Neoplasie della mammella 8 Michele De Laurentiis, Fabio Puglisi con la collaborazione di Marta Bonotto, Francesca Di Rella, Giovanni Iodice e Carla Di Loreto EPIDEMIOLOGIA Il carcinoma della mammella è, dopo i tumori del polmone, la neoplasia maligna più frequente, costituendo, con quasi 1.400.000 nuovi casi l’anno, circa il 10,9% di tutti i tumori maligni che insorgono nel mondo. Nel sesso femminile è, in assoluto, il principale problema oncologico, costituendo circa un quarto (23%) di tutti i tumori maligni diagnosticati e rappresentando la più frequente causa di morte per tumore nelle donne (Globocan, 2008). INCIDENZA L’incidenza del carcinoma della mammella è molto eterogenea nelle diverse aree geografiche: in generale è molto più elevata nei paesi industrializzati rispetto ai paesi non industrializzati, con tassi di incidenza standardizzata sulla popolazione mondiale che variano da più di 80 casi per 100.000 abitanti nei paesi più sviluppati (eccetto il Giappone, dove i tassi di incidenza sono circa la metà) a meno di 40 casi su 100.000 nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo (con un minimo di circa 19 casi per nell’Africa orientale) Fig. 8.1). Le ragioni della maggiore incidenza del carcinoma della mammella nei paesi industrializzati rispetto ai paesi non industrializzati sono solo in parte note, ma si ritiene che siano prevalentemente legate ai diversi stili di vita (si veda paragrafo “Fattori eziologici”): nei paesi industrializzati le donne in genere hanno la prima gravidanza in età più adulta, tendono quindi ad avere meno figli e spesso anche l’allattamento al seno è ridotto; inoltre, la maggiore per- Europa occidentale Australia/Nuova Zelanda Europa settentrionale America settentrionale Europa meridionale Paesi industrializzati Polinesia Micronesia Europa centrale e orientale America meridionale Caraibi Mondo Africa meridionale Africa settentrionale Asia occidentale Africa occidentale Asia sud-orientale Paesi in via di sviluppo America centrale Asia orientale Asia centro-meridionale FIG. 8.1 Tassi standardizzati (per 100.000 abitanti) di incidenza e mortalità per carcinoma mammario nelle diverse aree geografiche del globo. Da: Globocan. Breast cancer fact sheet. http://globocan.iarc.fr/. 2008. Melanesia Incidenza Africa centrale Mortalità Africa orientale 0 20 40 60 80 100 251 252 Capitolo 8 Neo p la sie d ella m a m m ella perti negli anni successivi. Tuttavia, un reale incremento di incidenza è plausibile in considerazione del fatto che, in questi paesi, è in atto un profondo cambiamento socioeconomico che sta determinando chiare modifiche dello stile di vita, rendendolo più simile a quello del mondo occidentale. centuale di donne obese, un maggior consumo di alcol, un consumo di contraccettivi orali e di terapia ormonale sostitutiva, nonché una ridotta attività fisica sono ulteriori fattori di rischio che affliggono le popolazioni più sviluppate. A conferma dell’ipotesi sugli stili di vita, numerosi studi hanno dimostrato come l’incidenza di cancro mammario aumenti nel giro di alcune generazioni nelle donne di famiglie emigrate da zone a bassa incidenza verso i paesi industrializzati. Negli Stati Uniti, invece, i tassi di incidenza hanno subito un chiaro declino tra il 1999 e il 2003 per poi stabilizzarsi negli ultimi anni. Si ritiene che la causa di questo declino sia rappresentata dalla drastica riduzione dell’impiego di terapia ormonale sostitutiva (TOS) per il controllo dei sintomi menopausali, che ha fatto seguito, proprio in questo periodo, alla divulgazione dei risultati dello studio Women’s Health Initiative (WHI). In Italia, con circa 47.000 nuovi casi annui, il carcinoma mammario è la seconda più frequente neoplasia (dopo i tumori del colon-retto) e la prima in assoluto nel sesso femminile, dove rappresenta circa il 29% di tutti i tumori maligni. La prevalenza stimata di persone con pregressa diagnosi di carcinoma mammario in Italia è superiore al mezzo milione (http://www.tumori.net). In confronto con le altre aree geografiche del globo, l’Italia si attesta tra i paesi ad alta incidenza, con un tasso standardizzato sulla popolazione mondiale di circa 86,3/100.000 abitanti (pari a un tasso standardizzato sulla popolazione europea di circa 118/100.000). L’incidenza non è comunque uniforme sul territorio nazionale, con un chiaro trend crescente da Sud a Nord (Fig. 8.2). In Italia, così come nella maggior parte dei paesi europei, l’incidenza è aumentata lentamente, ma progressivamente, fino all’inizio del secolo, per poi cominciare un lento e lieve declino (Fig. 8.3). Quest’ultimo potrebbe anche essere legato alla riduzione di prescrizioni di TOS. Il fenomeno appare, tuttavia, meno drammatico, a causa della più bassa penetrazione che la TOS ha avuto, negli anni scorsi, nel nostro Paese rispetto agli USA. MORTALITÀ In termini di trend temporale, l’incidenza del carcinoma mammario, negli ultimi tre decenni, è aumentata nella maggior parte del mondo, a eccezione di numerosi paesi dell’Africa e di alcune parti dell’America centro-meridionale e dell’Asia meridionale. Il carcinoma della mammella rappresenta a oggi la causa più frequente di morte per tumore nella donna, con un numero stimato di decessi annui pari a quasi mezzo milione nel mondo e un tasso di mortalità standardizzato sulla popolazione mondiale pari a 12,4/100.000. Al pari dell’incidenza, i tassi di mortalità sono più alti nelle regioni sviluppate, rispetto a quelle meno sviluppate, ma la differenza rilevata è molto meno marcata rispetto alle differenze di incidenza (si veda Fig. 8.1), grazie alla sopravvivenza molto più alta che si registra nei paesi industrializzati. Negli USA, i tassi di mortalità per tumore della mammella sono nettamente inferiori a quelli del tumore del polmone nella Particolarmente evidente è stato l’incremento relativo del tasso di incidenza osservato, anche in donne giovani, in Giappone e Hong Kong e in molti Paesi asiatici tradizionalmente ritenuti a bassa incidenza (Singapore, Taiwan, Repubblica Coreana). Questo incremento è, in parte, fittizio e legato al fatto che in tali paesi è stato recentemente introdotto lo screening mammografico, con conseguente anticipazione diagnostica di tumori che sarebbero stati sco- INCIDENZA Trentino Alto Adige Valle d’Aosta MORTALITÀ Trentino Alto Adige Friuli Venezia Giulia Valle d’Aosta Veneto Lombardia Piemonte Emilia Romagna Friuli Venezia Giulia Veneto Lombardia Piemonte Emilia Romagna Liguria Liguria Toscana Toscana Marche Umbria Lazio Sardegna Marche Umbria Abruzzo Lazio Abruzzo Molise Molise Campania Campania Puglia Sardegna Basilicata Calabria FIG. 8.2 Distribuzione geografica dei tassi standardizzati (per 100.000 abitanti) di incidenza e mortalità del carcinoma mammario in Italia. Da: http://www.tumori.net. Calabria Sicilia <93 93-110 >110 Puglia Basilicata Sicilia <17,7 17,7-18,3 >18,3 Ca pito l o 8 donna, mentre nel resto del mondo occidentale i due tassi sostanzialmente si equivalgono (Globocan, 2008). In Italia, con circa 7.600 decessi per anno e un tasso di mortalità standardizzato sulla popolazione mondiale che si attesta a circa 11,3/100.000 (pari a circa 12,6/100.000 con standardizzazione sulla popolazione europea), il carcinoma della mammella rappresenta, di gran lunga, la principale causa di decesso per neoplasia nella donna (http://www.tumori.net). La distribuzione geografica dei tassi di mortalità non è uniforme sul territorio nazionale, ma non è direttamente correlata a quella dei tassi di incidenza e non si osserva alcun chiaro trend da Nord a Sud (si veda Fig. 8.2). In termini di trend temporale, la mortalità per carcinoma mammario, negli ultimi tre decenni, è aumentata nella maggior parte del mondo, a eccezione dei paesi occidentali, dove, a partire dagli anni Novanta, si è registrata una brusca inversione di tendenza. Infatti, nella maggior parte dei paesi sviluppati, inclusa l’Italia (si veda Fig. 8.3), i tassi di mortalità si sono quasi dimezzati rispetto a quelli di due decenni fa. La riduzione di mortalità appare, perlopiù, dissociata dalla riduzione di incidenza che si sta osservando nelle stesse aree: è, infatti, nettamente più marcata e più precoce. Questa dissociazione incidenza/mortalità è considerata la prova epidemiologica dei progressi diagnosticoterapeutici ottenuti e della loro applicazione su scala di popolazione. FATTORI EZIOLOGICI Il carcinoma della mammella, al pari della maggior parte dei tumori solidi, è una malattia multifattoriale e non è, pertanto, possibile parlare di fattori eziologici in senso stretto, quanto di fattori di rischio. Gli studi di epidemiologia descrittiva evidenziano come vi siano grandi differenze di incidenza tra diverse aree geografiche. Inoltre, nelle famiglie che migrano da zone a bassa incidenza verso zone ad alta incidenza, il rischio di sviluppare il tumore diventa, nel giro di poche generazioni, sovrapponibile a quello della popolazione dell’area di residenza. Questi dati suggeriscono l’esistenza di fattori eziologici legati all’ambiente e alle abitudini di vita, e quindi, come tali, potenzialmente modificabili. Comunque, al momento, nessuno dei fattori di rischio ambientali e comportamentali noti è sufficiente- N e o p lasi e della mammella mente forte da spiegare le differenze di incidenza in diverse parti del mondo. È presumibile, pertanto, che più che di veri e propri fattori causali si tratti di indicatori di rischio a essi correlati. Gli studi epidemiologici hanno individuato molteplici indicatori di rischio per carcinoma della mammella e la complessità delle loro interazioni ha condotto allo sviluppo di modelli matematici atti a calcolare il rischio soggettivo di sviluppare un carcinoma mammario. I più noti sono il modello di Gail (reperibile anche online all’indirizzo http://www.cancer.gov/bcrisktool/), il modello di Claus e il modello di Cuzick-Tyrer. Questi modelli, insieme al modello BRCAPRO che stima la probabilità di mutazioni dei geni BRCA (si veda oltre), sono spesso utilizzati nell’ambito della stima del rischio familiare per individuare i soggetti che necessitano di particolari strategie di sorveglianza e/o prevenzione. I principali fattori di rischio noti per carcinoma mammario sono riportati nella tabella 8.1 e sono discussi sinteticamente di seguito. Età A oggi, l’età sembra essere il più forte fattore di rischio per carcinoma mammario. La probabilità di sviluppare un cancro al seno aumenta, infatti, esponenzialmente con l’aumentare dell’età (Tab. 8.2). Come si evince dalla tabella 8.2 si passa da una percentuale dello 0,44% delle donne con un’età di 30 anni (1/227) al 2,38% a 50 anni (1/42) e al 3,82% per le donne di 70 anni (1/26). Le ragioni di questa correlazione con l’età sono varie e facilmente intuibili. Per esempio, potrebbe giocare un ruolo il progressivo e continuo stimolo proliferativo TABELLA 8.1 Principali fattori di rischio per lo sviluppo di carcinoma mammario t t t t t t t Età Familiarità ed ereditarietà Radiazioni ionizzanti Fattori riproduttivi Fattori ormonali Fattori dietetici Fattori antropometrici e metabolici 120 100 80 60 40 20 2008 2007 2006 2005 2004 2003 2002 2001 2000 1999 1998 1997 1996 1995 1994 1993 1992 1991 1990 1989 1988 1987 0 1986 FIG. 8.3 Trend temporale di incidenza (linea azzurra) e mortalità (linea nera) per carcinoma mammario in Italia. Da: AIRTUM-AIOM. I numeri del cancro in Italia. Intermedia Editore, Brescia, 2008. Tasso standardizzato ! 