamo sempre alla creazione dell‟ integrazione
cercando sempre di migliorarci e di tendere ai principi che vengono descritti nella
convenzione Onu che ho descritto nell‟introduzione.
Non sempre è facile perseguire questo obbiettivo a causa di politiche (sia locali
che nazionali) a sfavore dell‟integrazione e a causa di una logica che ancora
prevede l‟assistenza sanitaria e la sola cura per le persone con disabilità.
Schema riassuntivo del secondo capitolo
IL CENTRO DIURNO COME POSSIBILE STRUMENTO D’INTEGRAZIONE
PERSONA con DISABILITÁ
La persona con disabilità viene inserita all’interno del
centro diurno dove trova un luogo di integrazione.
ASSOCIAZIONE
PAPA
GIOVANNI
XXIII
Attraverso la
condivisione viene
costruito un vero
un luogo nel quale
la persona non è
sola e dove
l’elemento
portante è il
rapporto di
dialogo che ha
come scopo quello
di avviare
l’integrazione
sociale
SERVIZI
SOCIALI
Inserimento nel
CENTRO DIURNO
“IL NODO:”
esperienza quotidiana di
integrazione della persona disabile.
Vengono proposte attività
lavorative ed educative che hanno
lo scopo di aiutare la persona nella
partecipazione alla vita sociale.
Viene garantito
un solido
rapporto con i
servizi sociali di
modo che la
persona non sia
sola, ma sia
accompagnata
nei suoi bisogni
medici e di
accesso ai servizi.
Inoltre i servizi
sociali
collaborano al
progetto
educativo.
77
CAPITOLO TERZO
“IL DOPO DI NOI”: L’URGENZA DI UNA PROGETTAZIONE
3.1 Introduzione
In quest‟ultima parte del mio elaborato vorrei cercare di delineare un aspetto che
ancora oggi è inserito all‟interno di un ampio dibattito nella nostra cooperativa e
che necessità di una urgente realizzazione. Precisamente mi riferisco al progetto
“dopo di noi”. Nella mia esperienza di educatore all‟interno di un centro
dell‟associazione Papa Giovanni XXIII, interrogarsi su questo tema assume un
profondo valore umano perché molto spesso ci sono persone con disabilità che ad
un certo punto della loro vita si trovano sole e rischiano di essere inserite in
ambienti residenziali, come i ricoveri, dove il lavoro di integrazione viene sostituito
da una logica assistenziale. Se la mia tesi di fondo è dimostrare che il centro
diurno può fornire una risposta utile e interessante per il lavoro con la disabilità,
allora come educatore devo, sostenuto da principi ben precisi, progettare una
possibilità di inclusione che duri tutta la vita del ragazzo, anche quando la persona,
a causa della morte o malattia dei genitori e della non disponibilità da parte dei
famigliari ad una accoglienza, rischia l‟inserimento in strutture di ricovero.
“Dopo di noi” è la domanda che di frequente si sente chiedere da parte dei genitori
e dei famigliari a noi educatori. Tramite un lavoro di progettazione da tempo
avviato che mi coinvolge ho ritenuto bello descrivere
questo progetto
evidenziandolo come una parte sostanziale dell‟integrazione del quale ho
ampiamente parlato fino ad ora.
Tramite questo capitolo cercherò di analizzare questi aspetti evidenziando un
percorso che da tempo si sta progettando sia all‟interno dell‟associazione ma
anche esternamente tra coloro che si impegnano per l‟integrazione sociale. L‟idea
che di seguito propongono è una tra le tante possibilità che stanno emergendo dal
dibattito che si crea tra i diversi centri della cooperativa e da coloro che sono
fortemente interessati a trovare una soluzione per un problema che comincia a
presentarsi con forza.
78
3.2 “Un esperienza reale come punto di partenza”
Credo che il miglior modo per spiegare il progetto del “dopo di noi” sia partire
dall‟analisi di una tra le diverse esperienze reali, che ha portato alcuni educatori del
centro “il nodo” e della cooperativa ad interrogarsi su questo tema. Di seguito
descrivo la storia di M. (mantengo l‟anonimato per rispetto della persona e delle
regole sulla privacy) che tramite il suo vissuto evidenzia bene quale sia l‟urgenza
della progettazione di un “dopo di noi”.
M. nasce nel 1960 in un paese dell‟entroterra marchigiano ed alla nascita viene
evidenziata una tetraplegia spastica con insufficienza mentale di grado medio-lieve
(oligofrenia), presentando frequenti crisi epilettiche.
Dopo la licenza media inferiore viene accolta presso il centro diurno il Nodo
durante l‟anno 1995 dopo la morte della madre. Questo inserimento serve come
sostegno familiare a causa dell‟avanzare dell‟età del padre e della difficoltà di
coinvolgimento dei parenti e fratelli di M.
Oggi il padre, per problemi legati all‟età e alla propria salute, non riesce più a
seguire M. come prima o come vorrebbe. Inoltre egli non accetta neppure progetti
di aiuto che l‟equipe degli educatori del centro ha più volte proposto per aiutarlo
con la presenza di una collaboratrice familiare, con il trasferimento presso un
abitazione senza barriere architettoniche, o almeno, rendendo l‟attuale più agibile
attraverso modifiche strutturali.
In quest‟ultimo periodo la situazione si è aggravata e durante un incontro tra
l‟equipe del centro e l‟assistente sociale, l‟unica possibilità che il padre ha proposto
è quella di un inserimento di M. presso la Casa Protetta per anziani in modo da
averla vicina e poterla andare a trovare quando possibile.
Sostenuti dai principi dell‟associazione Papa Giovanni XXIII, di accogliere la
persona con disabilità e favorire la sua piena integrazione, noi operatori ci siamo
confrontati su questa ipotesi e, in generale, non riteniamo che l‟inserimento in RSA
di M, sia una soluzione adeguata.
Dopo un ampio e lungo dibattito la proposta che ci sembrava maggiormente
adeguata alla sua situazione era quella di un inserimento presso una casa famiglia
dell‟associazione, residente nei dintorni del centro, in modo di mantenerla sempre
79
all‟interno del suo contesto ambientale e di continuare la frequenza al “Nodo”. La
richiesta è quella di valutare la possibilità di un inserimento di M. in una delle Case
Famiglie, cosicché la persona possa godere di quelle attenzioni e di quelle
opportunità che finora, non per cattiveria, ma per una certa mentalità paterna, le
sono state precluse. Ad oggi, si sta ancora lavorando per permettere questa
strada, anche se le difficoltà, soprattutto dall‟ambiente famigliare non mancano.
Da questa esperienza reale prendo ora in considerazione alcuni elementi che
servono per la costruzione del progetto del “dopo di noi”.
Innanzitutto, l‟aspetto che viene maggiormente sottolineato è l‟urgente bisogno di
trovare una risposta alla domanda che proviene maggiormente da un ambiente
dove la situazione familiare non è di facile gestione.
Il padre, con l‟avanzare dell‟età, non riesce più a garantire alla persona la dovuta
assistenza e i fratelli non vogliono prendersi in carico M., perché occupati con le
famiglie e il lavoro. L‟unica strada che si prospetta è quella di un inserimento in
struttura protetta per gli anziani. D‟altra parte la giovane età di M. non è
compatibile con gli ospiti del ricovero, che avendo quasi tutti un età molto
avanzata, non permetterebbero alla ragazza la comunicazione e l‟instaurarsi di
rapporti di amicizia. Cosi il nostro centro diurno, sulla base dei principi
dell‟Associazione Papa Giovanni XXIII di non permettere alla persona disabile di
essere alloggiata nei ricoveri o negli istituti, ha posto un ulteriore alternativa a M.
cercando una casa famiglia disposta ad accoglierla.
Da tempo l‟intera associazione, come già detto, sta studiando la maniera di
accogliere e continuare l‟integrazione di persone con disabilità che a causa
dell‟invecchiamento dei genitori rischiano di essere inserite in strutture protette.
Ad oggi diverse sono le ipotesi per l‟attuazione del “dopo di noi”. All‟interno della
mia tesi, tra le diverse ipotesi, riporto l‟idea che vede come protagonista la “casa
famiglia” .
3.3 La casa famiglia il luogo del “dove siamo noi, lì anche loro”
Prima di descrivere il progetto vero e proprio del “dopo di noi” è necessario
descrivere in maniera rapida, ma esaustiva quali siano gli aspetti fondanti
dell‟ambiente casa-famiglia per comprendere al meglio l‟ambiente nel quale si da
80
vita alla nostra primaria progettazione. La casa famiglia è lo strumento necessario
per attuare il progetto.
La prima casa famiglia viene aperta il 3 luglio del 1973. Al suo interno si vive la
condivisione diretta. Secondo l‟intuizione di Don Oreste Benzi la casa famiglia è
una vera famiglia sostitutiva dove una figura materna e paterna accolgono
nell‟amore i figli e tutte le persone che vengono loro affidate. Le figure genitoriali
possono essere rappresentate da una coppia di sposi che, accanto ai propri figli
naturali, siano disponibili ad accogliere orfani non adottabili, bambini abbandonati,
adolescenti in difficoltà, persone con disabilità, emarginati, persone rifiutate. Il
criterio per decidere quanti accogliere è dunque la paternità responsabile.
