ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITÁ DI BOLOGNA FACOLTÁ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE CORSO DI STUDIO IN EDUCATORE SOCIALE Prova finale in Pedagogia Speciale “Il centro diurno: tra condivisione e disabilità. Esperienza di un educatore sociale nell’associazione Papa Giovanni XXIII” PRESENTATA DA RELATORE MARCO ANGELONI ELENA MALAGUTI SESSIONE I ANNO ACCADEMICO 2009/2010 “L’incontro con un bisogno comporta anche l’incontro con una risorsa. La persona che chiede aiuto non sempre è consapevole dei suoi bisogni e delle sue risorse ma, anche se latenti, entrambi necessitano il riconoscimento per aiutare ad aiutarsi” (Elena Malaguti) La prospettiva inclusiva si collega implicitamente a una doppia immagine che sinteticamente chiamo “farfalla –caos”. Ciò significa che chi si avvia nella prospettiva inclusiva può percepirsi in cammino verso la farfalla o verso il caos. E questo spiega, in parte, perché i singoli che si impegnano in questa direzione non si sentano in compagnia, non sentano una medesima appartenenza e appaiano a volte in contrasto fra loro (Andrea Canevaro) Dove siamo noi, lì anche loro. (Don Oreste Benzi) INDICE Introduzione pag. 3 CAP. I Incontrare la disabilità oggi. L’esperienza di un educatore sociale pag. 7 1.1 introduzione al capitolo pag 7 1.2 Incontrare la disabilità tra le pagine dei libri. Qualche cenno storico per ricordare un percorso in continua evoluzione pag. 8 1.3 Le parole fanno la differenza:”incontrare i significati” pag. 12 1.4 Attraverso l‟associazione Papa Giovanni XXIII una risposta concreta di condivisione diretta: l‟intuizione di un giovane prete di Rimini pag. 14 1.5 “Le cooperative sociali: luoghi di integrazione e di condivisione del sociale” pag. 21 1.6 L‟incontro con la disabilità: “Un insieme di norme verso l‟integrazione” pag. 32 CAP. II Il centro diurno come possibile strumento d’integrazione. un esperienza straordinaria nell’ordinario pag. 47 2.1 Introduzione al capitolo pag. 47 2.2 L‟incontro con la disabilità: una scelta radicale pag. 48 2.3 Il centro diurno “il Nodo”. Un esperienza piena di integrazione come risposta a tanti dubbi pag. 50 2.4 Le origini del centro pag. 54 1 2.5 L‟organizzazione del centro diurno “il Nodo” pag. 61 2.6 Il processo di integrazione attraverso alcuni momenti della quotidianità pag. 65 CAP III : “Il dopo di noi”: l’urgenza di una progettazione pag. 78 3.1 introduzione al capitolo pag. 78 3.2 “il dopo di noi”: Un esperienza reale come punto di partenza pag. 79 3.3 La casa famiglia il luogo del “dove siamo noi, lì anche loro”. pag. 80 3.4 Il progetto:“dopo di Noi” pag. 87 3.5 Il “dopo di noi” come continuazione dell‟esperienza d‟inclusione pag. 92 3.6 Fondamentali del progetto “dopo di noi” pag. 101 Conclusioni pag. 102 Bibliografia pag. 107 Ringraziamenti pag. 108 2 INTRODUZIONE Mentre mi trovo a scrivere queste righe iniziali della tesi che conclude il mio percorso universitario ripenso al momento più bello del mio incontro con la disabilità. Il pensiero si ferma immediatamente al mio ambiente famigliare dove ho la fortuna di condividere la quotidianità con fratelli con disabilità e di seguito ripenso all‟università, dalla quale ne ho compreso i fondamenti teorici e didattici. Infine, mi fermo a ripercorrere il mio lavoro quotidiano all‟interno del centro diurno. Ne emerge la bellezza e ricchezza di un incontro davvero speciale. Ma le mie emozioni si concentrano su una frase letta, mentre raccoglievo materiale per questo elaborato. Questa citazione che mi ha profondamente colpito deriva dalla convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. Nel primo articolo si legge: “scopo della convenzione è promuovere, proteggere e garantire il pieno e uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità”. Alla prima lettura di questo articolo, non ho subito ben compreso il profondo valore del suo messaggio. Ma poi, fermandomi a riflettere su ogni parola e sul verbo che l‟accompagnava ho cominciato a capire qualche cosa di sensazionale. Di seguito ho cercato di approfondire questa scoperta cominciando a leggere un testo che spiega in maniera esauriente quali siano i diritti delle persone con disabilità. Da questa lettura, ho iniziato a sperimentare e comprendere quale sia la “vocazione” e il servizio che quotidianamente con il mio lavoro sono chiamato a svolgere: contribuire a creare una logica di integrazione sociale eliminando tutte le barriere di discriminazione che escludono le persone con disabilità dalla partecipazione alla vita sociale. “Più barriere ci sono, più le persone sperimentano disabilità” […] (P.Baratella e E.Littamè, 2009, introduzione). Coloro che sono persone con disabilità sono coloro che hanno minoranze fisiche, mentali intellettuali o sensoriali a lungo termine che, in interazione con varie barriere, possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con altri. L‟essere un educatore che vive al fianco di persone con disabilità, medio gravi, deve poter incarnare questo profondo messaggio: eliminare ciò che ostacola l‟integrazione. 3 Proseguendo nella lettura attenta della convenzione si percepisce che essa ha lo scopo di combattere differenze come la disuguaglianza, le differenze di trattamento nell‟istruzione e nell‟educazione, definendo una nuova politica per le persone con disabilità basata sulla tutela dei diritti umani, intervenendo in tutti i campi della vita. La persona deve sempre poter usufruire di tutto ciò che gli sta attorno. Per questo è necessario e urgente proporre delle politiche che sostengano una nuova cultura dell‟inclusione. In questo delicato passaggio, da una cultura assistenzialistica ad una di integrazione, si percepisce che “Le persone con disabilità non hanno diritti speciali. Hanno gli stessi diritti di tutte le persone. Le persone con disabilità possono avere bisogni speciali, o perlomeno bisogni diversi”. […] (P.Baratella e E.Littamè, 2009, p.35). Il fatto di vivere condizioni di mancanza di pari opportunità, ritenute ovvie dalla società, e di essere sottoposte a trattamenti discriminatori ritenuti illegittimi, ha prodotto un triplice effetto: da un lato le persone con disabilità sono diventate cittadini invisibili nelle politiche e nelle azioni sociali, dall‟altro esse subiscono una vera e propria esclusone fino a ieri socialmente giustificata, e infine la società ha progressivamente perduto competenze e saperi nel campo della disabilità stessa. L‟inclusione di cui si parla nel testo della convenzione si basa sulla comprensione della condizione delle persone con disabilità, e sulla necessità di costruire regole sociali, culturali e legali che offrano a tutte pari opportunità e non discriminazione. Dalla metafora alla realtà sociale: ancora oggi le persone con disabilità sono coloro che, spesso, non rientrando nelle norme e negli stili di vita delle diverse classi della società, vengono visti come elementi di incertezza, inquietudine e paura. La situazione viene peggiorata dall‟incapacità da parte delle politiche di gestire questa ricchezza umana che viene scambiata per “malattia” arrivando a considerarle non più come persone ma “oggetti da conservare” in salute all‟interno di spazi creati ad hoc. Per questo, tra le tante chiassose voci del 2010, si deve far sentire con sempre più fermezza un grido che chiede integrazione; integrazione intesa, come riscoperta di un valore presente in ogni persona ma che viene nascosto da una società che spesso cerca di trovare la strada più facile ed economicamente vantaggiosa: “togliere coloro che hanno difficoltà nel produrre e che spesso sembra non portino nessuna ricchezza per le casse di un paese”!. Oggi, purtroppo, chi non si adegua a 4 questo modello, chi non è in grado di produrre, chi non riesce a supportare la società così come essa si è venuta a creare nei secoli è considerato inferiore e in qualche caso pericoloso. All‟interno del tessuto sociale deve poter cominciare a crescere una nuova consapevolezza che restituisca visibilità alle persone con disabilità che in tal modo entrano nella semplice e ordinaria realtà di ogni giorno. Nell‟introduzione del testo “i diritti delle persone con disabilità” viene ribadito con forza l‟urgenza di una nuova cultura di integrazione. Ma purtroppo, oggi le politiche sociali dei paesi occidentali a fatica cominciano a osservare ciò che la convenzione suggerisce. Nel testo infatti viene ribadito che gli effetti della cultura dell‟inclusione, si potranno vedere tra qualche decennio, “perché la logica dell‟integrazione e dell‟eliminazione degli ostacoli richiede tempi molto lunghi per la sua piena attuazione”. […] (P.Baratella e E.Littamè, 2009, introduzione) Per questo, scopo della mia tesi è tenere alta la bandiera dell‟integrazione sociale. Come educatore devo quotidianamente contribuire ad alimentare questa nuova cultura con il mio impegno costante. Nella mia vita devo tenere sempre presente i fondamenti della convenzione, affinché come già detto, essi possano entrare nella semplice e ordinaria realtà di ogni giorno. Se ancora oggi è difficile attuare ogni parola della convenzione, però è possibile cercare di contribuire con quello che è già presente all‟interno della società per creare e dare spazio ai significati della carta, certo che ogni posizione e ogni metodologia presente oggi all‟interno del sociale debba sempre essere aggiornata e integrata verso un miglioramento che tenda ai principi descritti dagli accordi ONU. Nel testo presento la mia esperienza lavorativa di condivisione e di incontro con la disabilità che ha come scopo fondamentale quello di contribuire all‟etica dell‟integrazione sociale e dell‟eliminazione delle cause di ostacolo e di esclusione. La tesi di fondo è dimostrare che il centro diurno oggi, in un clima di incertezza sul tema della disabilità e di una politica spesso non a favore dell‟inclusione, può fornire una risposta utile e interessante per il lavoro con la persona diversamente abile. Questa proposta è una delle tante strade che devono, per la loro storia e organizzazione, tendere sempre di più e organizzarsi secondo i principi della convenzione, affinché un domani non ci sia più un luogo per la persona disabile che crei l‟integrazione, ma ci sia la persona con disabilità protagonista principale 5 della società. Oggi, questi luoghi, servono come trampolino di lancio per il futuro che viene auspicato dalla carta dei diritti. Ripercorrendo la storia, durante gli anni 60‟ nasce la necessità di creare dei luoghi in cui le persone con disabilità potessero sperimentare i primi momenti di questa nuova integrazione. Dopo 50‟ anni la convenzione è pronta a fare un nuovo passo in avanti. Ma come ho detto ci vorrà ancora molto tempo affinché si realizzi l‟inclusione totale. Intanto, in questo momento di passaggio, non resta che contribuire a questa nuova rivoluzione cercando di progettare momenti di vita con la persona disabile che tendano sempre di più all‟inclusione piena e totale nella società. La mia esperienza vuole essere un contributo fondamentale, assieme a quello di tante altre persone che si stanno adoperando per progettare un futuro, in cui il concetto universale di persona come volto sociale e diritto umano sussistente, porti in sé anche il valore dell‟unicità e della singolarità di ogni individuo. Non siamo tutti uguali, ma siamo tutti titolari di uguali diritti. In questo senso l‟obbiettivo di ogni società inclusiva non può essere l‟omologazione dei suoi cittadini quanto la possibilità di permettere a ognuno di raggiungere il meglio per sé, nel rispetto delle regole condivise della comunità di appartenenza. Provare per credere. 6 CAPITOLO PRIMO INCONTRARE LA DISABILITÁ OGGI:L’ESPERIENZA DI UN EDUCATORE SOCIALE 1.1 Introduzione al capitolo Chi si ferma ad osservare e a studiare l‟evoluzione del sistema sociale, in particolare nel settore della disabilità, si trova di fronte ad un complesso e, spesso malagevole, labirinto formato da molte strade che si intrecciano tra loro, e in molti casi sembrano non condurre verso nessuna destinazione. Questa ardua analisi non deriva tanto da una non curanza o poca progettazione in questo ambito della nostra società, ma da una rapida e veloce corsa contro il tempo che ha portato ad una evoluzione in questo settore, che dagli anni „60 ad oggi ha compiuto passi da gigante e si è concessa pochi momenti di pausa. Incontrare oggi la disabilità, non è sicuramente un aspetto facile, e spesso, il compito richiesto è delicato e può sembrare impossibile. Come ho già ben evidenziato nell‟introduzione alla tesi, il mio intento è quello di raccontare quale sia il mio quotidiano “dialogo” con la disabilità, evidenziando attraverso lo strumento del centro diurno, una delle possibili strade per l‟attuazione del processo che tutti conosciamo come integrazione sociale. Come educatore sociale, all‟ inizio di questo capitolo cercherò in un primo momento di analizzare quale sia stata l‟evoluzione della disabilità nella nostra società, mentre nella seconda parte mostrerò quali siano state le basi per la nascita e l‟evoluzione del centro diurno all‟interno dell‟intuizione dell‟associazione Papa Giovanni XXIII. In questa prima parte di tesi cercherò di illustrare quali siano gli aspetti reali e concreti di questo incontro tra la mia esperienza e la disabilità, evidenziando i tempi e i luoghi nei quali è iniziata una vera e propria rivoluzione. Di seguito vengono riportati tre aspetti fondamentali che sono la struttura di questa analisi, che si caratterizza per alcuni elementi specifici: 1 -la spinta dei movimenti (associazioni dei genitori, gruppi…) che hanno fornito un valido supporto ai cambiamenti succedutisi nel tempo; 2 -le leggi di riforma che hanno modificato il riferimento normativo adattandolo ai cambiamenti avvenuti sul territorio oppure, al contrario, avviando mutamenti 7 significativi nelle norme, e influito, successivamente, sulla prassi operativa dei servizi; 3 -il contributo degli operatori impegnati nel campo che hanno dimostrato, nella maggior parte dei casi, uno sforzo costante nel tentativo di adattare la rete delle risposte al mutare dei bisogni delle persone interessate e delle loro famiglie. In questo primo capitolo, oltre ad una breve analisi storica, analizzerò nel particolare l‟impegno dell‟Associazione Papa Giovanni XXIII nella creazione delle cooperative sociali di centri diurno. Infine cercherò di delineare il quadro legislativo con i suoi cambiamenti sul tema “tutela della disabilità”. Nel secondo e terzo capitolo affronterò da vicino il mio contributo come operatore sociale impegnato nel favorire e creare continuamente l‟integrazione sociale. L‟integrazione della “persona con disabilità”1 deve essere percepita come una qualità e un diritto di tutti. 1.2 “Incontrare la disabilità tra le pagine dei libri”. Qualche cenno storico per ricordare un percorso in continua evoluzione. Il primo aspetto storico ed evolutivo sulla disabilità che voglio evidenziare, riguarda un radicale cambiamento di pensiero sul tema della gestione della medesima, ripercorrendo alcune tappe storiche. Di seguito alle grandi guerre, nell‟ideale collettivo sorse una nuova idea: “la persona con disabilità” non è più pensata come un soggetto pericoloso, scomodo o da nascondere all‟interno delle proprie mura domestiche, ma come nuova identità capace, con un solido aiuto, di sviluppare le proprie potenzialità” […] (S. Nocera,1996, p 28). Prima di questo periodo c‟era una diversa concezione dell‟individuo con disabilità. Di fronte alla segregazione che si può osservare all‟interno degli istituti si sviluppa una attività che ha permesso l‟incontro e la conoscenza di soggetti esclusi e pertanto tutti uguali. Al contrario, si scoprirono delle differenze di carattere, di capacità ed anche di bisogni: essi non erano tutti uguali e non erano caratterizzati da un bisogno unico e comune. Allora fu necessario fornire loro 1 Nel testo viene usato il termine “persona con disabilità”. Questo è il termine ombrello per menomazioni , limitazioni dell’attività e restrizioni della (alla) partecipazione. Esso indica gli aspetti negativi dell’interazione tra un individuo (con una condizione di salute) e i fattori contestuali di quell’individuo ( fattori ambientali personali). La definizione di questo termine si trova all’interno della Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della sualute(pp.168) , Erikson, 2008 8 delle risposte. Queste risposte si affermano durante gli anni „60 grazie ad una spinta innovativa e a un‟ inversione di rotta. Prima degli anni 1960, la piaga dell‟istituzionalizzazione e della separatezza aveva creato nell‟immaginario collettivo un idea di persona con disabilità definita come “matta” -“pazza” -“ alienata”- “posseduta dal demonio”. Andrea Canevaro ha affermato in merito: “Da parecchio tempo la persona con disabilità fisica e mentale ha ispirato di volta in volta rigetto, paura,vergogna, disgusto o colpevolezza. Egli ha sempre saputo di essere un uomo, anche quando gli altri vedevano in lui solo il suo handicap”. […] (A. Canevaro, J. Gaudreau, 2009, introduzione). Non a caso, anche sfogliando le pagine di qualsiasi manuale di storia dell‟educazione ci si può imbattere spesso nei variopinti e svariati luoghi creati ad hoc per le persone definite, per l‟appunto handicappate, con l‟intento di ghettizzare questi soggetti così strani e particolari, affinché non potessero disturbare la società nelle sue attività quotidiane. Già sotto il ré Luigi XV uomini colti si chiedevano fino a che punto i bambini e le persone “anormali”, quali ciechi, sordi e muti, “idioti” e soprattutto “souvages” facessero parlare di sé nel XVIII secolo e abbiano, almeno a prima vista, appassionato medici e filosofi di quell‟epoca […] (A. Canevaro, J. Gaudreau, 2009, p.28) Dunque, per questi “poveretti”, spesso così definiti, non c‟era posto nelle grandi città, negli ambienti di vita sociale e la loro unica ubicazione era “sparire per non essere visti”. Quindi la storia stessa ha sempre fornito un‟idea precisa di come venivano etichettate queste persone “diverse”, dall‟intera collettività. Le cose non migliorarono nel corso del 1700, quando dall‟idea di “handicappato” da discriminare, si passa ad un sentimento di compassione e pietà. Lo stesso Rousseau secondo cui, “bisogna che il corpo abbia vigore per obbedire all‟anima; poiché […] “un corpo debole affievolisce l‟anima”, afferma che non “si lascerebbe mai accollare un bambino malaticcio e cachettico, dovesse pur campare ottant‟anni”. […] (J.J Rousseau, 1964, p.29). La buona educazione per Rousseau può funzionare solo se la persona è in buone condizioni sin dalla nascita. Anche da queste parole si percepisce quale fosse l‟ideologia prevalente: ogni tentativo di educazione o di progettualità è vano a causa dell‟ handicap, che è interpretato come un ostacolo insormontabile. 9 A questo punto, è importante sottolineare il contributo di Pinel, medico psichiatra, considerato come colui che “tolse le catene ai Pazzi”. Fu il primo che si propose di curare metodicamente i pazienti psichiatrici gravi, e non solo di "custodirli" negli ospizi. Pinel inoltre elabora coerentemente la dottrina del “trattamento morale” già applicata, ma solo empiricamente dagli alienisti inglesi, fondata sul riconoscimento che il folle non è semplicemente un “insensato”, ma un “alienato”, “nella cui soggettività resta una parte di ragione mai del tutto smarrita con cui la medicina mentale può istituire una relazione terapeutica - dialettica”. […] (A. Canevaro, J. Gaudreau, 2009, p.31) Proseguendo con l‟analisi storica, dalla metà del secolo XVIII, molti medici si fecero portatori delle idee dell‟ Illuminismo e del suo spirito riformatore, divulgato da pensatori di molte parti d‟Europa ed incoraggiato dal trionfo della Rivoluzione Scientifica. Nell‟ottica del recupero della dignità umana, sotto tutti i punti di vista, comincia a farsi strada l‟idea della salute come diritto a cui tutti devono poter accedere. Successivamente, si afferma l‟ospedale come luogo deputato alla cura del corpo della persona disabile, con l‟idea di “uomo in salute”. In seguito, questa istituzione si costituisce come “contenitore di trasmissione del sapere” e comincia ad essere inteso come “mesure d‟une civilisation”, istituzione curativa. Nello specifico, si afferma con gran vigore il manicomio, un luogo nel quale, tramite l‟uso dell‟ordine e della gerarchia, si cercava di migliorare o cambiare i problemi di coloro che venivano definiti “folli”. Interi trattati medici, libri e parole furono scritti ispirandosi a questi luoghi. Ogni idea e pensiero ha espresso il vano tentativo di cambiare ciò che è impossibile convertire. Di sicuro, emerge, che in quella precisa epoca storica non era ancora possibile concepire la persona con disabilità come individuo pieno di risorse e di voglia di vivere. Tutto ciò non è una fiaba o un racconto tramandato, ma una realtà cruda ben descritta ad esempio nell‟opera manoscritta di Joseph-Guillaume Desmaisons Dupallans. […] (P.L. Cabras, S. Chiti, D. Lippi, 2006), medico, che durante il 1840 circa visitò vari manicomi nel territorio Italiano confermando questa difficile verità. Successivamente cambiò la gestione e le finalità dell‟ospedale che assunse l‟investitura di luogo dove, non solo si curavano le malattie della persona, ma dove queste ultime venivano studiate a fondo. Si sviluppo un‟organizzazione del metodo scientifico con innovazioni, regole e strutture. L‟ideale illuministico di trasformazione della 10 struttura ospedaliera portò, ad inizio „800, verso un radicale movimento di riforma del trattamento del “malato di mente” che ha come soggetto portante il manicomio, inteso come strumento cardine per il recupero sia fisico che interiore della persona. Dall‟altro canto ogni paese si impegnò con chiare normative a controllare il ricovero dei “pazzi”. Ampie descrizioni di questo periodo storico sono contenute nelle riviste specializzate e nelle relazioni di viaggio dei medici, che giravano l‟Europa e con cura maniacale redigevano. Da accennare in questa analisi anche il contributo, sul piano assistenziale, delle strutture religiose, che a loro volta hanno svolto un ruolo ben preciso. Queste istituzioni, basandosi sul messaggio evangelico, furono promotrici di azioni caritatevoli verso coloro che venivano definiti gli esclusi della società. Dalla seconda metà del secolo XVIII molto lentamente, cominciò a maturare l‟ipotesi di un educazione della persona disabile, passando dallo studio e dall‟indagine scientifica alla “presa in carico della persona”. Un contributo importante deriva dagli studi di Itard. Nei suoi scritti e nella sua metodologia di lavoro sul campo, si percepisce certamente che l‟educazione è coinvolgimento, e quindi implica un rischio maggiore rispetto a un intervento protetto dalla neutralità di una tecnica. È, nello stesso tempo, coinvolgimento e interazione nella ricerca della comunicazione reciproca. Sul finire del 1800 un altro importante personaggio rivoluzionò il modo di pensare l‟educazione della persona con disabilità. All‟interno della logica di Edouard Seguin, alla base dell‟educazione, ci deve essere l‟obbiettivo di mirare “alla socievolezza della persona nel suo ambiente nel quale vive”. “All‟interno del processo educativo l‟educatore segue passo passo questo sviluppo al quale pretende di contribuire”. (A. Canevaro, J. Gaudreau, 2009, p.157) Dunque, non più la logica della cura e della semplice assistenza, ma interazione comunicativa con finalità educative e di socievolezza. Da questa breve analisi notiamo che nel corso dei tempi si afferma una vera e propria messa in discussione di una prassi educativa che, con l‟avanzare della civilizzazione e del principio di uguaglianza, si percepisce come errata e inconcludente. Mettere in discussione una pratica di educazione standardizzata significa, per coloro che credono fortemente nel processo innovativo di integrazione sociale, 11 cominciare a ipotizzare la necessità e la possibilità di un‟alternativa all‟inserimento in una struttura a “tempo indeterminato” della persona. Con il procedere degli anni e il cambiamento degli ideali, cominciò a farsi strada questa ipotesi che portò in sé una ventata di aria fresca e una visione più intelligente dell‟educazione della persona con disabilità nella sua globalità. Nel dopo guerra, precisamente dagli anni 50‟in poi, si giunse a capire l‟urgenza di riorganizzare e progettare una nuova educazione che aveva come interlocutore principale la disabilità e la sua integrazione. Affermando la centralità della persona, l‟intera società cominciò, in maniera sempre più radicale ad incamminarsi sulla strada della “pratica dell‟integrazione”. A questo proposito il professore Andrea Canevaro, tramite una sua riflessione scritta da me sugli appunti durante le lezioni di pedagogia speciale, ci aiuta a capire in maniera molto chiara quale sia l‟importanza dell‟inclusione: “non si nasce al di fuori del contesto sociale per esservi successivamente integrati, in quanto si è già inclusi”. 1.3 Le parole fanno la differenza: “incontrare i significati” Un ulteriore aspetto importante, di questo incontro, conseguenza del cambiamento di intendere la stessa, si evidenzia nel percorso di trasformazione dei termini lessicali che definiscono una persona con disabilità. Le parole hanno una storia e un significato. Comprenderli significa poterli usare con più precisione e attenzione. Conoscerli, a volte, può portare a scegliere di non usarle. Anche nella cronologia dei nomi che hanno definito queste persone si delinea quell‟inversione di mentalità descritta nel paragrafo storico. Le parole che accompagnano la storia della disabilità descrivono un viaggio: un viaggio che parte da “Handicap” per arrivare a “persona”. […] (P.Baratella e E.Littamè, 2009, introduzione). Con chiarezza, si nota che,nell‟uso linguistico si procede verso un alternarsi di alcuni termini che sottolineano e riprendono sia il pensiero delle persone comuni, sia la terminologia specifica usata nell‟ambito medico. Al giorno d‟oggi, possediamo un piccolo ma significativo vocabolario con all‟interno dei termini che racchiudono interni anni di storia e di cambiamenti 12 sociali. Ad esempio, durante il periodo del 1700 e del 1800 coloro che mostravano segni diversi dalle persone comuni, venivano definiti “pazzi” . Colui che era definito con tale nome era paragonato ad un folle affetto da malattia mentale. Per l‟opinione pubblica del tempo, un soggetto eccentrico, stravagante che si comportava in modo bizzarro, veniva definito con tale termine. Tale soprannome definiva, in sostanza, una situazione che non era comune alla normalità, per questo doveva essere tenuta sotto osservazione ed studiata nella sua evoluzione quotidiana. Da questi nomi si percepisce la paura che le persone avevano degli individui con queste caratteristiche. Si credeva infatti che essi potessero mettere in pericolo i ritmi della “calma e tranquilla” vita sociale. Oggi, con uno sguardo verso il passato, possiamo delineare un problema chiaro legato al fenomeno “pazzia”: il rifiuto di accoglienza di coloro che erano diversi con la tendenza a giudicare “altri da noi” coloro che mostravano segni non stabilità. Dalla metà dell‟800 in poi, progressivamente, cambiano anche i modi di intendere e di definire una persona diversamente abile. Nasce l‟esigenza di sostituire termini divenuti offensivi, con parole che esprimessero la “mancanza oggettiva” della persona. In questa maniera, indicando il soggetto, si sottolineava e evidenziava il suo deficit, quello che nel suo corpo non era ben definito o ben funzionante. A partire dagli anni 60‟ si comincia a utilizzare il termine Handicappato. Questo termine è stato utilizzato per descrivere le difficoltà che una persona con disabilità incontra nella propria esperienza di vita. Handicappato per alcuni anni descrive chi è svantaggiato, stimolando un approccio basato sulla pietas e su un modello medico che confina la persona con disabilità in una condizione di cura perpetua. Un ulteriore tappa del percorso terminologico, vede l‟uso del termine disabilità. Il termine porta con sé l‟identificazione della persona con disabilità con una persona, a cui manca qualcosa e una relazione che contrappone chi è abile a chi è disabile, chi è normale a chi non lo è. Un ultimo aspetto evolutivo del termine, riguarda l‟introduzione della parola diversamente abile. A livello formale cambia solo il prefisso, ma l‟accento si sposta dalle non abilità alle abilità diverse, contribuendo a cambiare la cultura del dis-valore e a passare a una logica del valore diverso. “Diversabile è una parola positiva e propositiva allo stesso tempo, richiama la necessità di essere visti, letti, considerati in modo differente, di essere 13 ascoltati anche come portatori di novità e di risorse” […] (Malaguti in Canevaro e Ianes, 2003 p.56). Oggi è fondamentale adottare questo termine, perché considera una persona con un deficit all‟interno di un nuovo orizzonte. Questo nuovo percorso mette in risalto sia la storia personale dell‟individuo, che la possibilità di acquisire delle abilità che possano aiutare a superare le difficoltà. È l‟ICF che introduce non solo il termine “Persona con disabilità”, ma un nuovo modo di pensare la disabilità. Si percepisce che la disabilità è una condizione ordinaria del genere umano, non una condizione di salute. La persona non è disabile ma può avere o sperimentare disabilità. Il passaggio dall‟essere all‟avere cambia radicalmente modelli di approccio, di relazione e di presa in carico. Matilde Leonardi nella nota introduttiva all‟edizione italiana dell‟Icf , parlando della persona disabile, sintetizza ciò che ho affermato precedentemente cosi: “Che cosa abbiamo in comune? L‟essere persone. “Che cosa ci differenzia? L‟avere caratteristiche, bisogni, storie, aspettative, sogni diversi. A volte, una disabilità.” […] (M.Leonardi, 2007, introduzione) Il 2003 è stato proclamato “l‟anno europeo delle persone con disabilità”, un chiaro e forte segno di cambiamento terminologico e di pensiero. Si pensi che nel 1981 si era celebrato l‟”anno internazionale degli handicappati”. Da questo breve percorso storico sui termini che riguardano le persone con disabilità evidenzio un forte e chiaro cambiamento positivo. Parallelamente è necessario studiare da vicino i cambiamenti sociali, che hanno posto le basi per la cultura dell‟integrazione, che ha come pietre delle fondamenta anche e non solo l‟uso di nuovi termini. 1.4 Attraverso l’associazione Papa Giovanni XXIII una risposta concreta di condivisione diretta: l’intuizione di un giovane prete di Rimini. Dopo aver illustrato un primo sguardo sull‟evoluzione dei termini legati alla persona con disabilità, vorrei evidenziare un altro “speciale incontro” che ho avuto in svariate occasioni. Questo dialogo ha come protagonista la figura di Don Oreste Benzi che, con la sua grande intuizione, ha dato vita ad una associazione molto vasta che si impegna fortemente nel favorire e creare il processo di integrazione che mi interessa studiare, conoscere meglio e vivere concretamente. 