100.000 140 253 254 Capitolo 8 Neo p la sie d ella m a m m ella TABELLA 8.2 Probabilità di sviluppare un carcinoma mammario nelle diverse fasce di età Età % Assoluto 30 0,44 1/227 40 1,47 1/68 50 2,38 1/42 60 3,56 1/28 70 3,82 1/26 www.cancer.gov/cancertopics/factsheet/Detection/probability-breast-cancer endocrino che l’epitelio mammario subisce nel corso del tempo. Inoltre, il danneggiamento progressivo del DNA che si verifica con l’età e l’accumularsi progressivo di alterazioni epigenetiche potrebbero alterare l’equilibrio di espressione tra oncogeni e geni soppressori, conducendo all’espressione patologica di geni legati al ciclo cellulare e alla perdita dei controlli regolatori a livello dei fattori di crescita e ai loro recettori. Familiarità ed ereditarietà L’importanza della familiarità e dell’ereditarietà come fattore di rischio è, nell’immaginario collettivo, esagerata. Infatti, solo circa il 5-7% dei nuovi casi insorge in soggetti con anamnesi familiare positiva per carcinoma mammario, mentre il rimanente 93-95% rientra nei cosiddetti “casi sporadici”. Il rischio di ammalarsi di cancro della mammella è, comunque, circa il doppio nei parenti di primo grado di una paziente con tumore mammario, rispetto alla popolazione senza familiarità specifica. Al momento, solo circa il 30% dei casi familiari riconosce una chiara trasmissione genetica dovuta alla presenza di mutazioni in loci genetici “ad alta suscettibilità” (Fig. 8.4). In questi casi, si tende a osservare una chiara presenza di “cluster” familiari di carcinoma mammario, con più di un parente di primo grado che sviluppa la malattia, in particolare in età relativamente giovane (<50 anni). Altri criteri che suggeriscono una chiara ereditarietà sono rappresentati dal carcinoma bilaterale e dalla presenza di parenti maschi con carcinoma della mammella o di parenti con tumori ovarici. I due geni più importanti ai fini A della predisposizione ereditaria sono il BRCA1 e BRCA2, che sono stati identificati con analisi di linkage nella metà degli anni Novanta e svolgono un ruolo nel meccanismo di riparo del DNA nota come “ricombinazione omologa” (Wooster e Weber, 2003). Più recentemente, molti altri loci genici legati allo sviluppo di carcinoma mammario sono stati identificati. Alcuni di questi sono coinvolti in rare sindromi genetiche caratterizzate, tra l’altro, da un’elevata suscettibilità allo sviluppo di carcinoma mammario (per esempio, le mutazioni di TP53 tipiche della sindrome di Li-Fraumeni). In caso di mutazione di loci ad alta suscettibilità, la probabilità di sviluppare un carcinoma mammario nel corso della vita è particolarmente elevata e varia tra il 40% e il 65%. In questi casi, quindi, il rischio è così alto che i soggetti portatori dovrebbero essere inseriti in specifici programmi di prevenzione e/o sorveglianza. È oramai chiaro, comunque, che la maggior parte dei casi familiari possa essere dovuto a multiple alterazioni geniche che riguardano alleli a bassa penetranza che si combinano dando luogo ad alterazioni multigeniche a penetranza più o meno alta. Questi alleli, indicati normalmente come BRCAX, sono, per la maggior parte, ancora da identificare (si veda Fig. 8.4) (Melchor e Benitez, 2013). Fattori riproduttivi È noto da tempo che esiste una correlazione inversa tra l’età della prima gravidanza e il rischio di carcinoma mammario e si ipotizza che, in parte, questo sia dovuto al potente stimolo differenziativo che ciascuna gravidanza, in particolare la prima, esercita sull’epitelio ghiandolare mammario, riducendone la suscettibilità alla trasformazione. Anche il numero di gravidanze a termine, per gli stessi motivi, sembrerebbe correlare con un ridotto rischio di carcinoma mammario. Meno chiaro è, invece, il ruolo delle interruzioni di gravidanza, che potrebbero, invece, correlare con un aumento del rischio, per il prevalere sulla ghiandola dello stimolo proliferativo della prima parte della gravidanza su quello differenziativo tipico della parte conclusiva della gestazione. L’allattamento sarebbe anch’esso associato a un rischio ridotto, ma questa associazione potrebbe solo essere dipendente dall’azione protettiva della gravidanza associata. Fattori di rischio acclarati sono, infine, rappresentati da un menarca precoce e da una menopausa tardiva, probabilmente perché indicatori di una più lunga esposizione dell’epitelio ghiandolare agli stimoli proliferativi degli estrogeni ovarici. Tutti i pazienti con tumori mammari B Pazienti con cancro mammario familiare BRCAX familiari Altri geni a bassa suscettibilità ancora da identificare 51% Geni a bassa suscettibilità 67 geni identificati finora 14% FIG. 8.4 Distribuzione dei carcinomi mammari in base alla presenza di familiarità. A. I cancri mammari “familiari” rappresentano una minoranza di tutti i tumori mammari. B. Distribuzione dei casi familiari sulla base dei loci genici mutati. Modificato da: Melchor e Benitez. Human Genetics 2013. Cancri mammari sporadici 93-95% Cancri mammari familiari 5-7% Geni a moderata suscettibilità ATM, BRIP1, CHEK2, NBS1, RAD50, RAD51B, RAD51C, RAD51D, PALB2 e XRCC2 5% Geni ad alta suscettibilità BRCA1 e BRCA2 25% Geni relativi a sindromi ad alta suscettibilità CDH1, PTEN, STK11 e TP53 5% Ca pito l o 8 Fattori dietetici I fattori dietetici sono stati oggetto di numerosi e approfonditi studi ma, contrariamente a quanto comunemente ritenuto, sono ancora oggi argomento di grande controversia. La grande variabilità nella distribuzione geografica della malattia, con un’incidenza nettamente più alta nei paesi industrializzati, ha fatto a lungo ipotizzare che una dieta di tipo “occidentale” fosse correlata al rischio di insorgenza del tumore. In realtà, nonostante i numerosi studi analitici volti a suffragare questa ipotesi, i risultati ottenuti sono stati contrastanti. Al momento attuale, sebbene sia impossibile trarre conclusioni certe, il rischio di carcinoma della mammella sembrerebbe essere direttamente associato al consumo di grassi animali e inversamente correlato a quello di fibre vegetali. Anche il consumo di alcol comporterebbe un aumento del rischio, mentre il contenuto di folati della dieta eserciterebbe un ruolo protettivo, soprattutto nei soggetti bevitori. In ogni caso, l’entità del rischio correlato a questi specifici aspetti dietetici sembrerebbe, nella migliore delle ipotesi, piuttosto limitata. Stanno, invece, assumendo via via più importanza, le aberrazioni dietetiche che conducono all’insorgenza di obesità e sindrome metabolica (si veda paragrafo “Fattori antropometrici e metabolici”). N e o p lasi e della mammella Con tale termine ci si riferisce alla combinazione di almeno tre dei seguenti problemi: obesità addominale, alterato metabolismo glicidico (diabete o prediabete), lipidi elevati (colesterolo e/o trigliceridi) e ipertensione arteriosa. È noto che la sindrome metabolica aumenti il rischio di patologie cardiovascolari, ma dati recenti suggeriscono che anche il rischio per carcinoma della mammella sia circa doppio nei soggetti che sviluppano la sindrome. Il meccanismo patogenetico che lega la sindrome metabolica al rischio di carcinoma mammario non è noto con certezza, ma si suppone sia legato alla resistenza all’insulina che si sviluppa nei soggetti affetti dalla sindrome e a cui l’organismo reagisce aumentando i livelli insulinemici. L’insulina, agendo sul recettore di membrana per il fattore di crescita insulino-simile-1 (IGF1R), è potenzialmente in grado di stimolare la crescita del carcinoma della mammella. Il IGF1R, a sua volta, attiva vie di trasduzione intracellulare del segnale (quali RAS-RAF-MAPK e PI3K-AKT-mTOR) fondamentali per la crescita neoplastica e in grado di attivare in cross-talk il pathway di crescita fondamentale delle cellule mammarie, cioè quello dei recettori per gli estrogeni (Fig. 8.5). Lo sviluppo della sindrome metabolica poggia su una chiara predisposizione genetica. Tuttavia, al suo sviluppo contribuiscono in maniera determinante uno stile di vita sedentario e una dieta ricca in calorie, grassi e carboidrati semplici. Ne deriva che uno stile di vita sano, con attività fisica regolare e dieta povera in grassi e carboidrati semplici e ricca in vegetali e frutta, possa indirettamente contribuire a ridurre il rischio di cancro della mammella, almeno nei soggetti geneticamente predisposti alla sindrome metabolica. Fattori antropometrici e metabolici L’obesità è un acclarato fattore di rischio per il carcinoma mammario, probabilmente perché un eccesso di tessuto adiposo, che nella donna in postmenopausa rappresenta la principale fonte di estrogeni circolanti, si traduce in un eccessivo stimolo ormonale sulla ghiandola mammaria. Particolare attenzione ha ricevuto recentemente la cosiddetta sindrome metabolica. I GF1R Grb2 Cbl P85 Sos Ras P110 Raf Soppressione dell’apoptosi PI3K MAPKK AKT MAPK m TOR pp90rsk Ciclina D1, c.myc Scr 118 P Scr 167 P Scr P E 104/106 R FIG. 8.5 Rappresentazione schematica delle vie di trasduzione del segnale attivate da IGF1R potenzialmente rilevanti nel carcinoma mammario. IGF1R: recettore per il fattore di crescita insulino-simile 1; ER: recettore degli estrogeni. P CoE attivatori R P CBP Complesso di trascrizione ERE Geni sotto il controllo estrogenico Proliferazione e.fos AP-1 c.jun 255 256 Capitolo 8 Neo p la sie d ella m a m m ella Fattori ormonali Gli ormoni sessuali giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo e nella progressione del carcinoma mammario. Vari studi hanno, pertanto, cercato di identificare un particolare profilo ormonale che fosse associato a un incremento del rischio e rendesse conto delle differenze di incidenza nelle diverse popolazioni. Nel complesso, i vari studi attribuiscono un ruolo causale ai livelli e alla durata di esposizione agli estrogeni. L’ipotesi estrogenica ha il pregio di stabilire un legame comune tra i vari fattori di rischio individuati dagli epidemiologi. La maggior parte di essi configura, infatti, situazioni di aumentata esposizione dell’epitelio ghiandolare mammario a tali ormoni. Controverso è invece il ruolo dei progestinici, fino a poco tempo fa ritenuti protettivi come per il carcinoma dell’endometrio. I dati sperimentali più recenti sembrano sovvertire completamente tale visione, individuando in essi un ulteriore fattore di rischio. Sulla base delle evidenze sperimentali di un’eziologia ormonale del carcinoma mammario, l’attenzione degli epidemiologi si è rivolta a stabilire il rapporto tra assunzione di ormoni esogeni e il rischio di sviluppo di malattia. Alcuni studi hanno evidenziato, per esempio, un incremento del rischio nelle pazienti che assumono una terapia sostitutiva ormonale per prevenire i tipici disturbi della postmenopausa. Il rischio relativo legato a questa terapia sarebbe comunque intorno a 1,5, ma solo per assunzioni prolungate (almeno 8-10 anni). Abbastanza ridimensionato, invece, il ruolo dei contraccettivi orali, che con le moderne associazioni estro-progestiniche a basso dosaggio sembrerebbero legati a un aumento limitato del rischio, soprattutto per assunzioni prolungate con inizio in età molto giovane. In aggiunta agli ormoni sessuali, un ruolo spetterebbe anche al fattore di crescita insulino-simile (IGF) i cui livelli circolanti correlerebbero con il rischio di carcinoma mammario nelle donne in premenopausa (Hankinson et al., 1998) e alla prolattina, i cui livelli correlerebbero con il rischio sia in pre- che in post-menopausa (Tworoger et al., 2007). ANATOMIA PATOLOGICA CLASSIFICAZIONE ISTOLOGICA La ghiandola mammaria è composta da tessuto epiteliale ghiandolare immerso in un denso stroma fibro-adiposo. Nella donna adulta la ghiandola mammaria comprende circa 27 unità funzionali definite lobi. Ciascun lobo è drenato da un dotto galattoforo che sbocca nel capezzolo e si dirama verso il parenchima in dotti segmentari fino all’unità funzionale, secernente, definita unità terminale duttulo-lobulare (TDLU) (Wellings e Jensen, 1973) (Fig. 8.6). L’unità duttulo-lobulare è rivestita da due strati di cellule: ● ● interno: cellule epiteliali (luminali) che rivestono il lume ghiandolare. Le cellule luminali hanno forma cilindrica o cubica ed esprimono citocheratine 8, 18 e 19, -lactoalbumina e antigene epiteliale di membrana; esterno: cellule mioepiteliali (basali) che poggiano sulla membrana basale. Le cellule basali hanno forma allungata e contengono sia filamenti tipici delle cellule epiteliali (citocheratine 5, 6) sia filamenti contrattili tipici delle cellule muscolari lisce (actina muscolo liscio, calponina, caldesmone, miosina a catene pesanti). 