All‟interno della casa famiglia si vive come in una famiglia normale: c‟è chi lavora,
studia, chi sta vicino alla mamma, chi non fa niente perché non può.
“La cosa impressionante è che la casa famiglia concepita e vissuta in questo modo
diventa un reale ambiente terapeutico: le persone accolte acquistano senso di
sicurezza e fiducia in sé stesse, sono facilitate a d inserirsi nella realtà circostante”
[…] (V.Lessi, 1991, p.32). Vediamo ora di descrivere i punti principali della struttura
casa-famiglia che sono utili per la comprensione del progetto del “dopo di noi”.
La Casa Famiglia dell‟Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII è una
comunità residenziale organizzata e gestita sul modello della famiglia naturale.
Accoglie persone che necessitano, in via temporanea e/o definitiva, di un ambiente
che assicuri:
- sviluppo e maturazione affettiva e relazionale;
- educazione personale e sociale;
- assistenza e cura;
- promozione umana, psicologica e spirituale;
- tutela ed integrazione o reinserimento sociale.
Dal punto di vista strutturale, la casa famiglia risponde ai requisiti previsti per le
civili abitazioni ed in ordine alla sua organizzazione assicura alle persone prese in
carico: ospitalità, organizzazione della vita quotidiana familiare in ragione dei
bisogni e delle attività individuali e di gruppo, cura ed assistenza, partecipazione
sociale, civile e religiosa, promozione ed educazione umana, sociale e spirituale.
La Casa Famiglia offre un contesto di vita caratterizzato da una disponibilità
affettiva e da un intenzionalità educativa, esercitate da una coppia di adulti
81
adeguatamente formati dall‟Ente Gestore, che svolgono il ruolo di figure di
riferimento attraverso relazioni individualizzate, totalmente disponibili, stabili e
continuative con le persone accolte.
Si propone come ambiente rappresentativo delle funzioni familiari e/o parentali,
coinvolgendo per quanto possibile la famiglia o il contesto d‟origine della persona
accolta, nella relazione ed attività educativa rivolte allo sviluppo evolutivo del
soggetto ed alla rimozione delle condizioni che hanno richiesto l‟inserimento nella
casa famiglia. La relazione stabile e continuativa offerta dalle figure di riferimento è
il presupposto su cui si fonda l‟intervento educativo, attribuendogli legittimità ed
efficacia al fine di favorire il progressivo cambiamento della persona in termini
evolutivi. La proposta di un ambito di convivenza ad alto contenuto di relazionalità,
intenzionalmente orientata alla condivisione di tempi e spazi quotidiani, in cui i
rapporti sono qualificati in termini di appartenenza, solidarietà e collaborazione
come nella famiglia naturale, garantisce alla persona in stato di disagio relazionale
di vivere in un ambiente in cui sono rappresentate le funzioni genitoriali e/o
parentali senza sostituire quelle naturali proprie.
La finalità della casa famiglia infatti è di rimuovere, se possibile, le condizioni che
hanno determinato l‟inserimento della persona, privilegiando un intervento
orientato al reinserimento presso il proprio nucleo o contesto di origine. Solo a
fronte di comprovate cause ostative, l‟attività educativa si orienterà ad
accompagnare lo sviluppo delle autonomie personali e sociali della persona
inserita, fino al raggiungimento del proprio progetto di vita autonoma o di una reale
integrazione sociale, congruente alle caratteristiche e condizioni del soggetto,
permanendo in forma più definitiva nella casa famiglia.
Le competenze espresse dalle figure di riferimento, si collocano dunque su due
piani complementari:
-
L‟essere e il saper essere; il fare e il saper fare, che si integrano nella
quotidianità e tendono a realizzare con le persone accolte, la trama di un rapporto
qualificato sul piano affettivo - relazionale ed educativo.
Tali competenze si possono così sintetizzare:
- competenze pedagogiche (capacità di attivare e gestire una relazione
consapevole, intenzionale,definita nei ruoli e nelle funzioni e che sappia utilizzare
gli strumenti propri del lavoro educativo: osservazioni, progetti, verifiche, ...)
82
- competenze psicologiche (capacità di identificazione ed interpretazione delle
situazioni contingenti al fine di far emergere i nodi problematici e le risorse
attivabili)
- competenze riabilitative (potenziare ed attivare le risorse del soggetto all‟interno
delle condizioni o del contesto in cui si trova)
- competenze animative (stimolare e sviluppare l‟espressione e la partecipazione
dei soggetti interessati all‟intervento educativo)
- competenze culturali e sociali (capacità di programmare ed organizzare attività
attraverso gli stimoli e le risorse che l‟ambiente offre, capacità di interagire con il
quadro di riferimento istituzionale, legislativo e/o politico).
- competenze relazionali (capacità di entrare in relazione con le persone accolte e
di stimolare in essi una trama di relazioni intra ed extra casa famiglia)
Le figure di riferimento della casa famiglia per l‟esercizio delle loro funzioni,
possono avvalersi anche di collaboratori e/o consulenti, professionali o volontari
adeguatamente formati, che collaborino o integrino il loro lavoro, senza sostituirsi
al loro ruolo e alla conseguente responsabilità e funzione educativa. Questo
aspetto, come vedremo, è molto importante per il progetto del “dopo di noi”.
La casa famiglia è un servizio senza limitazioni di orari o periodi di chiusura in
riferimento alle persone che vi sono accolte, in ragione del loro bisogno e del
progetto realizzato in accordo con il Servizio Sociale o Ente Istituzionale inviante.
L‟accoglienza include ogni prestazione di natura assistenziale, tutelare e di
mantenimento proprie della famiglia naturale.
Alle persone ospitate viene richiesto il rispetto delle comuni regole di convivenza
comunitaria:
- rispetto delle persone e degli ambienti
-osservanza degli orari comuni
- osservanza dell‟igiene personale e degli ambienti
- divieto d‟uso di sostanze stupefacenti o psicotrope
- divieto di violenza fisica e/o rapporti sessuali fra persone ospitate
- gestione comunicata e partecipata delle proprie attività personali in relazione al
grado di maturità ed autonomia possibili
Nell‟ambito dell‟organizzazione della casa famiglia sono previste inoltre attività
riabilitative, ludico-sportive e ricreative, da effettuarsi in apposite strutture del
83
territorio e dove sia necessario con l‟assistenza delle figure di riferimento della
casa famiglia o di collaboratori volontari, sempre nell‟ambito del progetto educativo
individualizzato.
Per l‟aspetto sanitario, la casa famiglia si avvale dei servizi territoriali sia di base
che Specialistici,offerti dal Servizio Sanitario Nazionale e Regionale, in rapporto
alle specifiche necessità di ogni persona ospitata.
Le figure responsabili della casa famiglia utilizzano il metodo del lavoro per
progetti, al fine di rispondere alle esigenze di concretezza, trasparenza e verifica
del lavoro educativo svolto con e per le persone prese in carico.
La progettazione si riferisce, sia all‟intervento complessivo della struttura attraverso
la definizione delle finalità e obiettivi generali del servizio in relazione all‟insieme
delle prestazioni offerte, sia in relazione al progetto individuale d‟ingresso
elaborato in collaborazione con l‟Ente inviante e i successivi PEI che definiscono
l‟intervento mirato sul soggetto.
In ogni caso la progettazione è espressa in un documento che ne definisce i
presupposti, gli obiettivi, gli strumenti e mezzi a disposizione, i vincoli e tempi in cui
si intende realizzare l‟intervento e la necessaria modalità di verifica attraverso
indicatori predefiniti. Nell‟elaborazione del PEI vengono coinvolti attivamente la
persona oggetto dell‟intervento, le famiglie di origine e tutti gli operatori sociali che,
a diverso titolo, possono contribuire a realizzare una sinergia di risorse che
qualifichino il lavoro e lo supportino anche al di fuori dei tempi ed attività proprie
della casa famiglia. La vita comunitaria riproduce il modello relazionale della
famiglia. Obiettivi e metodi educativi sono incentrati sul rispetto dei diritti
dell'utente,
sulla
promozione
dello
sviluppo
della
personalità
e
della
socializzazione, su un rapporto educativo individualizzato e attento ai bisogni
cognitivi, affettivi e religiosi del soggetto. E' strutturata con orari precisi e si svolge
secondo una organizzazione fortemente esigente, con suddivisione di compiti e
responsabilità, attraverso momenti di confronto e di proposte educative, formative,
culturali e psicoterapeutiche.
Alla base della vita proposta nella Casa Famiglia sottostanno valori molto semplici
ma fondamentali quali l'amicizia, la sincerità, il rispetto reciproco, l‟amore per la
vita, la responsabilità, il senso di famiglia, la lotta per ciò che è giusto, il sacrificio, il
superamento degli ostacoli, la condivisione, la gioia, il rispetto della natura, la
84
compartecipazione ai problemi della società, il senso del mistero e il senso
religioso, l'amore per i poveri.