14 Prima di descrivere i tratti fondamentali di questo sacerdote, vorrei per prima cosa evidenziare un aspetto che sottolinea l‟importanza della nascita nel nostro territorio italiano di molteplici associazioni cattoliche, che si sono occupate in maniera chiara dell‟integrazione delle persone considerate marginali. Alla base dell‟evoluzione di questi movimenti, che ritengo fondamentale come strumento di inclusione sociale, è fondamentale accennare l‟importante contributo di alcuni grandi pensatori che, con il loro contributo all‟interno della chiesa, hanno creato un sistema, sulla base delle linee dettate dai Vangeli. Questo ha dato la possibilità di creare molteplici e variopinte realtà che con l‟aiuto dei laici hanno contribuito a favorire il processo di inclusione di coloro spesso abbandonati. Le associazioni e i movimenti di stampo cattolico si inseriscono all‟interno di un ampio dibattito culturale a livello nazionale dove non sono le uniche che cominciano a progettare questa nuova cultura di inclusione. Dopo le grandi guerre, si delinea sempre di più la ferma convinzione che l‟individuo con disabilità non deve essere custodito e trattato secondo percorsi terapeutici individualizzati, ma contestualizzato all‟interno del proprio territorio di appartenenza. Nel concreto, l‟obiettivo forte di queste associazioni era quello di creare un acceso dibattito sul tema della disabilità che producesse lo svuotamento una degli istituti progettando e ideando forte cultura dell‟integrazione, collaborando con le diverse forme di associazionismo anche non religioso che in quel periodo si occupa di questo tema. Questo portò ad una serie di azioni mirate che nel giro di un breve periodo avviò un capillare servizio di domiciliarità (ad esempio un grande movimento di volontari che presso le abitazioni di persone con disabilità, passano del tempo, li aiutano nelle autonomie personali, pregano assieme a loro, li portano a passeggio,etc..) o dei servizi residenziali o semiresidenziali di dimensioni contenute (come l‟affermarsi del centro diurno che di seguito descrivo). Queste innovazioni, in collaborazione con i vari enti interessati, venivano rivolte agli amministratori pubblici locali e alle famiglie come punto innovativo di un percorso che fino ad allora non era riuscito a favorire l‟inclusione di persone con disabilità. Come già delineato, un grande contributo, tra i tanti, deriva da gruppi religiosi che si impegnarono a creare comunità di persone con disabilità, case-famiglie e una forte rete di volontariato. Il grande elemento cardine di questi movimenti è il forte 15 senso di integrazione che ha la pretesa di eliminare ogni situazioni nel quale una persona sia chiusa e sfruttata per scopi terapeutici. Per evidenziare quale sia il contributo di questi movimenti prendo spunto dagli scritti di Salvatore Nocera […] (S. Nocera, 1999, pp.11-26) che in un articolo delinea alcuni aspetti fondamentali dell‟evoluzioni di questi primi gruppi laicicattolici. Nel suo scritto si percepisce che le prime associazioni sono spinte alla base dagli ideali innovativi del Concilio Ecumenico Vaticano II. Sfogliando qualche pagina dei documenti Conciliari ho trovato alcuni aspetti che credo siano utili per il mio lavoro. Ad esempio nella “lumen Gentium” […] (SARTORI L. 2003,pag.38) al numero 36° viene delineato questo spirito innovativo: “I fedeli devono riconoscere la natura profonda di tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio, e aiutarsi a vicenda a una vita più santa anche con opere propriamente secolari, affinché il mondo si impregni dello spirito di Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace. Nel compimento universale di questo ufficio, i laici hanno il posto di primo piano”. Da queste brevi ma intense parole capiamo la missione che si rivolge a tutti gli uomini: creare situazioni di giustizia e uguaglianza, eliminando le condizioni di emarginazione e di violazione dei diritti. Sulla base di questa radicale intuizione proposta dal concilio Vaticano II, molti sacerdoti, convinti di queste parole cosi ricche di significato, hanno cominciato a creare vere e proprie associazioni con lo scopo di garantire l‟uguaglianza a tutti gli individui. In particolare intendo sottolineare il grande impegno che l‟associazione Papa Giovanni XXIII dagli anni ‟60, investe, per promuovere una vera cultura di integrazione all‟interno della condivisone e della gratuità. Il movimento si configura all‟interno di un ampio e ricco dibattito dove all‟interno sono presenti molteplici attori che si impegnano, ancor oggi, per garantire l‟integrazione. Nella tesi riporto questa mia esperienza come una tra le tante strade di integrazione, e non come l‟unica via. Questo movimento si costituisce grazie all‟infaticabile opera di Don Oreste Benzi, il quale nasce il 7 settembre 1925 a S. Clemente, un paesino sulle colline romagnole vicino a Rimini, da una povera famiglia di operai, settimo di 9 figli. All'età di sette anni sceglie di diventare prete e appena può, nel 1937, a 12 anni entra in seminario. Don Oreste sceglie, sin dalla sua tenera età, di fare della sua 16 vita un continuo servire coloro che definiti marginali erano diventati lo scarto della società, e nella maggior parte delle volte venivano esclusi. Fin da allora, fu grande il suo interesse per gli adolescenti ed i giovani, per proporre loro "un incontro simpatico con Cristo" [...] (V.Lessi, 2008, pag68). Dopo il 1950, per diversi anni, è stato docente e padre spirituale al seminario di Rimini. Successivamente insegnò religione in diverse scuole riminesi divenendo riferimento per molti studenti liceali. Nel 1968, al termine del primo campeggio estivo del settembre avvenimento a cui parteciparono numerosi giovani con handicap, rivoluzionario considerando i tempi, Don Oreste Benzi commentando gli effetti ed i risultati ottenuti, disse: "Ciò che è avvenuto si può sintetizzare in una frase: il Signore ci ha fatto incontrare i poveri e i poveri ci hanno fatto incontrare Cristo". Di seguito fonda l‟associazione con alcuni giovani coinvolti nei primi campi con gli adolescenti e con persone con disabilità, in montagna e al mare. Il 5 Luglio 1972 l‟associazione con decreto del presidente della Repubblica viene riconosciuta quale “ente per la formazione religiosa della gioventù”. Il 25 Maggio 1981 l‟associazione, verificata la presenza di tutti i requisiti di ordine formale e sostanziale, viene riconosciuta come comunità dalle autorità ecclesiastiche. (V.Lessi, 2008, pgg 72-88) Il 7 ottobre 1998 il Pontificio Consiglio per i Laici riconosce la "Comunità Papa Giovanni XXIII" come Associazione internazionale privata di fedeli, di diritto pontificio, con personalità giuridica a norma dei cann.298a e 321 – 329 del Codice di Diritto Canonico. Finalmente con decreto datato 25 marzo 2004 solennità dell'Annunciazione del Signore, il Pontificio Consiglio per i laici conferma il riconoscimento all' Associazione "Comunità Papa Giovanni XXIII" come associazione privata internazionale di fedeli di diritto pontificio, secondo i canoni 298-311 e 321-329 del Codice di Diritto Canonico, approvando definitivamente anche gli Statuti e la Carta di Fondazione. Tra le molteplici iniziative cominciate dal sacerdote ricordo le grandi battaglie contro la prostituzione, la tossicodipendenza e l‟alcolismo. Infine l‟aspetto cardine della sua intuizione è lo sviluppo di una concreta e viva cultura dell‟integrazione che sviluppi atteggiamenti di scambio tra le persone e coloro che vengono considerati solamente gli emarginati: barboni, immigrati, persone con disabilità. 17 Da sempre, don Oreste si è impegnato perché la cultura dell‟inclusione sociale dei più deboli fosse garantita e sviluppata in tutte le sue forme. Secondo il sacerdote: "Mossi dallo Spirito Santo a seguire Gesù povero, servo e sofferente, i membri della Comunità per vocazione specifica s'impegnano a condividere direttamente la vita degli ultimi; cioè mettendo la propria vita con la loro vita, facendosi carico della loro situazione...".2 Nello specifico della disabilità secondo il sacerdote Riminese sono fondamentali alcuni punti: -il rifiuto di quell‟atteggiamento estremamente pericoloso e pietistico nei confronti di chi è in situazione di difficoltà. -la promozione di una cultura non assistenzialista; -un chiaro stile di condivisione, che sfocia nel coinvolgimento radicale con la storia dell‟altra persona; -la territorialità dell'intervento per evitare di chiudersi nella propria struttura ed aprirsi alle realtà circostanti; -la logica della quotidianità come unico spazio in cui tutti hanno la possibilità di crescere e di emanciparsi attraverso il lavoro e momenti di vita comune. - la gratuità di molti gesti. Don Oreste Benzi fonda la sua opera nella città di Rimini dove, assieme ad alcuni giovani, inizia a chiedere a gran voce che vengano chiusi gli istituti diffondendo la cultura dell‟accoglienza e dell‟affido familiare di persone disabili. La sintesi del pensiero di questo sacerdote, che ho avuto la fortuna di conoscere e incontrare più volte, è racchiusa nella frase:”dove sono loro, lì anche noi” […] (V.Lessi, 1991, p.27). Con queste bellissime parole don Oreste amava sottolineare che è fondamentale che ogni persona viva all‟interno della propria casa e possa godere degli affetti dei genitori e famigliari. Non è con l‟istituto che si creano le condizioni per l‟edificazione della società e l‟inclusione delle persone diversamente abili. Inoltre, secondo la logica del vangelo, nella quale le membra più deboli sono le più necessarie, don Benzi comincia a creare le case famiglia, oggi sparse in tutto il mondo, dove i genitori, oltre ad accogliere i figli nati naturalmente, si adoperano per accogliere coloro che sono in difficoltà o vengono emarginati “rigenerandoli nell‟amore”. 2 Testo tratto dalla Carta di Fondazione dell'associazione denominata “schema di vita”. 18 Partendo dal 1968, il sacerdote, comincia una lotta per il riconoscimento dei diritti degli individui con disabilità. Centrale diviene la battaglia per l‟inserimento nel mondo del lavoro, per garantire il diritto all‟occupazione, sulla base del motto “chiudiamo gli istituti e apriamo le “fabbriche” […] (V.Lessi, 1991, p.29). Di seguito, l‟associazione si batte molto per smantellare le barriere architettoniche. Fondamentale diviene la costruzione di cooperative non per, ma con le persone con disabilità, non solo per la produzione, ma per lo sviluppo globale della persona. Oggi, con più di 400 casa-famiglia, tanti ragazzi hanno evitato l‟istituto e possono vivere una vita serena tra le braccia di genitori che li sostengono nelle loro difficoltà e li aiutano nella difficile, ma possibile integrazione sociale. Nel 2010, come prova che diffondere questa cultura è possibile, l‟associazione Papa Giovanni XXIII possiede in tutto il mondo le case famiglie e soprattutto in Italia uno degli aspetti radicali è stata la creazione di numerose Coperative sociali. Le tipologie di quest‟ultime sono: - di tipo A, per rispondere ai bisogni socio-assistenziali ed educativi delle persone svantaggiate più deboli, che non sono ancora pronte o non possono affrontare inserimenti lavorativi. - di tipo B, per l‟inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, anche in territori dove spesso non ci sono opportunità di lavoro neppure per i normodotati. Le cooperative divengono così anche sostegno alla domiciliarietà e contro l'istituzionalizzazione. Per sottolineare l‟importanza di don Oreste e del suo operato ho deciso di chiedere un contributo a colui che oggi continua l‟opera del sacerdote. Così, tramite un intervista, mi sono rivolto al dott. Giovanni Paolo Ramonda3, attuale successore di don Oreste Benzi alla guida del‟associazione Papa Giovanni XXIII. 3 Giovanni Paolo Ramonda: nasce a Fossano in provincia di Cuneo, il 3 maggio 1960, settimo e ultimo figlio di Stefano e Maria. Nel 1979, a 19 anni, va a Rimini per conoscere la Comunità Papa Giovanni XXIII. Lì incontra per la prima volta don Oreste Benzi che gli propone di fare il servizio civile nella casa famiglia di Coriano. Nel 1998 diventa vice responsabile generale dell'associazione e il 2 novembre 2007, con la morte di don Benzi, assume ad interim la funzione di responsabile generale. Il 13 gennaio 2008 l'assemblea straordinaria dell'associazione, riunita a Rimini, lo elegge nuovo responsabile generale della Comunità Papa Giovanni XXIII. Nonostante gli incarichi e l’intensa vita di condivisione con gli ultimi, Giovanni Paolo Ramonda ha sempre dedicato particolare attenzione ed impegno allo studio, conseguendo il titolo di Magistero in scienze religiose presso la facoltà teologica di Torino, la laurea in Pedagogia con indirizzo psicologico presso la facoltà di Magistero di Torino, il titolo di Consulente sessuologo, assieme alla moglie Tiziana, presso l’Istituto di sessuologia clinica di Torino. Dal 1996 al 2002 è stato docente di Pedagogia presso la Scuola regionale per educatori professionali di Fossano. 19 Lo scopo di questa intervista è dare voce ad una persona che quotidianamente si impegna per l‟integrazione in molteplici campi del sociale. Il dott. Ramonda è padre di 12 figli, alcuni nati naturalmente, altri “rigenerati nell‟amore” cioè in adozione o affido. Alcuni di loro sono persone con disabilità. Il primo quesito formulato chiede: - Durante gli anni 70, don Oreste Benzi comincia la sua forte campagna titolata “dove siamo noi, li anche loro”. Quale spinta ha portato il sacerdote a capire che era urgente battersi per la chiusura degli istituti e creare un alternativa? Risposta: “Don Oreste ha capito da subito che la persona ha bisogno di relazioni significative, uniche, insostituibili che non possono essere assicurate in un ambiente come quello dell’istituto dove vengono garantiti livelli assistenziali adeguati, ma non quelli di tipo familiare e parentale garantiti da una figura paterna e materna. La famiglia aperta, allargata con i bimbi, i giovani, i nonni ed anche i diversamente abili, risulta essere una fonte di crescita armonica ed equilibrata per lo sviluppo psicofisico del bambino. Una formazione all’alterocentrismo, alla solidarietà, alla gratuità delle relazioni. Qui è realmente possibile una integrazione, dove chi prima veniva istituzionalizzato a causa del suo handicap, oggi diventa protagonista di storia, vivendo nelle realtà sociali dove ci sono tutti. Scuola, lavoro, tempo libero”. Analizzando alcuni passaggi fondamentali della risposta fornita dal Dott. Ramonda possiamo percepire questa nuova scelta che ha caratterizzato a quell‟epoca don Benzi. Le persone devono poter vivere la propria vita in mezzo a quelle degli altri in un ottica di condivisione. Nella successiva domanda si analizzano i due nuovi modelli che confermano questa innovativa logica di integrazioni. Emerge come questi ambienti siano collegati e necessari per lo sviluppo della persona diversamente abile. Ecco la nuova domanda: - Sia la casa famiglia, che le cooperative con i suoi centri diurni sono una delle grandi intuizioni di don Oreste Benzi. Quali sono le colonne portanti, cioè gli aspetti fondamentali di questi ambienti? “La casa famiglia è un vero ambiente terapeutico in quanto persone che arrivano da abbandoni precoci, con gravi handicap fisici, psichici, sensoriali e relazionali, adolescenti affetti da psicosi e autistici, trovano in persone che diventano 20 riabilitatori a tempo pieno la base sicura per recuperare le capacità specifiche presenti ma a volte tenute nascoste. La fiducia ricevuta garantisce quell’autostima necessaria per affrontare le sfide che la vita impone ad ognuno. Le cooperative sociali e i rispettivi centri diurni, garantiscono quel recupero delle abilità educative ed occupazionali necessarie per ridare dignità a persone fortemente segnate dal disagio. Attraverso attività di riabilitazione motoria, quali il nuoto, ippoterapia, danza, musicoterapia, si recuperano le creatività molte volte inespresse. La cooperativa di tipo b attraverso un’occupazione riesce a formare all’attività lavorativa necessaria persone altrimenti destinati al mondo dell’emarginazione”. Anche questa risposta propone un obiettivo chiaro e forte: eliminare le situazioni che portano e favoriscono all‟emarginazione della persona diversamente abile Profondo conoscitore dell‟uomo in tutte le sue dimensioni, don Oreste Benzi ha sempre progettato il superamento degli istituti attraverso l‟affido familiare, contribuendo a creare una profonda logica di integrazione sociale. 1.5 “Le cooperative sociali: luoghi di integrazione e di condivisione del sociale” Dopo aver illustrato le linee fondamentali lasciate dal sacerdote riminese, cerco ora di scendere nel dettaglio, affrontando da vicino quali siano gli aspetti che costituiscono le cooperative sociali avviate dall‟associazione. Il mio intento è quello di evidenziare gli elementi fondamentali che danno la forma e il significato ai singoli centri diurni, che hanno, a loro volta, il compito delicato e spesso non facile di “essere luoghi di integrazione”, evitando la logica dell‟esclusione e dell‟assistenzialismo. Ad oggi l‟associazione Papa Giovanni XXIII ha dato vita, come accennato, a diverse cooperative sul territorio nazionale, che a sua volta sono composte da diverse realtà. La maggior parte di queste strutture sono centri diurno che hanno lo scopo fondamentale di assicurare alla persona con disabilità quel processo di inclusione nella società che non deve essere negato a nessuno. Al fine di permettere alle diverse cooperative della Comunità di operare in unità ed in sintonia, si è dato origine al Consorzio "Condividere Papa Giovanni XXIII" 21 quale strumento di coordinazione, sostegno ed animazione, così da definire un'unica cooperativa, attraverso la figura giuridica consortile Promosso dall'associazione "Comunità Papa Giovanni XXIII", il consorzio è nato il 24/06/1992 per creare quella che viene definita un "unica cooperativa". L'associazione "Comunità Papa Giovanni XXIII" è l'elemento fondante e costitutivo del Consorzio Condividere, ponendosi quale strumento operativo e visibile della comunione e del legame esistente fra tutte le ragioni sociali collegate, promosse e sostenute dall'associazione stessa. Obiettivo di fondo del Consorzio è infatti completare quanto avviato dalla "Comunità Papa Giovanni XXIII" per animare tutte le iniziative riguardanti il lavoro e l'inserimento in centri educativi delle persone considerate, per vari aspetti, le più povere dalla società. Il consorzio, verificata la forma giuridica da applicare e le condizioni più opportune sul come agire, lavora per promuovere, accompagnare e costituire nuove realtà territoriali, specialmente dove la Comunità è già presente e radicata, secondo i principi della società del gratuito. Il principio fondante di questa “nuova società del gratuito” è fondamentale per il processo di integrazione che in questa tesi descrivo: “questa società imposta tutta la vita sociale partendo dalle membra più deboli. La costruzione della società, l'organizzazione del lavoro, lo scambio dei beni, la scuola, vengono "formate" (cioè ricevono forma) dalle membra più deboli. Le persone con disabilità, gli anziani, , i bambini, gli immigrati, barboni, orfani, … vengono ad avere un ruolo determinante in tutta la compagine sociale. In questa società si pensa a come potere fare lavorare le persone con disabilità, evitando di rinchiuderli in istituti. Si organizza la scuola su misura di chi ha più difficoltà a comprendere e ad apprendere. Si costruisce la città rendendola agibile per gli anziani, i ciechi, gli storpi, gli zoppi, i bambini. Il principio che dà forma alla società del gratuito è “l'alterocentrismo”, contrapposto all'egocentrismo della società del profitto. La dinamica generata da questo principio è la gratuità. La molla che spinge ad agire tutti i suoi membri è il bene degli altri, nella consapevolezza che ognuno detiene il bene dell'altro e che nel bene comune sta anche il bene del singolo. L'indirizzo preso dal Consorzio per l‟avvio di nuove cooperative sociali, sia di tipo A che di tipo B, si basa su alcuni passi fondamentali. Inizialmente si prepara e si 22 forma nel contesto locale la compagine sociale della nuova cooperativa. Ove non vi fossero i requisiti per dare vita ad una nuova realtà cooperativa viene aperta una sede operativa distaccata di una cooperativa già esistente, anche fuori del proprio territorio di competenza originario. Successivamente, quando si creano le condizioni di affidabilità ed autonomia, si da vita alla nuova cooperativa sociale sempre con la supervisione e il sostegno del consorzio. Il consorzio è interlocutore rispetto i vari enti pubblici e privati erogatori di finanziamento o che sostengono in varie modalità, le attività svolte dalla realtà sociale associata. All‟interno di questo paragrafo, sulla base dell‟idea del consorzio e all‟interno del processo di attuazione della società del gratuito ipotizzata da don Oreste Benzi, cerco di analizzare quale siano i principi cardine che fan si che ogni cooperativa possa, attraverso il clima della condivisone, attuare il processo dell‟integrazione sociale. Di seguito vengono evidenziati (parole sottolineate) i requisiti necessari affinché la cooperativa con i suoi centri possa corrispondere alle linee generali del consorzio e ai principi ideati da don Oreste Benzi. Innanzitutto, dentro l‟associazione c‟è la ferma convinzione che il centro diurno venga ad affermarsi come una piccola famiglia, che quotidianamente accompagna la persona verso l‟integrazione. Per ottenere un risultato positivo è importante che, oltre alla buona progettualità, ci sia anche un equipe preparata a sostenere la persona in ogni istante della sua giornata. Allora un aspetto chiaro e fondamentale lo ricopre l‟equipe del centro, formata dalle persone che si adoperano per l‟integrazione. A questo proposito voglio riprendere un brano di Marisa Durante4, che spiega bene le caratteristiche che deve avere una buona equipe all‟interno di una struttura diurna e che si collegano perfettamente con lo stile dell‟associazione. Dalla lettura del brano si percepisce che la persona diversamente abile non è un oggetto da preservare ma un soggetto che deve essere messo nelle condizioni di poter usufruire di qualsiasi servizio presente nella società. Per questo un profondo scambio relazionale con l‟ambiente circostante crea le basi per questo processo […] (M.Durante,1997, pp.33-43). Da questo si percepisce che lo sguardo su ciò che sta attorno consente di collegare l‟intervento del singolo centro con le iniziative che offre il territorio e 4 Marisa Durante è l’attuale direttore dei servizi sociali dell’azienda ULSS7 del veneto. 23 stimolando a sua volta il territorio a non dimenticarsi del disabile presente al centro. L‟equipe del centro, formata dai suoi educatori, deve creare la base per una comunicazione e relazione autentica di condivisone, mettendo la persona nella situazione di poter contribuire nella società circostante. Secondo l‟associazione, la possibilità di creare un forte senso di integrazione, che si sviluppa attraverso l‟esperienza del centro diurno, ruota attorno alla creazione di un clima di relazione attento alla persona, pronto a cogliere i suoi momenti di malessere o benessere. Un ulteriore aspetto fondamentale riguarda la creazione degli spazi e la formazione di coloro che creano il processo di integrazione. Ci deve essere buona professionalità degli educatori, che devono amare e condividere il proprio ruolo con le persone con disabilità, rendendosi sempre conto che non lavorano per uno scopo personale, ma sempre rivolto ad una persona che si affida e si fida di loro. Dopo alcuni anni di lavoro presso un centro diurno, mi sono reso conto che la buona relazione e la sicura preparazione di una persona favoriscono questo processo di condivisione. Se manca uno solo di questi due elementi non avviene lo scambio di informazioni che aiuta reciprocamente nella crescita. Il buon educatore si rende subito conto che riceve delle informazioni e le scambia, crescendo a sua volta. Tante volte affermo che quotidianamente, ho tanti maestri, che attraverso le loro difficoltà mi insegnano tantissime cose preziose della vita che spesso mi sfuggono. Nell‟educatore, secondo l‟associazione, deve coesistere il “fare con l‟altro” assieme alla logica della condivisone diretta, cioè dello “sporcarsi le mani con” come amava definire numerose volte don Oreste Benzi. Inoltre occorre una multidisciplinarietà delle professioni, che deve garantire uno sguardo generale sia sulla persona che sul mondo circostante. All‟interno di un equipe ben formata tanti devono essere gli attori che assieme alla persona diversamente abile creano il progetto di questa integrazione sociale. Condizione necessaria tra le diverse figure professionali deve essere uno scambio sinergico di relazione, per evitare che ognuno navighi nel proprio mare, con una dispersione di forze. Inoltre ci vuole, un collegamento con l’equipe territoriale. Il centro diurno non è un nuovo ambiente di segregazione, ma nasce come una prima risposta ad una 24 urgente chiamata di integrazione. La sua prima condizione necessaria, secondo le linee del consorzio è il contatto continuo con l‟ambiente esterno che è la società. Tramite questa relazione si comincia ad avviare quel processo che deve portare la persona ad inserirsi gradualmente nei vari ambienti di un paese: il lavoro (ove possibile), lo sport, il tempo libero, l‟associazionismo. Inoltre, da sempre c‟è stata attenzione alla costruzione degli ambienti che potessero rendere ogni spazio una casa accogliente, che servisse per un buon servizio. Secondo l‟associazione i centri diurni nascono come luoghi di accoglienza, dove le persone hanno la possibilità di essere capite e comprese, dove hanno il loro spazio e la loro libertà. Questo diventa il trampolino di lancio per favorire il contatto con la società che a sua volta diventa parte del centro e della struttura. Con la sua struttura il centro diurno comincia ad offrire una varietà di opportunità e stimoli, affinché ogni persona diversamente abile possa raggiungere il massimo dell‟autonomia possibile. Un ulteriore aspetto fondamentale che qualifica il centro come “integratore sociale” è l‟importanza, come già sottolineato, del progetto educativo che ogni persona possiede. Il progettare equivale a interessarsi che ogni cosa vada nel senso corretto. Con la nascita di un progetto si afferma il prendersi cura totalmente di una persona, non vivendo al suo posto, ma aiutandola ad interagire con l‟ambiente. Con il tempo questa progettualità ha assunto un valore primario all‟interno del centro diurno, che si configura come un valido sostegno al sé rispetto alle tendenze disgreganti che operano dentro di lui. Al centro di questo progetto c‟è la persona con la sua disabilità, con i suoi rapporti familiari, con i suoi interessi, con le sue possibilità. Il progetto deve sempre avere come scopo, quello dell‟integrazione, cioè mettere la persona in condizioni di sentirsi parte utile del mondo che lo circonda. Durante gli ultimi anni all‟interno delle nostre cooperative, parallelamente all‟evoluzione dei servizi sociali e delle norme in materia di integrazione, si è assistito ad una forte riorganizzazione del progetto educativo (PEI) che ha assunto un ruolo cardine. Questo valido strumento è continuamente sostenuto e aggiornato sia dall‟utente che è il protagonista, sia dalle figure educative del centro, dal servizio territoriale e dalla famiglia. Con questo procedimento non si vuole affermare che il progetto educativo è un “prodotto 25 pronto all‟uso” creato da persone esterne, ma che la progettazione è della persona e il suo sviluppo coinvolge il territorio e la famiglia. Questa è la vera integrazione. L‟elemento fondamentale per una buona progettualità sta nel accorgersi quali siano le mancanze della persona e i suoi punti di sviluppo. Secondo l‟associazione e l‟intuizione di don Oreste, l‟elemento fondamentale è vivere assieme alla persona con disabilità accorgendosi delle sue difficoltà e proponendo un vero e solido progetto di sviluppo affinché le potenzialità di una persona, quali esse siano, vengano messe al servizio degli altri. Assieme alla famiglia e, dove possibile, con l‟individuo si procede a creare un progetto da realizzare, che, dopo un periodo di tempo prestabilito, viene continuamente discusso, migliorato e integrato. La persona non è mai sola, ma accompagnata da un valido strumento condiviso dalla famiglia e dagli operatori sociali. Infine l‟individuo viene sempre pensato come una risorsa e mai come persona senza alternativa. Secondo le linee fondamentali della cooperativa, il centro diurno comincia a delinearsi come un luogo nel quale la persona, a causa delle difficoltà che incontra, trova uno spazio che lo sostiene. Grazie ad un ambiente ricco di stimoli la persona si tiene in allenamento e sviluppa delle capacità che in altri luoghi rischiava di non far crescere. All‟interno di questa quotidianità il centro diurno, secondo le linee guida dell‟associazione Papa Giovanni XXIII, riveste un ruolo importante di mediatore tra i servizi sociali e la famiglia. Ben presto si comincia a diffondere l‟idea che l‟ambiente diurno non è un luogo che separa, ma si delinea come un insieme di forze che comprendono i genitori, i servizi competenti e gli operatori del centro. Da questo legame nasce un nuovo modo di gestire quello che appariva l‟iniziale disagio dell‟handicap che diventa ora una risorsa utile per la società. La famiglia non è più sola e ha la certezza che qualcuno ascolta le sue richieste. Ora la famiglia può contare su un progetto ben definito, al quale partecipa attivamente. Tramite il dialogo e questa organizzazione, si elimina l‟emancipazione costruendo degli interventi mirati e precisi. Ogni individuo diversamente abile tramite la vita in famiglia, trova nel centro diurno uno strumento necessario per integrarsi nella società. La persona diversamente abile cresce nel proprio ambito familiare fatto di affetti e relazioni 26 profonde e tramite il centro diurno cresce all‟interno della società. È importante sottolineare che il servizio deve essere, come dice il nome stesso, diurno, perché ogni persona ha il diritto di vivere con i propri fratelli e genitori. Questo è un altro elemento fondamentale che sta alla base della costruzione dei servizi diurni soprattutto in quelli creati dall‟associazione Papa Giovanni XXIII. Da sempre si è creduto fondamentale che il ragazzo potesse partire e ritornare ogni giorno nella propria famiglia. La proposta innovativa è quella di una piena integrazione fatta di lavoro quotidiano, relazioni con le persone e il vivere nell‟proprio ambiente famigliare. Ogni persona è uguale all‟altra, tutti collaborano e si aiutano a vicenda e una volta finito l‟orario di lavoro o di attività educative il rapporto di relazioni affettive non può continuare in un centro residenziale, ma può solo avere il proprio compimento all‟interno dell‟ambiente familiare dove si ritorna per condividere assieme la seconda parte della giornata e dove si racconta cosa è accaduto condividendo le gioie e i dolori comuni a tutte le case del mondo. Dell‟ esperienza della famiglia a lungo se ne potrebbe parlare e ciascuno la vive in maniera personale, ma tutti ed allo stesso modo ne avvertiamo il bisogno. Inconsapevolmente sentiamo il bisogno della famiglia, ed è proprio per questa ragione che deve essere sana ed equilibrata. Dalla sua disgregazione possono nascere dei problemi seri, ma non esistono regole che fanno di una famiglia un nucleo modello. Se i componenti donano affetto, sensibilità, partecipazione, vivacità e confronto c‟è famiglia! Ogni persona ha diritto alla propria famiglia e se questa non c‟è gli esperti del settore educativo devono cercare una mediazione con i famigliari (fratelli o parenti) di questa persona, altrimenti si deve far in modo che una famiglia (esempio la casafamiglia) possa far sentire sempre a casa l‟individuo, continuando a donare l‟amore è la comprensione di cui ha bisogno. Allora diventa molto forte e fondamentale l‟urgenza di coltivare una buona relazione con la famiglia mettendo a disposizione diversi strumenti: incontri periodici e un costante monitoraggio del progetto che ogni persona ha su di se. Così ogni giorno i ragazzi, dopo il loro lavoro e lo stare assieme quotidiano, tornano nella propria abitazione, anche se per alcuni la convivenza con i genitori spesso anziani non è facile. Oltre alla realtà della famiglia è molto importante anche quella del lavoro come dimensione indispensabile dell‟esistenza dell‟uomo con la quale la vita è costruita 27 ogni giorno, dalla quale essa attinge la propria dignità, ma nella quale è contemporaneamente contenuta la costante misura dell‟umana fatica. Nella misura in cui l‟uomo si realizza nel proprio lavoro, è partecipe all‟attività ed è in grado di aiutare ed amare. L‟importante è che qualcuno sia sempre pronto a mediare e a sostenere, aiutando nelle difficoltà. Marisa Durante, partecipando al convegno organizzato a Jesi nel 1997 sui centri diurno, delinea un aspetto cardine che qualifica il centro diurno come possibilità che crea continuità e sviluppo nella vita dell‟individuo: “l‟esistenza di questo servizio diventa strategica perché consente la costruzione di corretti progetti di integrazione a seconda dei bisogni, aspettative, possibilità concrete dei disabili e della famiglia” […] (M.Durante,1997, pp.33-43). Cosi il centro diurno nasce come risposta alle diverse esigenze della persona, dalla sua età, al suo handicap. Di seguito a quello delineato dalla Durante, secondo la comunità Papa Giovanni XXIII, bisogna fare attenzione a non creare interventi meramente assistenziali, caritativi e compassionevoli. Lo stesso centro diurno rischia di diventare un nuovo istituto se alla base non ha come fine quello dell‟integrazione, della progettualità e della condivisione. Per attuare questo processo sono possibili diverse maniere. Uno è lo scopo e cioè l‟integrazione, diverse sono le forme per attuarlo. Infatti, durante questi anni di lavoro con le persone disabili, tante sono le domande e altrettante sono le risposte che nascono. All‟interno del “consorzio condividere”5 si afferma una svariata pluralità del servizio. Ben presto ci si rende conto che la persona diversamente abile ha una sua propria personale esigenza che non è comune alle altre. Per questo nasce la necessità di diversificare i percorsi per garantire una migliore progettualità volta all‟integrazione. Di seguito evidenzio le maggiori risorse che sono nate all‟interno delle cooperative del consorzio condividere e che quotidianamente si impegnano a realizzare la cultura dell‟integrazione. Elenco di seguito le varie tipologie di centro diurno: - Centro Socio - Riabilitativo Diurno: questa tipologia di servizio nella norma ospita soggetti adulti, dopo il compimento del 18° anno di età, portatori di 5 Il “consorzio condividere” è formato dalle diverse cooperative a sua volta formate dai centri diurno dell’associazione comunità Papa Giovanni XXIII. 