4"''")8-.-''"9"+" !"#" 6&#+*)*.-3'&57* 4"''")3*5+*'"+&" 2*..0.* #-3-.& $%&'()'*+,&%-.* /0''0."1.0#0.-+* FIG. 8.6 Struttura della ghiandola mammaria: dal lobo all’unità terminale duttulo-lobulare. 2*..0.* .0,&%-.& 40''0." !"#0." 2-+5&%",-)!"#$!%& 2-+5&%",-)&%9&.'+-%'* Ca pito l o 8 I dotti escretori sono circondati da uno strato di fibre elastiche, che si interrompe a livello delle diramazioni di minor calibro ed è assente intorno all’unità duttulolobulare che è invece circondata da un stroma connettivale lasso contenente piccoli vasi capillari e linfatici (Mariuzzi, 2007). Il 95% delle lesioni neoplastiche della mammella, indipendentemente dal fatto che si sviluppino come forme duttali o lobulari, deriva dalle cellule della TDLU N e o p lasi e della mammella (Wellings e Jensen, 1973). La classificazione istopatologica di riferimento per i tumori mammari è quella della WHO (Tab. 8.3) (Lakhani et al., 2012). Carcinoma in situ Per carcinoma in situ si intende una neoplasia maligna che rimane localizzata nella struttura nella quale insorge. TABELLA 8.3 Classificazione dei tumori della ghiandola mammaria secondo WHO 2012 Tumori epiteliali Carcinoma microinvasivo Carcinoma mammario infiltrante Carcinoma infiltrante di tipo non specifico (NAS) Carcinoma lobulare infiltrante Carcinoma tubulare Carcinoma cribriforme Carcinoma mucinoso Carcinoma con caratteristiche midollari Carcinoma con differenziazione apocrina Carcinoma infiltrante micropapillare Carcinoma apocrino Carcinoma con differenziazione ad anello con sigillo Carcinoma metaplastico di tipo non speciale Tipi rari Carcinoma con caratteristiche neuroendocrine Carcinoma secretorio Carcinoma papillare invasivo Carcinoma a cellule aciniche Carcinoma mucoepidermoidale Carcinoma polimorfo Carcinoma oncocitico Carcinoma ricco in lipidi Carcinoma a cellule chiare ricche di glicogeno Carcinoma sebaceo Tumori tipo ghiandole salivari/annessi cutanei Tumori epiteliali-mioepiteliali Adenoma pleomorfo Adeno-mioepitelioma Carcinoma adenoidocistico Precursori Carcinoma duttale in situ Neoplasia lobulare Lesioni proliferative intraduttali Iperplasia duttale usuale Lesioni con cellule a colonna comprendenti l’atipia epiteliale piatta Iperplasia duttale atipica Tumori mesenchimali Fascite nodulare Miofibroblastoma Fibromatosi di tipo desmoide Tumore infiammatorio miofibroblastico Lesioni vascolari benigne Iperplasia stromale pseudoangiomatosa Tumore a cellule granulari Tumore benigno delle guaine dei nervi periferici Lipoma Liposarcoma Angiosarcoma Rabdomiosarcoma Osteosarcoma Leiomioma Leiomiosarcoma Tumori fibroepiteliali Fibroadenoma Tumore filloide Amartoma Tumori del capezzolo Adenoma del capezzolo Tumore siringomatoso Malattia di Paget del capezzolo Linfomi maligni Linfoma diffuso a grandi cellule di tipo B Linfoma di Burkitt Linfoma a cellule T Linfoma extranodale di tipo marginale a cellule B o tipo MALT Linfoma follicolare Tumori metastatici Tumori della mammella maschile Ginecomastia Carcinoma invasivo Carcinoma in situ Lesioni papillari Papilloma intraduttale Carcinoma papillare intraduttale Carcinoma papillare incapsulato Carcinoma papillare solido Proliferazioni epiteliali benigne Adenosi sclerosante Adenosi apocrina Adenosi microghiandolare Radial scare/lesione sclerosante complessa Adenomi Modificata da: Lakhani S, Ellis IO, Schnitt SJ et al. WHO classification of tumour of the breast. 4th ed. IARC, Lyon, 2012. 257 258 Capitolo 8 Neo p la sie d ella m a m m ella Pertanto, un carcinoma in situ non ha la possibilità di metastatizzare, non venendo in contatto con i vasi. In epoca premammografica, la forma in situ costituiva il 5% dei carcinomi mammari; dopo l’introduzione dello screening mammografico, la sua incidenza è salita a circa il 20%. Vengono identificati tre sottotipi di carcinoma non invasivo: carcinoma duttale in situ (DCIS; neoplasia intraepiteliale duttale [DIN] e carcinoma intraduttale ne sono sinonimi), carcinoma lobulare in situ (LCIS o neoplasia intraepiteliale lobulare [LIN]) e malattia di Paget del capezzolo. DCIS e LCIS, a loro volta, sono classificati prevalentemente in base ai caratteri citologici. Il carcinoma duttale in situ (Fig. 8.7) è diviso, in base ai caratteri nucleari, in grado 1, 2 e 3, il carcinoma lobulare si distingue in tipo usuale e pleomorfo. Pur mancando di potenziale di metastatizzazione, il DCIS può recidivare o evolvere verso il carcinoma invasivo. Il 27% dei DCIS a basso grado recidiva a 10 anni, di questi il 41% presenterà componente invasiva. Tra i DCIS ad alto grado il 56% (44% in forma invasiva) recidiva a 10 anni. Per quanto riguarda il carcinoma lobulare in situ, la sua evoluzione verso una forma invasiva è dubbia e, verosimilmente, limitata all’istotipo pleomorfo. Pertanto, il carcinoma lobulare in situ è da intendersi più come un fattore di rischio che come una lesione preinvasiva. nodulo palpabile e in ecografia/mammografia si evidenzia come un nodulo a margini mal definiti o spiculati associato o no a microcalcificazioni. Microscopicamente si osserva presenza di cellule atipiche disposte in cordoni solidi, gruppi, trabecole e talvolta in strutture ghiandolari irregolari che permeano e infiltrano lo stroma. L’istotipo lobulare (Fig. 8.9), costituisce il 5-15% dei tumori mammari. Nel 20% dei casi si presenta come multicentrico o bilaterale. Le cellule che lo costituiscono sono piccole, poco coese, spesso con disposizione a “filiera”. Tra le varianti alla forma classica di carcinoma lobulare, l’istotipo pleomorfo è degno di nota per comportamento aggressivo e prognosi peggiore (Eusebi et al., 1992). Per essere classificato come duttale o lobulare, un carcinoma mammario deve mostrare un pattern istologico non specifico in almeno il 50% della sua componente. Negli altri casi, le caratteristiche patologiche permettono l’attribuzione del tipo a forme speciali. Gli istotipi specifici si distinguono, oltre che per gli aspetti morfologici, per il peculiare comportamento clinico. Per ogni istotipo esistono varianti e forme miste. La malattia di Paget è clinicamente caratterizzata da un essudato o eczema del capezzolo e dell’areola causata dalla presenza di cellule epiteliali ghiandolari maligne nello spessore dell’epitelio squamoso dell’epidermide del capezzolo e dell’areola. Solo nell’1,4-13% dei casi la malattia di Paget non è associata a carcinoma infiltrante o in situ sottostante (Edge et al., 2010). Carcinoma invasivo Il carcinoma invasivo è tale quando si estende oltre la membrana basale, infiltrando lo stroma sottostante. Il carcinoma duttale invasivo o infiltrante (Fig. 8.8) rappresenta il tipo istologico più comune e comprende fino all’80% di tutti i casi. Esso si manifesta solitamente come FIG. 8.7 Carcinoma duttale in situ. FIG. 8.8 Carcinoma duttale infiltrante. FIG. 8.9 Carcinoma lobulare infiltrante. Ca pito l o 8 Il carcinoma tubulare si caratterizza per presenza di tubuli a profilo angolato con lume beante e desmoplasia stromale. Rispetto al duttale NAS, compare in età più avanzata, ha un diametro inferiore e meno frequentemente si accompagna a metastasi linfonodali. La prognosi, soprattutto per l’istotipo puro, è molto favorevole. TABELLA 8.4 Criteri di attribuzione dei punteggi alle tre variabili secondo il Nottingham Breast Cancer Grading System L’istotipo papillare si distingue per architettura papillare all’interno di dotti o cisti, con presenza di invasione stromale. Prevale in postmenopausa e rappresenta meno del 2% dei carcinomi mammari. La prognosi è buona. Cellule aggregate in laghi di muco e talora a differenziazione neuroendocrina configurano il carcinoma mucinoso. L’età media di presentazione supera i 60 anni (Capella et al., 1980). Il potenziale di malignità è basso. Il carcinoma midollare non forma né ghiandole né tubuli, oltre il 75% della lesione è ad architettura sinciziale. Si caratterizza per cospicuo infiltrato linfoide intralesionale, atipia marcata, numerose mitosi e margini espansivi. Rappresenta il 5% dei tipi invasivi e si associa spesso alla mutazione BRCA1. Nei casi di recidiva entro 5 anni dal trattamento, è stata descritta evoluzione rapida e infausta. Tutti carcinomi mammari (a eccezione del carcinoma midollare) devono, inoltre, essere studiati relativamente al loro grado istologico. Il sistema di riferimento è l’Elston-Ellis Modification of Scarff-Bloom-Richardson Grading System. Esso assegna un punteggio al tumore sulla base di tre variabili: la formazione di strutture ghiandolari da parte delle cellule tumorali, il pleomorfismo nucleare e il numero di mitosi per campo microscopico ad alto ingrandimento (HPF). Per ciascuna di queste variabili, il punteggio (score) può variare da 1 a 3 (Tab. 8.4). La somma dei punteggi delle singole variabili determina il grado istologico del tumore (Tab. 8.5) (Elston e Ellis, 1991; Fitzgibbons et al., 2000). Classificazione molecolare e immunofenotipica La recente introduzione della valutazione genomica di DNA e mRNA ha portato a una nuova classificazione del carcinoma mammario, insieme al concetto che esso comprende entità patologiche distinte. Le nuove tecnologie del microarray permettono di studiare e quantificare, nei diversi tumori, l’espressione di una grande quantità di geni contemporaneamente (Cotran et al., 2000). La classificazione del carcinoma mammario secondo la espressione genica è un prezioso strumento per predire Percentuale formante ghiandole Pleomorfismo nucleare Indice mitotico Score 1 >75% Nuclei piccoli e uniformi Score 2 10-75% Aumento di grandezza dei nuclei e variabilità moderata Dipendenza dall’area di campo del microscopio Score 3 <10% Marcata variabilità TABELLA 8.5 Correlazione tra punteggio totale, grado istologico e prognosi Punteggio totale L’adenoidocistico può essere classificato fra gli istotipi a buona prognosi, anche se la scarsa frequenza (<0,1%) rende difficile affermarlo con certezza. Il carcinoma infiammatorio deriva dall’interessamento dei vasi linfatici che, invasi dalle cellule tumorali, determinano una modificazione che simula il processo infiammatorio in mammella e cute. La diagnosi di carcinoma infiammatorio è in primo luogo clinica. La lesione eritematosa della cute, che presenta aspetti a “buccia di arancia”, occupa solitamente oltre un terzo della superficie mammaria e si associa a linfedema. Il carcinoma infiammatorio, fra tutti, ha la prognosi peggiore e si osserva nell’1-6% dei casi di tumore mammario (Wellings e Jensen, 1973; Mariuzzi, 2007). N e o p lasi e della mammella Grado istologico Prognosi GX – non determinabile 3-5 G1 – ben differenziato Buona 6-7 G2 – moderatamente differenziato Intermedia 8-9 G3 – scarsamente differenziato Sfavorevole il rischio di recidiva e il beneficio da endocrinoterapia o chemioterapia nel singolo paziente. La sua applicazione si inserisce ad hoc nell’obiettivo di individualizzazione della gestione del paziente oncologico (tailored approach). I sottotipi definiti da criteri immunofenotipici sono simili ma non identici ai sottotipi intrinseci (classificazione genomica), rappresentandone comunque una conveniente approssimazione (Tab. 8.6). I profili genetici e i corrispettivi immunofenotipi di riferimento sono: ● ● ● ● luminal A: tumori che esprimono i recettori ormonali (estrogeni [ER] positivi e/o progesterone [PgR] positivi) con indice di proliferazione (Ki67) 14%; luminal B: ● HER2 negativi: tumori che esprimono i recettori ormonali (ER positivi e/o PgR positivi) con indice di proliferazione (Ki67) >14%; ● HER2 positivi: tumori che esprimono i recettori ormonali (ER positivi e/o PgR positivi) e che presentano l’iperespressione della proteina HER2 o l’amplificazione del gene HER2/neu; HER2 enriched: tumori HER2 positivi, ma non esprimono i recettori ormonali; triple negative (TN): ● basal like: tumori che non esprimono né i recettori ormonali né presentano positività per HER2, ma 259 260 Capitolo 8 Neo p la sie d ella m a m m ella TABELLA 8.6 Criteri immunoistochimici di definizione dei sottotipi di carcinoma mammario ER e/o PgR HER2 CK5/6 EGFR Ki67 + ! Qualsiasi Qualsiasi ! HER2 negativo + ! Qualsiasi Qualsiasi + HER2 positivo + + Qualsiasi Qualsiasi Qualsiasi !