Non è possibile fornire una schematizzazione circa gli orari e l‟organizzazione della
giornata, perché troppo variabile.
Infatti, a secondo dei bisogni dei singoli ospiti e del bisogno comune di relazionarsi
in modo familiare/parentale fra tutti i componenti della ambiente familiare, viene
giorno per giorno stabilita la programmazione della giornata, cercando, quando
questo è possibile, di coinvolgere ogni componente. Sono comunque ritenuti
momenti indispensabili per il loro alto valore terapeutico quello dei pasti (almeno
uno) e quello del confronto sull'andamento della vita familiare. Tale momento, a
cadenza regolare programmata o secondo il bisogno, diventa ambito di confronto,
per quanto è compatibile con le capacità cognitive di ciascuno, sull'andamento
della vita quotidiana e sulla relazione che si è instaurata fra tutti i componenti della
casa famiglia. Ogni soggetto-utente è chiamato a partecipare ed essere
protagonista attivo nella vita della casa famiglia. Le figure di riferimento genitoriale
assegnano ad ognuno ruoli, compiti e responsabilità in funzione della loro crescita,
maturazione e autonomia responsabile in un crescendo che attesti l'evoluzione
positiva del cammino terapeutico. Nel caso che gli accolti della Casa Famiglia
fossero minorenni o portatori d'handicap psichici, le regole di vita comunitaria
sopra elencate saranno modulate in funzione della capacità del soggetto di
riconoscerle come tali e di essere in grado di comprenderle e conseguentemente
in grado di farle proprie. La casa famiglia è inserita nel contesto sociale territoriale
e persegue una prassi di effettiva partecipazione ed integrazione con tutte le realtà
istituzionali e non, che vi sono presenti. Collabora a livello di animazione e
promozione con tutte le realtà civili e religiose, in merito ad attività o iniziative di
natura educativa, sociale ed ecclesiale, secondo le finalità e modalità proprie
dell‟Ente
gestore
che
rappresenta.
L'Associazione
persegue
la
piena
collaborazione, nella distinzione dei ruoli specifici, con tutti gli Enti Pubblici preposti
all'assistenza e sicurezza sociale. La casa famiglia. si colloca come presidio socio
assistenziale che concorre alla realizzazione del sistema di risposte che lo Stato
offre alle fasce deboli della propria popolazione. Ente Ecclesiastico di diritto
pontificio civilmente riconosciuto con D.P.R., la Comunità ha personalità giuridica e
intrattiene rapporti di convenzione con Comuni, USSL, Province e Regioni.
85
Per scelta, la Comunità non si sostituisce agli Enti Pubblici, ma si pone come
stimolo e confronto dialettico per una sempre migliore qualità dei servizi resi al
cittadino. Per questo non ha servizi specialistici propri interni, ma si avvale delle
strutture e dei presidi Socio-Sanitari presenti sul territorio e previsti dallo Stato.
Per gli aspetti sanitari ci si riferisce al Sevizio Sanitario Nazionale, secondo le
modalità proprie per ciascun soggetto accolto, mentre per gli aspetti sociali si fa
riferimento ai servizi erogati dagli Enti Locali. I rapporti terapeutici e relazionali
vengono tenuti dai responsabili della casa famiglia direttamente con gli operatori
pubblici competenti, disponibili ad un continuo confronto e interscambio per meglio
rispondere alle esigenze del soggetto accolto.
Nella Casa Famiglia, i membri della Comunità Papa Giovanni XXIII scelgono, in
nome di una precisa opzione di fede Cattolica incarnata, di condividere
direttamente la vita con le persone abbandonate, povere, emarginate, di cui
vengono a conoscenza. In questa logica di scelta di vita totale essi si aprono
all'accoglienza di quanti chiedono e sono nel bisogno.
Ponendosi come figure di riferimento maschile e femminile svolgono il ruolo
genitoriale e instaurano rapporti sul tipo genitori - figli. Non diventa tanto titolo
qualificante l'attestazione giuridica di una professione in campo educativo, ma la
scelta matura e responsabile, vagliata attentamente dall'Associazione in un iter
formativo interno, di svolgere il ruolo genitoriale in modo affettivo, gratuito,
continuativo, totalmente disponibile e personalizzato. Questa è la prima e vera
professionalità, a cui si aggiungono tutte le altre competenze professionali
specifiche. L'esperienza ormai ventennale di Casa Famiglia evidenzia come anche
la sola presenza della figura materna possa svolgere appropriatamente il ruolo
educativo genitoriale ed essere compitamente una struttura di tipo familiare. Anche
in questo il modello diventa la famiglia naturale che vive in una situazione che
potremmo chiamare di "vedovanza", dove il coniuge superstite riesce con i dovuti
accorgimenti a non privare i figli del ruolo che avrebbe dovuto svolgere il partner,
garantendo loro una crescita ugualmente armonica.
86
3.4 Il progetto:“dopo di Noi”
Comincia ora un lungo paragrafo dove cercherò di rendere concreto il progetto che
è in fase di elaborazione e nel quale sia io che altri colleghi, da tempo ci stiamo
interessando.
Il “dopo di noi” nasce come ulteriore risposta a quella del centro diurno e diviene
un radicale elemento che permette di continuare l‟integrazione della persona con
disabilità. Lo scopo essenziale di questa nuova idea è quello di consentire
l‟inclusione nella società attraverso il permanere dell‟individuo presso una famiglia,
che sia pronta ad accoglierla. Questo bisogno nasce per coloro che a causa della
morte dei genitori e della difficoltà di accoglienza da parte dei parenti stretti,
rischiano di trovarsi di fronte all‟ipotesi di entrare a far parte di un istituto o di un
ricovero dove vige la logica dell‟assistenzialismo. L‟ambiente che penso equilibrato
e pronto per attuare questo progetto è l‟ambiente della casa famiglia, costruita
secondo l‟intuizione di Don Oreste Benzi, cioè di un luogo che offre un contesto di
vita caratterizzato da una disponibilità affettiva e da un‟ intenzionalità educativa.
Prima di descrivere il progetto illustro i punti chiave che qualificano il contesto della
casa famiglia come risorsa per l‟attuazione del “dopo di noi”.
Innanzitutto, la casa famiglia vive radicalmente l‟idea della condivisione che si
dimostra nella figura genitoriale cioè in una coppia di sposi che, accanto ai propri
figli naturali, siano disponibili ad accogliere orfani non adottabili, bambini
abbandonati, adolescenti in difficoltà, persone diversamente abili, emarginati e
persone rifiutate. All‟interno di questo concetto viene posto un profondo significato
che apre la porta ad una radicale innovazione: l‟accoglienza di colui che presenta
una difficoltà. L‟ambiente della casa famiglia è costantemente pronto ad una
disponibilità senza sosta verso coloro che provengono da situazioni di emergenza
dove è forte il bisogno di due genitori che con il loro amore e la loro pazienza
condividano in modo empatico le gioie e i dolori di questa persona grande o
piccola essa sia. Nella mia idea del “dopo di Noi” la casa famiglia assume una
prima fondamentale caratteristica: l‟accoglienza di qualsiasi situazione si presenti
sul cammino di una coppia di sposi, a qualsiasi ora e senza esclusione o
preferenze.
87
L‟accoglienza è il principio che fonda l‟unione della casa famiglia, cioè quel
processo instancabile che da la possibilità alle categorie più deboli di trovare un
ambiente che sia disposto a prendersi cura e a crescerli fisicamente e inserirli nella
società. La coppia di sposi che sceglie in maniera definitiva la logica e i principi di
questa realtà sceglie automaticamente di rispondere ai bisogni che molto spesso
non trovano delle risposte tra la gente comune. Dove c‟è un bisogno l‟ambiente
casa- famiglia pone una risposta ben precisa senza ripensamenti o tentennamenti.
Ciò che sta alla base di questa struttura è il continuo mettersi in gioco cercando
sempre di porsi in un ottica di condivisione diretta.
Ecco che questa realtà diviene automaticamente la base sul quale costruire il
nostro progetto. Pensiamo alla storia di M. sopra descritta e cerchiamo di trovare
un primo aggancio con la casa famiglia. Certamente un ambiente con le
caratteristiche sopra citate riesce ad accogliere fin da subito questa persona
cominciando a creare quell‟ambiente relazionale e affettivo di cui ha bisogno ogni
individuo durante la sua vita.
Il secondo aspetto fondamentale è che all‟interno della casa famiglia non c‟è un
criterio di accoglienza o di scelta di coloro che diventano figli. I genitori credono
fortemente che ogni persona, mossa da un bisogno necessità di attenzione e
amore e debba trovare un posto all‟interno di questa struttura. Per questo i genitori
non scelgono, ma ricevono in dono la persona alla quale devono porre le
necessarie attenzioni. Sicuramente nelle nostre cooperative sono presenti individui
che hanno svariate disabilità e diversificate storie di vita. La casa famiglia si
interessa dell‟ individuo come persona umana da valorizzare e non si ferma alle
difficoltà che essa può creare o alla fatica richiesta per il suo sostegno. Cosi, ad
esempio M. non ha il problema di superare una sorta di selezione ma trova subito
un accoglienza amorevole e di condivisione.