28 handicap, non autosufficienti e/o autonomi, per minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali, per i quali non è stato possibile, al momento e in alcun modo, prevedere forma di inserimento al lavoro, né normale, né protetto. Il Centro può accogliere anche utenti dai 14 ai 18 anni di età. L‟aspetto fondamentale di questo luogo è quello di offrire ospitalità diurna e assistenza qualificata ad ogni singolo utente, attraverso interventi mirati e personalizzati atti all‟acquisizione e/o al mantenimento di capacità comportamentali, cognitive e affettivo - relazionali. Inoltre si cerca sempre di considerare ogni utente nella sua globalità, pur mirando a rilevarne le potenzialità specifiche e a finalizzarle in attività riabilitative atte a creare nuove forme di comunicazione e di linguaggio. Un altro punto fondamentale è quello del sostegno e supporto alla famiglia, favorendo la permanenza della persona con disabilità nel proprio nucleo. Si persegue, quindi, l‟integrazione sociale degli utenti, rendendo attuabile la frequenza di strutture esterne a carattere sportivo e sociale, sia formali che informali. Questo strumento diviene innovativo con il passare del tempo e apre la strada della società a molte persone che sino a quel momento non avevano questa possibilità. Inoltre questo luogo comincia ad essere portatore di una nuova mentalità all‟interno della cultura. Ben presto si scopre che il centro diurno si presenta come un grosso aiuto e un valido accompagnamento nei momenti fondamentali della vita della persona, cioè durante l‟adolescenza e la vita adulta. Qui l‟individuo si sente preso per mano e accompagnato giorno dopo giorno sulla strada del suo sviluppo psicosomatico e sociale. Alla base di questo percorso c‟è una relazione vera e autentica di condivisione. Qualsiasi ragazzo o adulto all‟interno di questo spazio quotidiano vive le gioie e le sofferenze comuni a tutti gli uomini avendo la liberta di mostrare o comunicare le sue difficoltà. - Centro diurno di Terapia Occupazionale:Il Centro ospita soggetti adulti, dopo il compimento del 18° anno di età, portatori di handicap, non autosufficienti e/o autonomi, per minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali, per i quali non è stato possibile, al momento e in alcun modo, prevedere forma di inserimento al lavoro, né normale, né protetto. Le attività educative che vengono svolte, oltre a rivolgersi all‟acquisizione e al mantenimento delle autonomie di base, sono finalizzate al recupero sociale, 29 psico-fisico e relazionale di ogni utente. I percorsi di integrazione sono soprattutto di tipo occupazionale oltre che di tipo espressivo e sportivo. Le attività lavorative sono strutturate per laboratori: (esempi comuni) -laboratorio di falegnameria; -laboratorio di assemblaggio di semplici oggetti; In essi gli utenti rafforzano le loro autonomie personali e professionali e si avvicinano al mondo produttivo e alla realtà esterna. La strutturazione dei singoli laboratori è flessibile in quanto legata sia alla tipologia dell‟utenza che alle richieste che il mercato pone. - Centro diurno, laboratorio formativo di avviamento al lavoro:il centro offre a varie tipologie di utenze la possibilità di un avviamento al lavoro che sia in contatto con l‟ambiente esterno e che preveda la possibilità di un vero e proprio inserimento ad esempio in una fabbrica, o in un luogo a misura della persona. Con il passare del tempo si delinea una vera e propria carta di identità del centro diurno con una sua precisa struttura e organizzazione. Innanzitutto, i destinatari sono generalmente persone in età che va dai 15-18 ai 64-65 anni con disabilità medio grave per le quali è molto difficile ipotizzare un impiego lavorativo. Durante i primi anni dell‟apertura dei centri gli utenti provenivano dalle proprie famigli spesso da una situazione di reclusione o nell‟ambiente familiare o nell‟istituto. Ad oggi ci sono rari casi di ragazzi che arrivano dopo un breve percorso scolastico spesso a causa dell‟aggravarsi dell‟handicap assieme ad una difficile e delicata situazione familiare. In secondo luogo la capienza di un centro diurno è di 25-30 utenti. Le prime strutture ospitavano al massimo 20 persone diversamente abili. Oggi, grazie ad una riorganizzazione normativa e strutturale, alcuni centri sono progettati per accogliere diverse persone. Un ulteriore aspetto è l‟orario di apertura dei centri che va dalle ore 8.00 alle ore 16.00 della giornata (con assieme il tempo per il trasporto). Il c.d rimane aperto dal lunedi al venerdi, per sottolineare l‟importanza del ritorno e della vita presso la famiglia di origine. Con il passare del tempo e l‟organizzazione normativa presso i singoli centri nasce la figura di coordinatore. Il responsabile coordina il gruppo degli educatori e tiene il contatto con i servizi territoriali. 30 Durante gli anni 90‟si è affermata anche la forte convinzione che all‟interno di ogni struttura ci deve essere un equipe di operatori formati sul piano culturale e capaci di relazione e condivisione. Di seguito vengono riportati i punti fondamentali che sono le fondamenta che deve possedere una buona equipe: 1° Sfidare: proporre obiettivi sfidanti, spingere a fare di più, ad andare oltre. Favorire l‟innovazione e la sperimentazione, promuovere il cambiamento, vincendo l‟inerzia delle resistenze. 2° Coinvolgere (verso una visione comune): creare occasioni di comunicazione e di scambio in cui tutti si possano esprimere, si rendano disponibili le risorse, le informazioni e le conoscenze. Creare un consenso vero attorno ai valori e alle finalità. 3° Allenare: rispettare e valorizzare le persone, costruire fiducia, investire nell‟ascolto, sostenere l‟apprendimento continuo dall‟esperienza continuamente riflettuta, verificata e condivisa, far crescere la coesione e l‟integrazione del gruppo di lavoro… 4° Potenziare (empowerment): sostenere l‟espressione delle potenzialità individuali e favorire il loro sviluppo, accrescere la presa di responsabilità di ciascuno, stimolare le motivazioni a crescere e migliorare come persone e nel lavoro svolto. 5° Condividere il protagonismo: imparare a lavorare in équipe; Volontà di verifica e d‟imparare dalla vita, in modo speciale di lasciarsi verificare dagli altri membri dell‟équipe. Un ulteriore aspetto fondamentale sono i servizi che vengono offerti alla persona diversamente abile all‟interno del centro diurno. Ogni singola attività ha sempre lo sguardo verso un miglioramento delle condizioni di vita e verso la piena integrazione, cercando sempre di essere radicati nel territorio condividendo questi momenti assieme alle persone che lo abitano. Con il tempo sono sorte attività di ippoterapia,idroterapia, fisioterapia per quanto riguarda il miglior manto fisico della persona. Tutte le persone quando hanno un problema fisico, dopo un accurata visita del medico, cominciano la terapia di riabilitazione. Anche per le persone diversamente abili tutto questo avviene: hanno la possibilità di migliorare i propri problemi somatici attraverso l‟uso di molteplici forme di riabilitazione. Per quanto riguarda l‟area relazionale e della 31 socializzazione vengono proposte attività ludiche, gite, campeggi estivi e invernali. Infine si è sviluppata l‟area che mira a sviluppare e favorire la manualità e la creatività nell‟individuo attraverso i laboratori espressivi, manuali e artigianali. Infine si sviluppa l‟area lavorativa dove ogni persona, con le sue possibilità, contribuisce alla realizzazione di un lavoro, che può essere svolto all‟interno della struttura (manutenzioni, imbiancare, lavare, spazzare o cose più semplici), fuori dalla struttura (recarsi per alcuni periodi a lavorare presso delle fabbriche o in altri luoghi) o per conto di aziende esterne (ad esempio il lavoro per “conto terzi). Per ognuna di queste attività c‟è sempre stata la forte necessità di una chiara definizione degli obiettivi, dei risultati e dei tempi di attuazione all‟interno del progetto individuale che si crea assieme alla persona. Il centro diurno rappresenta uno dei servizi importanti a favore delle persone con disabilità grave e gravissima. Esso deve essere proposto alla persona quale occasione per sviluppare le abilità residue e per mantenerle nel tempo. Questo servizio deve essere integrato nella rete dei servizi territoriali e deve garantire una sua continua apertura alle opportunità, ove possibile, di integrazione della persona disabile nel contesto sociale e lavorativo. Al fine di garantire la corretta gestione di questo servizio deve essere presente nei singoli territori una attenta politica di integrazione lavorativa delle persone con disabilità, condizione indispensabile per permettere al centro diurno di svolgere il suo specifico ruolo.” 1.6 L’incontro con la disabilità: “Un insieme di norme verso l’integrazione” Dopo aver delineato il mio incontro con la disabilità all‟interno di una panoramica storica e successivamente nel concreto, delineando l‟esperienza dell‟associazione Papa Giovanni XXIII da tempo impegnata su questo tema delicato, continuo a descrivere l‟importanza del processo di integrazione sociale aprendo una sintetica pagina riguardante i cambiamenti legislativi che hanno accompagnato questa rivoluzione. Di seguito, divisi per anni, descrivo in ordine di emanazione, quali siano stati i principali regolamenti legislativi che hanno contribuito maggiormente a diffondere 32 e a tutelare questa nuova cultura dell‟integrazione, che ha come unico soggetto la persona con disabilità. Il primo aspetto che voglio evidenziare, e che ho già accennato nelle righe precedenti è ribadire con forza, ancora una volta, il fondamentale cambiamento culturale e ideologico avvenuto durante gli anni 60‟ che sta alla base delle nuove regolamentazioni. Si comincia a percepire che non è più possibile l‟istituzionalizzazione della persona diversamente abile, ma è urgente un ritorno in famiglia e un‟ apertura verso la società tramite le modalità precedentemente illustrate. Sulla base di questa nuova coscienza culturale e sociale, il mondo politico comincia ad interrogarsi, e si afferma un dibattito molto forte capace di produrre dei cambiamenti significativi. All‟interno del mio scritto non viene fatta né un analisi politica né giuridica delle norme, perché ci vorrebbero interi capitoli che trattano solo di questo argomento, ma per ogni legge citata effettuo una piccola analisi, che mostra i cambiamenti avvenuti dagli anni 60‟ ad oggi. Prima di illustrare l‟evoluzione legislativa, ritengo sia importante evidenziare l‟importanza di questo aspetto tramite una domanda che ho rivolto a Marisa Durante, esperta nel campo dell‟integrazione sociale della persona con disabilità e che riporto di seguito: “Durante gli anni ‟60 avviene un cambiamento storico nel modo di pensare la disabilità, non più intesa come oggetto da “recludere”, ma parte integrante della società. Qual è l‟aspetto sociale e storico predominante che ha determinato quest‟inversione di marcia?” Negli anni ’60 e ’70 vengono emanati i primi provvedimenti legislativi che interpretano i principi fondamentali quali quello della dignità sociale di tutti i cittadini previsto dalla costituzione repubblicana (art. 3, 4, 38). Con le leggi 482/68, 118/71, 517/77, per la prima volta si tenta di concretizzare i principi costituzionali favorendo l’integrazione dei disabili. In questi anni si attua altresì il decentramento amministrativo che vede il progressivo trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni, con la conseguente produzione di provvedimenti a livello locale. Le più rappresentative associazione di tutela delle persone con disabilità nascono in questi decenni contribuendo alla affermazione dei diritti delle persone in un quadro culturale ed economico più dinamico ed attento. 33 Con questa certezza posso ben partire all‟interno di questo breve percorso. Innanzitutto il decennio, più fertile, nell‟ambito delle innovazioni legislative risale dalla fine degli anni settanta. Successivamente, vi è stato un ulteriore periodo fondamentale tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta. Un primo e chiaro forte segnale di questo percorso ci viene fornito dalla Carta Costituzionale Italiana che all‟interno dell‟articolo 38 […] (a cura di L.Sebastiani, 1997, pag 19) afferma che ogni persona, specie se inabile, ha diritto all‟assistenza sociale. “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L'assistenza privata è libera”. Questo primo chiaro elemento indica che ogni persona deve poter usufruire di un assistenza sociale che tuteli il diritto di colui che è inabile e incapace, cioè debole. Nella parte conclusiva della legge viene sottolineato che chi si deve occupare di questa assistenza sono gli organi e gli istituti che lo stato predispone per meglio svolgere questo servizio, tra le quali le Regioni. Quest‟ultime giocano un ruolo molto importante perché sono chiamate ad organizzare gli svariati interventi nell‟ambito del disagio, della precarietà e dell‟esclusione. L‟articolo 117 della costituzione afferma che la regione deve garantire: “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, e la “previdenza sociale”. A questo punto è bene fermarsi per evidenziare un primo aspetto fondamentale. Si sviluppa, infatti, su tutto il territorio nazionale, una molteplicità di idee che avevano alla base questa forte idea di una cultura dell‟integrazione. Le regioni cominciano a giocare un ruolo fondamentale perché, per prime, si sentono coinvolte in questa rivoluzione e cercano di creare svariati luoghi dove venisse creata questa ideologia dell‟inclusione. Il dott. Claudio Caffarena6, sottolinea questa nuova spinta innovativa evidenziando che, in questi anni e a livello territoriale, sorgono 6 Claudio Caffarena, Sociologo, Consulente e Formatore “Studio Il NODO” 34 diverse iniziative. Questo lo si nota dalla diversificata pluralità di termini utilizzati per denominare lo stesso servizio: “(CST Centro-socio-terapeutico - CSF Centro Socio-formativo - CSE Centro socio-educativo - CSR Centro Socio-riabilitativo CR Centro risocializzante - CEOD Centro Educativo Occupazionale diurno - CD centro diurno – CAD Centro Attività Diurne - SSF Struttura socio-formativa…). Questo elemento testimonia la varietà di ipotesi progettuali, accomunate dalla necessità di fornire una risposta diurna, ma differenziate da vari fattori quali il contesto di riferimento, le normative in vigore, le esigenze delle persone, le risorse a disposizione, le prospettive di sviluppo ecc”. […] (C.Caffarena, 2006, pp.10-16). In ogni regione si afferma una risposta diversa ma con una base comune: quella di un inizio di integrazione. Comincia, grazie alla spinta e alla maturazione politica, il servizio dell‟assistenza per rispondere gli articoli 2 e 3 della Costituzione nella quale viene ribadito l‟obbligo dello stato, di rimuovere le cause di diseguaglianza. Nascono cosi i servizi di assistenza domiciliare sociale a sanitaria. Vengono anche progettati i primi interventi psicopedagogici che comprendono oltre al sostegno familiare anche l‟istituzione del centro diurno. anni 60’: nel 1968 con l‟entrata in vigore della legge 482/68‟ ha inizio il percorso di integrazione sociale per quelle categorie considerate “invalidi” al quale viene assegnato un posto di lavoro obbligatorio. Osserviamo cosa dice il primo comma: “1. (Soggetti aventi diritto ad assunzione obbligatoria). - La presente legge disciplina la assunzione obbligatoria - presso le aziende private e le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le amministrazioni regionali, provinciali e comunali, le aziende di Stato e quelle municipalizzate, nonché le amministrazioni degli enti pubblici in genere e degli istituti soggetti a vigilanza governativa - degli invalidi di guerra, militari e civili, degli invalidi per servizio, degli invalidi del lavoro degli invalidi civili, dei ciechi, dei sordomuti, degli orfani e delle vedove dei caduti in guerra o per servizio o sul lavoro, degli extubercolotici e dei profughi”.7 Si afferma l‟importanza e l‟urgenza di integrare coloro che si trovano in una particolare condizione, all‟interno del mondo del lavoro, cercando di creare un opportunità sociale ed economica. Proseguendo nella lettura del testo si nota che 7 Le leggi riportate in questo paragrafo, evidenziate in corsivo, sono tratte dal sito: http://www.handylex.org. 35 che, però, non mancano delle contraddizioni. Infatti al comma 10 del testo di legge si nota una piccola ma enorme problematica: quella del licenziamento. Infatti c‟è scritto: “Oltre che nei casi di licenziamento previsti per giusta causa o giustificato motivo, i mutilati e invalidi di cui alla presente legge possono essere licenziati quando, a giudizio del collegio medico provinciale di cui all'articolo 20, sia accertata, su richiesta dell'imprenditore o dell'invalido interessato, la perdita di ogni capacità lavorativa o aggravamento di invalidità tale da determinare pregiudizio alla salute ed incolumità dei compagni di lavoro, nonché alla sicurezza degli impianti.” Nelle citazioni ho sottolineato la frase nella quale ci sono le parole “giusta causa” o “giustificato motivo”. Evidenzio, che nella legge 482/68‟, c‟è una grande contraddizione. Da una parte compare un obbligo di assunzione, dall‟altra la possibilità di licenziare per giusta causa. Ogni luogo di lavoro, non avendo specificato il caso in cui è possibile licenziare, si trova a gestire la questione a proprio piacimento o con il foglio del medico (come riportato nel articolo 20) che certifica la perdita totale della capacità lavorativa o un aggravamento dell‟invalidità tale da determinare problemi alla salute e all‟incolumità dei colleghi di lavoro o alla sicurezza degli impianti. Spesso nascevano delle incertezze sull‟organo deputato a svolgere e determinare un licenziamento con sempre più difficoltà e dubbi nella gestione delle assunzioni e dei licenziamenti spesso numerosi e in alcuni casi ingiustificati. Ad esempio, con il varo del d.lgs 626 del 1994 si afferma la sindacabilità del giudizio della valutazione per un licenziamento. Ricordiamo a questo proposito che la legge 68 del 1999 ha abrogato la 482/68‟. Rimane costante un primo fattore positivo che sottolinea, se pur ancora in maniera non chiara, l‟inizio dell‟integrazione della persona diversamente abile nella società nello specifico del mondo lavorativo. Proseguendo sul nostro percorso, sempre nel 1968 viene approvata la legge 406/68‟, che regolava le norme per la concessione di una indennità di accompagnamento ai ciechi assoluti assistiti. Con questo decreto, alla categoria delle persone diversamente abili “cieche”, viene concessa un indennità di accompagnamento. Questo permette a tali persone di poter usufruire di un valido aiuto e sostegno che faccia da guida nell‟ambiente domestico e in quello sociale. Sembra banale, ma anche questa legge contribuisce a favorire l‟integrazione di 36 quei soggetti impossibilitati nella vista. Grazie a questo sostegno molte persone cieche hanno avuto la possibilità di un‟ aiuto per raggiungere alcuni luoghi di lavoro o per svolgere qualche piccola mansione, che prevedesse l‟uso delle mani e dell‟udito anni 70: Durante questi anni si registra un forte impulso legislativo. L'ingresso nel mondo della scuola e del lavoro dell‟handicap sottolinea i diritti di cittadinanza delle persone disabili limitando, di molto, una cultura dell'handicap inteso come fatto sostanzialmente medico. Questo è un dato sicuramente diffuso anche se le disomogeneità in Italia sono evidenti e quindi un quadro unitario è estremamente difficile da tracciare. Termini come prevenzione, integrazione scolastica, socializzazione, hanno segnato la cultura degli anni '70 ampliando enormemente gli spazi di dignità per tanti bambini handicappati e per le loro famiglie. Durante questi anni si afferma una fiorente evoluzione legislativa in materia dei servizi sociali. Con la legge 381/1971 vengono tutelati i sordo muti con delle norme che favoriscono la loro integrazione sociale con l‟ingresso nel mondo del lavoro e la pensione reversibile. Successivamente con la legge 118/1971 si ha la prima norma organica sull‟invalidità civile, con cui vengono create le provvidenze economiche dell‟assegno mensile e della pensione di invalidità civile. Durante il 1977 si compie un passo davvero importante che contribuisce a creare ancor più integrazione sociale. Infatti la legge 517/77‟ sancisce l‟abolizione delle classi differenziate per i disabili. Il testo dice al comma 2: “…Nell'ambito di tali attività la scuola attua forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicap con la prestazione di insegnanti specializzati assegnati ai sensi dell'articolo 9 del decreto del Presidente della Repubblica 31 ottobre 1975, n. 970, anche se appartenenti a ruoli speciali, o ai sensi del quarto comma dell'articolo 1 della legge 24 settembre 1971, n. 820 . Devono inoltre essere assicurati la necessaria integrazione specialistica, il servizio socio- psicopedagogico e forme particolari di sostegno secondo le rispettive, competenze dello Stato e degli enti locali preposti, nei limiti delle relative disponibilità di bilancio e sulla base del programma predisposto dal consiglio scolastico distrettuale..” Grazie a questa legge viene stravolta la relazione educativa e didattica docentealunno con il passaggio dal programma alla programmazione, eliminando 37 l‟obbligo per il docente di creare programmi diversificati. Altri passaggi qualificanti della 517 sono stati, la valutazione formativa, caratterizzata dalla rivisitazione della programmazione di classe e disciplinare mediante interventi di feedback sulle attività, metodi, obiettivi, volti a garantire all‟alunno disabile risposte adeguate ai bisogni formativi; la flessibilità organizzativa e didattica, con la strategia delle classi aperte; la personalizzazione degli interventi metodologicodidattici. Durante il 1978 all‟interno della politica avviene qualche cosa di straordinario. Il dibattito acceso sull‟integrazione sociale delle persone diversamente abili porta alla creazione della legge 180/1978 ad opera del dott. Franco Basaglia. Questo decreto introdusse una importante revisione ordinamentale sui manicomi e promosse notevoli trasformazioni nei trattamenti psichiatrici sul territorio. Il dott.Basaglia, medico psichiatra, sosteneva che dal momento in cui si oltrepassa il muro dell'internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale; viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell'individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell'internamento. L'assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l'essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l'aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell'asilo”. Egli propose una legge quadro che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, creando i servizi di igiene mentali pubblici. Le intenzioni della legge 180 erano quelle di abbassare l‟uso delle terapie farmacologiche ed il contenimento fisico, instaurando una nuova ideologia comunicativa basata sui rapporti umani rinnovati con il personale e la società, riconoscendo appieno i diritti e la necessità di una vita di qualità dei pazienti, seguiti e curati da ambulatori territoriali. 38 Successivamente, sempre, nel 1978 viene approvata la legge 833/1978 che sancisce la creazione del Servizio Sanitario Nazionale. In particolare l‟articolo 64 dice: “La regione nell'ambito del piano sanitario regionale, disciplina il graduale superamento degli ospedali psichiatrici o neuropsichiatrici e la diversa utilizzazione, correlativamente al loro rendersi disponibili, delle strutture esistenti e di quelle in via di completamento”… “E' in ogni caso vietato costruire nuovi ospedali psichiatrici, utilizzare quelli attualmente esistenti come divisioni specialistiche psichiatriche di ospedali generali, istituire negli ospedali generali divisioni o sezioni psichiatriche e utilizzare come tali divisioni o sezioni psichiatriche o sezioni neurologiche o neuro-psichiatriche” Da questo momento in poi avviene un forte cambiamento all‟interno della società. Coloro che erano rinchiusi nei manicomi o negli ospedali vengono tutelati e si afferma per loro la necessità di costruire l‟integrazione sociale. Vedremo di seguito che dagli anni „80 si affermano le leggi che serviranno per tutelate e creare i nuovi luoghi di integrazione sociale come alternativa al istituzionalizzazione, tra cui anche il centro diurno. anni 80: Gli anni '80 sono stati particolarmente importanti dal punto di vista culturale e legislativo nell'handicap, anni in cui la rivoluzione culturale del decennio precedente aveva veramente posto le premesse consentire a persona con disabilità, di "diventare adulti", anche senza tracciare linee di confine invalicabili tra deficit fisici e deficit intellettivi. E dietro a questo modernismo sono corse molte associazioni, molte persone disabili, molti giornali e televisioni, spesso anche il sindacato e gli enti locali. Le tecnologie informatiche, le barriere architettoniche (tema di confine con le sensibilità ecologistiche esplose negli anni '80), le vacanze e il turismo, lo sport, sono stati gli scenari su cui hanno agito politici "handicappati", giornalisti "sensibili", persone con disabilità "che hanno scritto un libro", cantanti "attenti al sociale", stiliste di moda "che si sono poste il problema". Un ulteriore passo legislativo viene compiuto nel 1980 attraverso la legge 18/1980 che sancisce l‟entrata in vigore dell‟indennità di accompagnamento per le persone diversamente abili. L‟assegno di accompagnamento diviene uno strumento utile alla persona e alla famiglia che può contare su un valido aiuto economico per accedere ai servizi che in qualche maniera migliorano la 39 situazione psico - fisica del soggetto e inevitabilmente aumentano la possibilità di riuscita della persona all‟interno del processo di integrazione sociale. Un ulteriore elemento significativo viene compiuto nel 1983 con la legge 184 che regola la “disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori”. L‟articolo al comma 1 dice: “Il minore ha diritto di essere educato nell'ambito della propria famiglia”. Questo punto diviene fondamentale perché anche le persone con disabilità assumono questo fondamentale diritto: vivere nel proprio ambiente familiare. Nel caso di gravi difficoltà il minorenne ha la possibilità di essere affidato o adottato presso un'altra famiglia. Grazie a questa legge, oggi molti ragazzi diversamente abili hanno una famiglia evitando l‟istituzionalizzazione. Un altro segno importante all‟interno di questo percorso avviene nel 1989 con la legge 13 relativa alle "Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati." Questo decreto sottolinea un importante momento storico, non solo nella ideologia e nella cultura dell‟integrazione, ma anche nell‟architettura della società che comincia a porre importanza al diversamente abile: vengono eliminate le grandi barriere architettoniche dagli edifici. Lo stato si impegna a favorire questo processo tramite, sia una norma severa e rigorosa contro chi non adempie questo ordine e sia con l‟erogazione di un contributo economico. Con questa norma si attua una vera e propria “rivoluzione copernicana” nel quale il legislatore costantemente vigila sulla progettazione e sulla realizzazione dei nuovi edifici, perchè vengano eliminati gli ostacoli che costituiscono un handicap per le persone diversamente abili. anni 90: durante gli anni novanta assistiamo ad una vera e propria rivoluzione legislativa con il susseguirsi di molteplici norme che contribuiscono a creare questa cultura di integrazione. Nel 1991 con la legge 266 vengono istituite e regolamentate le associazioni di volontariato. Questa legge è molto importante perché nei nostri comuni italiani le associazioni già esistenti vengono formalizzate e si assiste ad fiorire di nuovi gruppi di volontari che si adoperano nei vari settori della società. Il volontario