/! + Qualsiasi Qualsiasi Basal-like !/! ! + o l’uno o l’altro Non basal !/! ! ! Luminal A Luminal B HER enriched Triple negative ● esprimono alcune proteine peculiari quali EGFR o alcune citocheratine (5, 6); non basal: tumori che non esprimono né i recettori ormonali (ER e PgR negativi) né presentano positività per HER2, EGFR e citocheratine 5, 6. I tumori luminal A hanno andamento indolente, si caratterizzano per la sensibilità all’ormonoterapia con antiestrogeni e per la scarsa responsività agli agenti citotossici. La loro prognosi è, tra tutti, la migliore. Per quanto riguarda i luminal B, la sensibilità all’ormonoterapia è incompleta e il trattamento chemioterapico è da prendersi in considerazione. La presenza fra i luminal di forme HER2 positive offre la possibilità di affiancare con successo una terapia anti-HER2. Il TN è un fenotipo aggressivo. Dato il suo profilo di espressione recettoriale, l’unica opzione terapeutica rimane quella citotossica, alla quale dimostra buona sensibilità. La prognosi rimane comunque cattiva. Il fatto che l’espressione di BRCA1 sia coinvolta nella differenziazione delle cellule progenitrici in cellule luminali ER-positive è in linea con l’elevata incidenza di mutazione BRCA1 nei fenotipi TN e con la sovrapposizione di questi con i tumori basal like (80% dei casi). Le differenze tra fenotipi si osservano anche nei pattern di metastatizzazione e nelle tempistiche di recidiva. I tumori ER-negativi sono associati a maggior rischio di recidiva precoce, che nella maggior parte dei casi si verifica entro i 5 anni, a differenza degli ER-positivi per i quali il rischio è inferiore ma persiste oltre i 5 anni. Per i luminal A il rischio di recidiva, pur basso, si può concretizzare anche oltre i 15 anni. Qualsiasi Qualsiasi ! Qualsiasi L’osso è il sito prevalente di recidiva per i luminal A e B. Il sottotipo HER2 enriched ha il più alto tasso di metastasi encefaliche e si associa più frequentemente a metastasi a fegato, polmoni ed encefalo. I basal like hanno una maggiore incidenza di metastasi a polmoni, encefalo e linfonodi. L’alta frequenza di metastasi encefaliche tra i pazienti con malattia HER2 positiva e TN supporta l’utilità di una più attenta valutazione specifica neurologica, clinica e radiologica, per queste categorie (Sotiriou e Pusztai, 2009; Voduc et al., 2010; Kennecke, et al., 2010; Goldhirsch et al., 2011). SCREENING Lo screening, come tale, si attua in donne che non presentano alcun segno o sintomo di tumore mammario così che la malattia possa essere intercettata in fase preclinica e con maggiori opportunità di trarre vantaggio dalle terapie. La mammografia bilaterale è il test di screening per il carcinoma mammario. Studi clinici randomizzati hanno dimostrato, infatti, che la sua applicazione diminuisce la mortalità per carcinoma mammario (Nattinger, 2010; Nelson et al., 2009; Tabar et al., 2003). In particolare, in accordo ai risultati di una metanalisi di 7 studi, è emerso un chiaro vantaggio nella fascia di età compresa tra i 50 e i 69 anni (Tab. 8.7). È inoltre evidente come il beneficio in termini di riduzione di mortalità vari in funzione dell’età (da circa il 15% per le donne tra i 40 e i 59 anni al 32% per le donne tra i 60 e i 69 anni). La prevalenza (probabilità pre-test) del carcinoma mammario e l’accuratezza della mammografia sono altri parametri che possono TABELLA8.7 Effetti dello screening mammografico sulla mortalità per carcinoma mammario in funzione dell’età Fascia di età Trial inclusi (N) Mortalità per carcinoma mammario, riduzione del rischio (%) (IC 95%) Numero di soggetti da invitare per prevenire una morte da carcinoma mammario (N) (IC 95%) 39-49 8 0,85 (0,75-0,96) 1.904 (929-6.378) 50-59 6 0,86 (0,75-0,99) 1.339 (322-7.455) 60-69 2 0,68 (0,54-0,87) 377 (230-1.050) 70-74 1 1,12 (0,73-1,72) Non valutabile Modificata da: US Preventive Services Task Force. Ann Int Med 2009. Ca pito l o 8 N e o p lasi e della mammella La gestione dell’esame di screening si basa sull’età e sul grado di rischio per carcinoma mammario della donna (Fig. 8.10). Nella donna con un rischio normale per carcinoma mammario l’evidenza che supporta lo screening è maggiore se ha età compresa tra i 50 e i 69 anni. La cadenza raccomandata è biennale (White et al., 2004). Rimane dibattuto l’approccio alle donne di età inferiore ai 50 anni o superiore ai 70 anni. Tra i 40 e i 49 anni, dal momento essere influenzati dall’età dei soggetti screenati e che, a loro volta, possono incidere sull’efficacia dello screening mammografico (Tab. 8.8). D’altro canto, non esiste alcuna evidenza scientifica di efficacia quali test di screening per l’autoesame, l’esame clinico della mammella e l’ecografia mammaria (Hackshaw e Paul, 2003; Miller et al., 2000; Baines et al., 1989; Teh e Wilson, 1998). TABELLA 8.8 Effetti dello screening mammografico in base alla fascia di età Fascia di età 40-49 50-59 60-69 70-79 80-89 Falsi positivi della mammografia 97,8 86,6 79,0 68,8 59,4 Carcinomi invasivi identificati dallo screening 1,8 3,4 5,0 6,5 7,0 Carcinomi in situ diagnosticati dallo screening 0,8 1,3 1,5 1,4 1,5 Numero di mammografie per soggetto screenato al fine di diagnosticare un caso di carcinoma invasivo 556 294 200 154 143 Numero di soggetti sottoposti a biopsia al fine di diagnosticare un caso di carcinoma invasivo 5 3 2 2 1.5 Effetti dello screening ogni 1.000 donne screenate (N) Effetti dello screening per ogni screening round (N) Modificata da: US Preventive Services Task Force. Ann Int Med 2009. 40 anni <50 Rischio normale 50 anni <70 anni In relazione a familiarità e fattori di rischio Esame clinico mammella / 1 anno Mammografia / 2 anni Autoesame In relazione a comorbilità Asintomatica, esame obiettivo negativo Precedente radioterapia toracica Rischio aumentato Sintomatica o esame obiettivo positivo Esame clinico mammella Mammografia/Ecografia mammaria Autoesame Forte familiarità o predisposizione genetica Altre cause di rischio aumentato Procedere con diagnosi clinico-radiologica FIG. 8.10 Gestione del test di screening. RM: risonanza magnetica; RT: radioterapia. Esame clinico mammella Mammografia Autoesame Mammografia annuale (iniziare 8-10 anni dopo la RT o ai 25 anni) Considerare RM annuale Autoesame Mammografia annuale (iniziare ai 25 anni o 5-10 anni prima del caso più giovane in famiglia) Autoesame Valutare RM annuale Consulenza genetica Mammografia annuale Esame clinico ogni 6-12 mesi Autoesame 261 262 Capitolo 8 Neo p la sie d ella m a m m ella che il beneficio assoluto dello screening è inferiore (Moss et al., 2006; Berg, 2010), la decisione va condivisa con la donna e la cadenza va personalizzata sui fattori di rischio quali storia familiare e densità del tessuto mammario. Per le donne di età superiore ai 70 anni i controlli mammografici biennali possono essere considerati quando, in relazione alle comorbilità, non pesano sulla qualità di vita del soggetto. Nelle donne portatrici del gene BRCA1 l’aggiunta della RM alla mammografia è vantaggiosa in termini di costo/ efficacia rispetto al solo screening mammografico (Plevritis et al., 2006). I controlli dovrebbero essere iniziati all’età di 25 anni o 10 anni prima dell’età di insorgenza del tumore nel familiare più giovane. I soggetti con un test di screening positivo devono essere sottoposti alle procedure diagnostiche (indagini di secondo livello) atte ad accertare la presenza della malattia. Recentemente, l’esame mammografico è stato messo in discussione per il danno da overdiagnosis che, come per tutti i test di screening, si accompagna alla sua applicazione. Il danno da overdiagnosis si manifesta in termini di tossicità a breve e lungo termine dei trattamenti, peggioramento della qualità di vita e costi ingiustificati. Tra le diagnosi di DCIS e carcinoma mammario invasivo, la frequenza di overdiagnosis è del 31% (frequenza stimata per l’invasivo: 20%). Tale porzione di donne sarà sottoposta a intervento chirurgico, terapia radiante, trattamento ormonale e/o chemioterapico per un’anomalia che non avrebbe determinato, nel corso della vita, sintomi. Inoltre, va osservato che può essere improprio attribuire la riduzione in mortalità per tumore della mammella, riscontrata negli ultimi anni, esclusivamente all’aumento delle diagnosi precoci. Tale vantaggio in sopravvivenza è infatti attribuibile, in gran parte, al miglioramento delle opzioni terapeutiche (Bleyer e Welch, 2012). ● ● linfoadenopatia ascellare; dolore (Casciato e Barry, 2000). La visita clinica è una parte indispensabile della gestione della paziente in fase sia diagnostica sia terapeutica. L’esame senologico richiede scrupolosità accompagnata a delicatezza e discrezione, in considerazione del naturale imbarazzo che lo accompagna. Nella valutazione della donna operata per carcinoma mammario è doverosa l’analisi minuziosa della cicatrice chirurgica (nell’esclusione della recidiva locale). Il carcinoma mammario tende a diffondere precocemente per via linfatica. L’esame obiettivo della mammella deve quindi essere sempre accompagnato dall’accurata valutazione dei linfonodi ascellari, sovraclaveari e laterocervicali. L’esame toracico permette la ricerca di eventuale versamento pleurico. La semeiotica addominale deve comprendere la valutazione epatica. La digitopressione ossea è importante per lo studio delle localizzazioni secondarie. Semeiotica radiologica La mammografia non ha valenza solo in termini di test di screening, essa è da considerarsi l’esame cardine della diagnostica senologica. In presenza di noduli palpabili, la sua accuratezza diagnostica è superiore al 90%. La sensibilità della mammografia è pari all’85-90% se la mammella è ricca di strutture adipose, ma scende al di sotto del 70% se la componente adiposa è poco rappresentata. Ciò accade più frequentemente in mammelle di donne giovani, dove è bene integrarla con l’esame ecografico (Fig. 8.11) (i cui reperti vengono valutati secondo 6 categorie similari a quelle mammografiche). DIAGNOSI Semeiotica clinica Circa la metà dei tumori mammari origina nel quadrante supero-esterno della mammella, il 15% in quello superointerno, il 10% in quello infero-esterno e il 5% in quello infero-interno. Nel 17% dei casi l’interessamento della mammella è sottoareolare e nel 3% diffuso. La cosiddetta caratteristica “dominante” del carcinoma mammario è il ritrovamento di un nodulo in sede mammaria, tipicamente solitario, unilaterale, solido, duro, irregolare, fisso e non dolente. Il 90% dei carcinomi mammari ha questa presentazione clinica. Altri segni e sintomi sono: ● ● secrezione spontanea dal capezzolo: è il secondo segno più comune. La probabilità di un’origine maligna è maggiore se la donna supera i 50 anni di età, la secrezione è sieroematica, ematica o sierosa; alterazioni cutanee: eczema del capezzolo (tipico della malattia di Paget), eritema cutaneo, edema o indurimento sottostante in assenza di infezioni (depone per carcinoma infiammatorio); FIG. 8.11 Ecografia mammaria destra. Al quadrante supero-esterno si evidenzia area ipoecogena, a morfologia irregolare, con assorbimento del segnale acustico posteriore, riccamente vascolarizzata all’esame color Doppler, di 29 " 20 mm. Diagnosi istologica: carcinoma infiltrante NAS, grado 2 (per gentile concessione del Prof. Massimo Bazzocchi, Istituto di Radiologia, AOU di Udine). Ca pito l o 8 I risultati della valutazione mammografica vengono classificati in una delle seguenti categorie BI-RADS (Breast Imaging Reporting and Data System) (National Comprehensive Cancer Network, 2012). 