Proseguendo nella mia analisi individuo nella casa famiglia alcune azioni
fondamentali che sono alla base del progetto del “dopo di noi”.
Ad esempio all‟interno della struttura viene offerta sia l‟ospitalità ma anche
l‟organizzazione della vita quotidiana famigliare in ragione dei bisogni della
persona. Inoltre viene offerta cura ed assistenza, partecipazione sociale, civile e
religiosa, promozione ed educazione umana, sociale e spirituale. La realtà di
questa famiglia innovativa è molto radicale e profonda. Ogni persona che ne è
88
parte si sente coinvolto e stimolato al raggiungimento di un autonomia in quegli
ambiti appena descritti che sono la chiave d‟accesso per la relazione all‟interno
della società. Anche la persona con disabilità è chiamata a partecipare a questo
processo, con la certezza di essere coinvolto all‟interno di un vero e proprio
processo
di
integrazione
del
quale
è
protagonista
assoluto.
La
realtà
profondamente dinamica, movimentata e variegata della casa famiglia pone
sempre la persona in un continuo allenamento stimolante che la porta a continui
scambi relazionali e alla maturazione delle diverse aree di autonomia sociali e
umane. Tutto ciò permette di eliminare concretamente la facile strada dell‟
assistenzialismo e promuovere la condivisione diretta dove ognuno assume un
ruolo ben preciso ed è chiamato a ruoli di responsabilità. Solamente se ognuno si
impegna verso l‟altro eliminando le barriere dell‟indifferenza e dell‟individualismo, si
crea quel dolce clima di fraternità che è il fondamento della casa famiglia.
Cosi ad esempio M. in questo ambiente troverebbe un terreno fertile di occasioni di
sviluppo dove ogni componente riesce a farla sentire parte attiva della famiglia e
non solo un oggetto da accudire. M. all‟interno di questa realtà può possedere
sicuramente un ruolo che deve
cercare sempre di sviluppare e integrare con
quello degli altri. Questo ruolo viene costruito in base alle capacità che ognuno può
dare verso i propri fratelli e sorelle in un clima dove nessuno mai si permette di
giudicare chi fa più cose o chi ne fa meno.
Quindi l‟ambiente casa famiglia mostra un ruolo ben preciso: realizzare le attività
educative rivolte allo sviluppo evolutivo del soggetto ed alla rimozione delle
condizioni che hanno richiesto l‟inserimento nella casa famiglia. La forza di questo
ambiente è quello di elevare la persona, evidenziandone la sua importanza e la
sua sacralità. L‟impegno è quello di saper ben amministrare e sviluppare tutte le
potenzialità che ogni individuo possiede. Ciò che viene costantemente eliminato
sono le cause che hanno fatto in modo che una persona venisse esclusa,
emarginata o rifiutata. Nella storia di M. troviamo proprio un rifiuto, per cause
fisiche, da parte del padre che non riesce più a gestire la figlia. Tutto ciò crea
abbandono e sfiducia in M. che cerca disperatamente una soluzione. Anche dai
partenti proviene un rigetto ad assumersi la persona, perché non rientra nei piani
dei fratelli, che hanno già avviato la loro vita in altra maniera.
89
La casa famiglia, invece, non prende in considerazione il problema o gli
impedimenti, della persona, e si impegna da subito per eliminare ciò che sembra,
apparentemente, un ostacolo. Cosi ad esempio, nella storia di M. i fratelli non
riescono a gestire la sua difficoltà di non camminare e di usare ausili come
sollevatore o carrozzina. Inoltre per loro è un problema il trasporto e i movimenti
negli ambienti domestici, che diventano difficili e faticanti. Invece la casa famiglia,
trasforma queste difficoltà cercando di investire le forze che ha al suo interno per
eliminare questi “inconvenienti” dimostrando che nessuno crea problema, ma
ognuno ha un suo ruolo ben preciso. Chiaramente bisogna faticare e investire
tante energie. Faccio un esempio per spiegare ciò che ho appena descritto:
all‟interno della casa famiglia in cui vivo i miei genitori hanno deciso di creare gli
spazi che servano per accogliere coloro che vivono sulla carrozzina, allargando le
porte, creando gli spazi più agevoli ed installando l‟ascensore.
In questa realtà si vive questo “essere sempre pronti ad ogni evenienza” facendo
in modo che l‟ambiente sia sicuro, accogliente e agevole a tutti.
Inoltre la casa famiglia garantisce alla persona in stato di disagio relazionale o
fisico di vivere in un ambiente in cui sono rappresentate le funzioni genitoriali e/o
parentali senza sostituire quelle naturali proprie. Molti accolti in queste realtà
hanno i genitori vivi o che sono morti, ma che per vari motivi necessitano di un
ambiente familiare sicuro e motivato da principi solidi. All‟interno di questo
ambiente, è importante sottolineare, le relazioni affettive non eliminano quelle
precedenti, ma si integrano. Anche M. sa benissimo che madre è morta e il suo
padre è vivo anche se vive la sua anzianità con le normali difficoltà sia fisiche che
intellettive. Il clima della casa famiglia aiuta l‟individuo a capire che se anche i suoi
genitori sono vivi, in questo momento non possono, per vari motivi, prendersi cura
del figlio e quindi ci sono alcuni genitori che si rendono disponibili in quel rapporto
affettivo fondamentale nel processo di crescita e di sviluppo della persona umana.
Attraverso l‟accoglienza la persona in difficoltà si sente profondamente amata e
sicura. Ella percepisce anche un senso di nuova maternità e paternità, che non
elimina il passato, ma lo integra e cerca di svilupparlo verso il meglio.
Un ulteriore aspetto fondante da sottolineare dell‟ambiente casa famiglia è che al
suo interno le figure di riferimento per l‟esercizio delle loro funzioni, possono
avvalersi anche di collaboratori e/o consulenti, professionali o volontari
90
adeguatamente formati, che collaborino o integrino il loro lavoro, senza sostituirsi
al loro ruolo e alla conseguente responsabilità e funzione educativa. In molteplici
strutture sono presenti dei validi collaboratori che, con il loro tempo e le loro
competenze, aiutano la gestione di tutte le attività, senza però sostituirsi al ruolo
educativo di responsabilità ricoperto dai genitori. Questo punto, all‟interno del
progetto è molto importante perché evidenzia la possibilità di inserire un individuo
disabile presso una famiglia contando sull‟aiuto di volontari o personale qualificato
che sostenga il lavoro dei genitori. Cosi ad esempio, nel caso di M. il suo
inserimento presso la casa famiglia è sicuramente sostenuto e meglio coordinato
se ci sono volontari o altre figure professionali che aiutano la famiglia negli
spostamenti, nell‟igiene personale, nella fisioterapia…
La casa famiglia è fortemente aperta a questo tipo di collaborazione purché si
svolga sempre tutto sotto la logica della condivisione diretta, tenendo come punto
ben preciso, il favorire l‟integrazione ed eliminare le cause di esclusione.
Inoltre, come già evidenziato, la casa per l‟aspetto sanitario, si avvale dei servizi
territoriali sia di base che Specialistici,offerti dal Servizio Sanitario Nazionale e
Regionale, in rapporto alle specifiche necessità di ogni persona ospitata. In ogni
realtà coloro che necessitano di particolari attenzioni e cure sono ben integrati nel
servizio sanitario del territorio e possono accedere a tutti i servizi disponibili. Quindi
ricollegandoci alla nostra storia presa come esempio, M. oltre al clima di affetto e
di relazione trova un ambiente che si occupa fisicamente del suo stato di salute,
creando, ad esempio, un percorso con la fisioterapista per cercare di migliorare
l‟uso degli arti. Da notare che nella famiglia di origine spesso il padre, per paura
dei costi o della fatica degli spostamenti, ha sempre fatto fatica ad accettare delle
proposte mediche per la figlia, cercando sempre di risaltare che la situazione ormai
era tale per cui non c‟era più nulla da fare.
Tutti coloro che fanno parte di questo ambiente cosi preziosi hanno sempre un
ruolo ben preciso e dei compiti da portare a termine. Ad esempio diverse e svariate
sono le attività di riordino, pulizia, ristrutturazione, che quotidianamente vengono
svolte da tutti i figli di questa famiglia. Si impara ben presto a fare il bucato o a
cucinare e poi ci si diletta nelle varie pulizie domestiche per poi imparare a stirare e
a rammendare. Nella vita di casa famiglia, durante la mia infanzia e nella mia
91
crescita, ho avuto la fortuna di imparare da subito queste azioni che oggi si
rivelano fondamentali per la vita adulta.