diventa una persona molto importante per l‟accompagnamento e il sostegno della persona diversamente abile all‟interno della società. Ad esempio, molti centri 40 diurno cominciano sempre di più ad avere il sostegno dei volontari che diventano ben presto una risorsa utile e necessaria. Nel corso del 1991 viene creata, tramite la legge 381, una riorganizzazione e la tutela delle Cooperative sociali. Questo decreto afferma: “Le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini attraverso: a) la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi; b) lo svolgimento di attività diverse - agricole, industriali, commerciali o di servizi finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate.” Tramite questa legge le cooperative cominciano ad essere regolarizzate e a sua volta vengono riorganizzati anche i centri diurni che sempre più svolgono i compiti sopra indicati dal testo di legge. La legge 104/1992, denominata “legge quadro per l‟assistenza, l‟integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, è un chiaro tentativo più compiuto di una norma organica relativa alla disabilità. Importante è analizzare le finalità della legge che dimostrano una chiara e forte disponibilità ad un sempre maggiore cambiamento verso una cultura dell‟integrazione. Il testo dice: La Repubblica:“garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e di autonomia della persona handicappata e ne promuove la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società; b) previene e rimuove le condizioni invalidanti che impediscono lo sviluppo della persona umana, il raggiungimento della massima autonomia possibile e la partecipazione della persona handicappata alla vita della collettività, nonché la realizzazione dei diritti civili, politici e patrimoniali; c) persegue il recupero funzionale e sociale della persona affetta da minorazioni fisiche, psichiche e sensoriali e assicura i servizi e le prestazioni per la prevenzione, la cura e la riabilitazione delle minorazioni, nonché la tutela giuridica ed economica della persona handicappata; d) predispone interventi volti a superare stati di emarginazione e di esclusione sociale della persona handicappata. Nelle varie Regioni si assiste ad una diversificazione di interventi, che vengono finanziati o dai Comuni per intero oppure in altre regioni dal servizio sanitario 41 regionale. Purtroppo, ancora oggi, molte norme di questa legge risultano inapplicate o scarsamente applicate. Attraverso la legge 724/1994, legge finanziaria del 1995, viene sancita la chiusura (terminata solo nel 1999) definitiva dei manicomi. Durante il 1996 con il d.P.R n°503 si costituisce il completamento sul territorio urbano ed extraurbano in materia di barriere architettoniche, introdotta con la precedente legge 13/1989. Inoltre grazie al d.P.R del 14/01/1997 vengono dettati gli standard dei presidi e dei centri di riabilitazioni, quali i centri diurno. Un altro importante decreto legislativo è quello del 1998 n°162 sulle "Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 104, concernenti misure di sostegno in favore di persone con handicap grave". In questa legge vengono poste le basi per la realizzazione di progetti sperimentali a favore di persone diversamente abili non autosufficienti. anni 2000: ll passaggio al nuovo secolo ha sicuramente portato una ventata di cambiamento ancor più radicale. Infatti sono state ampliate e ridefinite alcune norme create negli anni novanta. Con la legge 328 del 2000 viene definito e riorganizzato il sistema integrato di intervento dei servizi sociali. Al comma 1 viene ribadito un importante aspetto che possiamo sottolineare con un solo nome: integrazione sociale. Infatti il testo cita: “1. La Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione.” Aspetto fondamentale di questa legge è il comma 14 che affronta il tema delle Disposizioni per la realizzazione di particolari interventi di integrazione e sostegno sociale. Questa parte della norma evidenzia l‟importanza del Progetto Individuale della persona. Questa progettazione non è da intendere, come già detto, come un fattore di esclusione, ma come sostegno per l‟integrazione della persona disabile. Inoltre la legge 328 delinea quali devono essere gli interventi territoriali e regionali per favorire il processo di integrazione tra la famiglia, la persona disabile e la 42 società. Infine, con l‟articolo 27° viene istituita la “commissione di indagine sulla esclusione sociale” che ha il compito di evidenziare le situazioni di disagio e promuovere attraverso il contatto con il governo e le politiche sociali strumenti per eliminare questi problemi. Un altro passo importante nel processo di inclusione, avviene con la legge 383 del 2000 sulla “Disciplina delle associazioni di promozione sociale”. Nell‟articolo 2° viene descritto l‟identikit di un‟associazione: “Sono considerate associazioni di promozione sociale le associazioni riconosciute e non riconosciute, i movimenti, i gruppi e i loro coordinamenti o federazioni costituiti al fine di svolgere attivita' di utilita' sociale a favore di associati o di terzi, senza finalita' di lucro e nel pieno rispetto della liberta' e dignita' degli associati. A differenza dei gruppi di volontariato, le associazioni non si limitano solamente alla mera soddisfazione degli interessi e dei bisogni dei volontari, ma sviluppano una forte apertura al sociale operando la promozione e la partecipazione della solidarietà attiva all‟interno della società. Durante il 2000 viene emanata la "Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali". Tramite questa norma lo stato si impegna a: “assicurare alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuovere interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, prevenire, eliminare o ridurre le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione.”. L‟anno 2001 costituisce un ulteriore passo importante con il Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151 che affronta la tematica delle " disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53". Questa legge permette un sostegno alle famiglie che hanno persone diversamente abili che richiedono molto tempo per l‟assistenza. Anche questo è da considerarsi come un segno preciso di questa nuova cultura di integrazione dove al genitore viene concessa la possibilità di avere tempo per curare i progetti riabilitativi e di integrazione costruiti per il proprio figlio. Nell‟anno 2003 viene approvato il Decreto Legislativo 9 luglio 2003, n. 216, sul 43 "Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro". Questa legge sottolinea l‟importanza di eliminare qualsiasi discriminazione in ambito lavorativo. Il decreto cosi inizia: “Il presente decreto reca le disposizioni relative all'attuazione della parita' di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall'eta' e dall'orientamento sessuale, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro, disponendo le misure necessarie affinche' tali fattori non siano causa di discriminazione, in un'ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini.” Durante il 2003 tramite la Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 28 febbraio 2003 è stata indetta la "Giornata nazionale per l'abbattimento delle barriere architettoniche". Questa giornata ha lo scopo di sensibilizzare fortemente lo smaltimento di quelle situazioni che impediscono alla persona disabile di avere accesso libero ai servizi presenti nella società. L‟anno 2004 presenta un ricco percorso legislativo con molteplici norme che si susseguono e che riguardano principalmente gli aspetti economici legati alle pensioni e ai permessi per l‟assistenza. Un aspetto importante è da sottolineare con la Legge 9 gennaio 2004, n. 4 sulle "Disposizioni per favorire l'accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici." La Repubblica riconosce e tutela il diritto di ogni persona ad accedere a tutte le fonti di informazione e ai relativi servizi, ivi compresi quelli che si articolano attraverso gli strumenti informatici e telematici. 2. È tutelato e garantito, in particolare, il diritto di accesso ai servizi informatici e telematici della pubblica amministrazione e ai servizi di pubblica utilità da parte delle persone disabili, in ottemperanza al principio di uguaglianza ai sensi dell'articolo 3 della Costituzione.” L‟accesso alle tecnologie informatiche per molte persone con disabilità diventa una risorsa molto importante per comunicare, imparare. Si pensi a coloro che usano la comunicazione facilitata o comunicano tramite pc. Nel 2006 viene approvato il decreto n. 185 sul "Regolamento recante modalità e criteri per l'individuazione dell'alunno come soggetto in situazione di handicap”. Durante il 2007 viene emanato la legge 29 novembre 2007, n. 222 "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 44 159, recante interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l'equità sociale". Nel 2009 viene approvata l‟Ordinanza Corte Costituzionale 26 gennaio 2009, n. 35 “Previdenza e assistenza - Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone con handicap - Assistenza a persona con handicap in situazione di gravità, parente o affine entro il terzo grado, convivente. Come conclusione di questo breve percorso storico e legislativo, dove vengono presentate in maniera rapida alcune tra le principali norme che favoriscono il processo di integrazione, è bene sottolineare alcuni elementi fondamentali che emergono da questa analisi: 1° Grazie alle leggi si capisce che l‟integrazione culturale è un percorso in continua evoluzione e che viene messo costantemente in discussione; 2° Avviene il passaggio dalla filosofia dell‟ "assistenza" e della “protezione” della persona disabile, alla filosofia della "vita autonoma" in tutti i campi della vita sociale; 3° L‟attenzione alla persona con disabilità nella sua globalità,indipendentemente dallo stato e dal tipo di handicap in cui si trova, con un approccio innovativo che considera la persona disabile nel suo sviluppo unitario dalla nascita, alla presenza in famiglia, nella scuola, nel‟ lavoro e nel tempo libero; 4° Il passaggio dall‟obbligo dell‟impresa ad assumere il soggetto con handicap, al diritto soggettivo al lavoro della persona con disabilità. 45 Schema di sintesi del primo capitolo: INCONTRARE LA DISABILITÁ OGGI:L’ESPERIENZA DI UN EDUCATORE SOCIALE INCONTRARE LA DISABILITÁ OGGI: ESPERIENZA DI UN EDUCATORE SOCIALE EVOLUZIONE STORICA DELLA DISABILITÁ: passaggio dall’assistenzialismo all’integrazione sociale PERSONA CON DISABILITÀ L’IMPEGNO DELL’ASSOCIAZONE PAPA GIOVANNI XXIII NEL FAVORIRE L’INCLUSIONE SOCIALE: “li dove loro, li anche noi” _________________________________________ INCONTRARE LA DISABILITÀ: UN INSIEME DI NORME VERSO L’INTEGRAZIONE 46 SECONDO CAPITOLO IL CENTRO DIURNO COME POSSIBILE STRUMENTO D’INTEGRAZIONE: UN ESPERIENZA STRAORDINARIA NELL’ORDINARIO 2.1 Introduzione al capitolo: Nel precedente capitolo di questo elaborato è stato evidenziato sia il percorso storico che quello legislativo, riguardante il mio incontro con la disabilità, evidenziando un lungo processo di trasformazione che si sta attuando nel campo dell‟inclusione sociale. La mia tesi iniziale consiste nel dimostrare che in questo momento di passaggio e di organizzazione dei servizi sociali a livello nazionale, un servizio territoriale diurno può essere uno, tra i molteplici strumenti di integrazione sociale di persone con disabilità, che in molti casi rischiano di essere reclusi nelle proprie abitazioni per lunghi periodi della loro vita. Il centro diurno, diventa uno strumento importante soprattutto nei luoghi in cui le politiche sociali e politiche ancora oggi sembrano non accogliere la logica dell‟integrazione totale proposta dalla convenzione Onu, sinteticamente illustrata nel introduzione di questa tesi. Fondamentale, secondo la mia intuizione, è evidenziare che il centro diurno è una delle possibili strade dell‟integrazione, ma non è l‟unica. Su questo passaggio, infatti, bisogna fare attenzione a distinguere degli aspetti che assumono un ruolo ben preciso. Nella mia esperienza, il centro nel quale lavoro, organizzato secondo criteri ben precisi, ha assunto nel tempo, come risposta, una valenza fondamentale per coloro ai quali è difficile, dopo una elementare scolarizzazione, l‟inserimento stabile nel mondo del lavoro specializzato. Per evitare una chiusura della famiglia e del proprio figlio verso un ottica di sola assistenza viene ideata questa struttura, che ha come scopo quello di integrare le persone diversamente abili con la società circostante, affinché tutti possano godere degli stessi diritti. Sia il periodo storico, che la mentalità sociale degli anni ‟80, ci aiutano a percepire il perché sia nato un centro che accoglie persone con disabilità e cerca la loro integrazione con il mondo circostante. Da una parte il rifiuto delle famiglie 47 nell‟accettare la disabilità, dall‟altro, conseguente la chiusura dei manicomi e degli istituti, la necessità di progettare nuove strade per l‟inclusione. Cosi si afferma questa nuova idea che non è un nuovo modo di chiamare un manicomio ma un ponte tra il difficile clima famigliare,il periodo storico, e il ragazzo con le sue capacità verso l‟ambiente esterno. Di seguito, viene riportata la mia esperienza personale, legata all‟ attività lavorativa che ha come scopo quello di dimostrare ciò che fino a qui è stato scritto. Parlare di un‟ esperienza potrebbe essere riduttivo o cadere troppo nel soggettivo. Eppure reputo troppo importante affrontare questo tema così fondamentale, dando una testimonianza che vivo sulla mia pelle in ambito occupazionale, famigliare e nella vita che quotidianamente scelgo di vivere accanto alla disabilità. 2.2 L’incontro con la disabilità: una scelta radicale Dalla mia nascita, ho avuto una grande fortuna e cioè quella di incontrare già nella mia famiglia alcune persone con disabilità che, giorno dopo giorno, mi hanno insegnano a vivere. Oltre alle molteplici parole qui scritte, dentro le mie scelte quotidiane permane una forte convinzione che l‟integrazione sociale è una condizione della realtà, che deve coesistere con gli altri aspetti della civiltà. Oggi è ancora necessario battersi per l‟affermazione dell‟integrazione, anche se alcuni passi sono stati raggiunti. Come accennavo nel titolo di questo paragrafo, l‟incontro con la disabilità diventa una scelta radicale, che deve essere sempre rinnovata. All‟interno di questo settore non si può stare nell‟incertezza, ma bisogna con convinzione dedicarsi a questo delicato compito favorendo l‟inclusione. Coloro che intraprendono questa strada si trovano davanti ad un bivio che gli impone una scelta. Un prima via, purtroppo prevede un percorso che da alla persona la possibilità di cadere nell‟indifferenza: questa è la strada del “ci pensa qualcun altro”. Questa è molto pericolosa perché, oltre ad essere radicata nella società odierna, rimanda ad altre persone e altri tempi il compito dell‟integrazione sociale delle persone disabili. Ma poco distante compare un'altra strada molto pericolosa che ancora oggi trova molte persone che la percorrono. Questi individui sono coloro che scelgono la strada dell‟inclusione sociale, ma si fermano alle sole motivazioni lavorative o 48 remunerative. Mi capita molto spesso di dialogare con alcuni educatori, che affermano di occuparsi del vasto mondo della disabilità solamente per un fattore economico o lavorativo: “è un lavoro come un altro”. Quest‟ultima è la frase che spesso si sente proclamare da molte persone e che fa capire quanto sia difficile creare una situazione di vero sostegno all‟integrazione. Lavorare assieme a persone con disabilità non può essere solamente un fatto economico, ma deve diventare una quotidianità vissuta accanto ad una persona che ha bisogno di un sostegno per ritagliarsi un po‟ di libertà nella società che ancora oggi, sembra negare questa possibilità. Per questo, compare un‟ultima strada è possibile percorrere e cioè quella di una “scelta radicale”. Ogni persona che si impegna in questa rivoluzione, deve, secondo la mia idea, impegnarsi radicalmente oltrepassando la logica del guadagno e instaurando un rapporto di vera comunicazione empatica con colui che necessità di integrazione. Questa scelta deve andare oltre alle ore lavorative e investire tutta la vita della persona nelle decisioni e nella quotidianità, sempre proiettata verso una logica d‟inclusione. Non è solamente assieme alla persona con disabilità che costruisco l‟integrazione, ma essa viene formandosi anche dai miei discorsi, dalle scelte, dallo stile di vita e da come annuncio ad altri la portata innovativa che possiede questo processo. Inoltre, oltre al tempo dedicato al lavoro quotidiano in questo settore, occorre anche della gratuità. L‟integrazione sociale richiede persone che si spendano gratis, per far si che coloro, che non riescono con le proprie forze, possano trovare un ambiente accogliente che risponda alle loro esigenze. Questo, secondo la mia esperienza, è il lavoro dell‟educatore sociale, cioè di colui che faticosamente durante l‟intera giornata crea le condizioni, affinché le persone disabili possano sentirsi integrate nella loro società. Per sottolineare l‟importanza di compiere una scelta radicale prendo alcune parole dagli scritti di Don Oreste Benzi, fondatore di una delle tante cooperative nelle quali quotidianamente condivido il lavoro con altre persone, che ben descrivono il ruolo dell‟educatore. “Non si accolgono i fratelli per istruirli, guarirli, toglierli dall‟abbandono, ma perché il Signore li ama, ce li manda, e con essi ci si appartiene nel Signore e, perché si amano, si cerca di guarirli, istruirli… ma si rimane con loro anche se sono irrecuperabili”. […] (V.Lessi, 1991, p.30). 49 In queste parole si trova racchiuso il vero senso del lavoro educativo. Tramite questa tesi ho la pretesa di dimostrare che anche coloro che sembrano irrecuperabili, o che la medicina definisce come “gravi” possono essere integrati nella società e vivere con altre persone la loro vita. Nella struttura presso il quale lavoro c‟è una scritta nell‟ufficio che recita cosi: “È fondamentale promuovere tutte le azioni ed attività possibili affinché le persone diversamente abili, considerati fratelli e sorelle, siano inseriti nella società nelle sue molteplici forme organizzative, al fine di renderli sempre più soggetti attivi e protagonisti di storia”. Ogni persona deve sentirsi un attore principale in ogni azione che compie durante la sua giornata. Tutti, ognuno con la sua specificità, concorre al bene della società cercando di creare sempre più questa cultura dell‟inclusione che ancora oggi trova qualche difficoltà. Ed è per questo, che ho scelto di rispondere a questa chiamata durante la mia vita, intraprendendo sia un buon percorso di studio, sia un attività giornaliera che mi porta ad essere un promotore e “combattente” all‟interno di questa rivoluzione cominciata negli anni 60‟. Un ulteriore aspetto che mi sembra giusto inserire nella mia tesi, soprattutto a conclusione di questo primo percorso universitario, riguarda la scelta dell‟iter di studio. Certo che la mia vita avrebbe avuto come sfondo quello della vera condivisione con le persone con disabilità, ho scelto Scienze della Formazione perché credo sia la miglior strada per capire a livello teorico quali siano le condizioni per riuscire bene all‟interno dell‟integrazione. Questa scelta che si rinnova nell‟incontro con la disabilità, mi ricorda un importante compito, cioè quello di trasformare le mie abilità affinché possano diventare mezzo di inclusione per colore che ne hanno questo urgente bisogno. 2.3 Il centro diurno “il nodo”. Un esperienza piena di integrazione come risposta a tanti dubbi Durante la realizzazione di questo percorso mi sono più volte interrogato su come un centro diurno possa essere strumento di integrazione sociale. Oggi il rischio è quello di ricreare un ambiente chiuso che porta le persone ad essere sradicate dalla società, un po‟ sulla falsa riga dei precedenti manicomi o istituti. In realtà, non è proprio cosi, perché, come sperimento giornalmente, se questi luoghi vengono 50 organizzati secondo alcuni criteri ben precisi, che verranno evidenziati successivamente, allora può nascere l‟inclusione piena della persona disabile. Ritengo importante cominciare questo complicato percorso, spiegando quali siano stati i due elementi base che hanno portato alla creazione del centro diurno come servizio di risposta per persone con disabilità. Questi sono: - la situazione storica; - la condizione delle famiglia dopo la chiusura dei manicomi; Il primo percorso da compiere è quello di analizzare e ripercorrere la situazione in parte storica e in parte ideologica che riguarda il territorio nel quale nel 1986 sorge il centro diurno il “nodo”. Per dimostrare la necessità di questo strumento nel processo di inclusione, è fondamentale ripercorrere quali siano state le richieste da parte delle famiglie e quali sono, ancora oggi, le risposte dei servizi o di coloro che decidono di rispondere alla “vocazione” dell‟integrazione sociale. Per prima cosa, all‟interno del territorio della Val Marecchia, oggi provincia di Rimini, dobbiamo approfondire da vicino il contesto storico locale nel quale cominciano a muoversi i primi segni di questa inclusione. Come in tutte le situazioni, in principio l‟ambiente non si presenta così facile da gestire e da capire. Se ripercorriamo la cronologia ci troviamo in un territorio nel quale l‟idea di diversamente abile viene considerata come un problema: problema sia a livello dei costi economici per la società e per i comuni locali, sia per i servizi che devono essere erogati e infine problema per la mancanza di strutture idonee. Come rivelano tante storie di vita, siamo di fronte ad uno scenario difficile da interpretare e da comprendere, dove sono tante le famiglie che si trovano a dover fronteggiare il “problema della disabilità”. In queste ultime difficili parole, si nasconde un grosso primo pericolo: i genitori di bambini e adulti con disabilità considerano la loro situazione come una “disgrazia” o come un “destino sfortunato” e continuamente si piangono addosso, pensando di aver sbagliato qualche cosa. È evidente che in questo clima così sfiduciato e pauroso comincia e continua un atteggiamento di anti-integrazione, dove coppie di genitori credono che, con la nascita di un figlio disabile, la vita bella e gioiosa finisca e cominci quella della tristezza e dell‟angoscia. Dalle varie testimonianze, che ancora oggi emergono saltuariamente dai dialoghi con genitori ormai anziani, 51 si percepisce con chiarezza la difficoltà, soprattutto dei padri, di accettare il proprio figlio diversamente abile, spesso trattato come un bambino bisognoso di aiuto e mai come adulto capace di sfruttare le sue diverse abilità. L‟ambiente familiare preferisce nascondere la disabilità esprimendola come aspetto pericoloso, che invece ad uno sguardo più attento si rivela una vera “sorgente di risorse”. La conseguenza è catastrofica: i figli appena nati con qualche evidente segno di diversa – abilità vengono considerati come “soggetti che necessitano solamente dei bisogni passivi” (bisogni assistenziali e sanitari) e si cerca sempre di nasconderli e chiuderli per evitare che troppi occhi indiscreti possano assistere al dramma che si sta consumando all‟interno di un ambiente familiare scosso, ad esempio, dall‟arrivo di un bimbo con la sindrome di Down o paraplegico. Nelle menti di questi genitori, passano varie idee e le più comuni vengono di seguito proposte. Innanzitutto, un padre e una madre nella maggior parte dei casi vengono presi dalla paura che qualcuno possa giudicare la loro situazione. Per questo si barricano nelle loro abitazioni e addirittura cercano di evitare le visite con delle scuse banali che ben presto non portano a nulla e cominciano a rendere l‟ambiente nervoso e difficile da gestire. Un secondo aspetto è la gestione dei bisogni del figlio. È chiaro che un bimbo con disabilità ha bisogno di quelle attenzioni che sin dalla sua nascita lo sostengano affinché si possa adempiere il processo di integrazione. Spesso le famiglie non si fidano di coloro che possono essere d‟aiuto, considerando quest‟ultimi come dei soggetti che con i loro discorsi da esperti voglio entrare bruscamente nella loro vita e cambiare le cose. Così, come emerge da alcune storie, ci sono molte coppie di genitori che cercano solamente nei servizi un aiuto miracoloso con un medico che possa dire di aver trovato la medicina per far diventare il proprio figlio come quello delle altre famiglie vicine, senza alcun tipo di impedimento. La conseguenza di questo desiderio che non si avvera è duplice e ricade sempre sulla vita del ragazzo. Le conseguenze chiaramente, non sono delle migliori. Il soggetto trasforma inconsciamente e inevitabilmente le sue diverse abilità in condanne a vita; ad esempio se un individuo che ha difficoltà a camminare e muovere gli arti, non viene stimolato attraverso dei percorsi motori o con delle 52 attività ben precise, il rischio è che la sua vita sia condannata su una carrozzina, quando invece si poteva migliorare la qualità della vita della persona. Di seguito il soggetto viene chiuso fisicamente in casa e la sua vita viene come delimitata in un contenitore assistenziale, che nessuno deve andare ad aprire per non scoprire cosa di “brutto” c‟è dentro. I racconti di coloro che hanno aperto la realtà del centro “il nodo” evidenziano la ventata di novità e grande innovazione che è stata la creazione del centro diurno dove i ragazzi potevano sperimentare e respirare la liberta di poter muoversi liberamente nella società. Come appena sottolineato, ci troviamo di fronte ad un atteggiamento di paura che investe le famiglie e le mette di fronte ad una bivio: da una parte c‟è la strada faticosa e piena di insidie dell‟integrazione, mentre dall‟altra c‟è la strada piana e facile da percorrere della segregazione o dell‟assistenzialismo. Le conseguenze della non integrazione diventano pesanti. Il rischio è quello dell‟assistenzialismo domestico e ciò della semplice cura del corpo di una persona, di un assistere scandito dal ritmo di “turni di lavoro” che alternano persone che lavano e somministrano il mangiare ad una persona con disabilità cancellando la possibilità che esso possa far fruttare i propri talenti e cioè le sue diverse abilità. La non integrazione equivale a cancellare la parte di una persona. Noi stessi non possiamo stare senza amici, senza divertimento, senza far parte di un gruppo o senza poter giocare, ridere e scherzare. Allora mi chiedo come possa un ragazzino adolescente, costretto a vivere di nascosto dalla società per paura di scombinare qualche equilibrio, dimostrare al mondo che ha delle capacità e che il suo ruolo è fondamentale all‟interno della costruzione della società. Dopo aver elencato e analizzato i principali problemi che emergono dall‟ambiente familiare evidenzio quale risposta il territorio, grazie alle nuove leggi e al affermarsi della prima cultura dell‟integrazione, ha cercato di dare come sostegno e aiuto per lo sviluppo dell‟integrazione. Durante l‟anno 1986 il territorio della Valmarecchia ha sentito il bisogno e il desiderio forte di costruire una realtà come segno tangibile di questa nuova era dell‟ integrazione sociale. 53 2.4 le origini del centro All‟interno del mio scritto è fondamentale ora, ripercorrere le tappe cronologiche, che hanno generato e sviluppato questo innovativo servizio per il territorio preso in questione. Per fare questo verranno ora evidenziati alcuni passaggi storici fondamentali tratti dal lavoro di ricerca da me effettuato presso la documentazione che è contenuta all‟ interno del centro diurno il Nodo, riguardante il giornalino del paese nel quale vengono scritte anno dopo anno le varie vicende, tra cui quelle della nascita e dell‟evoluzione del centro. Il racconto cronologico ha uno scopo ben preciso: evidenziare che in 24 anni di attività, partendo da situazioni urgenti di aiuto e bisogno, si è stati costruttori di integrazione cercando di eliminare la logica dell‟assistenzialismo. Comincio questa piacevole documentazione storica: “Siamo nel 1986 e un gruppo di amici di Pietracuta (comune di San Leo), da alcuni mesi sta lavorando alla realizzazione di un progetto stupendo e di grande valore:aprire una cooperativa che promuova e gestisca iniziative economiche nel campo dell’artigianato, tendenti al recupero socio occupazionale e psico-fisico di persone portatrici di handicap.”8 Queste sono le prime parole di alcuni che hanno ideato questo luogo nel quale si potesse unire il lavoro retribuito economicamente con persone, che non riuscivano ad emergere nella realtà sociale, specie quella occupazionale per via del loro handicap. Da notare è anche il linguaggio usato da coloro che scrivono: si usa la parola handicap che a quei tempi e nei luoghi sopra descritti era una novità, visto che ancora si usava il vocabolo (soprattutto tra gli anziani), matto, pazzo. Sono sicuro che la realtà del centro diurno sia servita ad alcune generazioni per far in modo che nell‟immaginario di coloro che abitano queste terre la parola matto o handicappato fosse gradualmente abbandonata, per sostituirla oggi giorno con diversamente abile. Oggi le persone che visitano quotidianamente il centro si rendono conto che al suo interno si svolge la vita normale come in altri luoghi di lavoro e non si scandalizzano se vedono alcuni ragazzi in carrozzina che impagliano delle sedie, che restaurano dei mobili o che dipingono. Naturalmente il cammino è stato lento e faticoso. 8 Le notizie storiche sono prese dal giornalino locale, (“Bloc Notes”) che racconta momenti di vita del paese e della parrocchia. 