1. Incompleta: richiede un addizionale esame e/o una mammografia precedente da comparare. Categoria più spesso usata nell’ambito degli esami di screening. La richiesta di un esame addizionale può includere compressione, ingrandimento, proiezioni speciali e ultrasuoni. 2. Negativa: mammella simmetrica, no masse, no distorsioni del parenchima mammario o calcificazioni sospette. 3. Reperti benigni: gli scenari tipici sono le calcificazioni apparentemente benigne come un fibroadenoma benigno, una oil cyst o un lipoma. Chi legge le immagini può scegliere di descrivere i linfonodi inframammari, le calcificazioni vascolari, protesi o distorsioni chiaramente legate a un precedente intervento chirurgico. In ogni caso si conclude per l’assenza di reperti di malignità. 4. Reperti probabilmente benigni: questo è un mammogramma di solito benigno. È però consigliato un nuovo esame a breve termine per testarne la stabilità. Il rischio di lesione maligna è stimato sotto il 2%. 5. Anomalie sospette: queste lesioni cadono tra quelle ad alto rischio di malignità ma non sono sicuramente maligne. Il rischio di malignità è molto variabile, comunque compreso tra il rischio della categoria 3 e quello della 5. Da considerare l’esecuzione di esame bioptico. 6. Altamente suggestivo di malignità: queste lesioni hanno un rischio alto di essere carcinomi ( 95%). Sono incluse le masse spiculate o le calcificazioni pleomorfe ecc. Necessario procedere con adeguati provvedimenti; 7. Biopsia nota: malignità provata. L’iter diagnostico e terapeutico è deciso in base al grado BI-RADS (Fig. 8.12). Aspetti mammografici caratteristici delle lesioni tumorali maligne sono: nodulo radiopaco a contorni irregolari, microcalcificazioni (piccole e numerose calcificazioni di diametro massimo inferiore al millimetro con distribuzione anarchica) e infiltrazione del parenchima circostante con distorsione dell’architettura della ghiandola (Fig. 8.13). La RM (Fig. 8.14) trova spazio in caso di: mammelle con protesi, stadiazione prechirurgica (multifocalità/centricità, bilateralità), mammella operata (per distinguere cicatrice da recidiva), valutazione terapie neoadiuvanti, cup syndrome, screening in donne ad alto rischio (genetico/familiare). La RM ha una sensibilità maggiore rispetto alla mammografia, ma una specificità ridotta così che numerosi sono i falsi positivi (Lord et al., 2007; Mann et al., 2008; Schnall e Orel, 2006). BI-RADS® 0 Comparare con mammografie precedenti, valutazione ecografica BI-RADS® 1-2 Continuare secondo il programma di screening BI-RADS® 3 BI-RADS® 4-5 Ripetere MX a 6 mesi (dopo ogni 6-12 mesi per 1-2 anni) Biopsia N e o p lasi e della mammella Quadro stabile o risolto Procedere come BI-RADS® 1-2 Sospetto aumentato Procedere come BI-RADS® 4-5 Benigno Mammografia a 6-12 mesi ogni 1-2 anni Iperplasia atipica, LCIS, altri ritrovamenti patologici Maligno Escissione chirurgica Trattamento del carcinoma FIG. 8.12 Percorso diagnostico-terapeutico indicato per categorie di valutazione mammografica. BI-RADS: Breast Imaging Reporting and Data System; LCIS: carcinoma lobulare in situ; MX: mammografia. 263 264 Capitolo 8 Neo p la sie d ella m a m m ella FIG. 8.13 Mammografia sinistra. Al quadrante supero-esterno si evidenziano microcalcificazioni granulari pleomorfe a distribuzione segmentale estese per 27 mm. Diagnosi istologica: carcinoma infiltrante NAS, grado 2, associato a componente intraduttale (per gentile concessione del Prof. Massimo Bazzocchi, Istituto di Radiologia, AOU di Udine). FIG. 8.14 Risonanza magnetica mammaria. In corrispondenza del quadrante supero-esterno di sinistra si evidenzia area di enhancement intenso, disomogeneo, di tipo mass-like; a morfologia irregolare e margini spiculati, di 38 mm. Diagnosi istologica: carcinoma infiltrante NAS, grado 2 (per gentile concessione del Prof. Massimo Bazzocchi, Istituto di Radiologia, AOU di Udine). I siti più comuni di metastasi da carcinoma mammario sono scheletro, polmone, fegato ed encefalo. Esistono varie metodiche radiologiche utili a identificare eventuali localizzazioni a distanza. La comparsa di metastasi epatiche si associa a cattiva prognosi. Quando le lesioni epatiche hanno diametro 2 cm sono ben visualizzabili in ecografia. Su guida ecografica è possibile inoltre effettuare un prelievo citologico o bioptico a scopo diagnostico. TC, RM e tomografia a emissione di positroni (PET/TC) permettono di individuare e caratterizzare con maggiore precisione le lesioni epatiche. La loro applicazione routinaria in pazienti asintomatici, tuttavia, non è raccomandata. Per quanto riguarda le metastasi ossee, la scintigrafia ossea è l’esame di scelta, preferibile alla radiografia standard per la superiore sensibilità e la possibilità di mappare tutto l’apparato scheletrico in un unico esame. Le radiografie mirate sono indicate per la sintomatologia focale o per la correlazione con l’esame scintigrafico (O’Mara, 1974). L’esame scintigrafico non è indicato nella stadiazione basale di tumori in stadio precoce (stadio I, II) (Puglisi et al., 2007; Puglisi et al., 2005a). La probabilità di risultati positivi è, in tali casi, bassa; inoltre, non è stato dimostrato un aumento della sopravvivenza associato all’identificazione di metastasi ossee nelle donne asintomatiche (Rosselli Del Turco et al., 1994; Coleman et al., 1988; McNeil et al., 1978). La scintigrafia è utile per valutare la risposta al trattamento tenendo in debita considerazione la possibilità di falsi positivi (fenomeno flare) quando eseguita subito dopo la terapia sistemica. Le metastasi polmonari sono individuabili grazie a radiografia standard del torace o tomografia computerizzata (TC). La radiografia standard è utile, inoltre, nell’identificazione del versamento pleurico anche di lieve entità. Essa, pur essendo di facile e poco costosa applicazione, non ha però dimostrato un miglioramento di outcome se eseguita ordinariamente in pazienti asintomatici (Huynh et al., 2012). La TC trova spazio essenzialmente nell’approfondimento dei casi positivi. L’ecografia toracica può rivelarsi utile nel confermare la presenza di versamento pleurico, caratterizzarlo, identificare metastasi pleuriche e guidare la toracentesi. È raro che pazienti con diagnosi di tumore in stadio precoce presentino metastasi encefaliche. All’esame TC, esse si presentano, usualmente, con forma nodulare o ad anello, possono essere singole o multiple, si associano a edema delle strutture circostanti e presentano buon enhancement del mezzo di contrasto. La RM con gadolinio ha ormai ampiamente rimpiazzato la TC nella caratterizzazione delle lesioni encefaliche, per la maggiore sensibilità. Il riscontro di un nodulo mammario palpabile e di un’immagine radiologica sospetta deve accompagnarsi ad approfondimento diagnostico mediante biopsia. La diagnosi definitiva di carcinoma mammario, infatti, si basa sull’esame anatomopatologico. Esso si può eseguire su: ● ● ● biopsia escissionale: fornisce informazioni su dimensioni tumorali e diagnosi istologica; biopsia percutanea (core biopsy): diagnosi istologica; agoaspirato: diagnosi citologica. Non rende possibile la distinzione tra forma in situ e forma invasiva. Il campione è spesso poco rappresentativo e la quota di falsi negativi non è trascurabile (Pisano et al., 2001). Ca pito l o 8 Se è previsto trattamento chemioterapico neoadiuvante, al momento dell’esecuzione della biopsia, vengono posizionate clip chirurgiche per facilitare la successiva resezione chirurgica. Sul campione bioptico, di norma, oltre alla diagnosi, si esegue la determinazione dell’espressione recettoriale di estrogeni (ER) e progesterone (PgR) e dello stato di HER2. La valutazione dell’indice proliferativo MIB1/Ki67 può fornire informazioni addizionali utili. In caso di risultati dubbi, la determinazione viene ripetuta sul campione operatorio. La scelta del percorso curativo non può prescindere dalla conoscenza di questi dati (Aebi et al., 2011). STADIAZIONE Un’accurata determinazione dello stadio della patologia è considerata di cruciale importanza per la scelta del percorso clinico da intraprendere nel singolo paziente dal momento che l’estensione di malattia è strettamente legata alla prognosi (Tavassoli e Devilee, 2003; Edge et al., 2010). N e o p lasi e della mammella Il sistema di stadiazione standard del carcinoma mammario è quello TNM. Esso si basa sulla valutazione di tre elementi: estensione del tumore primitivo (T), assenza o presenza ed estensione di metastasi ai linfonodi regionali (N), assenza o presenza di metastasi a distanza (M). La stadiazione clinica (cTNM) si basa sulle informazioni ottenute attraverso esame obiettivo, indagini radiologiche e agoaspirato/biopsia, oltre che su eventuali esami per l’identificazione di metastasi a distanza (Tab. 8.9). La stadiazione patologica (pTNM) deriva dall’esame istologico del tumore primitivo e dei linfonodi asportati chirurgicamente (Tab. 8.10). I prefissi “yc” e “yp” indicano la classificazione dopo terapia neoadiuvante. Nel caso di risposta completa patologica lo stadio è definito come ypT0 N0 cM0. Il tumore è detto multifocale se si presenta in foci multipli all’interno di uno stesso lobo, multicentrico se i foci si localizzano in lobi diversi, pT(m). Il T dipende dalla misura della parte invasiva all’esame del campione operatorio (pT). La malattia di Paget del capezzolo TABELLA 8.9 Classificazione clinica secondo TNM (VII ed.) Tumore primitivo (T) Tx Tumore primitivo non valutabile T0 Non evidenza del tumore primitivo Tis Carcinoma in situ: t Tis (DCIS): carcinoma duttale in situ t Tis (LCIS): carcinoma lobulare in situ t Tis (Paget): malattia di Paget del capezzolo non associata con carcinoma invasivo e/o in situ nel parenchima mammario sottostante N2 Metastasi nei linfonodi ascellari omolaterali (livello I-II) che sono clinicamente fissi o fissi tra di loro; o in linfonodi mammari interni omolaterali clinicamente rilevabili in assenza di metastasi clinicamente evidenti nei linfonodi ascellari N2a Metastasi nei linfonodi ascellari omolaterali (livello I-II) fissi tra di loro o ad altre strutture N2b Metastasi solamente nei linfonodi mammari interni omolaterali, clinicamente rilevabili, e in assenza di metastasi clinicamente evidenti nei linfonodi ascellari (livello I-II) N3 Metastasi in uno o più linfonodi sottoclaveari omolaterali (livello III ascellare) con o senza coinvolgimento di linfonodi ascellari del livello I-II; o nei linfonodi mammari interni omolaterali clinicamente rilevabili in presenza di metastasi nei linfonodi ascellari livello I-II clinicamente evidenti; o metastasi in uno o più linfonodi sovraclaveari omolaterali con o senza