Ad esempio, collegandoci nella nostra storia , M. potrebbe svolgere un infinità di
lavoretti domestici anche se ha difficoltà nel camminare. Anche questo spazio
diventa terapeutico perché aiuta la persona a impiegare il proprio tempo con uno
scopo ben preciso, sentendosi utile e protagonista verso gli altri. Nella vita
presente M. al suo ritorno a casa spesso viene lasciata sola davanti ad un
televisore, senza stimoli e priva di un‟ autentica relazione. Allora penso a quanto
possa essere di aiuto la casa famiglia nella vita della persona con le sue infinite
relazioni e con la sua frenetica vita, che sicuramente mai ti annoia.
Nella lettura e nella spiegazione di questi punti fondamentali ho cercato di
evidenziare gli aspetti che rendono possibile l‟attuazione del progetto del “dopo di
noi” all‟interno di una struttura come la casa famiglia. Dalla mia analisi si
percepisce il vero senso di questo innovativo ambito familiare, cioè quella della
condivisione con chi, all‟apparenza, sembra essere un problema per la società.
3.5 Il “dopo di noi” come continuazione dell’esperienza d’inclusione
Tramite questo paragrafo cerco di evidenziare il progetto vero e proprio sulla base
delle indicazioni fornite nei precedenti punti dove sono state descritte le colonne
portanti di questa progettazione.
Nell‟ultimo periodo, storie simili a quella di M., nel nostro centro e nella cooperativa
per la quale lavoro, stanno aumentando a tal punto che alcuni operatori hanno,
come già scritto, cominciato a chiedersi che cosa si può fare per coloro che,
frequentando i nostri centri,iniziano ad avere difficoltà nel proprio ambiente
familiare con il rischio di essere inseriti in strutture residenziali o negli istituti. Oggi,
dall‟analisi che emerge dagli incontri di verifica, che avvengono annualmente nei
nostri centri diurni tra le famiglie e gli assistenti sociali emergono due fondamentali
problematiche:
-
l‟avanzare dell‟età dei genitori o la morte di essi;
-
la difficoltà di presa a carico della persona disabile da parte dei parenti o
familiari più stretti.
92
Il primo problema riguarda una questione comune: il declino fisico e psicologico
della coppia dei genitori con il conseguente abbandono della capacità di gestione
del figlio. La maggior parte delle famiglie sono molto anziane e vivono da soli
assieme alla persona con disabilità, mentre il resto della famiglia si è staccato dalla
famiglia d‟origine per crearne una propria. Alcuni di essi vivono lontano dal nucleo
famigliare d‟origine e quindi è difficile anche la possibilità di un sostegno morale e
fisico verso i genitori.
Conseguenza del problema dell‟invecchiamento fisico dei genitori è un aumento
delle difficoltà con conseguente appesantimento del clima già, in molti casi, triste.
Ad esempio il padre di M. non riesce più a sollevare la propria figlia per il bagno o
a garantirli l‟igiene corporea essenziale. Per questo nell‟ultimo periodo M. è caduta
diverse volte ed è stato necessario aspettare qualche tempo prima che qualcuno
potesse intervenire in questa situazione, offrendo un aiuto.
Un clima scarso di stimoli, che fatica a contenere questa situazione, diventa
pericoloso, tutto a scapito della persona che, con la sua disabilità, ha bisogno di
attenzioni ben precisi.
Anche l‟individuo risente a livello emotivo di questa situazione. Spesso, infatti, è
costretto a convivere con le crisi dei genitori che, a causa della malattia fisica,
devono essere ricoverati oppure devono frequentare cure mediche che li portano
ad essere lontani dalla casa. Per questo molte volte, alcuni utenti dei nostri centri
passano intere giornate con la preoccupazione o la tristezza nei confronti dei
genitori perché li vedono peggiorare e da parte loro, non riescono a fare nulla per
aiutarli. Di seguito, nascono le incomprensioni genitori-figli con conseguenti litigate
o maltrattamenti.
Un secondo problema deriva dall‟incapacità da parte dei parenti di gestire una
situazione di disabilità. Nel momento in cui i genitori cominciano a faticare nella
gestione del figlio si cerca da subito di interpellare i fratelli o i parenti spiegando a
loro la situazione e chiedendo un aiuto concreto e stabile. Oggi la maggioranza di
questi dialoghi finiscono con un rifiuto da parte dei parenti che non se la sentono,
oppure, dicono di avere tanto da fare a causa del lavoro e dei figli. Prendersi a
carico un fratello o parente con disabilità di età non più giovane diventa difficile e
spesso gli stessi parenti propongono delle soluzioni come quelle del ricovero in
strutture protette, con la promessa di andare a fare visita settimanalmente.
93
Come ben sappiamo dalla realtà anche quest‟ultimo aspetto non avviene di
frequente, con il rischio di abbandono totale della persona.
In alcuni casi sorgono anche degli scontri tra i genitori e figli che non capendosi si
accusano reciprocamente di non voler prendersi cura del famigliare che necessità
di particolari attenzioni.
Da notare la difficoltà di dialogo che spesso c‟è tra le diverse componenti in gioco
e che spesso non cercano il bene per la persona con disabilità ma la maniera
migliore per cercare di inserirlo in una situazione che non crei intralcio a nessuno.
Per questo sia i genitori, i famigliari e gli educatori della cooperativa si chiedono di
frequente una domanda: “dopo di noi” chi si prenderà cura del nostro figlio, o del
ragazzo?. Chi sarà pronto a volergli bene? Cosa succederà dopo la nostra morte?
Queste sono le domande frequenti che emergono dai dialoghi che noi operatori
abbiamo di frequente con l‟ambiente dei nostri accolti.
Qui è racchiuso anche il senso di quest‟ultima parte della mia tesi, cioè dimostrare
che il processo di integrazione, cominciato nel centro diurno, può e deve
continuare anche dopo la morte dei genitori attraverso un ambiente disponibile ad
accogliere la persona. Questo luogo, come già detto, è la casa famiglia.
Comincia da qui il progetto vero e proprio che racchiude gli elementi evidenziati nei
precedenti paragrafi.
Nel momento in cui la famiglia d‟origine di una persona con disabilità comincia ad
avere delle difficoltà serie, tanto da compromettere la disponibilità di tutela del
proprio figlio, il centro diurno, sostenuto dai principi dell‟associazione Papa
Giovanni XXIII, deve farsi carico, collaborando con i servizi territoriali, di questa
situazione cercando sempre di garantire un processo di integrazione sociale della
persona con disabilità.
Ad esempio nella storia di M. da subito l‟equipe degli educatori, in accordo con
l‟assistente sociale ha scritto una relazione descrivendo le caratteristiche
dell‟utente, con lo scopo di inviarla al responsabile centrale dell‟associazione Papa
Giovanni
XXIII
affinché
venga
cercata
una
casa-famiglia
disponibile
all‟accoglienza.
Di seguito,descrivo la prima fase del nostro progetto riassumendo ciò che fino ad
ora ho scritto:
94
1- All’interno di qualsiasi centro dell’associazione Papa Giovanni XXIII, nel
caso si presentasse una situazione di persona che rischia l’inserimento in
strutture protette o istituti, a causa dell’invecchiamento o morte del genitore
o di un abbandono dei famigliari, è necessario muoversi subito per cercare
di
eliminare
questa
possibilità
che
automaticamente
porterebbe
all’eliminazione delle condizioni del processo integrativo precedentemente
iniziato. La vera risposta autentica, che risponde ai principi fondamentali di
questa Associazione, è l’ambiente della casa famiglia come luogo
accogliente, relazionale e affettivo.
Dopo aver evidenziato il primo passo cerco ora di descrivere un ulteriore
importante aspetto del progetto.
Infatti, all‟interno della mia idea, la persona che viene a contatto con questa nuova
casa-famiglia non deve cessare di frequentare il centro diurno che da tempo
quotidianamente ha lo scopo di favorire il processo di inclusione sociale. La
persona disabile deve continuare ciò che ha sempre fatto perché è di vitale
importanza. Il centro diurno, soprattutto dove le politiche locali non hanno una
buona gestione della disabilità, deve essere lo stimolo quotidiano sia nelle attività
lavorative che nei laboratori, per permettere ad ogni singolo individuo di continuare
ad essere inserito nel tessuto sociale, come ho ampiamente descritto nel secondo
capitolo di questa tesi.
La persona all‟interno della casa-famiglia deve trovare il luogo della condivisone,
dell‟affetto dei genitori e della gioia di avere accanto delle persone che si prendono
cura di lui. Nel centro diurno invece, deve poter continuare a gustare la bellezza
del lavoro, delle amicizie, del divertimento e del contato con la società.
Il centro diurno deve continuare ad essere l‟orologio che scandisce i vari periodi di
vita della persona diventando un valido aiuto e collaboratore della famiglia stessa.
Quest‟ultimo punto che ho evidenziato è fondamentale, cioè quello del sostegno
alla casa famiglia. Infatti, ogni realtà abitativa che accoglie una persona disabile ha
sempre bisogno di un sostegno come valido aiuto per la persona e per un buon
clima famigliare. In un ambiente con diversi figli la persona con disabilità trascorre
la maggior parte della giornata presso il centro per poi fare ritorno nella propria
abitazione verso il pomeriggio – sera. È evidente che il centro diurno svolge un
ruolo di sviluppo della persona e di sostegno alla famiglia.