54 Durante questi anni si comincia a scoprire l‟importanza di aprire una cooperativa con fine lavorativo e artigianale, che promuova la persona con disabilità, sfruttando a pieno le sue capacità per investirle nel mercato del lavoro. L‟impiego diventa un primo e fondamentale modo di sviluppare l‟integrazione nella persona. Tornando alla storia possiamo notare quali siano stati gli elementi cardini che hanno creato le basi per la nascita e la necessità di questo centro: “il nostro piccolo comune di San Leo (comune presso il quale si sviluppa il centro diurno il Nodo) presenta diversi casi bisognosi di un sollecito intervento atto ad avviare un loro recupero economico e psicologico”. […] (Bloc Notes n° 18, 1986) All‟interno di queste parole si cela una profonda e urgente missione da compiere. Molti giovani- adulti con disabilità chiusi nelle loro mura domestiche faticano a trovare uno sviluppo della loro identità ed è per questo che necessitano di un sostegno che li aiuti ad inserirsi nel paese e nella rete sociale. Ci si trova davanti ad un urgente recupero economico e psicologico: per prima cosa la persona deve essere accolta e ascoltata. Dopo un attento ascolto si comincia una fase di progettazione nel quale si evidenziano i bisogni dell‟individuo e si cerca di porre una risposta personalizzata che produca uno sviluppo. Il lavoro nella maggior parte dei casi diventa l‟attività per eccellenza che sviluppa e potenzia le abilità nella persona e nella quale si può costruire un rapporto di condivisione e relazione autentica. In particolare, con le attività di artigianato, si scopre l‟enorme valore pedagogico e didattico che queste hanno sulla persona. Con il passare del tempo aumentano le richieste di bisogno e nella coscienza delle persone nasce la necessità di uscire allo scoperto e incominciare a orientarsi verso un forte impegno nella realizzazione di un progetto che miri all‟integrazione piena,totale e in alcuni casi indipendente di giovani che possiedono diverse abilità. “Cosi si decide di avviare il centro diurno aperto dalla mattina al pomeriggio con il rientro dei ragazzi \ e nelle proprie famiglie alla sera”. […] (Bloc Notes n° 19, 1986) Da sempre si è creduto fondamentale che il ragazzo potesse tornare ogni pomeriggio nella propria famiglia. La proposta che viene fatta all‟interno del centro e della cooperativa è quella di una piena integrazione fatta di lavoro quotidiano, relazioni con le persone e il vivere con la famiglia. Dopo appena 4 anni di vita del centro alcune testimonianze recitano cosi: “c’è un buon coinvolgimento delle 55 famiglie che trovano nella realtà del centro diurno un sostegno e un supporto umano e affettivo che ha permesso a molte di esse di uscire da un certo isolamento, anche materiale (essendo la maggior parte sparse nella campagna). […] (Bloc Notes n° 20, 1986) Si è creato anche lo stimolo ad una reciproca conoscenza e amicizia, attraverso momenti di incontro tra famiglie dei ragazzi e famiglie del paese. Con la creazione di questa nuova realtà, che promuove la logica dell‟integrazione, comincia ad invertirsi la vecchia tendenza che vede l‟isolamento della famiglia che, al suo interno, ha un figlio con disabilità. Il centro diurno oltre allo scopo di integrazione della persona umana ha anche il compito di favorire un cambiamento di mentalità nell‟ambito familiare. Durante l‟analisi dei documenti, che tracciano la storia del centro, fa molto riflettere una scritta che compare su un numero di un giornaletto cittadino del 1986: “iniziative come il centro diurno il Nodo non dovrebbero esistere … tutti dovrebbero avere un posto nella società”!! […] (Bloc Notes n° 18, 1986) Cosi è quello che idealmente si dovrebbe praticare per una totale integrazione, (come ho già sostenuto nell‟introduzione della tesi), di ogni persona, ma quel periodo storico così difficile imponeva una chiusura da parte di molte parti della società a coloro che esprimevano della diverse abilità e il clima era difficile per capire l‟integrazione! Bisognava procedere passo dopo passo. Il motto con il quale il centro inizia il suo servizio è “non sia dato per carità ciò che è dovuto per giustizia”. […] (Bloc Notes n° 21, 1986) Comincia la storia di questa realtà che ha permesso che l‟integrazione avesse la meglio sull‟assistenzialismo e sulla paura di riconoscere le persone con disabilità come parte attiva della società. Lo stesso nome del centro, il “NODO”, indica la grande possibilità di rafforzare tramite un legame forte, un intero paese con tante persone con disabilità che si spendono per dar voce all‟integrazione. Legare significa avvicinare due realtà, ma significa soprattutto, instaurare un rapporto, condividere con i fratelli i momenti più semplici, quelli tristi, e quelli sereni. Questo “forte Nodo”, che “tiene” da 24 anni ha avuto all‟inizio questo ruolo di condivisione con coloro che erano o rinchiusi nelle proprie case e che non potevano esprimere le proprie abilità in nessun modo o che dopo un breve percorso di scolarizzazione non riuscivano a trovare un posto fisso nel mercato del 56 lavoro. Continuando nella mia analisi storica, durante questi primi tempi di vita del centro tra le persone, c‟è un forte senso di unione che serve da collante perché il seme piantato possa ben presto dare molto frutto. Tra i primi operatori c‟è la ferma convinzione che “si deve superare l’assistenza passiva per giungere alla condivisione ed alla fratellanza”. […] (Bloc Notes n° 18, 1986) Ancora oggi sono sempre più convinto che la strada dell‟assistenzialismo non sia la maniera giusta per affrontare la disabilità. Oggi, come allora, occorre accogliere le persone e accompagnarle in questo delicato passaggio dall‟esclusione all‟inclusione. Tramite un forte legame tra individui, in una logica di empatia e condivisione, si riesce a sviluppare un “fare assieme” che posso definire attivo e dinamico. Tutto rimane in movimento all‟interno di un reciproco scambio di idee e di progetti. Gli interlocutori sono molteplici, persone con disabilità e non, e assieme si impara come si vive in maniera serena e corretta. Gradualmente si elimina la logica dell‟assistenzialismo sostituendola con la strada della condivisione che diviene l‟unico percorso per un integrazione che ancora oggi è possibile. Questa prima esperienza del centro diurno il Nodo ha come obiettivo quello di poter eliminare le cause che creano l‟emarginazione con una azione non violenta, trasformandosi in voce di chi non ha voce. Il centro diurno si mostra da subito un valido strumento. Dopo appena un anno ci sono 6 accolti e la gente comincia ad interrogare le proprie coscienze iniziando ad osservare da vicino ciò che accade con fare interessato. Con questa realtà, che stravolge i cuori e le menti, un intera vallata si apre ad una profonda e radicale novità. Da questi ultimi elementi emerge un aspetto importante. Infatti secondo la mia analisi, il centro diurno comincia a diventare il cuore che pulsa all‟interno di luoghi prima aridi e non pronti ad accogliere la disabilità. Grazie a questa fondamentale e piccola realtà vengono cambiate molte delle ideologie dominanti a quel tempo. Così, ben presto, si percepisce che tra le mura di un paese e tra le strade di diversi comuni c‟è una novità, un semplice centro che ha, al suo interno, ragazzi che stupiscono per la loro bravura nel prodigarsi in diversi lavori. Tutto ciò cambia perché l‟elemento alla base di questa rivoluzione è il contatto che si instaura tra le persone del luogo e la realtà del Nodo, che porta ad una scoperta sensazionale: l‟amicizia. 57 Infine colpisce subito il clima di condivisione e amore tra coloro che quotidianamente sono presenti al centro. Tutti i componenti della struttura hanno un ruolo e uno scopo ben preciso: dimostrare che l‟integrazione piena e totale è possibile. Una testimonianza di quel‟epoca descrive ciò che ho appena scritto: “ Sono Giorgio, la mia vita è legata ad una carrozzella. In giugno sono arrivato al Nodo. Mi sono reso utile tenendo i conti delle spese, scrivendo lettere etc.. ho studiato per due anni da segretario da azienda a Rimini. La mia grande passione è scrivere poesie religiose, sportive e d’amore. Stare al Nodo mi piace, perché ci sono persone buone che mi insegnano tante cose e mi indicano che è bello fare del bene. Stando al nodo ho avuto anche la possibilità di conoscere Ivan Graziani (noto cantautore italiano morto nel 1995) che desideravo da molto tempo. Non mi sono lasciato scappare l’occasione e gli ho proposto alcune poesie per farne dei testi di canzoni. Ciao! […] (Bloc Notes n° 25, 1987) Questa testimonianza rivela che ogni persona attraverso le proprie abilità riesce a far del bene, qualunque siano i suoi problemi o le sue preoccupazione. Questo è un forte segnale di integrazione che vuole dimostrare ce non c‟è un normo o non normo dotato, ma tutti sono parte di un grande gruppo che si chiama umanità ed è per questo che ogni persona, avendo un ruolo ben preciso, deve essere messo nelle condizioni portarlo avanti con le proprie abilità. Attraverso questa esperienza possiamo veramente capire che ogni persona ha bisogno di spazio e liberta avendo necessità di mettere al servizio degli altri ciò che riesce a donare. Da un ragazzo cieco che riesce a restaurare e ad impagliare le sedie (questa attività è una delle mansioni fondamentali del nostro centro), posso solamente imparare la pazienza verso il lavoro, il rispetto dei tempi di lavorazione e il dialogo che continuamente è messo in atto per comprendersi durante il compito da svolgere. Tutto ciò non è follia ma è la realtà, una realtà che solo in pochi oggi amano perseguire e difendere. Il Nodo è sempre stato al centro del paese, in mezzo alle case. Con il tempo è cresciuta una forte sensibilità verso questa realtà che è riuscita ad integrare nella realtà quotidiana della vita, persone con varie problematiche, che prima creavano solamente paura. Vedere concretamente possibile la vita insieme basata sull‟amicizia e la condivisione, ha portato a superare timori e diffidenze ed oggi è facile incontrare i ragazzi del centro per strada, nei negozi o al bar, salutati con 58 simpatia e accettati da tutti. Ancora oggi, come allora alla base di tutta questa esperienza c‟è la ferma convinzione che bisogna essere là dove sono gli altri, nel lavoro, nella vita sociale, negli ambienti di svago e di tempo libero. Questo contribuisce a modificare una mentalità e un atteggiamento chiuso verso le persone diversamente abili. Permettere alla gente di conoscersi, di incontrarsi anche nella semplicità delle azioni quotidiane, è un modo per superare le cause che innescano meccanismi di rifiuto, di chiusura e di emarginazione nei confronti di chi consideriamo solo fastidio, problema o inciampo. Quello che si capisce ogni giorno vivendo questa esperienza, è che il problema di chi non vede o non sente o non cammina non sta nella cecità, nella sordità o nella non perfetta deambulazione, ma nel non poter fare quello che fanno tutti gli altri. Il centro diurno oggi come 24 anni fa ribadisce questa sua sete di giustizia nei confronti di chi troppo spesso viene lasciato ai margini di tutto. Nel nostro territorio la realtà del centro diurno non è assistenzialismo, ma una forma di integrazione capace di rendere ogni persona autonoma e indipendente, valorizzando gli aspetti positivi e rafforzando quelli che risultano negativi. Molti pensano oggi, che il centro diurno sia solamente un contenitore chiuso e sigillato dove le persone che hanno delle difficoltà di movimento o di comunicazione stiano tutta la giornata fermi su una sedia mentre l‟operatore chiacchiera di gossip o di sport con il collega. C‟è molta paura e chiusura verso questi ambienti ed è molto facile dare giudizi negativi non conoscendo o credendo verità fasulle. Quello che rimane nell‟immaginario collettivo è solamente un individuo con il quale non si costruisce giorno dopo giorno un pezzo di mondo, ma solamente un individuo con il quale vale la logica dell‟assistenzialismo. Oggi, chi dedica del tempo e delle ore di lavoro a questi ambienti si rende conto che ciò che conta non è solamente un bisogno fisico, ma anche la comunicazione. C‟è un aspetto veramente importante, che è alla base di tutte le società da molti secoli e cioè la parola. Parlare vuol dire comunicare, affermare la propria volontà, contrastare o appoggiare le idee di altri individui ed infine chiedere per soddisfare i bisogni proprio di ogni umano. Ogni persona è unica e irripetibile e sente costantemente il bisogno di comunicare per entrare quotidianamente a far parte del mondo affermando la sua identità e difendendo i diritti personali. Dunque, siamo davanti ad una vera e propria rivoluzione che ci impone di lasciar da parte 59 tutti i discorsi puramente basati su idee di assistenzialismo, e ci chiede di cominciar a investire su luoghi capaci di ridare alla parola il suo ruolo di grido. L‟educatore è colui che costantemente è “con chi urla”, con chi non riesce a difendere i propri diritti perché investito da politiche che cercano di tagliare corto sull‟integrazione e sullo sviluppo umano. Comunque tornando al discorso iniziale, posso ora affermare che la costruzione del centro diurno è servita per dare voce a chi non aveva parola, per ascoltare il grido di tanti ragazzi costretti dalle famiglie e dalla logica dominante a rimanere in casa e quindi a non”poter vivere”. Con il passare del tempo, e l‟invecchiare dei genitori, alcuni ragazzi diversamente abili non stimolati ad una vita autonoma e sociale hanno cominciato a denunciare questa situazione mettendo in atto dei comportamenti che appesantivano il clima familiare già problematico e cominciavano a non essere più gestibili. Credo che tutto ciò sia più che normale. Proviamo a pensare che colui che sta scrivendo, si trovi in una situazione analoga e che i suoi genitori per 20 anni l‟abbiano tenuto segregato nella propria abitazione e non stimolato ad una vita sociale. Come diventa la vita di costui ad un certo punto della sua vita? Come si sente quando vede che i suoi fratelli ridono, scherzano, giocano, ballano? Come riesce a far in modo che la sua diversa-abilità possa essere riconosciuta, integrata e sfruttata al meglio? Tante volte, tornando a casa dalla giornata, mi risuonano nella mente queste domande come una voce inesorabile che si chiede come sia possibile tutto ciò. E io ogni volta rabbrividisco a pensare le mie ore passate su una sedia o su una carrozzina a vedere passare il tempo attorno a me e io senza interagire con esso. Quanti ragazzi oggi sono spettatori passivi della loro vita perché hanno attorno a loro barriere insormontabili. Tutto quello che ho appena descritto si trasforma in un grido silenzioso. Ma qualcuno , ormai da più di 25 anni ascolta questo lamento, e assieme a tante altre realtà cerca di garantire la possibilità di proseguire nel processo di inclusione sociale. Importante è sottolineare che questa esperienza nasce come bisogno di appartenenza. All‟interno di questo luogo ogni persona si sente parte della società sviluppando la sua identità e venendo ascoltato e rispettato nei suoi più semplici 60 diritti, come il lavoro, il tempo libero, il divertimento, gli incontri nelle piazze e nei negozi … Ogni giorno si incontrano tanti volti che chiedono di poter essere accompagnati verso una piena integrazione sentendosi parte di un progetto comune e condiviso. Se si parla con molti ragazzi si percepisce che la loro storia non viene spesso capita e in molti casi viene bollata come un caso limite curabile solo con medicinali. 2.5 L’organizzazione del centro diurno il “nodo” A questo punto, dopo aver seguito l‟evoluzione storica, è necessario delineare quale sia, oggi, l‟organizzazione del centro diurno “il nodo” per capire a livello tecnico come questo processo di integrazione avviene nei diversi momenti che caratterizzano questa realtà. Il Centro Diurno Socio-Riabilitativo IL NODO ubicato in San Leo, via Umberto I, n. 4 è gestito dalla Soc. Coop. Sociale “La Fraternità” con sede legale in Rimini, Via Valverde N°10/B. Il Centro ospita soggetti adulti, dopo il compimento del 18° anno di età, portatori di handicap, non autosufficienti e/o autonomi, per minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali, o con manifestazioni di sindromi psichiatriche e/o comportamentali per i quali non è stato possibile, al momento e in alcun modo, prevedere forma di inserimento al lavoro, né normale, né protetto. In relazione alle finalità proprie della struttura, il Centro Diurno, persegue i seguenti obiettivi: 1°- offrire ospitalità diurna e assistenza qualificata ad ogni singolo utente, attraverso interventi mirati e personalizzati atti all‟acquisizione e/o al mantenimento di capacità comportamentali, cognitive e affettivo - relazionali. 2°- considerare ogni utente nella sua globalità, pur mirando a rilevarne le potenzialità specifiche e a finalizzarle in attività riabilitative atte a creare nuove forme di comunicazione e di linguaggio. 3°- sostenere e supportare le famiglie, favorendo la permanenza del portatore di handicap nel proprio nucleo familiare. 4°- perseguire l‟integrazione sociale degli utenti, rendendo attuabile la frequenza di strutture esterne a carattere sportivo e sociale, sia formali che informali. L‟ammissione degli ospiti avviene su formale richiesta dell‟ Azienda USL di residenza del soggetto al Responsabile del Centro fornendo tutte le informazioni 61 utili alla conoscenza del caso. Il Centro si impegna a fornire risposta entro 15 gg. con motivazione scritta. Una volta decisa l‟accoglienza, il Centro concorderà con il Servizio dell‟Azienda inviante la data e le modalità tecniche di inserimento. Durante la fase di richiesta di ammissione, previo accordo con il Responsabile del Centro, viene riconosciuta alla famiglia la possibilità di visitare il Centro e conoscere le norme che ne regolano il funzionamento e le attività specifiche che vi si svolgono. La presenza a tempo parziale di disabili che presentano particolari problemi, deve essere concordata con il Servizio dell‟ A.U.S.L. inviante , sulla base di adeguate motivazioni e programmata sia in vista di un inserimento a tempo pieno, sia in vista di una partecipazione a specifiche attività di Palestra o Laboratorio. La persona con disabilità viene dimessa dal Centro: in seguito alla verifica condotta dagli educatori e dal Responsabile del Centro con la famiglia e con gli Operatori del Servizio dell‟ A.U.S.L. inviante , del raggiungimento degli obiettivi previsti o della necessità di trasferimento ad altra struttura o realtà sociale più idonea. Nel caso in cui la famiglia manifesti la decisione di dimettere il familiare per motivazioni strettamente personali la stessa provvederà a darne comunicazione al Servizio dell‟ A.U.S.L. che effettuerà le valutazioni del caso in accordo con il Centro. Il centro diurno può accogliere in questa fase un numero massimo di 20 utenti, di entrambi i sessi, senza una rigida e predeterminata suddivisione dei posti per soggetti femminili e maschili. Gli utenti possono provenire da qualsiasi servizio inviante del territorio nazionale. La vita del centro diurno si struttura attraverso orari precisi: è aperto 11 mesi all' anno, con un periodo di chiusura di una settimana estiva e una invernale durante le vacanze natalizie. Il centro è aperto tutti i giorni feriali, escluso il sabato, dalle ore 8,45 alle ore 16,00. L' organizzazione della giornata è articolata nel modo seguente: 7,30-8,00: partenza giri (per il recupero dei ragazzi); 8,45-9,00: arrivo e accoglienza degli utenti; 9,00-9,15: momento di preghiera, comunicazione del programma delle attività; 9,15-12,00: inizio attività lavorative interne o esterne al centro; 12,00-13,00: pausa pranzo e riordino; 13,00-13,30: riposo, lettura di giornali, telegiornale,musica,ecc..; 62 13,30-15-30: preghiera, ripresa attività; 15,30-16,30: partenza e rientro nelle rispettive famiglie. Le attività interne ed esterne vengono proposte agli utenti in base alle loro esigenze o bisogni personali, e vengono realizzate all‟interno di piccoli gruppi insieme agli operatori. All‟ interno delle proprie attività, il Centro organizza una settimana di vacanza in località climatica, in cui educatori e utenti possono continuare, essendo presenti a tutti gli effetti, il percorso educativo e lavorativo in modo meno formale. Il centro offre ospitalità comprensiva di vitto. Il trattamento alimentare risponde alle tabelle dietetiche adeguate all‟età e alle esigenze particolari degli utenti accolti, seguendo un menù settimanale vario e completo. E‟ possibile prevedere menù personalizzati, concordandoli con il responsabile del centro sempre che non costituiscano ostacolo al processo riabilitativo del soggetto stesso. Il trasporto degli utenti dal luogo di residenza al centro può essere garantito concordandolo caso per caso con gli operatori . Il centro provvede al trasporto degli utenti alle varie attività esterne nell‟ orario di frequenza. La pronta reperibilità sanitaria in caso d‟emergenza è attuata attraverso il ricorso alle strutture del Servizio Sanitario Nazionale ubicate nello stesso territorio del centro. La somministrazione dei farmaci ad ogni singolo utente, avviene con autorizzazione scritta firmata dai famigliari con copia della ricetta medica aggiornata dal medico curante. L‟utilizzo di arredi e suppellettili personali sarà consentito solo laddove ciò abbia una valenza terapeutica evidenziata dagli educatori del centro diurno, e in ogni caso sarà consentito solo all‟interno dei momenti stabiliti dagli educatori. Il programma delle attività del laboratorio protetto finalizzate al recupero sociale psico-fisico e relazionale di ogni utente, viene svolto attraverso la seguente articolazione di interventi e proposte : a) recupero educativo dell‟utente finalizzato sia al raggiungimento del rispetto della propria persona, attraverso una adeguata dieta, la cura della propria persona ecc.., sia al rispetto delle regole generali e dell‟autonomia dell‟altro; b) attività socializzanti, periodiche ed occasionali, volte ad abituare gli utenti a stare insieme per collaborare e solidarizzare : gruppi di musica e pittura, gite mensili, campeggi, momenti ludici ricreativi organizzati, ecc…. c) attività occupazionali -lavorative, volte a recuperare: sia tutte le potenzialità di 63 sviluppo personale e di relazionalità della persona, sia il valore del lavoro quale “diritto/dovere” di ogni persona. Diritto, perché attraverso esso entriamo in relazione con gli altri uomini con una precisa identità sociale, nel fare c‟è il mio essere; dovere perché la relazione con l‟altro è sempre una relazione di responsabilità, le capacità che io possiedo sono per un bene comune. E‟ lo strumento privilegiato all‟interno delle attività riabilitative assistenziali , dove è progettato a misura d‟uomo, rispettoso del vissuto e della originalità di ognuno: a- stimola e favorisce il rapporto con la realtà (terapia della realtà); b- contribuisce alla socializzazione, aiuto e vengo aiutato; c- favorisce il recupero delle capacità specifiche di ognuno spesso, precedentemente, non adeguatamente stimolate ; d- sviluppa, attraverso il coordinamento dei gesti, un miglior equilibrio mentale, favorendo l‟autostima. Attività di animazione socio-riabilitative, rivolte al recupero attraverso forme nuove basate sulla psicomotricità, avvalendosi di forme di intervento quali l‟acquaticità, la danza-terapia, la drammatizzazione. La metodologia seguita nell‟organizzazione del progetto globale della struttura prevede il lavoro di équipe degli Educatori con il Responsabile per non frantumare gli interventi e per dare un‟organica elaborazione e progettualità delle esperienze vissute. All‟inizio di ogni anno educativo e nel momento della presa in carico delle persone, si formula un progetto di intervento globale del Laboratorio e un progetto di intervento individuale per ogni singolo utente. Il progetto deve prevedere esplicitamente l‟ipotesi, gli obiettivi da raggiungere, le risorse e gli strumenti necessari alla sua realizzazione. Inoltre si prevedono verifiche nel corso della realizzazione per modificare o integrare l‟ipotesi iniziale. Operativamente sono previsti: - alcuni incontri annuali di programmazione e verifica generale interni al Centro; - un incontro settimanale in cui organizzare e ordinare le varie attività, i compiti di ogni educatore, leggere e discutere le relazioni riguardanti le attività svolte dagli utenti; 64 - la partecipazione a giornate di formazione e aggiornamento per gli educatori organizzati sia dal “Consorzio Condividere”, sia da altri Enti o Associazioni pubbliche e private; - la compilazione di un Piano di Assistenza Individualizzato e di un Piano Educativo Individualizzato per ogni utente; - incontri periodici di verifica del Progetto con il Servizio dell‟ A.U.S.L. inviante; - periodicamente i responsabili dei Centri insieme al Presidente della Cooperativa si incontrano per coordinare le attività comuni ai singoli centri e valutare le richieste di inserimento. E‟ previsto un registro delle presenze degli utenti quotidianamente aggiornato. Tutti i documenti, le dichiarazioni, le relazioni sull‟utente vengono conservati in una cartella che accompagna la persona durante il percorso riabilitativo e lavorativo all‟interno del Centro. Tale cartella verrà aggiornata annualmente a cura del Responsabile Tecnico e degli Educatori, che conserveranno ogni successivo documento o referto relativo alla persona stessa. Il Responsabile rappresenta il punto di riferimento per tutto il personale del Centro, per la programmazione delle Attività educative annuali, per il Progetto Educativo Individualizzato, per la verifica del Progetto, sia con il gruppo degli educatori, sia con il servizio dell‟A.U.S.L. o Comune. Il rapporto numerico operatore / utente rispetta la normativa vigente. Ogni utente ha un educatore come punto di riferimento a sostegno delle proprie autonomie personali, sociali e familiari, che si integra nel lavoro di equipe. 2.6 Il processo di integrazione attraverso alcuni momenti della quotidianità Dopo aver approfondito e spiegato quale sia l‟organizzazione del centro diurno credo sia molto importante analizzare i singoli momenti della giornata, cercando di mettere in risalto quali siano gli elementi di integrazione che portano allo sviluppo della persona. Sicuramente questa parte del mio scritto è il cuore della tesi perché da la possibilità di rispondere alla domanda iniziale: il centro diurno può essere uno strumento di integrazione sociale per la persona con disabilità?. 65 Ad ogni momento della singola giornata cercherò di metter in relazione una spiegazione che risponde al quesito sopra indicato. Un prima tappa del nostro percorso riguarda il viaggio che i ragazzi percorrono dalla propria abitazione verso il centro. 1- Gli utenti ogni mattina, in accordo con alcune proposte studiate assieme ai servizi sociali, tramite i nostri mezzi raggiungono il “nodo”. Per alcuni di loro il trasporto è autonomo e consiste nel viaggiare con la rete dei pullman della zona. Un aspetto molto importante è il fatto che per alcuni ragazzi, sia stato costruito con il tempo un progetto autonomo di movimento con i mezzi pubblici. Il ragazzo in queste fasi è stato aiutato a capire l‟importanza del trasporto autonomo, del rispetto delle regole stradali e l‟attenzione del movimento lungo la strada. Inoltre insieme è stato possibile capire il senso della puntualità e la pazienza di aspettare la corriera alla fermata giusta e di riuscire a mettersi in contatto, tramite dei punti di riferimento lungo la strada, se si perdono o sbagliano il percorso di ritorno. Anche quello del tragitto per accogliere o riaccompagnare i ragazzi a casa è un momento SIGNIFICATIVO: molti RAGAZZI ,infatti, aspettano con ansia che il pulmino o la macchina della cooperativa alla mattina li passi a prendere sotto la loro abitazione. A volte piccoli ritardi possono creare un po‟ di ansia o di attesa preoccupata. Questo fattore è da leggere all‟interno di un discorso più ampio che caratterizza ogni ragazzo. Per alcuni soggetti, è difficile LA VITA IN FAMIGLIA per via di genitori anziani e poco pazienti verso loro, per l‟ambiente di vita privo di stimoli e per la mancanza di comunicazione o di gesti di affetto. Questo comporta una grande attesa verso il NODO che diventa un punto centrale della loro vita, dove possono avere relazioni forti e cariche emotivamente e soprattutto dove sanno che ci sono persone che li comprendono e li capiscono. La sola idea di saltare per qualche periodo la vita del centro o di non venire presi al mattino per vari motivi, genera dentro i ragazzi rabbia e paura di rimanere tutto un giorno a casa. La durata dell‟intero tragitto è di un ora e impiega l‟utilizzo di due operatori per due distinti percorsi nei vari comuni della valle del Marecchia. I mezzi per il trasporto sono sempre ben supervisionati e puliti. I ragazzi si occupano anche di queste mansioni perché assieme a loro c‟è la forte convinzione che la sicurezza sulla strada sia un elemento fondamentale della condivisione che quotidianamente è condizione necessaria per la vita del centro diurno il Nodo. 66 Per stare bene assieme e evitare spiacevoli inconvenienti bisogna che ognuno sia responsabile del proprio lavoro, del materiale che usa e della corretta gestione dell‟ambiente: condividere la vita assieme ai ragazzi del centro equivale anche faticare per preparare loro un ambiente sia accogliente, che sicuro. Per questo ogni istante della giornata è monitorato dagli educatori che si richiamano a vicenda se un attrezzo è stato lasciato fuori dalla sua sede di deposito o se una situazione aumenta il livello di pericolo per la persona. Ad esempio gli armadi vengono chiusi, alcuni lavori vengono fatti solo alla presenza educatore- utente o alcuni luoghi ,ad esempio la falegnameria, vengono frequentate dai ragazzi del centro solo quando certi macchinari per la lavorazione del legno sono senza corrente. Personalmente, questo rigoroso metodo di sicurezza, imposto poi anche dalle leggi in materia di sicurezza, mi aiuta molto anche nelle relazioni con gli altri che vengono ad essere più ordinate sistematiche e meno confusionarie. Dopo aver evidenziato questo primo passaggio, ricco di gesti quotidiani proviamo ora a trovare un collegamento tra il gesto che il ragazzo compie e il processo di integrazione che si sviluppa durante lo svolgimento dell‟azione. Il primo aspetto che emerge da quest‟analisi riguarda il tema del viaggio sia verso il centro che verso la propria abitazione. Assieme ad ogni ragazzo è maturato un percorso di autonomia negli spostamenti che prevede diversi fattori: - la puntualità e l‟attesa: ogni persona del centro sa che deve essere pronta per una determinata ora perché altrimenti può perdere il tram o il passaggio del pulmino del centro. Entro questo orario deve essere vestito e aver preparato le cose che gli serviranno durante la giornata. Questo passaggio comporta una sorta di grande responsabilizzazione che ogni individuo condivide, dove possibile, con i propri famigliari che hanno una funzione di sostegno o supervisione. Ogni utente ha maturato nel tempo la pazienza e anche un buon allenamento alla puntualità come elemento essenziale per la costruzione di un buon rapporto di amicizia, lavoro e condivisione. L‟essere precisi con i tempi comporta lo sviluppo di una organizzazione personale dei tempi che in molti casi è gestita autonomamente. Questo sviluppo della buona tempistica è segno di integrazione perché porta l‟individuo ad essere consapevole che con la sua puntualità permetterà a tutto il gruppo di arrivare nei tempi prestabiliti al centro per cominciare il lavoro. 67 Collegato a questo primo aspetto troviamo un altro elemento molto importante, cioè quello dello sviluppo dell‟attesa. Ogni ragazzo quotidianamente percepisce l‟attesa come tempo necessario ad allenare la propria pazienza. Aspettare puntualmente l‟arrivo della corriera o del pulmino senza perdersi in giri inutili o in altre attività dimostra una buona maturità nella capacità di attendere colui che ti viene a prendere. Come dicevo in precedenza, alcuni dei ragazzi usano le linee pubbliche per spostarsi nei vari paesi limitrofi al centro. Anche per costoro i principi sopra elencati sono gli stessi anche se chiaramente sono più evoluti e meglio sviluppati. Per loro l‟elemento fondamentale è il pullman, che quotidianamente permette loro di spostarsi in svariati tragitti. La loro buona integrazione si dimostra nello scegliere la linea giusta, nel trovarsi presso la fermata nel momento opportuno e saper aspettare con pazienza quando ci sono ritardi o scioperi. Importante è anche il dialogo che questi ragazzi intrattengono con le persone, che quotidianamente svolgono un pezzo di strada assieme con loro perché evidenzia il buon inserimento nella società. - un ulteriore aspetto da citare è quello che riguarda l‟attenzione e il rispetto per le norme riguardanti la strada. Collegato al momento dei viaggi con i mezzi del centro o quelli pubblici c‟è un insieme di azioni che richiede un buon sviluppo e capacità di acquisizione delle regole. Ad esempio capita spesso ai ragazzi di attraversare la strada o di dover camminare per qualche tratto prima di arrivare alla propria abitazione. Il segno di una profonda integrazione, risiede nel saper chiedere indicazioni se si è insicuri su una destinazione, nel domandare aiuto se compare incertezza nell‟attraversare la strada. Inoltre assieme agli utenti del centro viene chiesto un rigoroso rispetto delle norme sulla sicurezza del viaggiatore. Prima di ogni partenza ogni individuo sa qual è il comportamento che deve osservare durante il viaggio, allacciandosi le cinture e rispettando le altre norme. Anche questo è un forte segno di responsabilità verso il gruppo, perché il rispetto delle regole giova a tutti, e verso la società perché si evitano pericoli o spiacevoli inconvenienti. Settimanalmente, a turno, i ragazzi si occupano della sistemazione dei mezzi e della loro pulizia come segno di rispetto verso il materiale del centro. 