coinvolgimento dei linfonodi ascellari o mammari interni T1 Tumore della dimensione massima fino a 2 cm T1mi: microinvasione della dimensione massima di 0,1 cm T1a: tumore dalla dimensione compresa tra 0,1 cm e 0,5 cm T1b: tumore dalla dimensione compresa tra 0,5 cm e 1,0 cm T1c: tumore dalla dimensione compresa tra 1,0 cm e 2,0 cm T2 Tumore superiore a 2 cm ma non superiore a 5 cm nella dimensione massima T3 Tumore superiore a 5 cm nella dimensione massima T4 Tumore di qualsiasi dimensione con estensione diretta alla parete toracica e/o alla cute (ulcerazione o noduli cutanei) N3a Metastasi nei linfonodi sottoclaveari omolaterali N3b Metastasi nei linfonodi mammari interni e ascellari T4a Estensione alla parete toracica (esclusa la sola aderenza/ invasione del muscolo pettorale) N3c Metastasi nei linfonodi sovraclaveari T4b Ulcerazione della cute e/o noduli cutanei satelliti ipsilaterali e/o edema della cute (inclusa cute a buccia d’arancia) che non presenta i criteri per definire il carcinoma infiammatorio Mx Metastasi a distanza non accertabili M0 non evidenza clinica o radiologica di metastasi a distanza T4c Presenza contemporanea delle caratteristiche di T4a e T4b T4d Carcinoma infiammatorio Metastasi a distanza (M) Nx: Linfonodi regionali non valutabili (per esempio, se precedentemente asportati) cM0(i+) non evidenza clinica o radiologica di metastasi a distanza, ma depositi di cellule tumorali evidenziati mediante biologia molecolare o microscopicamente nel sangue, midollo osseo o in altri tessuti diversi dai linfonodi regionali, di dimensioni non superiori a 0,2 mm in una paziente senza segni o sintomi di metastasi N0 Linfonodi regionali liberi da metastasi M1 N1 Metastasi nei linfonodi ascellari omolaterali mobili (livello I-II) Linfonodi regionali (N) Metastasi a distanza, evidenziate mediante i classici esami clinici e radiologici e/o istologicamente dimostrate, di dimensioni superiori a 0,2 mm Modificata da: American Joint Committee on Cancer. AJCC Cancer Staging Manual. 7th ed. New York, NY, Springer-Verlag, 2010. 265 266 Capitolo 8 Neo p la sie d ella m a m m ella TABELLA 8.10 Classificazione patologica secondo TNM (VII ed.) Linfonodi regionali (pN) pNx I linfonodi regionali non possono essere definiti (per esempio, non sono stati prelevati o sono stati rimossi in precedenza) pN0 Non metastasi nei linfonodi regionali identificate istologicamente (aggiungere (sn) se la classificazione è basata sul linfonodo sentinella senza la dissezione ascellare) pN0 (i-) Non metastasi nei linfonodi regionali all’istologia (con colorazione standard ematossilina-eosina), negativo il metodo immunoistochimico pN0 (i+) Presenza di cellule maligne (ITC) nei linfonodi regionali non superiori a 0,2 mm (evidenziate con ematossilina-eosina o con l’immunoistochimica) pN0 Non metastasi nei linfonodi regionali istologicamente (mol!) accertate, RT-PCR negativa Nota: si definiscono cellule tumorali isolate piccoli aggregati di cellule non più grandi di 0,2 mm o singole cellule tumorali o un piccolo raggruppamento di cellule con meno di 200 cellule in una singola sezione istologica. Le cellule tumorali isolate possono essere evidenziate con i metodi istologici tradizionali o con metodi immunoistochimici. I linfonodi contenenti solo cellule tumorali isolate sono esclusi dalla conta totale dei linfonodi positivi ai fini della classificazione N, ma dovrebbero essere inclusi nel numero totale dei linfonodi esaminati. pN1 Micrometastasi; o metastasi in 1-3 linfonodi ascellari omolaterali; e/o metastasi nei linfonodi mammari interni omolaterali rilevate con biopsia del linfonodo sentinella ma non clinicamente rilevabili pN1mi Micrometastasi (di dimensioni superiori a 0,2 mm e/o più di 200 cellule, ma non più grandi di 2 mm) pN1a Metastasi in 1-3 linfonodi ascellari, includendo almeno una metastasi delle dimensioni massime superiori a 2 mm pN1b Metastasi nei linfonodi mammari interni con metastasi microscopiche o macroscopiche rilevate con la biopsia del linfonodo sentinella ma non clinicamente rilevabili pN1c Metastasi in 1-3 linfonodi ascellari e nei linfonodi mammari interni con metastasi microscopiche o macroscopiche rilevate con la biopsia del linfonodo sentinella ma non clinicamente rilevabili pN2: Come descritto di seguito: pN2a Metastasi in 4-9 linfonodi ascellari, includendo almeno una localizzazione tumorale delle dimensioni massime superiori a 2 mm pN2b Metastasi clinicamente rilevabili nei linfonodi mammari interni in assenza di metastasi nei linfonodi ascellari pN3 Come descritto di seguito: pN3a Metastasi in 10 o più linfonodi ascellari omolaterali (almeno uno delle dimensioni massime superiori a 2 mm); o metastasi nei linfonodi sottoclavicolari (linfonodi ascellari III livello) pN3b Metastasi clinicamente rilevabili nei linfonodi mammari interni omolaterali in presenza di metastasi in uno o più linfonodi ascellari positivi; o metastasi in più di tre linfonodi ascellari e nei linfonodi mammari interni con metastasi microscopiche o macroscopiche rilevate attraverso biopsia del linfonodo sentinella ma non clinicamente rilevabili pN3c Metastasi nei linfonodi sovraclaveari omolaterali ITC: cellule tumorali isolate; RT-PCR: real time-polymerase chain reaction. Modificata da: American Joint Committee on Cancer. AJCC Cancer Staging Manual. 7th ed. New York, NY, Springer-Verlag, 2010. associata a un nodulo clinicamente rilevabile in un qualsiasi quadrante o con componente invasiva all’esame patologico si classifica in base alle dimensioni del nodulo o della componente invasiva. Per estensione alla parete toracica si intende l’infiltrazione di coste, muscoli intercostali e/o muscolo dentato anteriore, ma non dei muscoli pettorali. La sola invasione del derma non permette la classificazione del tumore come T4. I linfonodi ascellari, mammari interni e sovraclaveari omolaterali sono considerati linfonodi locoregionali, essendo i primi a essere interessati dal processo di metastatizzazione (Fig. 8.15). Le metastasi in altri linfonodi, compresi quelli cervicali e mammari interni controlaterali, sono considerate metastasi a distanza. La diffusione ai linfonodi regionali è possibile anche per via ematica. L’esame obiettivo del cavo ascellare è difficile, scarsamente sensibile e poco specifico. Il valore predittivo positivo della palpazione clinica si aggira tra il 61% e l’84%, mentre il valore predittivo negativo non supera il 60% (De Freitas et al., 1991; Lanng et al., 2007; Vaidya et al., 1996). La stadiazione linfonodale patologica è quindi necessaria, salvo in rari casi di donne anziane con tumori inferiori ai 2 cm di diametro e recettori ormonali espressi che possono iniziare trattamento adiuvante ormonale senza biopsia linfonodale. La prima priorità nella valutazione dei linfonodi è identificare le macrometastasi (>2,0 mm). Le cellule tumorali isolate (ITC) sono singole cellule o piccoli raggruppamenti (cluster) non superiori a 0,2 mm, di solito identificate solo mediante immunoistochimica o tecniche di indagine molecolare me- Linfonodi sovraclaveari III livello: linfonodi ascellari alti, apicali, intraclaveari Muscolo piccolo pettorale Linfonodi della catena mammaria interna I livello: linfonodi ascellari bassi II livello: linfonodi ascellari medi FIG. 8.15 Stazioni di drenaggio linfonodale. Da Edge SB, Byrd DR, Compton CC et al. American Joint Committee on Cancer: AJCC Cancer Staging Manual. 7th ed. Springer-Verlag, New York, NY, 2010. Ca pito l o 8 diante RT-PCR (reverse trascriptase-polymerase chain reaction). I linfonodi contenenti solo ITC sono esclusi dalla conta totale dei linfonodi positivi ai fini della classificazione N. Il 15% dei linfonodi giudicati negativi all’esame istologico di routine sono in realtà già metastatici se analizzati più accuratamente o mediante tecniche di immunoistochimica o di indagine molecolare (Fitzgibbons et al., 2000). Con la definizione “clinicamente apparente” si intende l’identificazione di linfonodi metastatici mediante indagini radiologiche (linfoscintigrafia esclusa), valutazione clinica o esame patologico macroscopico. Le sedi più comuni di metastasi per via ematica sono, in ordine di frequenza, ossa, polmoni, fegato ed encefalo. Siti inusuali di metastasi (peritoneo, pleura, tratto gastroenterico e organi riproduttivi) si osservano più di frequente nel carcinoma lobulare. Depositi di cellule tumorali evidenziati inavvertitamente mediante biologia molecolare o microscopicamente nel sangue, midollo osseo o in altri tessuti diversi dai linfonodi regionali, di dimensioni non superiori a 0,2 mm in una paziente senza evidenza clinica o radiologica di metastasi a distanza vengono registrati come cM0(i+). Essi non definiscono, da soli, uno stato metastatico sebbene appaiano correlarsi a rischio di recidiva e di morte aumentati. Dalla definizione dei caratteri T, N e M deriva lo stadio di malattia secondo la categorizzazione AJCC/UICC stage grouping (Tab. 8.11). Riassumendo, l’iter diagnostico e di stadiazione del carcinoma invasivo deve includere: storia ed esame obiettivo, emocromo, test di funzionalità epatica, mammografia diagnostica bilaterale (ecografia mammaria se necessaria), determinazione di ER e PgR, stato di HER2. TABELLA 8.11 Suddivisione in stadi secondo l’AJCC/ UICC stage grouping Stadio T N M 0 Tis N0 M0 IA T1 N0 M0 IB T0, T1 N1mi M0 IIA T0 T1 T2 N1 N1 N0 M0 M0 M0 IIB T2 T3 N1 N0 M0 M0 IIIA T0 T1 T2 T3 T3 N2 N2 N2 N1 N2 M0 M0 M0 M0 M0 IIIB T4 T4 T4 N0 N1 N2 M0 M0 M0 IIIC Qualsiasi T N3 M0 IV Qualsiasi T Qualsiasi N M1 Modificata da: American Joint Committee on Cancer. AJCC Cancer Staging Manual. 7th ed. New York, NY, Springer-Verlag, 2010. N e o p lasi e della mammella La consulenza genetica è raccomandata se sussistono i criteri per ipotizzare un rischio su base eredofamiliare. Per la stadiazione delle pazienti in stadio I e II che presentano segni e sintomi suggestivi di localizzazioni ossee, addominali o toraciche (per esempio, dolore, test di laboratorio alterati, sintomi respiratori) e delle donne in stadio clinico T3 N1 M0 si dovrebbero prendere in considerazione, anche scintigrafia ossea, TC torace-addome, ecografia o RM addome. Queste raccomandazioni sono supportate da uno studio che valuta pazienti con nuova diagnosi di carcinoma mammario, con scintigrafia ossea, ecografia epatica e radiografia del torace. La scintigrafia ossea ha dimostrato di identificare le metastasi nel 5,1%, 5,6% e nel 14% delle pazienti in stadio I, II e III rispettivamente, mentre ecografia epatica o radiografia del torace non evidenzia metastasi in pazienti con stadio patologico I o II (Puglisi et al., 2005a). Sempre per le pazienti in stadio I, II e T3 N1, infine, è sconsigliato l’uso della PET. A supporto di ciò vi sta la bassa probabilità, per queste donne, di avere malattia metastatica evidenziabile dalla PET (troppi sono, infatti, i falsi positivi) e il fatto che tale metodica è gravata da un alto numero di falsi negativi per quanto riguarda il ritrovamento di lesioni piccole (<1 cm) e/o di basso grado, e dalla bassa sensibilità nel ritrovare noduli ascellari metastatici (Kumar et al., 2006; Wahl et al., 2004; Podoloff et al., 2007; Carr, et al., 2006; Khan et al., 2007; Rosen et al., 2007). Per quanto riguarda l’uso dei marcatori tumorali l’evidenza a sostenere la loro utilità è molto scarsa (Harris et al., 2007). Pur essendo un esame semplice e poco costoso, la loro valutazione ripetitiva, se non motivata da evidenze cliniche, contribuisce al rialzo della spesa e al sovraccarico laboratoristico. Durante la fase di follow-up attivo, l’utilizzo routinario dei marcatori tumorali sierici è addirittura sconsigliato data la limitata specificità e