95
Eppure cerco di evidenziare un‟ ulteriore nota importantissima. Sia il centro diurno
che la casa famiglia condividono gli stessi principi e credono fortemente
nell‟integrazione della persona disabile, che deve continuamente tendere ai principi
della convenzione Onu accennati nell‟introduzione. Questo gioca un ruolo
favorevole nella vita della persona, che trova lo stesso clima sia presso il centro
che nella famiglia, cioè quello stile di condivisione presente in ogni struttura
dell‟Associazione.
Anche in fase di progettazione degli obiettivi della persona sicuramente la
condivisione degli stessi ideali aiuta molto per sviluppare al meglio le potenzialità
del disabile.
Descrivo ora la seconda fase del nostro progetto riassumendo ciò che fino ad ora
ho scritto:
2- Colui che viene accolto nella casa famiglia deve necessariamente
continuare a svolgere il suo ruolo da protagonista presso il centro diurno.
Quest’ultimo strumento continua a permettere il processo di integrazione,
diviene un solido aiuto al nuovo ambiente famigliare e permette di
valorizzare la persona grazie ad una comunione di ideali con la casafamiglia. All’interno del centro diurno la persona continua il suo sviluppo
verso l’integrazione attraverso l’attività lavorativa, quella dei laboratori
didattici e attraverso la condivisione delle amicizie.
Dopo aver descritto i primi due aspetti del nostro progetto è necessario delineare
un ulteriore fattore importante che si inserisce all‟interno del contesto casa
famiglia- servizi territoriali.
Nel momento in cui la famiglia decide di accogliere una nuova persona occorre
sempre, secondo la mia idea di “dopo di noi”, che anche il servizio territoriale
continui in maniera instancabile a seguire la stessa, cercando di dare sostegno alla
famiglia.
Innanzitutto, occorre un aiuto nel delicato passaggio dalla famiglia di origine, nel
quale la persona si sente da una parte disorientata, ma dall‟altra sicuramente
contenta di approdare in un ambiente sicuro e accogliente.
In questo delicato momento è importante il ruolo che assume l‟assistente sociale,
che deve essere capace di coordinare al meglio questo momento, cercando di far
comprendere all‟individuo la necessità e la bellezza di questo cambiamento. Anche
96
l‟ambiente del centro diurno deve poter sostenere questo delicato passaggio
cercando, per quanto possibile di porre una valida collaborazione.
Una volta superato l‟ostacolo del cambiamento è necessario strutturare un preciso
progetto del quale la persona deve essere protagonista, la famiglia il sostegno e i
servizi sociali i garanti.
Individuo in questi tre verbi il senso e la sintesi di questa progettazione in cui
l‟individuo con i suoi bisogni è al centro e attorno ruotano i servizi e la famiglia che
devono eliminare le condizioni tali per cui la persona incontra disabilità. Tutti
camminando sulla strada dell‟integrazione sociale.
Il momento della progettazione individuale deve tener conto di molti fattori:
- la necessità della persona di essere amata e sostenuta nelle difficoltà;
- l‟importanza della figura dei genitori;
- la necessità delle relazioni con i fratelli o altre persone presenti nella casa
famiglia come comunicazioni terapeutiche;
- l‟importanza del centro diurno come continuità nelle amicizie e possibilità di
lavoro o altre attività;
- una valutazione del progetto costante e attenta alle nuove necessità che possono
emergere.
Ancora prima dell‟inserimento della persona presso la casa famiglia si deve subito
pensare ad un‟ idea di fondo che accompagni l‟individuo lungo le sue giornate.
Questa progettualità porta la famiglia a conoscere meglio la persona e i servizi
territoriali a mettere a disposizione ciò che serve.
Ad esempio, in molteplici casi, la persona necessita di ausili meccanici come
sollevatori o lettini particolari, oppure di carrozzine di vario tipo o ancora di altri
ausili medici. Nella fase del progetto occorre che la famiglia capisca bene come
questi oggetti devono essere usati e a quale scopo, mentre i servizi devono
necessariamente e tempestivamente fornire questo materiale affinché poi possa
essere utilizzato. Inoltre la casa famiglia deve costantemente combattere per far si
che i diritti della persona vengano rispettati. Non sempre, infatti, il rapporto con i
servizi sociali e le politiche locali è facile a causa di continui tagli economici che
non permettono ad una persona di poter godere di tutti i servizi di cui ha bisogno.
Questo viene sperimentato, ad esempio, attorno alla vita del nostro centro e delle
case famiglie del territorio, dove a causa di comuni piccoli è difficile distribuire le
97
risorse che spesso vengono a meno. In molti casi è necessario usare la forza,
spesso quella legale, dove non sempre i rapporti sono dei migliori. Da una parte
c‟è la persona inserita in un processo di integrazione che necessità di strumenti
che tolgano le barriere e completino il suo sviluppo, dall‟altra servizi sempre più
scarsi a causa di legislazioni restrittive non disponibili a investire nell‟inclusione
sociale. All‟interno, della casa famiglia, grazie a diverse forze (non solo quella dei
genitori ma anche quella dei figli più grandi) si può cominciare a scommettere su
qualche cosa di più grande per la persona, che vada oltre a “quello che aveva già”.
Grazie alle molteplici potenzialità per M. che fatica a camminare e che nel proprio
ambiente familiare di origine ha perso questa funzione a causa dell‟impossibilità di
fare la riabilitazione, nel nuovo ambiente trova persone disposte a cominciare
nuovi percorsi affinché gli arti inferiori vengano rafforzati. Ad esempio si può
pensare ad un nuovo percorso di fisioterapia o a diversi strumenti come la piscina.
La famiglia investe le forze e l‟amore nel fare queste azioni, i servizi mettono
(dovrebbero) a disposizione i luoghi, gli strumenti e favoriscono l‟aspetto
economico, come ad esempio la retta, con le agevolazioni economiche e con le
convenzioni che vengono stipulate.
Ricordo che la casa famiglia è un Ente riconosciuto e quindi può ricevere le rette
per il sostegno degli accolti e stipulare convenzioni con i servizi territoriali.
La casa famiglia entra in un sistema nel quale trova una molteplicità di persone
competenti e disposte a sostenere questo progetto di integrazione. Tra questi
possiamo elencare i medici, gli psicologi, gli psichiatri, i fisioterapisti, gli infermieri e
gli assistenti sociali. Queste persone sono coloro che devono garantire a livello di
competenze e di sostegno medico ed economico, che il “dopo di noi” sia
costantemente favorito, attuato e monitorato. Nulla può essere perso e tutto è
fondamentale. Ogni individuo con la sua professionalità cerca di garantire alla
persona con disabilità il pieno sviluppo e mette nelle condizioni la famiglia per
poter giorno dopo giorno sostenere e amare questa persona accolta.
Descrivo ora la terza fase del nostro progetto riassumendo ciò che fino ad ora ho
scritto:
3- Colui che viene accolto nella casa famiglia deve necessariamente essere il
protagonista assoluto di un progetto di vita che ha come unico scopo quello
dell’integrazione. Per fare ciò l’individuo necessità dell’aiuto e del sostegno
98
di coloro che con la loro professionalità possano garantire la buona riuscita
del “dopo di noi”. Queste figure competenti, si occupano della persona,
garantendogli il pieno sviluppo e al tempo stesso aiutando la famiglia in
questo delicato compito.
In molte realtà dell‟associazione Papa Giovanni XXIII non sempre è sufficiente il
buon coordinamento con i servizi territoriali e i servizi da loro erogati perché
talvolta in alcune case-famiglie sono presenti diverse persone disabili. Per questo
nel mio progetto individuo alcune figure fondamentali che possono sostenere e
aiutare la casa famiglia. Questi sono i volontari o coloro che decidono di spendersi
per questa realtà e lo fanno perseguendo i principi dell‟associazione stessa.
Accanto alle figure di riferimento, in casa famiglia possono esserci anche altre
figure che aiutano e collaborano in vari modi: persone in Servizio Civile Volontario ,
Stagisti e Tirocinanti da scuole ed Università, volontari motivati, sacerdoti e
consacrati, ecc.
Il ruolo del volontario è fondamentale per la vita della casa famiglia e a sua volta
per la persona disabile accolta.
Innanzitutto il volontario spinto dalla gratuità è di aiuto per la famiglia sia nei lavori
domestici, ma anche nell‟educazione dei figli, apportando sostegno all‟intera
famiglia. In particolare, con le persone disabili il volontario diventa un elemento
fondamentale in quanto valido aiuto nella gestione delle autonomie personali, negli
spostamenti e in altre azioni che sono utili all‟individuo.
Anche il volontario deve essere parte integrante del progetto che coinvolge la
persona instaurando un rapporto comunicativo vero e profondo. Da tempo
l‟associazione Papa Giovanni XXIII investe molto sul volontariato, creando delle
vere e proprie scuole dove il volontario può educarsi e capire quali sono i principi
fondanti delineati da don Oreste Benzi.