68 Una volta arrivati al Nodo, continua la mattinata con un momento di preghiera che si fa nella piccola cappellina presente al centro. Quando Don Oreste Benzi, fondatore della cooperativa, ha aperto i centri ha voluto sempre sottolineare l‟aspetto della condivisione attraverso la presenta di Cristo che è colui che nei Vangeli ha voluto condividere per primo la propria esistenza con coloro che erano considerati dalla società come degli scarti. La dimensione della condivisione con chi è più debole parte dalla comunione nella preghiera. Qui viene letto il Vangelo di giorno e poi assieme si cerca di capire bene il messaggio che trasmette e di collegarlo con la giornata che si sta per cominciare. Durante questo momento di dialogo, tutti i ragazzi sono in cerchio e dialogano tra loro esprimendo liberamente le proprie opinioni sulla lettura. E‟ un‟occasione privilegiata per far emergere molti aspetti della vita di ogni ragazzo: ad esempio sono ricorrenti i temi della solitudine familiare, delle incomprensioni con i genitori, della mancanza di stimoli durante il periodo in cui non si è al centro diurno e delle difficoltà e paura di rimanere soli collegata alla morte dei genitori. A turno, l‟educatore che guida questo momento cerca di collegare gli stati d‟animo della persona agli insegnamenti del Vangelo e assieme si cerca di aiutare la persona in difficoltà, fornendo delle prospettive di vita o per la giornata. Si conclude poi il momento di preghiera con delle intenzioni spontanee che ogni ragazzo liberamente esprime. Tutto ciò viene fatto nel rispetto delle convinzioni della famiglia, e sulla libertà dell‟utente; Nella catechesi viene utilizzato un linguaggio semplice fatto di immagini, gesti e canti. Durante i tempi della liturgia i sacerdoti o gli operatori pastorali, curano, insieme agli educatori del Centro, il cammino di catechesi e la celebrazione dell‟Eucarestia. Ad esempio i giorni nei quali ricorre un compleanno o una festa in particolare, viene dedicato un momento alla celebrazione eucaristica come parte fondamentale della vita del centro. Anche su questo punto che riguarda il momento della preghiera vediamo le connessioni tra l‟azione e gli elementi di integrazione presenti al suo interno. - Il primo aspetto riguarda chiaramente il profondo momento relazione di gruppo che si instaura nella preghiera, attraverso il dialogo e il confronto. Ogni ragazzo assieme all‟ educatore è chiamato a confrontarsi sul senso che danno al vangelo di ogni giorno, esprimendo liberamente qualsiasi opinione che spesso è positiva, ma a volte anche negativa. 69 Per i ragazzi questo momento di estrema libertà assume un forte senso positivo sulla loro identità, perché sono certi che nessuno li giudica o li mette a tacere se esprimono un‟idea. Spesso nell‟ambiente familiare sono costretti a lunghi momenti di silenzio e l‟unica voce che sentono è quella della televisione, che spesso li accompagna durante il pomeriggio - sera. Così la possibilità di esprimersi diventa un profondo momento relazionale, che li porta a confrontarsi con persone diverse. Come già ampiamente evidenziato, il dialogo è un aspetto fondamentale del processo di integrazione perché da la possibilità alla persona di esprimersi in maniera libera e incondizionata. - Il momento della preghiera della mattina diventa anche uno strumento utile alla persona per far emergere alcuni problemi personali. Quasi quotidianamente alcuni ragazzi, durante il dialogo, evidenziano alcune difficoltà che spesso provengono dall‟ambiente familiare e trovano nei compagni e negli educatori un valido strumento di confronto e di sostegno. Anche questa la reputo una grande possibilità che sta alla base dei rapporti di amicizia presenti nella nostra società. Ogni individuo deve avere la possibilità di confrontarsi tra coloro con i quali vive senza aver la pura che il suo pensiero possa essere di scandalo. Nessuno può negare questo diritto. Terminata la parte di preghiera, si comincia la giornata con la divisone di lavori : è responsabile un educatore che ha esperienza del centro e sa bene come impostare e organizzare le mansioni. Ad ogni ragazzo viene affiancato un educatore che aiuterà l‟utente durante la giornata. Ogni mattina l‟inizio dei lavori diventa estremamente delicato e fondamentale. Anche qui vediamo i differenti punti che mirano all‟integrazione. - Emerge ancora una volta la dimensione comunicativa che c‟è fra il soggetto e l‟operatore: nel dialogo quotidiano viene proposto un lavoro che si decide assieme in base alle proprie forze e alla personale conoscenza di una certa mansione. Capita che in molti casi non tutti siano d‟accordo nello svolgimento della mansione, per questo il compito di tutto il gruppo è di stimolare la persona verso un senso di responsabilità, che va a favore dell‟intero centro diurno. - Il momento lavorativo è segno di libertà e di partecipazione alla vita della società. Durante la giornata vengono svolti sia lavori che servono per la vita del centro, che 70 lavori in collegamento con alcune fabbriche della zona. Durante ogni mansione il ragazzo impara un mestiere e viene istruito su come lo deve portare a termine in maniera corretta e in sicurezza dai pericoli. Da questo possiamo evidenziare il significato di insegnamento che il lavoro porta in sé, nel quale ogni ragazzo può fare esperienza e accrescere le proprie autonomie. - Attraverso la dimensione lavorativa si instaura una forte dimensione relazionale che porta l‟educatore non a fare al posto di, ma a fare assieme a … Così nel tagliare l‟erba, restaurare un mobile o realizzare un lavoro di assemblaggio l‟utente è sempre in continuo dialogo con l‟educatore, ideando, progettando e realizzando il lavoro. Quest‟ultimo non è il risultato di sole due mani, ma di quattro mani e due cuori che assieme hanno collaborato e che vicendevolmente hanno imparato qualche cosa. Terminata la suddivisione dei differenti lavori, comincia la seconda parte della giornata, dedicata al lavoro quotidiano all‟interno dei diversi laboratori. Le attività che si svolgono all‟interno dell‟laboratorio di assemblaggio prevedono la composizione di alcuni pezzi, che provengono da alcune fabbriche della zona. Questo lavoro permette di ricevere del denaro che poi viene riutilizzato per consegnare a metà mese un assegno educativo. I due maggiori lavori di assemblaggio che vegono svolti in questi ultimi anni sono: composizione di sacchetti con materiale idraulico: qui, dalla vicina fabbrica idraulica, ci vengono inviati alcuni parti che costituiscono pezzi e guarnizioni di montatura dei termosifoni. Cosi noi predisponiamo una catena di montaggio sui nostri tavoli, e riempiamo dei sacchettini con i pezzi del materiale che sono nelle scatole. I pezzi vengono poi riportati alla fabbrica. In tutto questo, i ragazzi sono i veri protagonisti: accompagnano l‟educatore a prendere il materiale, caricano e scaricano le scatole, assemblano i pezzi e si divertono ogni volta a vedere che hanno fatto ancora una volta un carico di questi pezzi e di questo ne sono sempre molto soddisfatti. Un altro lavoro riguarda l‟assemblaggio di viti: in questo lavoro i ragazzi devono unire le viti ai propri fischer e inserirli in scatoloni che poi vengono inviati nelle fabbriche e servono per la costruzione di mobili o altro mobilio per la casa. In ultimo durante la vita del Nodo, si svolgono anche delle attività di piccola falegnameria: questo settore è molto importate per il centro perché permette di 71 avere alcuni guadagni che poi vengono reinvestiti per le attività da svolgere con gli utenti. Un operatore del centro si preoccupa sempre di cercare persone che hanno dei mobili da restaurare, costruire, oppure sedie da impagliare o altro inerente con il settore, crea una sorta di preventivo e decide assieme all‟equipe come eseguire il lavoro e con quale ragazzo portarlo a termine. Nella falegnameria ci sono alcuni macchinari pericolosi, per questo ad alcune fasi della lavorazione i ragazzi non prendono parte. Anche in questo laboratorio è interessante osservare le relazioni che si instaurano tra educatori e ragazzi, che spesso riescono a dare un proprio contributo nel restauro di un armadio o nell‟impagliatura di una sedia. Ad esempio gli utenti si occupano di prendere gli attrezzi, di pulirli, oppure di realizzare piccole parti con il legno assistiti dagli operatori. Per quanto riguarda le sedie, aiutano nel tirare la corda da un capo all‟altro oppure si occupano della preparazione o del riordino di questa attività. Posso con certezza affermare che per me è stato molto bello vedere e poter sperimentare che le decisioni e la preparazione dei progetti da realizzare nel laboratorio siano un risultato di decisioni prese tra gli educatori e i ragazzi. Questo non è un aspetto secondario, anzi all‟interno di un clima di condivisione diretta, le persone devono poter sprigionare le proprie potenzialità proponendo, nei limiti del possibile, ciò che piace loro fare o che si sentono di realizzare donando il proprio contributo o aiuto. Cosi emerge la bellezza del decidere e fare insieme a… e i risultati sono sorprendenti e unici. Infine, dopo il mio arrivo, abbiamo anche creato una quarta parte del centro che si è avviata attraverso un laboratorio di giardinaggio. Qui assieme ad alcuni ragazzi abbiamo cominciato a creare, partendo da un progetto, un giardino nuovo, delle aree verdi e una siepe. Ad oggi stiamo concludendo il progetto con buoni esiti. Vediamo ora nel dettaglio quali sono i punti, che tramite il lavoro, sviluppano nella persona quelle libertà e autonomie riconducibili ad un processo di integrazione sociale . - Le attività lavorative giocano un ruolo fondamentale per ogni ragazzo. Esse servono sia come occupazione, quindi tengono impegnati i ragazzi, e sia come opportunità di mettere a frutto le proprie competenze che in altri luoghi vengono con forza tenute a tacere o minimizzate. Il centro diurno investe molto su questo 72 aspetto cercando sempre di non far mancare questo servizio e di adattarlo, il più possibile alle esigenze e possibilità di ciascuno. - Il lavoro quotidiano è momento relazionale. Spiegare un lavoro, mostrare come si fa, eseguirlo assieme ai ragazzi e gioire dei risultati sono tutte componenti molto importanti. È chiaro che le incomprensioni tra gli utenti o con gli educatori sono sempre dietro l‟angolo, ma si cerca sempre di affrontarle in maniera tranquilla. A tale proposito, succede spesso che due ragazzi possano litigare, oppure non capirsi durante il lavoro. L‟educatore sarà sempre colui che per amore del prossimo cerca di oltrepassare il momento difficile mostrando la bellezza dello stare assieme. - Il lavoro giornaliero è un importante strumento di integrazione perché mette la persona a contatto con la realtà esterna, con il mondo del lavoro e con l‟ambiente economico. Ogni ragazzo sviluppa dentro di sé l‟importante idea che il lavoro è fondamentale per la sua vita ed è per questo che, ogni giorno, deve impegnarsi. Il suo prodotto sarà poi inserito sul mercato e altri lo potranno comperare. - Inoltre i ragazzi hanno la possibilità di frequentare e visitare le fabbriche con le quali collaboriamo, avendo la possibilità di osservare da vicino che cosa avviene e come viene elaborato ciò che ogni utente produce. Mensilmente, a turno, ogni individuo assieme all‟educatore si reca nella fabbrica a ricevere o consegnare il lavoro. - Ogni giorno è molto bello vedere i ragazzi che tornano stanchi, ma soddisfatti nelle loro abitazioni, perché sanno che hanno fatto un buon lavoro e che hanno guadagnato qualche soldo che poi permetterà loro di comperarsi degli oggetti o investirli in cose piacevoli. Capita molto spesso che alcuni utenti del centro raccontino nelle proprie famiglie le varie attività, che hanno intrapreso con grande forza durante il giorno, evidenziando la loro contentezza. - I lavori vengono sempre progettati tenendo conto di questo processo di integrazione che deve essere sempre e costantemente favorito nella persona. Ad esempio molti ragazzi si muovono liberamente nel paese per commissioni nei vari negozi con la responsabilità di quello che comporta questo servizio. Penso a coloro che provengono da un ambiente familiare chiuso e timoroso dove questa possibilità di apertura è nulla. Sono sicuro che questa grande possibilità di relazionarsi con la società circostante sia un opportunità veramente grande 73 soprattutto per coloro che hanno diversi handicap e che rischiano l‟istituzionalizzazione. Lavorare significa esprimersi. Ogni utente, quotidianamente, può dimostrare il suo valore anche attraverso una piccola responsabilità quale spazzare, avvitare un bullone o lavare una macchina. Tutto deve sempre mirare verso la logica della condivisione, dove ognuno ha un preciso ruolo e delle responsabilità precise. Ad ogni modo proseguiamo nel nostro percorso evidenziando ulteriori momenti nei quali viene sviluppato questo processo di integrazione sociale. Durante il periodo invernale sono previste delle attività motorie di palestra e piscina. - Le attività motorie, da sempre, costituiscono un momento per eccellenza nel quale si uniscono molteplici fattori dal beneficio fisico al momento ludico e, nel caso di un centro diurno, lo sport diventa occasione di riabilitazione. - Queste attività hanno come scopo un confronto diretto tra ragazzo e struttura pubblica. Settimanalmente, ogni utente si trova a dover fronteggiare una situazione particolare dove incontra sempre volti diversi, comunica con persone sconosciute e deve essere attento nell‟uso dello spogliatoio, che diventa un luogo di grande responsabilità. - L‟ambiente della piscina e della palestra è comunicazione. Spesso i ragazzi dialogano con le persone presenti di svariati temi, che vanno dal calcio ai problemi della vita comune. In quel momento si percepisce un ulteriore elemento che apre la strada all‟integrazione. L‟utente si sente libero di relazionarsi con chi gli sta davanti sapendo che deve rispettare le regole della comunicazione dando spazio di replica e non sovrastando l‟interlocutore. Un altro aspetto importante è quello che riguarda la comunicazione durante l‟attività motoria, che diviene l‟elemento per la collaborazione, il gioco di squadra e lo strumento per raggiungere gli obiettivi proposti dall‟insegnante. - Lo sport si trasforma in sostegno e sviluppo fisico. Come sappiamo, un giovane adulto che pratica sport trae del beneficio fisico sulla propria salute. Assieme ai ragazzi si ritiene fondamentale praticare uno sport per avere un mantenimento o un corretto sviluppo corporeo. Per questo l‟esercizio fisico sviluppa le varie parti del corpo e serve come mantenimento della buona salute fisica. 74 - Il momento ginnico diventa occasione di esperienza. Attraverso un‟ attenta organizzazione delle attività ogni persona apprende le regole da rispettare, la corretta posizione da mantenere e la giusta ordinazione motoria per portare a termine il proprio compito. - Ogni anno come segno di integrazione, vengono organizzati dei tornei di calcetto, di basket o atletica che coinvolgono sia i ragazzi del centro, che persone esterne. Si tratta di momenti speciali durante i quali i ragazzi socializzano e si integrano con altre persone scoprendo i loro limiti e cercando di superarli rafforzando quindi anche il carattere e la loro personalità. Un ulteriore aspetto del nostro centro riguarda le uscite che mensilmente si svolgono presso diversi luoghi. Queste gite hanno un valore sia didattico che ludico. Ad esempio nel periodo estivo ci rechiamo in località turistiche come parchi e laghi per un po‟ di riposo e relax. Durante l‟estate viene svolto una vacanza di una settimana presso un albergo. Anche questi momenti di integrazione totale hanno diversi scopi. Vediamo quali sono - Come per ogni persona, anche per i ragazzi è necessario alternare il lavoro e la vita del centro ad un periodo di ferie nel quale viene data la possibilità di riposarsi e non pensare alle fatiche quotidiane. Il riposo è un aspetto benefico sia sulla persona che sull‟intero gruppo dei ragazzi. - Le gite e le vacanze sono momenti nei quali si sperimenta la responsabilità di essere lontani dall‟ambiente del centro diurno e dalla famiglia. Questo aspetto è importante e riveste un ruolo cardine nel processo di indipendenza di ogni singolo ragazzo. Ognuno, attraverso la propria esperienza, viene chiamato ad essere capace di svolgere le sue autonomie di base cercando di potenziarle e svilupparle. - Le vacanze e le uscite sono momento di grande dialogo e condivisione. Qui ogni ragazzo ed educatore sperimenta la gioia del trascorrere del tempo assieme visitando una città, pescando al lago, oppure mangiando al ristorante. Questo dialogo fraterno poi si trasmette in automatico verso le persone che si incontrano instaurando nuovi rapporti di amicizia. Anche il rapporto con la famiglia di ogni utente è fondamentale e sta alla base di molti progetti e di alcune iniziative che ogni anno vengono proposte. Ad esempio molte famiglie faticano ad accettare, se pur dopo tanti anni, le difficoltà dei figli. La non accettazione della disabilità porta il tessuto familiare in una sorte di crisi o 75 depressione costante, che nel corso degli anni, se non è sostenuta o convertita, aumenta il suo livello e può portare a conseguenze gravi. Non a caso alcuni genitori decidono di inserire i propri figli in strutture residenziali cosi ne sentono meno il peso. Anche a me capita spesso di riaccompagnare a casa i ragazzi e di assistere a ripetuti sfoghi di madri o padri che sono allo stremo delle forze e come dicono loro stessi “<< non riusciamo più a gestirlo\a, non ne possiamo più; più si va avanti più è peggio”>>. Questi sono i risultati di un grave errore che è stato commesso sin dall‟inizio della nascita di queste persone e cioè il non aver sostenuto e lavorato assieme ai genitori per capire quali fossero le debolezze da sostenere nel ragazzo e quali i punti di forza sul quale scommettere e creare un percorso di sviluppo psicofisico. Cosi emerge un identikit di genitore sfiduciato, affranto, poco disponibile al dialogo e fuggitivo nei confronti dei servizi sociali che seguono e sostengono il figlio. Ad esempio con gli assistenti sociali alcune famiglie non dialogano da tanto tempo perché litigi o incomprensioni hanno deciso di tagliare i ponti con queste figure fondamentali, e preferiscono “fare da soli”, con le proprie gambe, che ormai stanno cominciando ad avere troppa stanchezza per andare avanti. Evidenziamo ora gli aspetti fondamentali all‟interno di questo punto. - Come abbiamo evidenziato nel percorso storico la famiglia si trova ad essere sfiduciata e timorosa è ha sempre più bisogno di persone capaci di dare sicurezza e serenità. Questo è uno dei compiti del centro diurno che con i suoi educatori deve creare un clima di dialogo tra la famiglia, il servizio e il proprio figlio. Questo dialogo serve per cominciare questo rapporto che porterà all‟interno del processo di integrazione. - Con l‟instaurarsi di un rapporto di fiducia la famiglia diventa disponibile a collaborare. Sia afferma cosi l‟inizio della progettazione come punto di inizio e di incontro tra l‟individuo e la società. - Il centro diurno diventa il primo strumento per coloro che non riescono, per vari motivi, ad essere inseriti nel mondo del lavoro specializzato e si trovano come unica alternativa quello dell‟istituzionalizzazione o della chiusura nei vecchi manicomi. - Il dialogo con la famiglia diventa fondamentale come sostegno la dove ci sono coppie che stanno invecchiando e cominciano a faticare fisicamente. 76 Concludendo questo paragrafo posso dire con certezza che durante la quotidianità, nel nostro piccolo, miriamo sempre alla creazione dell‟ integrazione cercando sempre di migliorarci e di tendere ai principi che vengono descritti nella convenzione Onu che ho descritto nell‟introduzione. Non sempre è facile perseguire questo obbiettivo a causa di politiche (sia locali che nazionali) a sfavore dell‟integrazione e a causa di una logica che ancora prevede l‟assistenza sanitaria e la sola cura per le persone con disabilità. Schema riassuntivo del secondo capitolo IL CENTRO DIURNO COME POSSIBILE STRUMENTO D’INTEGRAZIONE PERSONA con DISABILITÁ La persona con disabilità viene inserita all’interno del centro diurno dove trova un luogo di integrazione. ASSOCIAZIONE PAPA GIOVANNI XXIII Attraverso la condivisione viene costruito un vero un luogo nel quale la persona non è sola e dove l’elemento portante è il rapporto di dialogo che ha come scopo quello di avviare l’integrazione sociale SERVIZI SOCIALI Inserimento nel CENTRO DIURNO “IL NODO:” esperienza quotidiana di integrazione della persona disabile. Vengono proposte attività lavorative ed educative che hanno lo scopo di aiutare la persona nella partecipazione alla vita sociale. Viene garantito un solido rapporto con i servizi sociali di modo che la persona non sia sola, ma sia accompagnata nei suoi bisogni medici e di accesso ai servizi. Inoltre i servizi sociali collaborano al progetto educativo. 77 CAPITOLO TERZO “IL DOPO DI NOI”: L’URGENZA DI UNA PROGETTAZIONE 3.1 Introduzione In quest‟ultima parte del mio elaborato vorrei cercare di delineare un aspetto che ancora oggi è inserito all‟interno di un ampio dibattito nella nostra cooperativa e che necessità di una urgente realizzazione. Precisamente mi riferisco al progetto “dopo di noi”. Nella mia esperienza di educatore all‟interno di un centro dell‟associazione Papa Giovanni XXIII, interrogarsi su questo tema assume un profondo valore umano perché molto spesso ci sono persone con disabilità che ad un certo punto della loro vita si trovano sole e rischiano di essere inserite in ambienti residenziali, come i ricoveri, dove il lavoro di integrazione viene sostituito da una logica assistenziale. Se la mia tesi di fondo è dimostrare che il centro diurno può fornire una risposta utile e interessante per il lavoro con la disabilità, allora come educatore devo, sostenuto da principi ben precisi, progettare una possibilità di inclusione che duri tutta la vita del ragazzo, anche quando la persona, a causa della morte o malattia dei genitori e della non disponibilità da parte dei famigliari ad una accoglienza, rischia l‟inserimento in strutture di ricovero. “Dopo di noi” è la domanda che di frequente si sente chiedere da parte dei genitori e dei famigliari a noi educatori. Tramite un lavoro di progettazione da tempo avviato che mi coinvolge ho ritenuto bello descrivere questo progetto evidenziandolo come una parte sostanziale dell‟integrazione del quale ho ampiamente parlato fino ad ora. Tramite questo capitolo cercherò di analizzare questi aspetti evidenziando un percorso che da tempo si sta progettando sia all‟interno dell‟associazione ma anche esternamente tra coloro che si impegnano per l‟integrazione sociale. L‟idea che di seguito propongono è una tra le tante possibilità che stanno emergendo dal dibattito che si crea tra i diversi centri della cooperativa e da coloro che sono fortemente interessati a trovare una soluzione per un problema che comincia a presentarsi con forza. 78 3.2 “Un esperienza reale come punto di partenza” Credo che il miglior modo per spiegare il progetto del “dopo di noi” sia partire dall‟analisi di una tra le diverse esperienze reali, che ha portato alcuni educatori del centro “il nodo” e della cooperativa ad interrogarsi su questo tema. Di seguito descrivo la storia di M. (mantengo l‟anonimato per rispetto della persona e delle regole sulla privacy) che tramite il suo vissuto evidenzia bene quale sia l‟urgenza della progettazione di un “dopo di noi”. M. nasce nel 1960 in un paese dell‟entroterra marchigiano ed alla nascita viene evidenziata una tetraplegia spastica con insufficienza mentale di grado medio-lieve (oligofrenia), presentando frequenti crisi epilettiche. Dopo la licenza media inferiore viene accolta presso il centro diurno il Nodo durante l‟anno 1995 dopo la morte della madre. Questo inserimento serve come sostegno familiare a causa dell‟avanzare dell‟età del padre e della difficoltà di coinvolgimento dei parenti e fratelli di M. Oggi il padre, per problemi legati all‟età e alla propria salute, non riesce più a seguire M. come prima o come vorrebbe. Inoltre egli non accetta neppure progetti di aiuto che l‟equipe degli educatori del centro ha più volte proposto per aiutarlo con la presenza di una collaboratrice familiare, con il trasferimento presso un abitazione senza barriere architettoniche, o almeno, rendendo l‟attuale più agibile attraverso modifiche strutturali. In quest‟ultimo periodo la situazione si è aggravata e durante un incontro tra l‟equipe del centro e l‟assistente sociale, l‟unica possibilità che il padre ha proposto è quella di un inserimento di M. presso la Casa Protetta per anziani in modo da averla vicina e poterla andare a trovare quando possibile. Sostenuti dai principi dell‟associazione Papa Giovanni XXIII, di accogliere la persona con disabilità e favorire la sua piena integrazione, noi operatori ci siamo confrontati su questa ipotesi e, in generale, non riteniamo che l‟inserimento in RSA di M, sia una soluzione adeguata. Dopo un ampio e lungo dibattito la proposta che ci sembrava maggiormente adeguata alla sua situazione era quella di un inserimento presso una casa famiglia dell‟associazione, residente nei dintorni del centro, in modo di mantenerla sempre 79 all‟interno del suo contesto ambientale e di continuare la frequenza al “Nodo”. La richiesta è quella di valutare la possibilità di un inserimento di M. in una delle Case Famiglie, cosicché la persona possa godere di quelle attenzioni e di quelle opportunità che finora, non per cattiveria, ma per una certa mentalità paterna, le sono state precluse. Ad oggi, si sta ancora lavorando per permettere questa strada, anche se le difficoltà, soprattutto dall‟ambiente famigliare non mancano. Da questa esperienza reale prendo ora in considerazione alcuni elementi che servono per la costruzione del progetto del “dopo di noi”. Innanzitutto, l‟aspetto che viene maggiormente sottolineato è l‟urgente bisogno di trovare una risposta alla domanda che proviene maggiormente da un ambiente dove la situazione familiare non è di facile gestione. Il padre, con l‟avanzare dell‟età, non riesce più a garantire alla persona la dovuta assistenza e i fratelli non vogliono prendersi in carico M., perché occupati con le famiglie e il lavoro. L‟unica strada che si prospetta è quella di un inserimento in struttura protetta per gli anziani. D‟altra parte la giovane età di M. non è compatibile con gli ospiti del ricovero, che avendo quasi tutti un età molto avanzata, non permetterebbero alla ragazza la comunicazione e l‟instaurarsi di rapporti di amicizia. Cosi il nostro centro diurno, sulla base dei principi dell‟Associazione Papa Giovanni XXIII di non permettere alla persona disabile di essere alloggiata nei ricoveri o negli istituti, ha posto un ulteriore alternativa a M. cercando una casa famiglia disposta ad accoglierla. Da tempo l‟intera associazione, come già detto, sta studiando la maniera di accogliere e continuare l‟integrazione di persone con disabilità che a causa dell‟invecchiamento dei genitori rischiano di essere inserite in strutture protette. Ad oggi diverse sono le ipotesi per l‟attuazione del “dopo di noi”. All‟interno della mia tesi, tra le diverse ipotesi, riporto l‟idea che vede come protagonista la “casa famiglia” . 3.3 La casa famiglia il luogo del “dove siamo noi, lì anche loro” Prima di descrivere il progetto vero e proprio del “dopo di noi” è necessario descrivere in maniera rapida, ma esaustiva quali siano gli aspetti fondanti dell‟ambiente casa-famiglia per comprendere al meglio l‟ambiente nel quale si da 80 vita alla nostra primaria progettazione. La casa famiglia è lo strumento necessario per attuare il progetto. La prima casa famiglia viene aperta il 3 luglio del 1973. Al suo interno si vive la condivisione diretta. Secondo l‟intuizione di Don Oreste Benzi la casa famiglia è una vera famiglia sostitutiva dove una figura materna e paterna accolgono nell‟amore i figli e tutte le persone che vengono loro affidate. Le figure genitoriali possono essere rappresentate da una coppia di sposi che, accanto ai propri figli naturali, siano disponibili ad accogliere orfani non adottabili, bambini abbandonati, adolescenti in difficoltà, persone con disabilità, emarginati, persone rifiutate. Il criterio per decidere quanti accogliere è dunque la paternità responsabile. All‟interno della casa famiglia si vive come in una famiglia normale: c‟è chi lavora, studia, chi sta vicino alla mamma, chi non fa niente perché non può. “La cosa impressionante è che la casa famiglia concepita e vissuta in questo modo diventa un reale ambiente terapeutico: le persone accolte acquistano senso di sicurezza e fiducia in sé stesse, sono facilitate a d inserirsi nella realtà circostante” […] (V.Lessi, 1991, p.32). Vediamo ora di descrivere i punti principali della struttura casa-famiglia che sono utili per la comprensione del progetto del “dopo di noi”. La Casa Famiglia dell‟Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII è una comunità residenziale organizzata e gestita sul modello della famiglia naturale. Accoglie persone che necessitano, in via temporanea e/o definitiva, di un ambiente che assicuri: - sviluppo e maturazione affettiva e relazionale; - educazione personale e sociale; - assistenza e cura; - promozione umana, psicologica e spirituale; - tutela ed integrazione o reinserimento sociale. Dal punto di vista strutturale, la casa famiglia risponde ai requisiti previsti per le civili abitazioni ed in ordine alla sua organizzazione assicura alle persone prese in carico: ospitalità, organizzazione della vita quotidiana familiare in ragione dei bisogni e delle attività individuali e di gruppo, cura ed assistenza, partecipazione sociale, civile e religiosa, promozione ed educazione umana, sociale e spirituale. La Casa Famiglia offre un contesto di vita caratterizzato da una disponibilità affettiva e da un intenzionalità educativa, esercitate da una coppia di adulti 81 adeguatamente formati dall‟Ente Gestore, che svolgono il ruolo di figure di riferimento attraverso relazioni individualizzate, totalmente disponibili, stabili e continuative con le persone accolte. Si propone come ambiente rappresentativo delle funzioni familiari e/o parentali, coinvolgendo per quanto possibile la famiglia o il contesto d‟origine della persona accolta, nella relazione ed attività educativa rivolte allo sviluppo evolutivo del soggetto ed alla rimozione delle condizioni che hanno richiesto l‟inserimento nella casa famiglia. La relazione stabile e continuativa offerta dalle figure di riferimento è il presupposto su cui si fonda l‟intervento educativo, attribuendogli legittimità ed efficacia al fine di favorire il progressivo cambiamento della persona in termini evolutivi. La proposta di un ambito di convivenza ad alto contenuto di relazionalità, intenzionalmente orientata alla condivisione di tempi e spazi quotidiani, in cui i rapporti sono qualificati in termini di appartenenza, solidarietà e collaborazione come nella famiglia naturale, garantisce alla persona in stato di disagio relazionale di vivere in un ambiente in cui sono rappresentate le funzioni genitoriali e/o parentali senza sostituire quelle naturali proprie. La finalità della casa famiglia infatti è di rimuovere, se possibile, le condizioni che hanno determinato l‟inserimento della persona, privilegiando un intervento orientato al reinserimento presso il proprio nucleo o contesto di origine. Solo a fronte di comprovate cause ostative, l‟attività educativa si orienterà ad accompagnare lo sviluppo delle autonomie personali e sociali della persona inserita, fino al raggiungimento del proprio progetto di vita autonoma o di una reale integrazione sociale, congruente alle caratteristiche e condizioni del soggetto, permanendo in forma più definitiva nella casa famiglia. Le competenze espresse dalle figure di riferimento, si collocano dunque su due piani complementari: - L‟essere e il saper essere; il fare e il saper fare, che si integrano nella quotidianità e tendono a realizzare con le persone accolte, la trama di un rapporto qualificato sul piano affettivo - relazionale ed educativo. Tali competenze si possono così sintetizzare: - competenze pedagogiche (capacità di attivare e gestire una relazione consapevole, intenzionale,definita nei ruoli e nelle funzioni e che sappia utilizzare gli strumenti propri del lavoro educativo: osservazioni, progetti, verifiche, ...) 