sensibilità (Kokko et al., 2002). CA 15.3 e CEA sono elevati nel 40% e 80%, rispettivamente, dei tumori mammari avanzati. Alcuni studi hanno dimostrato l’associazione tra l’elevazione dei marcatori tumorali e il numero di siti metastatici, carico di malattia e sopravvivenza. Il loro utilizzo può quindi trovare spazio nella gestione del paziente con malattia metastatica (Guadagni et al., 2001; Tondini et al., 1988; Lauro et al., 1999; Molina et al., 1998). FATTORI PROGNOSTICI E PREDITTIVI Il fattore prognostico è una variabile misurabile, legata al tumore o alla paziente, che correla con la storia naturale della malattia. Il fattore predittivo rappresenta il marcatore di risposta a una data terapia. In altre parole, il fattore predittivo influenza la prognosi in presenza di un trattamento specifico e identifica la categoria di pazienti che con maggior probabilità trarrà giovamento da quel trattamento. La valutazione di entrambi è parte integrante del processo decisionale nella cura della paziente con carcinoma mammario. I vari fattori, in studio per la loro validità prognostica e/o predittiva, sono classificati in categorie in base al grado di evidenza che li supporta: 267 268 Capitolo 8 ● ● ● Neo p la sie d ella m a m m ella categoria I (fattori di provata importanza prognostica): dimensioni del tumore, interessamento linfonodale, istotipo, grado istologico, stato dei recettori ormonali; categoria II (fattori studiati estensivamente ma non validati formalmente): stato di HER2, MIB1/Ki67, invasione vascolare peritumorale; categoria III (fattori il cui valore prognostico non è provato): per esempio, stato di EGFR, aneuploidia del DNA, pS2, catepsina D (Fitzgibbons et al., 2000). La dimensione tumorale, determinata dal patologo (pT), è uno dei fattori prognostici più potenti. Il suo valore è direttamente proporzionale alla frequenza di metastasi linfonodali (10-20% se <1,0 cm, 40% se >2,0 cm) e inversamente proporzionale alla speranza di sopravvivenza. È difficile comunque definire un valore soglia al di sotto del quale il fattore può essere considerato buono (a eccezione dei tumori molto piccoli, pT1a). Lo stesso dicasi per il numero di linfonodi ascellari interessati. Il 70% dei pazienti con coinvolgimento linfonodale svilupperà una recidiva di malattia a 10 anni contro il 15-30% dei soggetti con linfonodi negativi. La gravità dell’outcome è proporzionale al numero di linfonodi positivi e peggiora se sono coinvolti linfonodi di apice o catena mammaria interna (Singletary et al., 2002). La presenza di cellule isolate o di micrometastasi nei linfonodi regionali si associa a una peggiore sopravvivenza libera da malattia in assenza di terapie adiuvanti (De Boer et al., 2009). Il fatto che la maggior parte dei tumori mammari (6070%) non presenti caratteristiche specifiche rende limitata l’applicazione della tipizzazione istologica nella gestione del paziente. A ogni modo il tipo istologico può fornire informazioni sul comportamento biologico della malattia. Per esempio, il tipo lobulare, rispetto al duttale, dimostra più frequentemente espressione dei recettori ormonali e presenta pattern insolito di metastatizzazione a retroperitoneo e superfici sierose. Inoltre, gli istotipi tubulare, mucinoso e papillare (midollare, adenoidocistico e apocrino in assenza di interessamento linfonodale e altri segni di aumentato rischio metastatico) si accompagnano a prognosi favorevole (Rakha et al., 2008). La positività per ER (Fig. 8.16) e/o PgR (Fig. 8.17) identifica una patologia con potenziale endocrino-responsività. Il tasso di risposta dei tumori positivi per i recettori ormonali è del 60%, mentre quello dei tumori negativi è inferiore al 10%. Tumori che esprimono solo ER ma non PgR hanno un tasso di risposta intermedio pari a circa il 40% (Tavassoli e Devilee, 2003). A predire ulteriormente la risposta alla terapia ormonale in pazienti con recettori positivi vi sono: lungo intervallo libero da malattia, metastasi ossee isolate o coinvolgimento dei tessuti molli e risposta a precedenti terapie ormonali (Santen et al., 1990). Fattore prognostico e predittivo altrettanto rilevante è lo stato di HER2. HER2 è una glicoproteina transmembrana di 185 kDa, codificata dal proto-oncogene HER2/neu mappato sul cromosoma 17q21 (Akiyama et al., 1986). Essa appartiene a una famiglia di recettori transmembrana con attività tirosinchinasica insieme a HER1 (EGFR), HER3 (erbB3) e HER4 (erbB4). I recettori HER sono coinvolti nella regolazione di diversi processi cellulari, quali il controllo della crescita cellulare, la sopravvivenza, la differen- FIG. 8.16 Espressione della positività nucleare per il recettore estrogenico. Il grado istologico elevato, G3, è considerato fattore prognostico sfavorevole a differenza di G1, favorevole. Per G2 la questione è più incerta: l’analisi genica, si è visto, tende a riclassificarlo o come G1 o come G3 (Sotiriou et al., 2006). L’importanza dello stato recettoriale ormonale è consolidata sul versante sia prognostico sia predittivo. Il 65% dei tumori mammari presenta positività per i recettori degli estrogeni e del progesterone, 10% è ER+/PgR!, 5% è ER!/ PgR!, 25% rimane ignoto (Puglisi e Minisini, 2011). La valutazione dello stato recettoriale è eseguita in immunoistochimica (Mohsin et al., 2004; Hammond et al., 2010). I recettori ormonali, quando espressi, hanno valenza positiva sul fronte prognostico. A tal proposito è da specificare che, sebbene in passato sia stato utilizzato il cut-off point 10% per definire la positività dei recettori ormonali, oggi si ritiene che la presenza di un’espressione anche solo dell’1% sia sufficiente per caratterizzare i tumori come ER e/o PgR positivi. FIG. 8.17 Espressione della positività nucleare per il recettore progestinico. Ca pito l o 8 N e o p lasi e della mammella Lo stato di HER2 viene definito sulla base dell’amplificazione del gene HER2/neu tramite tecnica FISH (Fig. 8.18) o tramite quantificazione (Fig. 8.19), in analisi immunoistochimica, del recettore HER2 nella superficie cellulare (Fig. 8.20). L’amplificazione genica o l’iperespressione del recettore HER2 interessa circa il 15-25% dei carcinomi infiltranti della mammella (Ross et al., 2009). mento linfonodale all’esordio. Essi si caratterizzano per un comportamento clinico maggiormente aggressivo. Tuttavia, l’introduzione di trastuzumab, il primo anticorpo monoclonale umanizzato approvato per uso terapeutico e il primo presidio diretto contro il dominio extracellulare di HER2, ha drasticamente cambiato in senso favorevole la prognosi delle donne con carcinoma mammario HER2 positivo (Puglisi e Piccart, 2005b). HER2 assume quindi un significato predittivo di beneficio terapeutico dai farmaci anti-HER2. I tumori HER2 positivi sono più frequentemente ad alto grado, presentano elevato indice mitotico e coinvolgi- A oggi, l’espressione dei recettori ormonali e l’amplificazione di HER2 sono gli unici fattori validati formalmente FIG. 8.18 Amplificazione, in analisi FISH, del gene HER2/neu. FIG. 8.19 Iperespressione, in analisi immunoistochimica, del recettore HER2 nella superficie cellulare. ziazione, l’adesione e la migrazione cellulare (Yarden e Sliwkowski, 2001; Park et al., 2008; Yarden, 2001). Analisi con IHC Il laboratorio assicura gli standard di qualità per l’analisi in IHC di HER2 Inviare a un laboratorio competente No Sì Richiedere analisi IHC No Analisi con FISH IHC 0 v 1+ HER2 neg IHC 2+ Bordeline IHC 3+ HER2 pos Richiedere analisi FISH Inviare a un laboratorio competente Il laboratorio assicura gli standard di qualità per l’analisi in FISH di HER2 FISH (–) HER2 neg Eseguire IHC Sì Richiedere analisi FISH Bordeline FISH (+) Rieseguire FISH HER2 neg Conta cellulare addizionale Bordeline HER2 pos HER2 pos FIG. 8.20 Principi di valutazione dello stato di HER2. IHC: immunoistochimica; FISH: fluorescence in situ hybridization; pos: positivo; neg: negativo. 269 270 Capitolo 8 Neo p la sie d ella m a m m ella come variabili predittive e la loro valutazione complessiva è decisiva nella scelta dell’approccio terapeutico. L’esistenza di cross-talk tra le vie di ER e della famiglia dei recettori ErbB, di cui fa parte anche HER2 spiega, per esempio, perché le pazienti con neoplasie che esprimono i recettori per gli estrogeni, il progesterone e anche HER2, anche detti “triple positive”, rispondono poco alla sola terapia ormonale (Shou et al., 2004). Un altro fattore ampiamente analizzato in termini di valenza prognostica e predittiva è Ki67. Ki67/MIB1 è una proteina nucleare espressa dalle cellule in fase di attiva proliferazione. Dei diversi anticorpi monoclonali studiati per misurarne l’espressione, solo MIB1 ha saputo evidenziare una proporzione inversa tra l’espressione di Ki67 e la sopravvivenza (Brown et al., 1996; Gaglia et al., 1994). Il valore soglia di Ki67, individuato all’immunoistochimica, per affermare l’alta o bassa attività proliferativa è pari al 14% (Cheang et al., 2009). La positività di Ki67/MIB1 si associa a prognosi peggiore ma, pur suggerendo una maggiore sensibilità alla chemioterapia, non ha dimostrato valenza predittiva (De Azambuja et al., 2007). L’invasione vascolare peritumorale costituirebbe un fattore prognostico negativo, aumentando del 15% il rischio di recidiva in 5 anni e diminuendo la sopravvivenza (Neville et al., 1992; Lauria et al., 1995). EGFR o HER1 è un recettore transmembrana glicoproteico appartenente alla famiglia dei geni ErbB che può legare sia l’epidermal growth factor receptor (EGFR) sia il transforming growth factor- (TGF- ). È un proto-oncogene particolarmente potente la cui alterazione potrebbe configurarsi come un fattore prognostico negativo. Per quanto riguarda la neoangiogenesi, il fattore di crescita VEGF (vascular endothelial growth factor) e i suoi recettori specifici e l’enzima timidina fosforilasi (TP) hanno un comprovato effetto pro-angiogenico. Alcuni studi evidenziano come siano correlati a un aumento di probabilità di sviluppare metastasi a distanza (Toi et al., 2005). Timidina fosforilasi è spesso indotta nel microambiente tumorale da stimoli fisiologici e chimici. Tale induzione enzimatica protegge le cellule dall’apoptosi e favorisce la sopravvivenza cellulare, stimolando il metabolismo nucleotidico e l’angiogenesi. L’attività di TP è fondamentale nel metabolismo della capecitabina, rappresentando l’ultimo enzima necessario alla sua trasformazione nella forma attiva (5-fluorouracile). La concentrazione di TP è dunque correlata alla risposta alle fluoropirimidine e la sua identificazione può selezionare pazienti che presumibilmente beneficiano della capecitabina. Ciò suggerirebbe, per TP, un ruolo predittivo di risposta a capecitabina (Bonotto et al., 2013). Quando si fa riferimento all’aneuploidia del DNA si intende un contenuto anormale di DNA nel nucleo cellulare. Il suo valore prognostico rimane tuttora largamente dibattuto (Hedley et al., 1993). Il gene TP53 codifica per un fattore di trascrizione che regola il ciclo cellulare e ricopre la funzione di soppressore tumorale. La sua mutazione avrebbe significato sfavorevole. PS2 è una proteina citoplasmatica la cui trascrizione è estrogeno-regolata. Tendenzialmente è espressa in tumori ben differenziati e sarebbe un indicatore sia prognostico positivo sia predittivo di buona risposta al tamoxifene (Thompson et al., 1993). La catepsina D è una endoproteasi lisosomiale che pare facilitare la metastatizzazione tumorale (Spyratos et al., 1989). L’inadeguatezza dei fattori prognostici singoli finora studiati ha, recentemente, concentrato la ricerca sull’individuazione di marcatori prognostici/predittivi multiparametrici; tra questi stanno acquisendo