Descrivo ora la quarta fase del nostro progetto riassumendo ciò che fino ad ora ho
scritto:
4- All’interno della casa oltre alle persone della famiglia, e esternamente dai
servizi sociali, è importante il ruolo del volontario come sostegno concreto
nelle svariate mansioni sia domestiche che verso le persone che vi fanno
parte. Il volontario diventa parte integrante del tessuto famigliare e deve
essere al corrente del progetto che investe la persona disabile cercando di
99
dare il proprio contributo rispettando i principi dell’associazione stessa della
gratuità e della condivisione diretta.
Schema del terzo capitolo:
PERSONA con DISABILITÁ
A causa della morte dei genitori e la non presa in carico
da parte dei parenti viene inserita nella casa famiglia.
CENTRO
DIURNO
Il centro diurno
garantisce il
processo di
integrazione, le
amicizie,
l’occupazione
lavorativa e le
attività
riabilitative
inserimento nella
CASA FAMIGLIA
VOLONTARI
SERVIZI
SOCIALI
I servizi sociali
garantiscono il
sostegno alla casa
famiglia a livello
economico e di
progettazione
fornendo i servizi
utili alla persona
I volontari sostengono la famiglia
attraverso una collaborazione nei
lavori e un aiuto nella gestione degli
accolti, sostenuti dalla gratuità e
dalla condivisione.
100
3.6 Fondamentali del progetto “dopo di noi”
All’interno di qualsiasi centro dell’associazione Papa Giovanni XXIII, nel
caso si presentasse una situazione di persona che rischia l’inserimento in
strutture protette o istituti, a causa dell’invecchiamento o morte del genitore
o di un abbandono dei famigliari, è necessario muoversi subito per cercare
di eliminare questa possibilità che automaticamente porterebbe
all’eliminazione delle condizioni del processo integrativo precedentemente
iniziato. La vera risposta autentica, che risponde ai principi fondamentali di
questa Associazione, è l’ambiente della casa famiglia come luogo
accogliente, relazionale e affettivo. Colui che viene accolto nella casa
famiglia deve necessariamente continuare a svolgere il suo ruolo da
protagonista presso il centro diurno. Quest’ultimo strumento continua a
permettere il processo di integrazione, diviene un solido aiuto al nuovo
ambiente famigliare e permette di valorizzare la persona grazie ad una
comunione di ideali con la casa- famiglia. All’interno del centro diurno la
persona continua il suo sviluppo verso l’integrazione attraverso l’attività
lavorativa, quella dei laboratori didattici e attraverso la condivisione delle
amicizie. Colui che viene accolto nella casa famiglia deve necessariamente
essere il protagonista assoluto di un progetto di vita che ha come unico
scopo quello dell’integrazione. Per fare ciò l’individuo necessità dell’aiuto e
del sostegno di coloro che con la loro professionalità possano garantire la
buona riuscita del “dopo di noi”. Queste figure competenti, si occupano della
persona, garantendogli il pieno sviluppo e al tempo stesso aiutando la
famiglia in questo delicato compito.
All’interno della casa oltre alle persone della famiglia, e esternamente dai
servizi sociali, è importante il ruolo del volontario come sostegno concreto
nelle svariate mansioni sia domestiche che verso le persone che vi fanno
parte. Il volontario diventa parte integrante del tessuto famigliare e deve
essere al corrente del progetto che investe la persona con disabilità
cercando di dare il proprio contributo rispettando i principi dell’associazione
stessa della gratuità e della condivisione diretta.
101
CONCLUSIONI
Come può una persona strutturare un Sé e, in particolare, la dimensione sociale
del Sé, vivendo in luoghi e in rapporti sociali senza tempo e senza storia, senza
passato e senza futuro? Come può raggiungere le autonomie possibili vivendo in
realtà e in situazioni relazionali che non prevedano autonomie? “[---] (E.Montobbio,
1994, introduzione)
Certo l‟immagine delineata è provocatoria ma, in concreto, posso pensare che nel
corso degli anni un po‟ tutte le realtà hanno dovuto confrontarsi con questi
interrogativi e gli educatori come me si sono posti, e tuttora si pongono, la
domanda circa il senso del loro lavoro, con la consapevolezza che il rischio di
costruire un centro con quelle caratteristiche sopra descritte è reale. Nella mia tesi
ho riscoperto questo grande incontro con la disabilità cercando di comprendere,
attraverso la condivisione quotidiana, sia nella famiglia che nel lavoro, il grande
compito a cui sono chiamato e cioè quello di essere promotore di integrazione.
Come ho affermato nell‟introduzione, la società è integra, cioè completa quando è
composta di tutte le sue parti, quindi anche della disabilità, che costituisce un
pezzo dell‟insieme. In questa ottica, l‟integrazione riguarda la società, che, per
essere e definirsi integra, ha bisogno anche delle persone con disabilità. Ancora
oggi nel 2010 all‟interno delle politiche e dell‟organizzazione dei servizi sociali
manca questa chiara convinzione e spesso si fatica a comprendere che la
disabilità è una risorsa.
Come educatore, attraverso questo scritto mi sono impegnato ad evidenziare uno
dei tanti modi di portare avanti questa nuova cultura dell‟integrazione che ancora
ha bisogno di tempo per essere completamente attuata ed entrare nella
quotidianità delle nostre società.
Tramite il mio lavoro quotidiano nel centro diurno, descritto nei capitolo precedenti,
ho evidenziato questa necessità di inclusione che deve sempre tendere ad una
integrazione completa e totale. Nella mia tesi, il centro diurno si configura come un
elemento fondamentale comportandosi da “filtro”. Esso in molti casi diventa
strumento di accompagnamento nei confronti delle tappe del percorso evolutivo
della persona con disabilità e della sua famiglia. Dalla mia trattazione si percepisce
102
che, di fatto, il centro diurno risulta essere anche momento di transizione, di
passaggio fra l‟uscita della scuola dell‟obbligo e i passaggi successivi: la
formazione professionale, eventualmente ove possibile il lavoro, in ogni caso una
sorta di “trampolino” per le tappe a venire. Mi rendo conto che quando si affronta il
tema del centro diurno come possibile risposta per la persona con disabilità affiora
alla mente solo un‟immagine negativa o quantomeno difficile da giustificare in
quanto il concetto di centro rinvia ad un‟idea di “contenitore”, luogo che separa,
pertanto tendente ad escludere la persona dall‟integrazione sociale, valore che da
molto tempo si cerca di inserire nell‟organizzazione e nella politica di tutti i servizi
rivolti all‟individuo con disabilità.
Nel mio elaborato o descritto partendo dall‟evoluzione storica, quali siano fino ad
oggi i passi di integrazione sociale che si possono compiere all‟interno del centro
diurno. Attraverso i gesti della quotidianità la persona diversamente abile
sperimenta uno stimolo costante di aggancio con la società e di questo non ha
paura ma sente la voglia di libertà e di incontro con l‟altro. Infine il progetto del
“dopo di noi” vuole essere una garanzia di integrazione che duri tutta la vita
affinché la persona con disabilità possa vivere l‟infanzia,l‟età adulta e l‟anzianità
con le persone che come lui vivono le loro relazioni all‟interno della società e non
in ambienti di ricovero. Senso di questa tesi è aderire alle parole già citate di don
Oreste Benzi: “li dove siamo noi, li anche loro”.
D‟altro canto la realtà, come già ho affermato nell‟introduzione, ci conferma che
nella maggior parte dei casi, (come in quello da me descritto e che riguarda la mia
esperienza), il centro diurno si configura come la sola risposta data alla persona
con disabilità medio grave. Come educatore sono convinto che la piena
integrazione sia quella descritta nella convenzione Onu sui diritti delle persone con
disabilità e cercherò con tutte le mie forze di impegnarmi per far si che tutto
questo diventi realtà. Il problema rimane il quotidiano: oggi infatti le politiche, come
già sottolineato, non sono pronte a recepire le indicazioni approvate nel 2008
dall‟Onu e ci vorrà ancora molto tempo. A me non resta, come descritto in questo
lavoro, cercare, attraverso il centro diurno, di contribuire a lavorare nel cantiere
dell‟ integrazione sociale, affinché questa esperienza sia un trampolino di lancio
per un futuro nel quale ci sia la
consapevolezza che restituisca visibilità alle
103
persone con disabilità che in tal modo entrano nella semplice e ordinaria realtà di
ogni giorno.