82 - competenze psicologiche (capacità di identificazione ed interpretazione delle situazioni contingenti al fine di far emergere i nodi problematici e le risorse attivabili) - competenze riabilitative (potenziare ed attivare le risorse del soggetto all‟interno delle condizioni o del contesto in cui si trova) - competenze animative (stimolare e sviluppare l‟espressione e la partecipazione dei soggetti interessati all‟intervento educativo) - competenze culturali e sociali (capacità di programmare ed organizzare attività attraverso gli stimoli e le risorse che l‟ambiente offre, capacità di interagire con il quadro di riferimento istituzionale, legislativo e/o politico). - competenze relazionali (capacità di entrare in relazione con le persone accolte e di stimolare in essi una trama di relazioni intra ed extra casa famiglia) Le figure di riferimento della casa famiglia per l‟esercizio delle loro funzioni, possono avvalersi anche di collaboratori e/o consulenti, professionali o volontari adeguatamente formati, che collaborino o integrino il loro lavoro, senza sostituirsi al loro ruolo e alla conseguente responsabilità e funzione educativa. Questo aspetto, come vedremo, è molto importante per il progetto del “dopo di noi”. La casa famiglia è un servizio senza limitazioni di orari o periodi di chiusura in riferimento alle persone che vi sono accolte, in ragione del loro bisogno e del progetto realizzato in accordo con il Servizio Sociale o Ente Istituzionale inviante. L‟accoglienza include ogni prestazione di natura assistenziale, tutelare e di mantenimento proprie della famiglia naturale. Alle persone ospitate viene richiesto il rispetto delle comuni regole di convivenza comunitaria: - rispetto delle persone e degli ambienti -osservanza degli orari comuni - osservanza dell‟igiene personale e degli ambienti - divieto d‟uso di sostanze stupefacenti o psicotrope - divieto di violenza fisica e/o rapporti sessuali fra persone ospitate - gestione comunicata e partecipata delle proprie attività personali in relazione al grado di maturità ed autonomia possibili Nell‟ambito dell‟organizzazione della casa famiglia sono previste inoltre attività riabilitative, ludico-sportive e ricreative, da effettuarsi in apposite strutture del 83 territorio e dove sia necessario con l‟assistenza delle figure di riferimento della casa famiglia o di collaboratori volontari, sempre nell‟ambito del progetto educativo individualizzato. Per l‟aspetto sanitario, la casa famiglia si avvale dei servizi territoriali sia di base che Specialistici,offerti dal Servizio Sanitario Nazionale e Regionale, in rapporto alle specifiche necessità di ogni persona ospitata. Le figure responsabili della casa famiglia utilizzano il metodo del lavoro per progetti, al fine di rispondere alle esigenze di concretezza, trasparenza e verifica del lavoro educativo svolto con e per le persone prese in carico. La progettazione si riferisce, sia all‟intervento complessivo della struttura attraverso la definizione delle finalità e obiettivi generali del servizio in relazione all‟insieme delle prestazioni offerte, sia in relazione al progetto individuale d‟ingresso elaborato in collaborazione con l‟Ente inviante e i successivi PEI che definiscono l‟intervento mirato sul soggetto. In ogni caso la progettazione è espressa in un documento che ne definisce i presupposti, gli obiettivi, gli strumenti e mezzi a disposizione, i vincoli e tempi in cui si intende realizzare l‟intervento e la necessaria modalità di verifica attraverso indicatori predefiniti. Nell‟elaborazione del PEI vengono coinvolti attivamente la persona oggetto dell‟intervento, le famiglie di origine e tutti gli operatori sociali che, a diverso titolo, possono contribuire a realizzare una sinergia di risorse che qualifichino il lavoro e lo supportino anche al di fuori dei tempi ed attività proprie della casa famiglia. La vita comunitaria riproduce il modello relazionale della famiglia. Obiettivi e metodi educativi sono incentrati sul rispetto dei diritti dell'utente, sulla promozione dello sviluppo della personalità e della socializzazione, su un rapporto educativo individualizzato e attento ai bisogni cognitivi, affettivi e religiosi del soggetto. E' strutturata con orari precisi e si svolge secondo una organizzazione fortemente esigente, con suddivisione di compiti e responsabilità, attraverso momenti di confronto e di proposte educative, formative, culturali e psicoterapeutiche. Alla base della vita proposta nella Casa Famiglia sottostanno valori molto semplici ma fondamentali quali l'amicizia, la sincerità, il rispetto reciproco, l‟amore per la vita, la responsabilità, il senso di famiglia, la lotta per ciò che è giusto, il sacrificio, il superamento degli ostacoli, la condivisione, la gioia, il rispetto della natura, la 84 compartecipazione ai problemi della società, il senso del mistero e il senso religioso, l'amore per i poveri. Non è possibile fornire una schematizzazione circa gli orari e l‟organizzazione della giornata, perché troppo variabile. Infatti, a secondo dei bisogni dei singoli ospiti e del bisogno comune di relazionarsi in modo familiare/parentale fra tutti i componenti della ambiente familiare, viene giorno per giorno stabilita la programmazione della giornata, cercando, quando questo è possibile, di coinvolgere ogni componente. Sono comunque ritenuti momenti indispensabili per il loro alto valore terapeutico quello dei pasti (almeno uno) e quello del confronto sull'andamento della vita familiare. Tale momento, a cadenza regolare programmata o secondo il bisogno, diventa ambito di confronto, per quanto è compatibile con le capacità cognitive di ciascuno, sull'andamento della vita quotidiana e sulla relazione che si è instaurata fra tutti i componenti della casa famiglia. Ogni soggetto-utente è chiamato a partecipare ed essere protagonista attivo nella vita della casa famiglia. Le figure di riferimento genitoriale assegnano ad ognuno ruoli, compiti e responsabilità in funzione della loro crescita, maturazione e autonomia responsabile in un crescendo che attesti l'evoluzione positiva del cammino terapeutico. Nel caso che gli accolti della Casa Famiglia fossero minorenni o portatori d'handicap psichici, le regole di vita comunitaria sopra elencate saranno modulate in funzione della capacità del soggetto di riconoscerle come tali e di essere in grado di comprenderle e conseguentemente in grado di farle proprie. La casa famiglia è inserita nel contesto sociale territoriale e persegue una prassi di effettiva partecipazione ed integrazione con tutte le realtà istituzionali e non, che vi sono presenti. Collabora a livello di animazione e promozione con tutte le realtà civili e religiose, in merito ad attività o iniziative di natura educativa, sociale ed ecclesiale, secondo le finalità e modalità proprie dell‟Ente gestore che rappresenta. L'Associazione persegue la piena collaborazione, nella distinzione dei ruoli specifici, con tutti gli Enti Pubblici preposti all'assistenza e sicurezza sociale. La casa famiglia. si colloca come presidio socio assistenziale che concorre alla realizzazione del sistema di risposte che lo Stato offre alle fasce deboli della propria popolazione. Ente Ecclesiastico di diritto pontificio civilmente riconosciuto con D.P.R., la Comunità ha personalità giuridica e intrattiene rapporti di convenzione con Comuni, USSL, Province e Regioni. 85 Per scelta, la Comunità non si sostituisce agli Enti Pubblici, ma si pone come stimolo e confronto dialettico per una sempre migliore qualità dei servizi resi al cittadino. Per questo non ha servizi specialistici propri interni, ma si avvale delle strutture e dei presidi Socio-Sanitari presenti sul territorio e previsti dallo Stato. Per gli aspetti sanitari ci si riferisce al Sevizio Sanitario Nazionale, secondo le modalità proprie per ciascun soggetto accolto, mentre per gli aspetti sociali si fa riferimento ai servizi erogati dagli Enti Locali. I rapporti terapeutici e relazionali vengono tenuti dai responsabili della casa famiglia direttamente con gli operatori pubblici competenti, disponibili ad un continuo confronto e interscambio per meglio rispondere alle esigenze del soggetto accolto. Nella Casa Famiglia, i membri della Comunità Papa Giovanni XXIII scelgono, in nome di una precisa opzione di fede Cattolica incarnata, di condividere direttamente la vita con le persone abbandonate, povere, emarginate, di cui vengono a conoscenza. In questa logica di scelta di vita totale essi si aprono all'accoglienza di quanti chiedono e sono nel bisogno. Ponendosi come figure di riferimento maschile e femminile svolgono il ruolo genitoriale e instaurano rapporti sul tipo genitori - figli. Non diventa tanto titolo qualificante l'attestazione giuridica di una professione in campo educativo, ma la scelta matura e responsabile, vagliata attentamente dall'Associazione in un iter formativo interno, di svolgere il ruolo genitoriale in modo affettivo, gratuito, continuativo, totalmente disponibile e personalizzato. Questa è la prima e vera professionalità, a cui si aggiungono tutte le altre competenze professionali specifiche. L'esperienza ormai ventennale di Casa Famiglia evidenzia come anche la sola presenza della figura materna possa svolgere appropriatamente il ruolo educativo genitoriale ed essere compitamente una struttura di tipo familiare. Anche in questo il modello diventa la famiglia naturale che vive in una situazione che potremmo chiamare di "vedovanza", dove il coniuge superstite riesce con i dovuti accorgimenti a non privare i figli del ruolo che avrebbe dovuto svolgere il partner, garantendo loro una crescita ugualmente armonica. 86 3.4 Il progetto:“dopo di Noi” Comincia ora un lungo paragrafo dove cercherò di rendere concreto il progetto che è in fase di elaborazione e nel quale sia io che altri colleghi, da tempo ci stiamo interessando. Il “dopo di noi” nasce come ulteriore risposta a quella del centro diurno e diviene un radicale elemento che permette di continuare l‟integrazione della persona con disabilità. Lo scopo essenziale di questa nuova idea è quello di consentire l‟inclusione nella società attraverso il permanere dell‟individuo presso una famiglia, che sia pronta ad accoglierla. Questo bisogno nasce per coloro che a causa della morte dei genitori e della difficoltà di accoglienza da parte dei parenti stretti, rischiano di trovarsi di fronte all‟ipotesi di entrare a far parte di un istituto o di un ricovero dove vige la logica dell‟assistenzialismo. L‟ambiente che penso equilibrato e pronto per attuare questo progetto è l‟ambiente della casa famiglia, costruita secondo l‟intuizione di Don Oreste Benzi, cioè di un luogo che offre un contesto di vita caratterizzato da una disponibilità affettiva e da un‟ intenzionalità educativa. Prima di descrivere il progetto illustro i punti chiave che qualificano il contesto della casa famiglia come risorsa per l‟attuazione del “dopo di noi”. Innanzitutto, la casa famiglia vive radicalmente l‟idea della condivisione che si dimostra nella figura genitoriale cioè in una coppia di sposi che, accanto ai propri figli naturali, siano disponibili ad accogliere orfani non adottabili, bambini abbandonati, adolescenti in difficoltà, persone diversamente abili, emarginati e persone rifiutate. All‟interno di questo concetto viene posto un profondo significato che apre la porta ad una radicale innovazione: l‟accoglienza di colui che presenta una difficoltà. L‟ambiente della casa famiglia è costantemente pronto ad una disponibilità senza sosta verso coloro che provengono da situazioni di emergenza dove è forte il bisogno di due genitori che con il loro amore e la loro pazienza condividano in modo empatico le gioie e i dolori di questa persona grande o piccola essa sia. Nella mia idea del “dopo di Noi” la casa famiglia assume una prima fondamentale caratteristica: l‟accoglienza di qualsiasi situazione si presenti sul cammino di una coppia di sposi, a qualsiasi ora e senza esclusione o preferenze. 87 L‟accoglienza è il principio che fonda l‟unione della casa famiglia, cioè quel processo instancabile che da la possibilità alle categorie più deboli di trovare un ambiente che sia disposto a prendersi cura e a crescerli fisicamente e inserirli nella società. La coppia di sposi che sceglie in maniera definitiva la logica e i principi di questa realtà sceglie automaticamente di rispondere ai bisogni che molto spesso non trovano delle risposte tra la gente comune. Dove c‟è un bisogno l‟ambiente casa- famiglia pone una risposta ben precisa senza ripensamenti o tentennamenti. Ciò che sta alla base di questa struttura è il continuo mettersi in gioco cercando sempre di porsi in un ottica di condivisione diretta. Ecco che questa realtà diviene automaticamente la base sul quale costruire il nostro progetto. Pensiamo alla storia di M. sopra descritta e cerchiamo di trovare un primo aggancio con la casa famiglia. Certamente un ambiente con le caratteristiche sopra citate riesce ad accogliere fin da subito questa persona cominciando a creare quell‟ambiente relazionale e affettivo di cui ha bisogno ogni individuo durante la sua vita. Il secondo aspetto fondamentale è che all‟interno della casa famiglia non c‟è un criterio di accoglienza o di scelta di coloro che diventano figli. I genitori credono fortemente che ogni persona, mossa da un bisogno necessità di attenzione e amore e debba trovare un posto all‟interno di questa struttura. Per questo i genitori non scelgono, ma ricevono in dono la persona alla quale devono porre le necessarie attenzioni. Sicuramente nelle nostre cooperative sono presenti individui che hanno svariate disabilità e diversificate storie di vita. La casa famiglia si interessa dell‟ individuo come persona umana da valorizzare e non si ferma alle difficoltà che essa può creare o alla fatica richiesta per il suo sostegno. Cosi, ad esempio M. non ha il problema di superare una sorta di selezione ma trova subito un accoglienza amorevole e di condivisione. Proseguendo nella mia analisi individuo nella casa famiglia alcune azioni fondamentali che sono alla base del progetto del “dopo di noi”. Ad esempio all‟interno della struttura viene offerta sia l‟ospitalità ma anche l‟organizzazione della vita quotidiana famigliare in ragione dei bisogni della persona. Inoltre viene offerta cura ed assistenza, partecipazione sociale, civile e religiosa, promozione ed educazione umana, sociale e spirituale. La realtà di questa famiglia innovativa è molto radicale e profonda. Ogni persona che ne è 88 parte si sente coinvolto e stimolato al raggiungimento di un autonomia in quegli ambiti appena descritti che sono la chiave d‟accesso per la relazione all‟interno della società. Anche la persona con disabilità è chiamata a partecipare a questo processo, con la certezza di essere coinvolto all‟interno di un vero e proprio processo di integrazione del quale è protagonista assoluto. La realtà profondamente dinamica, movimentata e variegata della casa famiglia pone sempre la persona in un continuo allenamento stimolante che la porta a continui scambi relazionali e alla maturazione delle diverse aree di autonomia sociali e umane. Tutto ciò permette di eliminare concretamente la facile strada dell‟ assistenzialismo e promuovere la condivisione diretta dove ognuno assume un ruolo ben preciso ed è chiamato a ruoli di responsabilità. Solamente se ognuno si impegna verso l‟altro eliminando le barriere dell‟indifferenza e dell‟individualismo, si crea quel dolce clima di fraternità che è il fondamento della casa famiglia. Cosi ad esempio M. in questo ambiente troverebbe un terreno fertile di occasioni di sviluppo dove ogni componente riesce a farla sentire parte attiva della famiglia e non solo un oggetto da accudire. M. all‟interno di questa realtà può possedere sicuramente un ruolo che deve cercare sempre di sviluppare e integrare con quello degli altri. Questo ruolo viene costruito in base alle capacità che ognuno può dare verso i propri fratelli e sorelle in un clima dove nessuno mai si permette di giudicare chi fa più cose o chi ne fa meno. Quindi l‟ambiente casa famiglia mostra un ruolo ben preciso: realizzare le attività educative rivolte allo sviluppo evolutivo del soggetto ed alla rimozione delle condizioni che hanno richiesto l‟inserimento nella casa famiglia. La forza di questo ambiente è quello di elevare la persona, evidenziandone la sua importanza e la sua sacralità. L‟impegno è quello di saper ben amministrare e sviluppare tutte le potenzialità che ogni individuo possiede. Ciò che viene costantemente eliminato sono le cause che hanno fatto in modo che una persona venisse esclusa, emarginata o rifiutata. Nella storia di M. troviamo proprio un rifiuto, per cause fisiche, da parte del padre che non riesce più a gestire la figlia. Tutto ciò crea abbandono e sfiducia in M. che cerca disperatamente una soluzione. Anche dai partenti proviene un rigetto ad assumersi la persona, perché non rientra nei piani dei fratelli, che hanno già avviato la loro vita in altra maniera. 89 La casa famiglia, invece, non prende in considerazione il problema o gli impedimenti, della persona, e si impegna da subito per eliminare ciò che sembra, apparentemente, un ostacolo. Cosi ad esempio, nella storia di M. i fratelli non riescono a gestire la sua difficoltà di non camminare e di usare ausili come sollevatore o carrozzina. Inoltre per loro è un problema il trasporto e i movimenti negli ambienti domestici, che diventano difficili e faticanti. Invece la casa famiglia, trasforma queste difficoltà cercando di investire le forze che ha al suo interno per eliminare questi “inconvenienti” dimostrando che nessuno crea problema, ma ognuno ha un suo ruolo ben preciso. Chiaramente bisogna faticare e investire tante energie. Faccio un esempio per spiegare ciò che ho appena descritto: all‟interno della casa famiglia in cui vivo i miei genitori hanno deciso di creare gli spazi che servano per accogliere coloro che vivono sulla carrozzina, allargando le porte, creando gli spazi più agevoli ed installando l‟ascensore. In questa realtà si vive questo “essere sempre pronti ad ogni evenienza” facendo in modo che l‟ambiente sia sicuro, accogliente e agevole a tutti. Inoltre la casa famiglia garantisce alla persona in stato di disagio relazionale o fisico di vivere in un ambiente in cui sono rappresentate le funzioni genitoriali e/o parentali senza sostituire quelle naturali proprie. Molti accolti in queste realtà hanno i genitori vivi o che sono morti, ma che per vari motivi necessitano di un ambiente familiare sicuro e motivato da principi solidi. All‟interno di questo ambiente, è importante sottolineare, le relazioni affettive non eliminano quelle precedenti, ma si integrano. Anche M. sa benissimo che madre è morta e il suo padre è vivo anche se vive la sua anzianità con le normali difficoltà sia fisiche che intellettive. Il clima della casa famiglia aiuta l‟individuo a capire che se anche i suoi genitori sono vivi, in questo momento non possono, per vari motivi, prendersi cura del figlio e quindi ci sono alcuni genitori che si rendono disponibili in quel rapporto affettivo fondamentale nel processo di crescita e di sviluppo della persona umana. Attraverso l‟accoglienza la persona in difficoltà si sente profondamente amata e sicura. Ella percepisce anche un senso di nuova maternità e paternità, che non elimina il passato, ma lo integra e cerca di svilupparlo verso il meglio. Un ulteriore aspetto fondante da sottolineare dell‟ambiente casa famiglia è che al suo interno le figure di riferimento per l‟esercizio delle loro funzioni, possono avvalersi anche di collaboratori e/o consulenti, professionali o volontari 90 adeguatamente formati, che collaborino o integrino il loro lavoro, senza sostituirsi al loro ruolo e alla conseguente responsabilità e funzione educativa. In molteplici strutture sono presenti dei validi collaboratori che, con il loro tempo e le loro competenze, aiutano la gestione di tutte le attività, senza però sostituirsi al ruolo educativo di responsabilità ricoperto dai genitori. Questo punto, all‟interno del progetto è molto importante perché evidenzia la possibilità di inserire un individuo disabile presso una famiglia contando sull‟aiuto di volontari o personale qualificato che sostenga il lavoro dei genitori. Cosi ad esempio, nel caso di M. il suo inserimento presso la casa famiglia è sicuramente sostenuto e meglio coordinato se ci sono volontari o altre figure professionali che aiutano la famiglia negli spostamenti, nell‟igiene personale, nella fisioterapia… La casa famiglia è fortemente aperta a questo tipo di collaborazione purché si svolga sempre tutto sotto la logica della condivisione diretta, tenendo come punto ben preciso, il favorire l‟integrazione ed eliminare le cause di esclusione. Inoltre, come già evidenziato, la casa per l‟aspetto sanitario, si avvale dei servizi territoriali sia di base che Specialistici,offerti dal Servizio Sanitario Nazionale e Regionale, in rapporto alle specifiche necessità di ogni persona ospitata. In ogni realtà coloro che necessitano di particolari attenzioni e cure sono ben integrati nel servizio sanitario del territorio e possono accedere a tutti i servizi disponibili. Quindi ricollegandoci alla nostra storia presa come esempio, M. oltre al clima di affetto e di relazione trova un ambiente che si occupa fisicamente del suo stato di salute, creando, ad esempio, un percorso con la fisioterapista per cercare di migliorare l‟uso degli arti. Da notare che nella famiglia di origine spesso il padre, per paura dei costi o della fatica degli spostamenti, ha sempre fatto fatica ad accettare delle proposte mediche per la figlia, cercando sempre di risaltare che la situazione ormai era tale per cui non c‟era più nulla da fare. Tutti coloro che fanno parte di questo ambiente cosi preziosi hanno sempre un ruolo ben preciso e dei compiti da portare a termine. Ad esempio diverse e svariate sono le attività di riordino, pulizia, ristrutturazione, che quotidianamente vengono svolte da tutti i figli di questa famiglia. Si impara ben presto a fare il bucato o a cucinare e poi ci si diletta nelle varie pulizie domestiche per poi imparare a stirare e a rammendare. Nella vita di casa famiglia, durante la mia infanzia e nella mia 91 crescita, ho avuto la fortuna di imparare da subito queste azioni che oggi si rivelano fondamentali per la vita adulta. Ad esempio, collegandoci nella nostra storia , M. potrebbe svolgere un infinità di lavoretti domestici anche se ha difficoltà nel camminare. Anche questo spazio diventa terapeutico perché aiuta la persona a impiegare il proprio tempo con uno scopo ben preciso, sentendosi utile e protagonista verso gli altri. Nella vita presente M. al suo ritorno a casa spesso viene lasciata sola davanti ad un televisore, senza stimoli e priva di un‟ autentica relazione. Allora penso a quanto possa essere di aiuto la casa famiglia nella vita della persona con le sue infinite relazioni e con la sua frenetica vita, che sicuramente mai ti annoia. Nella lettura e nella spiegazione di questi punti fondamentali ho cercato di evidenziare gli aspetti che rendono possibile l‟attuazione del progetto del “dopo di noi” all‟interno di una struttura come la casa famiglia. Dalla mia analisi si percepisce il vero senso di questo innovativo ambito familiare, cioè quella della condivisione con chi, all‟apparenza, sembra essere un problema per la società. 3.5 Il “dopo di noi” come continuazione dell’esperienza d’inclusione Tramite questo paragrafo cerco di evidenziare il progetto vero e proprio sulla base delle indicazioni fornite nei precedenti punti dove sono state descritte le colonne portanti di questa progettazione. Nell‟ultimo periodo, storie simili a quella di M., nel nostro centro e nella cooperativa per la quale lavoro, stanno aumentando a tal punto che alcuni operatori hanno, come già scritto, cominciato a chiedersi che cosa si può fare per coloro che, frequentando i nostri centri,iniziano ad avere difficoltà nel proprio ambiente familiare con il rischio di essere inseriti in strutture residenziali o negli istituti. Oggi, dall‟analisi che emerge dagli incontri di verifica, che avvengono annualmente nei nostri centri diurni tra le famiglie e gli assistenti sociali emergono due fondamentali problematiche: - l‟avanzare dell‟età dei genitori o la morte di essi; - la difficoltà di presa a carico della persona disabile da parte dei parenti o familiari più stretti. 92 Il primo problema riguarda una questione comune: il declino fisico e psicologico della coppia dei genitori con il conseguente abbandono della capacità di gestione del figlio. La maggior parte delle famiglie sono molto anziane e vivono da soli assieme alla persona con disabilità, mentre il resto della famiglia si è staccato dalla famiglia d‟origine per crearne una propria. Alcuni di essi vivono lontano dal nucleo famigliare d‟origine e quindi è difficile anche la possibilità di un sostegno morale e fisico verso i genitori. Conseguenza del problema dell‟invecchiamento fisico dei genitori è un aumento delle difficoltà con conseguente appesantimento del clima già, in molti casi, triste. Ad esempio il padre di M. non riesce più a sollevare la propria figlia per il bagno o a garantirli l‟igiene corporea essenziale. Per questo nell‟ultimo periodo M. è caduta diverse volte ed è stato necessario aspettare qualche tempo prima che qualcuno potesse intervenire in questa situazione, offrendo un aiuto. Un clima scarso di stimoli, che fatica a contenere questa situazione, diventa pericoloso, tutto a scapito della persona che, con la sua disabilità, ha bisogno di attenzioni ben precisi. Anche l‟individuo risente a livello emotivo di questa situazione. Spesso, infatti, è costretto a convivere con le crisi dei genitori che, a causa della malattia fisica, devono essere ricoverati oppure devono frequentare cure mediche che li portano ad essere lontani dalla casa. Per questo molte volte, alcuni utenti dei nostri centri passano intere giornate con la preoccupazione o la tristezza nei confronti dei genitori perché li vedono peggiorare e da parte loro, non riescono a fare nulla per aiutarli. Di seguito, nascono le incomprensioni genitori-figli con conseguenti litigate o maltrattamenti. Un secondo problema deriva dall‟incapacità da parte dei parenti di gestire una situazione di disabilità. Nel momento in cui i genitori cominciano a faticare nella gestione del figlio si cerca da subito di interpellare i fratelli o i parenti spiegando a loro la situazione e chiedendo un aiuto concreto e stabile. Oggi la maggioranza di questi dialoghi finiscono con un rifiuto da parte dei parenti che non se la sentono, oppure, dicono di avere tanto da fare a causa del lavoro e dei figli. Prendersi a carico un fratello o parente con disabilità di età non più giovane diventa difficile e spesso gli stessi parenti propongono delle soluzioni come quelle del ricovero in strutture protette, con la promessa di andare a fare visita settimanalmente. 93 Come ben sappiamo dalla realtà anche quest‟ultimo aspetto non avviene di frequente, con il rischio di abbandono totale della persona. In alcuni casi sorgono anche degli scontri tra i genitori e figli che non capendosi si accusano reciprocamente di non voler prendersi cura del famigliare che necessità di particolari attenzioni. Da notare la difficoltà di dialogo che spesso c‟è tra le diverse componenti in gioco e che spesso non cercano il bene per la persona con disabilità ma la maniera migliore per cercare di inserirlo in una situazione che non crei intralcio a nessuno. Per questo sia i genitori, i famigliari e gli educatori della cooperativa si chiedono di frequente una domanda: “dopo di noi” chi si prenderà cura del nostro figlio, o del ragazzo?. Chi sarà pronto a volergli bene? Cosa succederà dopo la nostra morte? Queste sono le domande frequenti che emergono dai dialoghi che noi operatori abbiamo di frequente con l‟ambiente dei nostri accolti. Qui è racchiuso anche il senso di quest‟ultima parte della mia tesi, cioè dimostrare che il processo di integrazione, cominciato nel centro diurno, può e deve continuare anche dopo la morte dei genitori attraverso un ambiente disponibile ad accogliere la persona. Questo luogo, come già detto, è la casa famiglia. Comincia da qui il progetto vero e proprio che racchiude gli elementi evidenziati nei precedenti paragrafi. Nel momento in cui la famiglia d‟origine di una persona con disabilità comincia ad avere delle difficoltà serie, tanto da compromettere la disponibilità di tutela del proprio figlio, il centro diurno, sostenuto dai principi dell‟associazione Papa Giovanni XXIII, deve farsi carico, collaborando con i servizi territoriali, di questa situazione cercando sempre di garantire un processo di integrazione sociale della persona con disabilità. Ad esempio nella storia di M. da subito l‟equipe degli educatori, in accordo con l‟assistente sociale ha scritto una relazione descrivendo le caratteristiche dell‟utente, con lo scopo di inviarla al responsabile centrale dell‟associazione Papa Giovanni XXIII affinché venga cercata una casa-famiglia disponibile all‟accoglienza. Di seguito,descrivo la prima fase del nostro progetto riassumendo ciò che fino ad ora ho scritto: 94 1- All’interno di qualsiasi centro dell’associazione Papa Giovanni XXIII, nel caso si presentasse una situazione di persona che rischia l’inserimento in strutture protette o istituti, a causa dell’invecchiamento o morte del genitore o di un abbandono dei famigliari, è necessario muoversi subito per cercare di eliminare questa possibilità che automaticamente porterebbe all’eliminazione delle condizioni del processo integrativo precedentemente iniziato. La vera risposta autentica, che risponde ai principi fondamentali di questa Associazione, è l’ambiente della casa famiglia come luogo accogliente, relazionale e affettivo. Dopo aver evidenziato il primo passo cerco ora di descrivere un ulteriore importante aspetto del progetto. Infatti, all‟interno della mia idea, la persona che viene a contatto con questa nuova casa-famiglia non deve cessare di frequentare il centro diurno che da tempo quotidianamente ha lo scopo di favorire il processo di inclusione sociale. La persona disabile deve continuare ciò che ha sempre fatto perché è di vitale importanza. Il centro diurno, soprattutto dove le politiche locali non hanno una buona gestione della disabilità, deve essere lo stimolo quotidiano sia nelle attività lavorative che nei laboratori, per permettere ad ogni singolo individuo di continuare ad essere inserito nel tessuto sociale, come ho ampiamente descritto nel secondo capitolo di questa tesi. La persona all‟interno della casa-famiglia deve trovare il luogo della condivisone, dell‟affetto dei genitori e della gioia di avere accanto delle persone che si prendono cura di lui. Nel centro diurno invece, deve poter continuare a gustare la bellezza del lavoro, delle amicizie, del divertimento e del contato con la società. Il centro diurno deve continuare ad essere l‟orologio che scandisce i vari periodi di vita della persona diventando un valido aiuto e collaboratore della famiglia stessa. Quest‟ultimo punto che ho evidenziato è fondamentale, cioè quello del sostegno alla casa famiglia. Infatti, ogni realtà abitativa che accoglie una persona disabile ha sempre bisogno di un sostegno come valido aiuto per la persona e per un buon clima famigliare. In un ambiente con diversi figli la persona con disabilità trascorre la maggior parte della giornata presso il centro per poi fare ritorno nella propria abitazione verso il pomeriggio – sera. È evidente che il centro diurno svolge un ruolo di sviluppo della persona e di sostegno alla famiglia. 95 Eppure cerco di evidenziare un‟ ulteriore nota importantissima. Sia il centro diurno che la casa famiglia condividono gli stessi principi e credono fortemente nell‟integrazione della persona disabile, che deve continuamente tendere ai principi della convenzione Onu accennati nell‟introduzione. Questo gioca un ruolo favorevole nella vita della persona, che trova lo stesso clima sia presso il centro che nella famiglia, cioè quello stile di condivisione presente in ogni struttura dell‟Associazione. Anche in fase di progettazione degli obiettivi della persona sicuramente la condivisione degli stessi ideali aiuta molto per sviluppare al meglio le potenzialità del disabile. Descrivo ora la seconda fase del nostro progetto riassumendo ciò che fino ad ora ho scritto: 2- Colui che viene accolto nella casa famiglia deve necessariamente continuare a svolgere il suo ruolo da protagonista presso il centro diurno. Quest’ultimo strumento continua a permettere il processo di integrazione, diviene un solido aiuto al nuovo ambiente famigliare e permette di valorizzare la persona grazie ad una comunione di ideali con la casafamiglia. All’interno del centro diurno la persona continua il suo sviluppo verso l’integrazione attraverso l’attività lavorativa, quella dei laboratori didattici e attraverso la condivisione delle amicizie. Dopo aver descritto i primi due aspetti del nostro progetto è necessario delineare un ulteriore fattore importante che si inserisce all‟interno del contesto casa famiglia- servizi territoriali. Nel momento in cui la famiglia decide di accogliere una nuova persona occorre sempre, secondo la mia idea di “dopo di noi”, che anche il servizio territoriale continui in maniera instancabile a seguire la stessa, cercando di dare sostegno alla famiglia. Innanzitutto, occorre un aiuto nel delicato passaggio dalla famiglia di origine, nel quale la persona si sente da una parte disorientata, ma dall‟altra sicuramente contenta di approdare in un ambiente sicuro e accogliente. In questo delicato momento è importante il ruolo che assume l‟assistente sociale, che deve essere capace di coordinare al meglio questo momento, cercando di far comprendere all‟individuo la necessità e la bellezza di questo cambiamento. Anche 96 l‟ambiente del centro diurno deve poter sostenere questo delicato passaggio cercando, per quanto possibile di porre una valida collaborazione. Una volta superato l‟ostacolo del cambiamento è necessario strutturare un preciso progetto del quale la persona deve essere protagonista, la famiglia il sostegno e i servizi sociali i garanti. Individuo in questi tre verbi il senso e la sintesi di questa progettazione in cui l‟individuo con i suoi bisogni è al centro e attorno ruotano i servizi e la famiglia che devono eliminare le condizioni tali per cui la persona incontra disabilità. Tutti camminando sulla strada dell‟integrazione sociale. Il momento della progettazione individuale deve tener conto di molti fattori: - la necessità della persona di essere amata e sostenuta nelle difficoltà; - l‟importanza della figura dei genitori; - la necessità delle relazioni con i fratelli o altre persone presenti nella casa famiglia come comunicazioni terapeutiche; - l‟importanza del centro diurno come continuità nelle amicizie e possibilità di lavoro o altre attività; - una valutazione del progetto costante e attenta alle nuove necessità che possono emergere. Ancora prima dell‟inserimento della persona presso la casa famiglia si deve subito pensare ad un‟ idea di fondo che accompagni l‟individuo lungo le sue giornate. Questa progettualità porta la famiglia a conoscere meglio la persona e i servizi territoriali a mettere a disposizione ciò che serve. Ad esempio, in molteplici casi, la persona necessita di ausili meccanici come sollevatori o lettini particolari, oppure di carrozzine di vario tipo o ancora di altri ausili medici. Nella fase del progetto occorre che la famiglia capisca bene come questi oggetti devono essere usati e a quale scopo, mentre i servizi devono necessariamente e tempestivamente fornire questo materiale affinché poi possa essere utilizzato. Inoltre la casa famiglia deve costantemente combattere per far si che i diritti della persona vengano rispettati. Non sempre, infatti, il rapporto con i servizi sociali e le politiche locali è facile a causa di continui tagli economici che non permettono ad una persona di poter godere di tutti i servizi di cui ha bisogno. Questo viene sperimentato, ad esempio, attorno alla vita del nostro centro e delle case famiglie del territorio, dove a causa di comuni piccoli è difficile distribuire le 97 risorse che spesso vengono a meno. In molti casi è necessario usare la forza, spesso quella legale, dove non sempre i rapporti sono dei migliori. Da una parte c‟è la persona inserita in un processo di integrazione che necessità di strumenti che tolgano le barriere e completino il suo sviluppo, dall‟altra servizi sempre più scarsi a causa di legislazioni restrittive non disponibili a investire nell‟inclusione sociale. All‟interno, della casa famiglia, grazie a diverse forze (non solo quella dei genitori ma anche quella dei figli più grandi) si può cominciare a scommettere su qualche cosa di più grande per la persona, che vada oltre a “quello che aveva già”. Grazie alle molteplici potenzialità per M. che fatica a camminare e che nel proprio ambiente familiare di origine ha perso questa funzione a causa dell‟impossibilità di fare la riabilitazione, nel nuovo ambiente trova persone disposte a cominciare nuovi percorsi affinché gli arti inferiori vengano rafforzati. Ad esempio si può pensare ad un nuovo percorso di fisioterapia o a diversi strumenti come la piscina. La famiglia investe le forze e l‟amore nel fare queste azioni, i servizi mettono (dovrebbero) a disposizione i luoghi, gli strumenti e favoriscono l‟aspetto economico, come ad esempio la retta, con le agevolazioni economiche e con le convenzioni che vengono stipulate. Ricordo che la casa famiglia è un Ente riconosciuto e quindi può ricevere le rette per il sostegno degli accolti e stipulare convenzioni con i servizi territoriali. La casa famiglia entra in un sistema nel quale trova una molteplicità di persone competenti e disposte a sostenere questo progetto di integrazione. Tra questi possiamo elencare i medici, gli psicologi, gli psichiatri, i fisioterapisti, gli infermieri e gli assistenti sociali. Queste persone sono coloro che devono garantire a livello di competenze e di sostegno medico ed economico, che il “dopo di noi” sia costantemente favorito, attuato e monitorato. Nulla può essere perso e tutto è fondamentale. Ogni individuo con la sua professionalità cerca di garantire alla persona con disabilità il pieno sviluppo e mette nelle condizioni la famiglia per poter giorno dopo giorno sostenere e amare questa persona accolta. Descrivo ora la terza fase del nostro progetto riassumendo ciò che fino ad ora ho scritto: 3- Colui che viene accolto nella casa famiglia deve necessariamente essere il protagonista assoluto di un progetto di vita che ha come unico scopo quello dell’integrazione. Per fare ciò l’individuo necessità dell’aiuto e del sostegno 98 di coloro che con la loro professionalità possano garantire la buona riuscita del “dopo di noi”. Queste figure competenti, si occupano della persona, garantendogli il pieno sviluppo e al tempo stesso aiutando la famiglia in questo delicato compito. In molte realtà dell‟associazione Papa Giovanni XXIII non sempre è sufficiente il buon coordinamento con i servizi territoriali e i servizi da loro erogati perché talvolta in alcune case-famiglie sono presenti diverse persone disabili. Per questo nel mio progetto individuo alcune figure fondamentali che possono sostenere e aiutare la casa famiglia. Questi sono i volontari o coloro che decidono di spendersi per questa realtà e lo fanno perseguendo i principi dell‟associazione stessa. Accanto alle figure di riferimento, in casa famiglia possono esserci anche altre figure che aiutano e collaborano in vari modi: persone in Servizio Civile Volontario , Stagisti e Tirocinanti da scuole ed Università, volontari motivati, sacerdoti e consacrati, ecc. Il ruolo del volontario è fondamentale per la vita della casa famiglia e a sua volta per la persona disabile accolta. Innanzitutto il volontario spinto dalla gratuità è di aiuto per la famiglia sia nei lavori domestici, ma anche nell‟educazione dei figli, apportando sostegno all‟intera famiglia. In particolare, con le persone disabili il volontario diventa un elemento fondamentale in quanto valido aiuto nella gestione delle autonomie personali, negli spostamenti e in altre azioni che sono utili all‟individuo. Anche il volontario deve essere parte integrante del progetto che coinvolge la persona instaurando un rapporto comunicativo vero e profondo. Da tempo l‟associazione Papa Giovanni XXIII investe molto sul volontariato, creando delle vere e proprie scuole dove il volontario può educarsi e capire quali sono i principi fondanti delineati da don Oreste Benzi. Descrivo ora la quarta fase del nostro progetto riassumendo ciò che fino ad ora ho scritto: 4- All’interno della casa oltre alle persone della famiglia, e esternamente dai servizi sociali, è importante il ruolo del volontario come sostegno concreto nelle svariate mansioni sia domestiche che verso le persone che vi fanno parte. Il volontario diventa parte integrante del tessuto famigliare e deve essere al corrente del progetto che investe la persona disabile cercando di 99 dare il proprio contributo rispettando i principi dell’associazione stessa della gratuità e della condivisione diretta. Schema del terzo capitolo: PERSONA con DISABILITÁ A causa della morte dei genitori e la non presa in carico da parte dei parenti viene inserita nella casa famiglia. CENTRO DIURNO Il centro diurno garantisce il processo di integrazione, le amicizie, l’occupazione lavorativa e le attività riabilitative inserimento nella CASA FAMIGLIA VOLONTARI SERVIZI SOCIALI I servizi sociali garantiscono il sostegno alla casa famiglia a livello economico e di progettazione fornendo i servizi utili alla persona I volontari sostengono la famiglia attraverso una collaborazione nei lavori e un aiuto nella gestione degli accolti, sostenuti dalla gratuità e dalla condivisione. 100 3.6 Fondamentali del progetto “dopo di noi” All’interno di qualsiasi centro dell’associazione Papa Giovanni XXIII, nel caso si presentasse una situazione di persona che rischia l’inserimento in strutture protette o istituti, a causa dell’invecchiamento o morte del genitore o di un abbandono dei famigliari, è necessario muoversi subito per cercare di eliminare questa possibilità che automaticamente porterebbe all’eliminazione delle condizioni del processo integrativo precedentemente iniziato. La vera risposta autentica, che risponde ai principi fondamentali di questa Associazione, è l’ambiente della casa famiglia come luogo accogliente, relazionale e affettivo. Colui che viene accolto nella casa famiglia deve necessariamente continuare a svolgere il suo ruolo da protagonista presso il centro diurno. Quest’ultimo strumento continua a permettere il processo di integrazione, diviene un solido aiuto al nuovo ambiente famigliare e permette di valorizzare la persona grazie ad una comunione di ideali con la casa- famiglia. All’interno del centro diurno la persona continua il suo sviluppo verso l’integrazione attraverso l’attività lavorativa, quella dei laboratori didattici e attraverso la condivisione delle amicizie. Colui che viene accolto nella casa famiglia deve necessariamente essere il protagonista assoluto di un progetto di vita che ha come unico scopo quello dell’integrazione. Per fare ciò l’individuo necessità dell’aiuto e del sostegno di coloro che con la loro professionalità possano garantire la buona riuscita del “dopo di noi”. Queste figure competenti, si occupano della persona, garantendogli il pieno sviluppo e al tempo stesso aiutando la famiglia in questo delicato compito. All’interno della casa oltre alle persone della famiglia, e esternamente dai servizi sociali, è importante il ruolo del volontario come sostegno concreto nelle svariate mansioni sia domestiche che verso le persone che vi fanno parte. Il volontario diventa parte integrante del tessuto famigliare e deve essere al corrente del progetto che investe la persona con disabilità cercando di dare il proprio contributo rispettando i principi dell’associazione stessa della gratuità e della condivisione diretta. 101 CONCLUSIONI Come può una persona strutturare un Sé e, in particolare, la dimensione sociale del Sé, vivendo in luoghi e in rapporti sociali senza tempo e senza storia, senza passato e senza futuro? Come può raggiungere le autonomie possibili vivendo in realtà e in situazioni relazionali che non prevedano autonomie? “[---] (E.Montobbio, 1994, introduzione) Certo l‟immagine delineata è provocatoria ma, in concreto, posso pensare che nel corso degli anni un po‟ tutte le realtà hanno dovuto confrontarsi con questi interrogativi e gli educatori come me si sono posti, e tuttora si pongono, la domanda circa il senso del loro lavoro, con la consapevolezza che il rischio di costruire un centro con quelle caratteristiche sopra descritte è reale. Nella mia tesi ho riscoperto questo grande incontro con la disabilità cercando di comprendere, attraverso la condivisione quotidiana, sia nella famiglia che nel lavoro, il grande compito a cui sono chiamato e cioè quello di essere promotore di integrazione. Come ho affermato nell‟introduzione, la società è integra, cioè completa quando è composta di tutte le sue parti, quindi anche della disabilità, che costituisce un pezzo dell‟insieme. In questa ottica, l‟integrazione riguarda la società, che, per essere e definirsi integra, ha bisogno anche delle persone con disabilità. Ancora oggi nel 2010 all‟interno delle politiche e dell‟organizzazione dei servizi sociali manca questa chiara convinzione e spesso si fatica a comprendere che la disabilità è una risorsa. Come educatore, attraverso questo scritto mi sono impegnato ad evidenziare uno dei tanti modi di portare avanti questa nuova cultura dell‟integrazione che ancora ha bisogno di tempo per essere completamente attuata ed entrare nella quotidianità delle nostre società. Tramite il mio lavoro quotidiano nel centro diurno, descritto nei capitolo precedenti, ho evidenziato questa necessità di inclusione che deve sempre tendere ad una integrazione completa e totale. Nella mia tesi, il centro diurno si configura come un elemento fondamentale comportandosi da “filtro”. Esso in molti casi diventa strumento di accompagnamento nei confronti delle tappe del percorso evolutivo della persona con disabilità e della sua famiglia. Dalla mia trattazione si percepisce 102 che, di fatto, il centro diurno risulta essere anche momento di transizione, di passaggio fra l‟uscita della scuola dell‟obbligo e i passaggi successivi: la formazione professionale, eventualmente ove possibile il lavoro, in ogni caso una sorta di “trampolino” per le tappe a venire. Mi rendo conto che quando si affronta il tema del centro diurno come possibile risposta per la persona con disabilità affiora alla mente solo un‟immagine negativa o quantomeno difficile da giustificare in quanto il concetto di centro rinvia ad un‟idea di “contenitore”, luogo che separa, pertanto tendente ad escludere la persona dall‟integrazione sociale, valore che da molto tempo si cerca di inserire nell‟organizzazione e nella politica di tutti i servizi rivolti all‟individuo con disabilità. Nel mio elaborato o descritto partendo dall‟evoluzione storica, quali siano fino ad oggi i passi di integrazione sociale che si possono compiere all‟interno del centro diurno. Attraverso i gesti della quotidianità la persona diversamente abile sperimenta uno stimolo costante di aggancio con la società e di questo non ha paura ma sente la voglia di libertà e di incontro con l‟altro. Infine il progetto del “dopo di noi” vuole essere una garanzia di integrazione che duri tutta la vita affinché la persona con disabilità possa vivere l‟infanzia,l‟età adulta e l‟anzianità con le persone che come lui vivono le loro relazioni all‟interno della società e non in ambienti di ricovero. Senso di questa tesi è aderire alle parole già citate di don Oreste Benzi: “li dove siamo noi, li anche loro”. D‟altro canto la realtà, come già ho affermato nell‟introduzione, ci conferma che nella maggior parte dei casi, (come in quello da me descritto e che riguarda la mia esperienza), il centro diurno si configura come la sola risposta data alla persona con disabilità medio grave. Come educatore sono convinto che la piena integrazione sia quella descritta nella convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità e cercherò con tutte le mie forze di impegnarmi per far si che tutto questo diventi realtà. Il problema rimane il quotidiano: oggi infatti le politiche, come già sottolineato, non sono pronte a recepire le indicazioni approvate nel 2008 dall‟Onu e ci vorrà ancora molto tempo. A me non resta, come descritto in questo lavoro, cercare, attraverso il centro diurno, di contribuire a lavorare nel cantiere dell‟ integrazione sociale, affinché questa esperienza sia un trampolino di lancio per un futuro nel quale ci sia la consapevolezza che restituisca visibilità alle 103 persone con disabilità che in tal modo entrano nella semplice e ordinaria realtà di ogni giorno. Durante la stesura di questo lavoro attraverso il profondo dialogo con la Docente che mi ha sostenuto in queste fasi, mi sono reso conto che in un‟epoca come la nostra in cui siamo sommersi dalle informazioni, in cui le parole a volte sembrano troppe e le stesse parole assumono significati differenti, non siamo abituati a tornare alle origini dei termini che tanto spesso usiamo, ma che altrettanto spesso sono “vestite”di un significato che si allontana troppo da quello originario. Non è possibile oggi parlare di disabilità senza parlare di integrazione, un termine quest‟ultimo usato ed abusato in riferimento proprio quasi esclusivamente alle persone con disabilità e al loro così difficile e tormentato ingresso in quella che viene definita società civile. Dal latino integratio,e significa il fatto di completare, rendere intero o perfetto, supplendo a ciò che manca o aggiungendo quanto è utile e necessario per una maggiore validità, efficienza, funzionalità. È facilmente intuibile che l‟uso comune di tali termini ha “dimenticato” l‟etimologia del termine, giacché quando si parla di integrazione si pensa immediatamente alla disabilità, è diventato quasi un suo sinonimo tanto che non si dice più “integrazione delle persone disabili”, ma integrazione e basta, sottintendendo che ci si riferisce al processo iniziato qualche decennio fa come “sforzo” di inserire persone diverse nella società ancora in atto. Ma sembra, e lo è, un processo a senso unico, sono le persone con disabilità che devono “adattarsi” ad una struttura sociale che non è a loro misura, che cerca di adeguarsi per andare incontro alle loro esigenze con molta fatica, perché rimane ancorata ai propri schemi. Per questo ho scelto questo tipo di tematica da approfondire in questa tesi, dove questo urgente bis inclusione lo percepisco quotidianamente giorno dopo giorno nelle mie infinite relazioni con persone con disabilità. Anche la scelta della materia è stata profondamente influenzata da questa necessità di inclusione. Infatti ho subito compreso che la pedagogia speciale, in quanto interviene e riflette sulle risorse e sulle mancanze, sui desideri e sulle contraddizioni e sulle prospettive, insegna che ogni processo educativo comporta una responsabilità personale, politica e un riconoscimento del limite e delle utopie. In questa ottica la struttura di fondo del processo di integrazione è interpretata sempre tenendo conto di quanto vi è di misterioso, di imponderabile, di evolutivo, in ogni relazione umana, e di 104 come la professionalità “fa tutt'uno” ed è dipendente con la struttura profonda di personalità e con il contesto sociale. Il passaggio, nell‟immaginario collettivo, della persona con disabilità da inferiore a eccezionale sembra essere un passaggio obbligato prima di giungere a riuscire a stabilire una relazione alla pari. Considerare l‟altro inferiore o eccezionale, significa mantenere le distanze da lui, significa cioè non entrare in una relazione perché giudicata faticosa, impossibile o difficile. L‟eccezionalità è l‟altra faccia di una stessa medaglia, è il mettere l‟altro su un piedistallo inarrivabile e troppo superiore alle proprie risorse. Questo meccanismo di svalutazione dell‟altro o di se stessi può non condurre ad una relazione autentica, oltreché paritaria, a non annullare mai le distanze, l‟altro è o incapace o troppo capace, comunque lontano. Stabilire una relazione significa anche esserne responsabili e, prima ancora, significa decidere di conoscere l‟altro senza pretendere di conoscerlo già, senza attribuirgli a priori cose che non gli appartengono e lasciare libero dentro di sé uno spazio nel quale far entrare l‟altro. Perché questo sia possibile è necessario un altro passaggio, quello nel quale è possibile riconoscere la paura che la diversità, la disabilità “provoca”, il disagio, l‟imbarazzo che emerge spesso nell‟incontro tra persone normali e persone con disabilità. In questa filiazione di una cultura civile dell'integrazione, che ho richiamato molto spesso nella mia tesi,la dimensione sociale e personale dialogano verso produzioni soggette a scambi, contributi, che spingono verso processi generativi di idee, di atteggiamento, di strutture, di utopia, di passione e di nuovi luoghi per lo sviluppo delle persone con disabilità e non. Una buona rappresentazione di questa fase evolutiva dell'integrazione sociale, è un‟esperienza oggi comune: stanno nascendo nuovi spazi servizi e occupazioni per le persone con disabilità, sia a livello sociale che psicologico e politico. Ma molta strada ancora deve compiersi. Il luogo dove e da dove è possibile produrre cambiamento è la relazione, spazio oltreché luogo di riconoscimento, di incontro, di scambio di identità diverse. In questo luogo e spazio è possibile costruire una relazione educativa capace di dare significato e colore a sentimenti, emozioni e pensieri che al di fuori di essa non trovano posto e senso. 105 Secondo il senso della mia tesi la cultura dell'integrazione in questa fase deve assumere la responsabilità di proteggere ciò che dalle diverse esperienze sta progressivamente emergendo verso nuove domande di solidarietà e di impegno educativo. Una simile analisi viene data spesso per acquisita, perché a livello emotivo ci sentiamo parte del problema e della soluzione, ma a livello culturale non siamo sempre consapevoli di essere responsabili di questo processo: questa è la nuova cultura dell'integrazione, una cultura della responsabilità! Il fatto che nell'ultimo trentennio siano state sempre varate delle ottime norme legislative non è sufficiente per alleviare la realtà di un interesse pregiudiziale e di una beneficenza a volte immobilizzante. Anche se si registra un certo progresso e una evoluzione nelle modalità di aiuto, non è ancora possibile affermare che l'integrazione è diventata un sostegno sociale e uno strumento sempre adatto per incoraggiare progresso culturale e politico. Con questa profonda convinzione sono quotidianamente contento di essere un educatore che si mette al servizio dell‟integrazione sociale. Sento, al termine di questo bellissimo lavoro, di non poter mai lasciare questo delicato compito con la certezza che sia un lavorare assiduamente per un progetto, che un giorno darà la possibilità a milioni di persone con disabilità di sentirsi protagonisti assoluti delle sorti di una società e non semplici spettatori. Concludendo questa tesi ricca di significato sulla mia vita ma al contempo difficile da creare (lavorare e studiare non è semplice) mi prometto che non lascerò mai l‟appoggio e sostegno ad una politica di integrazione vera, condivisa, inclusiva e rispettosa dei diritti. Oggi mi sento una piccola goccia all‟interno del grande oceano che muove le sue onde verso un futuro di inclusione totale. Grazie. 106 BIBLIOGRAFIA Baratella P. e Littamè E., I diritti delle persone con disabilità,Trento, Erikson,2009, Cabras. P.L., Chiti. S., Lippi. D.,Joseph Guillaume Desmaisons Dupallans, La Francia alla ricerca del modello e l’Italia dei manicomi nel 1840, Firenze University Press,2006. Caffarena. C. (Maggio – giugno 2006) “Il centro diurno. Un servizio della rete degli interventi”, in rivista “Appunti sulle politiche sociali”, Gruppo solidarietà, Ancona. Canevaro.A, Gaudreau J., L’educazione degli handicappati, Roma, Carocci, 2004. Canevaro. A. e Ianes.D. Diversabilità, Trento, Erikson, 2003. Durante. M. (marzo 1997) “Il centro diurno: una possibile risposta”, in “Handicap intellettivo grave e servizi”, Gruppo solidarietà. Lessi. V. Con questa tonaca Lisa, Rimini, Guaraldi editore. (1991), Lessi. V., “Don Oreste Benzi, un infaticabile apostolo della Carità”, Milano, San Paolo editore, 2008. Rousseau J.J, “Emile” a cura di. Visalberghi A., Padova, Laterza editore, 2003 Nocera. S. ( marzo 1997), La normativa vigente, in “Handicap intellettivo grave e servizi:quale risposta dopo la scuola dell‟obbligo?”, Ancona, Gruppo solidarietà Nocera. S. (n°3/1999), “Evoluzione delle comunità residenziali per disabili: aspetti culturali, legislativi e organizzativi”, in rivista “Servizi sociali”, Padova, Centro studi fondazione Zancan. Organizzazione Mondiale della sanità (2007), ICF. “Classificazione Internazionale del funzionamento, della Disabilità e della Salute”, Tento, Erikson. Sartori L.,“ La Lumen Gentium. Traccia di studio”, Padova, edizioni Messaggero 2003. Sartori, Laura. a cura di, Codice civile e tributario, Milano, Tramontana, 1997. SITOGRAFIA (consultata nel mese di Marzo) http://www.handylex.org. http://www.apg23.org. 107 RINGRAZIAMENTI La parola “grazie” è molto bella perché dà il senso del fermarsi e ammirare qualcosa che è stato fatto per noi. Esprimere gratitudine è il primo dovere di una persona. Così, a conclusione di questo lavoro che mi ha permesso di descrivere il mio incontro con la disabilità, desidero esprimere un grande grazie a coloro che mi hanno sostenuto durante questi momenti. Innanzitutto voglio dire un bel grazie ai miei genitori, Patrizia e Raul, che sin dalla mia fanciullezza mi hanno insegnato ad amare le persone con disabilità facendomi scoprire la bellezza della condivisione. Un grazie ai miei fratelli, soprattutto ad Antonio e Giulia che con il loro sorriso trasmettono gioia di vivere e tanti insegnamenti. A conclusione di questo percorso di studio ringrazio tanto la docente Elena Malaguti, che con la sua semplicità e grande saggezza mia ha continuamente e instancabilmente aiutato e sostenuto in questo lavoro. La ringrazio per il profondo confronto, lo scambio comunicativo e il sostegno nelle difficoltà. Grazie alle sue indicazioni ho avuto modo di approfondire il prezioso ruolo di chi dedica la sua vita alle persone con disabilità. Ringrazio anche il professore Andrea Canevaro, che grazie al corso di pedagogia speciale e alle parole contenute nei suoi libri mi ha sempre dato la possibilità di capire quale fosse il ruolo dell‟educatore sociale. Un profondo ringraziamento anche ad Andrea Clerici, che oltre ad essere il responsabile del centro diurno il “Nodo” ha condiviso il piacere di essere correlatore di questa tesi. A lui un profondo sentimento di gratitudine per il confronto leale sempre dimostrato. Un grazie sincero alla cooperativa “la fraternità” nella persona del presidente Valerio Giorgis, e all‟associazione Papa Giovanni XXIII guidata dal dott. Giovanni Paolo Ramonda. Infine, ringrazio di cuore la professoressa Ivonne Mariani, che con grande pazienza ha coretto questo lavoro, rendendolo più “snello” e scorrevole. Ringrazio di cuore la famiglia Manzaroli, nella persona del dott. Dario, che si è sempre interessato alla mia tesi. Inoltre ringrazio tutti coloro che in questi anni di lavoro e studio mi hanno sostenuto nelle difficoltà, in particolare gli amici. Infine ringrazio Lucia, una persona importante per la mia vita che con il suo amore e la sua pazienza mi fa sentire sempre importante e mi sostiene nei momenti di fatica. A lei dedico in particolare questo lavoro con la speranza un giorno di poter vivere la condivisione nella famiglia. Con lei ringrazio anche i suoi genitori e in particolare Federica che mi ha sempre colpito per la sua vitalità e gioia di vivere. Un ultimo grande grazie a don Oreste Benzi, grande infaticabile apostolo della carità, perché continuamente mi insegna ad “essere voce di chi non ha voce”, e continua a volermi bene. Grazie 108