Durante la stesura di questo lavoro attraverso il profondo dialogo con la Docente
che mi ha sostenuto in queste fasi, mi sono reso conto che in un‟epoca come la
nostra in cui siamo sommersi dalle informazioni, in cui le parole a volte sembrano
troppe e le stesse parole assumono significati differenti, non siamo abituati a
tornare alle origini dei termini che tanto spesso usiamo, ma che altrettanto spesso
sono “vestite”di un significato che si allontana troppo da quello originario. Non è
possibile oggi parlare di disabilità senza parlare di integrazione, un termine
quest‟ultimo usato ed abusato in riferimento proprio quasi esclusivamente alle
persone con disabilità e al loro così difficile e tormentato ingresso in quella che
viene definita società civile. Dal latino integratio,e significa il fatto di completare,
rendere intero o perfetto, supplendo a ciò che manca o aggiungendo quanto è utile
e necessario per una maggiore validità, efficienza, funzionalità. È facilmente
intuibile che l‟uso comune di tali termini ha “dimenticato” l‟etimologia del termine,
giacché quando si parla di integrazione si pensa immediatamente alla disabilità, è
diventato quasi un suo sinonimo tanto che non si dice più “integrazione delle
persone disabili”, ma integrazione e basta, sottintendendo che ci si riferisce al
processo iniziato qualche decennio fa come “sforzo” di inserire persone diverse
nella società ancora in atto. Ma sembra, e lo è, un processo a senso unico, sono le
persone con disabilità che devono “adattarsi” ad una struttura sociale che non è a
loro misura, che cerca di adeguarsi per andare incontro alle loro esigenze con
molta fatica, perché rimane ancorata ai propri schemi.
Per questo ho scelto questo tipo di tematica da approfondire in questa tesi, dove
questo urgente bis inclusione lo percepisco quotidianamente giorno dopo giorno
nelle mie infinite relazioni con persone con disabilità. Anche la scelta della materia
è stata profondamente influenzata da questa necessità di inclusione. Infatti ho
subito compreso che la pedagogia speciale, in quanto interviene e riflette sulle
risorse e sulle mancanze, sui desideri e sulle contraddizioni e sulle prospettive,
insegna che ogni processo educativo comporta una responsabilità personale,
politica e un riconoscimento del limite e delle utopie. In questa ottica la struttura di
fondo del processo di integrazione è interpretata sempre tenendo conto di quanto
vi è di misterioso, di imponderabile, di evolutivo, in ogni relazione umana, e di
104
come la professionalità “fa tutt'uno” ed è dipendente con la struttura profonda di
personalità e con il contesto sociale.
Il passaggio, nell‟immaginario collettivo, della persona con disabilità da inferiore a
eccezionale sembra essere un passaggio obbligato prima di giungere a riuscire a
stabilire una relazione alla pari. Considerare l‟altro inferiore o eccezionale, significa
mantenere le distanze da lui, significa cioè non entrare in una relazione perché
giudicata faticosa, impossibile o difficile.
L‟eccezionalità è l‟altra faccia di una stessa medaglia, è il mettere l‟altro su un
piedistallo inarrivabile e troppo superiore alle proprie risorse. Questo meccanismo
di svalutazione dell‟altro o di se stessi può non condurre ad una relazione
autentica, oltreché paritaria, a non annullare mai le distanze, l‟altro è o incapace o
troppo capace, comunque lontano. Stabilire una relazione significa anche esserne
responsabili e, prima ancora, significa decidere di conoscere l‟altro senza
pretendere di conoscerlo già, senza attribuirgli a priori cose che non gli
appartengono e lasciare libero dentro di sé uno spazio nel quale far entrare l‟altro.
Perché questo sia possibile è necessario un altro passaggio, quello nel quale è
possibile riconoscere la paura che la diversità, la disabilità “provoca”, il disagio,
l‟imbarazzo che emerge spesso nell‟incontro tra persone normali e persone con
disabilità. In questa filiazione di una cultura civile dell'integrazione, che ho
richiamato molto spesso nella mia tesi,la dimensione sociale e personale
dialogano verso produzioni soggette a scambi, contributi, che spingono verso
processi generativi di idee, di atteggiamento, di strutture, di utopia, di passione e di
nuovi luoghi per lo sviluppo delle persone con disabilità e non. Una buona
rappresentazione
di
questa
fase
evolutiva
dell'integrazione
sociale,
è
un‟esperienza oggi comune: stanno nascendo nuovi spazi servizi e occupazioni
per le persone con disabilità, sia a livello sociale che psicologico e politico. Ma
molta strada ancora deve compiersi.
Il luogo dove e da dove è possibile produrre cambiamento è la relazione, spazio
oltreché luogo di riconoscimento, di incontro, di scambio di identità diverse. In
questo luogo e spazio è possibile costruire una relazione educativa capace di dare
significato e colore a sentimenti, emozioni e pensieri che al di fuori di essa non
trovano posto e senso.
105
Secondo il senso della mia tesi la cultura dell'integrazione in questa fase deve
assumere la responsabilità di proteggere ciò che dalle diverse esperienze sta
progressivamente emergendo verso nuove domande di solidarietà e di impegno
educativo. Una simile analisi viene data spesso per acquisita, perché a livello
emotivo ci sentiamo parte del problema e della soluzione, ma a livello culturale non
siamo sempre consapevoli di essere responsabili di questo processo: questa è la
nuova cultura dell'integrazione, una cultura della responsabilità! Il fatto che
nell'ultimo trentennio siano state sempre varate delle ottime norme legislative non
è sufficiente per alleviare la realtà di un interesse pregiudiziale e di una
beneficenza a volte immobilizzante. Anche se si registra un certo progresso e una
evoluzione nelle modalità di aiuto, non è ancora possibile affermare che
l'integrazione è diventata un sostegno sociale e uno strumento sempre adatto per
incoraggiare progresso culturale e politico.
Con questa profonda convinzione sono quotidianamente contento di essere un
educatore che si mette al servizio dell‟integrazione sociale. Sento, al termine di
questo bellissimo lavoro, di non poter mai lasciare questo delicato compito con la
certezza che sia un lavorare assiduamente per un progetto, che un giorno darà la
possibilità a milioni di persone con disabilità di sentirsi protagonisti assoluti delle
sorti di una società e non semplici spettatori. Concludendo questa tesi ricca di
significato sulla mia vita ma al contempo difficile da creare (lavorare e studiare non
è semplice) mi prometto che non lascerò mai l‟appoggio e sostegno ad una politica
di integrazione vera, condivisa, inclusiva e rispettosa dei diritti. Oggi mi sento una
piccola goccia all‟interno del grande oceano che muove le sue onde verso un
futuro di inclusione totale.
Grazie.
106
BIBLIOGRAFIA
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http://www.handylex.org.
http://www.apg23.org.
107
RINGRAZIAMENTI
La parola “grazie” è molto bella perché dà il senso del fermarsi e ammirare qualcosa che è
stato fatto per noi. Esprimere gratitudine è il primo dovere di una persona. Così, a
conclusione di questo lavoro che mi ha permesso di descrivere il mio incontro con la
disabilità, desidero esprimere un grande grazie a coloro che mi hanno sostenuto durante
questi momenti. Innanzitutto voglio dire un bel grazie ai miei genitori, Patrizia e Raul, che
sin dalla mia fanciullezza mi hanno insegnato ad amare le persone con disabilità
facendomi scoprire la bellezza della condivisione. Un grazie ai miei fratelli, soprattutto ad
Antonio e Giulia che con il loro sorriso trasmettono gioia di vivere e tanti insegnamenti.
A conclusione di questo percorso di studio ringrazio tanto la docente Elena Malaguti, che
con la sua semplicità e grande saggezza mia ha continuamente e instancabilmente aiutato
e sostenuto in questo lavoro. La ringrazio per il profondo confronto, lo scambio
comunicativo e il sostegno nelle difficoltà. Grazie alle sue indicazioni ho avuto modo di
approfondire il prezioso ruolo di chi dedica la sua vita alle persone con disabilità. Ringrazio
anche il professore Andrea Canevaro, che grazie al corso di pedagogia speciale e alle
parole contenute nei suoi libri mi ha sempre dato la possibilità di capire quale fosse il ruolo
dell‟educatore sociale. Un profondo ringraziamento anche ad Andrea Clerici, che oltre ad
essere il responsabile del centro diurno il “Nodo” ha condiviso il piacere di essere
correlatore di questa tesi. A lui un profondo sentimento di gratitudine per il confronto leale
sempre dimostrato. Un grazie sincero alla cooperativa “la fraternità” nella persona del
presidente Valerio Giorgis, e all‟associazione Papa Giovanni XXIII guidata dal dott.
Giovanni Paolo Ramonda. Infine, ringrazio di cuore la professoressa Ivonne Mariani, che
con grande pazienza ha coretto questo lavoro, rendendolo più “snello” e scorrevole.
Ringrazio di cuore la famiglia Manzaroli, nella persona del dott. Dario, che si è sempre
interessato alla mia tesi. Inoltre ringrazio tutti coloro che in questi anni di lavoro e studio mi
hanno sostenuto nelle difficoltà, in particolare gli amici. Infine ringrazio Lucia, una persona
importante per la mia vita che con il suo amore e la sua pazienza mi fa sentire sempre
importante e mi sostiene nei momenti di fatica. A lei dedico in particolare questo lavoro
con la speranza un giorno di poter vivere la condivisione nella famiglia. Con lei ringrazio
anche i suoi genitori e in particolare Federica che mi ha sempre colpito per la sua vitalità e
gioia di vivere. Un ultimo grande grazie a don Oreste Benzi, grande infaticabile apostolo
della carità, perché continuamente mi insegna ad “essere voce di chi non ha voce”, e
continua a volermi bene.
Grazie
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ALMA MATER STUDIORUM