grande popolarità le cosiddette firme genetiche. Per firma genetica (dal termine anglosassone “gene signature”) si intende una serie di geni il cui pattern combinato di espressione sia correlato, come una “firma” di aggressività biologica del tumore, alla prognosi e/o alla risposta ai trattamenti. L’identificazione dei geni che compongono una “signature” avviene attraverso metodiche complesse che, in alcuni casi, hanno condotto alla produzione commerciale di test disponibili nella pratica clinica routinaria. Le firme genetiche per carcinoma mammario disponibili commercialmente sono, attualmente, quattro. Le caratteristiche principali di queste signature sono riportate in Tab. 8.12. Tra queste, due sono quelle più popolari e meglio validate: Mammaprint e Oncotype DX. Mammaprint è una firma a 70 geni la cui identificazione parte da un’analisi dell’espressione praticamente dell’intero genoma del tumore (“genome-wide” analysis) con la tecnologia di “DNA microarray chip”. Questa tecnica consente di sviluppare una mappa visuale (heat map) dell’espressione dei singoli geni attraverso la lettura automatizzata della fluorescenza emessa sui singoli pozzetti del chip durante la stimolazione con un laser. Il colore della fluorescenza (in genere rosso, per l’iperespressione) e l’intensità della stessa fluorescenza forniscono una stima dell’espressione del gene stesso. A partire da questa mappa genome-wide, si è ridotta la complessità e la ridondanza dei dati attraverso procedimenti di clusterizzazione statistica. Ciò ha consentito di ridurre il numero di geni potenzialmente utili ad alcune centinaia. Successivamente, si è cercato di individuare quelli realmente informativi attraverso complesse correlazioni statistiche con la prognosi di pazienti note, fino all’identificazione dei 70 geni che fanno parte del test commerciale. Il risultato del test consiste nella classificazione delle pazienti in due gruppi (basso e alto rischio) (Van de Vijver et al., 2002). Uno degli svantaggi di tale test è la necessità di un campione di tessuto fresco congelato. Non è, pertanto, effettuabile quando questo campione non sia stato conservato all’atto dell’intervento chirurgico (cosa che non viene, di regola, effettuata routinariamente), in particolare quando l’oncologo decida “a posteriori” che è necessario ricorrere alle informazioni “genetiche” dopo aver giudicato insoddisfacenti le informazioni derivate dall’analisi standard (istologia + immunoistochimica) del campione istologico. Recentemente, tuttavia, una versione di Mammaprint per campioni inclusi in paraffina ha iniziato il processo di validazione clinica. Oncotype DX è una firma a 21 geni. Per lo sviluppo di questa firma si è partiti da un gruppo più ampio di geni “candidati” (“candidate gene” approach) la cui selezione è stata fatta in base alle conoscenze più aggiornate sulla Ca pito l o 8 N e o p lasi e della mammella TABELLA 8.12 Nome commerciale Oncotype DX Mammaprint Theros MapQuant DX Azienda Genomic Health Agendia Biotheranostics Ipsogen Tipo di test Q-RT-PCR DNA microarrays Q-RT-PCR DNA microarrays Tipo di campione tissutale Incluso in paraffina Fresco o congelato Incluso in paraffina Fresco o congelato Indicazione Per predire il rischio di recidiva in pazienti ER+Ntrattate con tamoxifene e per identificare le pazienti a basso rischio che non necessitano di chemioterapia Per aiutare la valutazione prognostica in pazienti <61 anni in stadio I o II, N-, con tumore ≤5 cm Per stratificare pazienti con tumore ER+ in gruppi a basso o ad alto rischio di recidiva e per predire una buona o cattiva risposta al trattamento endocrino Per stratificare ulteriormente i tumori ER+ con grado istologico G2 in tumori a basso rischio G1 (Genomic Grade) o ad alto rischio G3 (Genomic Grade) Livello di evidenza* II III III III Laboratorio centralizzato^ certificato Si Si Si Si ER: recettore per strogeni; Q-RT-PCR: quantitative reverse-transcriptase-polymerase chain reaction * I livelli di evidenza sono misurati su una scala che va da I (massimo livello di evidenza) a V (minimo livello di evidenza) ^ I Laboratori sono stati certificati in base ai criteri del Clinical Laboratory Improvement Amendments o dell’International Organization for Standardization Modificata da: Sotiriou & Pusztai. New England J Med 2009. biologia del tumore e sulla funzione di determinate molecole ritenute coinvolte nella progressione e aggressività del tumore e/o nella sviluppo di resistenza ai trattamenti. Attraverso una complessa analisi statistica si è giunti alla selezione dei 21 geni rilevanti e si è, quindi, sviluppato un algoritmo matematico che correli il pattern di espressione di questi con la prognosi (Paik et al., 2004). La valutazione dell’espressione di tali geni è effettuata con real-time PCR, una metodica più semplice rispetto ai gene-chip, ma, proprio per questo, più affidabile e riproducibile. Inoltre, il dosaggio dei geni può essere effettuato su campioni inclusi in paraffina, consentendo, pertanto, al clinico di scegliere “a posteriori” quei casi in cui l’informazione genetica possa essere utile per la decisione terapeutica. Un ulteriore vantaggio del test è che il risultato è espresso in forma di un indice continuo (recurrence score, RS) che fornisce una stima quantitativa diretta della probabilità di recidiva della paziente. Tuttavia, per semplicità, è possibile classificare le pazienti in base al risultato del test in tre gruppi di rischio (basso, medio e alto) sulla base di soglie predefinite di RS. Una delle caratteristiche più interessanti di entrambe le firme (Mammaprint e Oncotype DX) è che, per quanto sviluppate a scopo prognostico, esse sembrerebbero poter predire la sensibilità del tumore alla chemioterapia. In particolare, con ciascuna delle due firme i tumori classificabili come a basso rischio sembrerebbero scarsamente sensibili alla chemioterapia. Questi dati necessitano, comunque, di altre conferme. Il principale svantaggio delle firme genetiche è il loro costo elevato. Inoltre, in quanto metodiche complesse, l’analisi del campione può essere effettuata solo presso un singolo laboratorio di riferimento centralizzato a cui i campioni vanno inviati. Tuttavia, questo garantisce un’affidabilità e una riproducibilità molto superiore a quella delle indagini immunoistochimiche routinarie e un’elevatissima affidabilità prognostica. Tuttavia, per quanto estremamente promettenti, il reale valore aggiunto di tali test in termini di ottimizzazione della strategia terapeutica è ancora in corso di validazione clinica nell’ambito di grosse sperimentazioni randomizzate. Al momento, pertanto, si raccomanda di utilizzare queste firme solo quando, dopo un’adeguata valutazione delle informazioni immunoistochimiche tradizionali (ER, PgR, HER2, Ki67) rimanga ancora un ragionevole grado di incertezza sull’impostazione della strategia terapeutica (Goldhirsch et al., 2011). TERAPIA DELLA MALATTIA INIZIALE Rientrano nella definizione di malattia iniziale (early breast cancer, EBC) i carcinomi in situ e i carcinomi invasivi in stadio I-II e III operabile. CARCINOMA DUTTALE IN SITU Il carcinoma duttale in situ (DCIS) o carcinoma intraduttale è una lesione proliferativa originantesi nei dotti della ghiandola mammaria, caratterizzata da un grado variabile di atipia, ma senza segni di estensione extraduttale. Essendo una neoplasia non invasiva è, teoricamente, priva di capacità metastatizzante. Tuttavia, il DCIS ha un’elevata probabilità di evolvere verso una forma invasiva di cui è considerato un precursore. A causa di ciò, il DCIS va sempre trattato con lo scopo di prevenirne l’evoluzione verso un carcinoma invasivo della mammella. Il cardine del trattamento del DCIS è l’asportazione chirurgica della lesione. Il DCIS tende a essere multifocale e, pertanto, il trattamento deve tener conto di questo. In particolare: ● in presenza di segni clinico-strumentali di malattia diffusa in diversi quadranti, il trattamento di elezione è la mastectomia semplice senza asportazione dei linfonodi ascellari; 271 272 Capitolo 8 ● ● Neo p la sie d ella m a m m ella in presenza di malattia clinicamente più limitata, sia la mastectomia semplice, sia la chirurgia conservativa (quadrantectomia o tumorectomia) seguita da radioterapia sul parenchima residuo sono valide opzioni, purché sia possibile ottenere margini di escissione liberi microscopicamente da malattia e adeguati (si veda oltre). In questo caso, una radiografia del campione chirurgico è consigliabile per assicurarsi che la massa e/o le eventuali microcalcificazioni siano tutte completamente escisse; dopo trattamento locale è consigliabile un terapia adiuvante con tamoxifene, soprattutto in presenza di DCIS con espressione dei recettori per estrogeni. sviluppato uno score multivariato, il cosiddetto Van Nuys Score, che integra tutti i fattori prognostici principali e che ha mostrato un’ottima capacità prognostica (Silverstein et al., 2003) (Tab. 8.13), consentendo di classificare il DCIS in tre diverse categorie di rischio. Gli stessi Autori hanno anche suggerito di indirizzare alla mastectomia i DCIS ad alto rischio, all’escissione conservativa seguita da radioterapia i DCIS di categoria intermedia, e di limitare il trattamento alla semplice escissione conservativa per i DCIS a basso rischio. Questo approccio, tuttavia, non ha trovato unanime accettazione nella pratica clinica. Recentemente, è stato sviluppato una variante del test Oncotype DX (firma genetica a 21 geni per il carcinoma mammario invasivo endocrino-responsivo) che, impiegando un sottogruppo di 12 dei 21 geni originari, è in grado di predire in maniera accurata il rischio di recidiva locale dei DCIS (Solin et al., 2013). Se i risultati dovessero essere ulteriormente validati, questo test potrebbe essere di utilità nell’individuare le pazienti che non necessitano di radioterapia postchirurgica. Per quanto apparentemente semplice nel principio, il trattamento del DCIS presenta numerosi aspetti ancora controversi. Per esempio, non esiste ancora accordo unanime sulla definizione di adeguatezza dei margini. In linea generale, sono considerati sicuramente adeguati margini liberi 10 mm, mentre certamente inadeguati i margini <1 mm. Non esiste, invece accordo sull’adeguatezza dei margini tra 1 e 9 mm. Sempre in termini di terapia locoregionale, alcuni Autori suggeriscono di effettuare la biopsia del linfonodo sentinella (BLS) a tutte le pazienti che ricevono una mastectomia o un’escissione conservativa di alcune specifiche aree (come la coda ascellare della mammella). In queste situazioni, infatti, un’eventuale BLS successiva sarebbe scarsamente affidabile. Secondo questi Autori, la necessità di una BLS di principio non è da collegarsi tanto alla biologia del DCIS, che, teoricamente, non dovrebbe dare metastasi, quanto dalla possibilità che, soprattutto nei DCIS di grandi dimensioni, eventuali focolai di carcinoma invasivo si rendano evidenti solo all’esame istologico definitivo. Un altro aspetto controverso riguarda la necessità di aggiungere sempre una radioterapia dopo un trattamento chirurgico conservativo. È infatti chiaro che la radioterapia postchirurgica riduce di circa il 50% il rischio di recidive locali, ma non ha nessun impatto dimostrato sulla sopravvivenza. Tuttavia, la radioterapia espone al rischio di rari effetti collaterali e può peggiorare il risultato estetico; inoltre, rende impraticabile una successiva irradiazione in caso di sviluppo di tumore invasivo ipsilaterale. Diversi studi suggeriscono che pazienti selezionate a basso rischio possano evitare la radioterapia dopo chirurgia conservativa (Silverstein et al., 2003; Di Saverio et al., 2008; Hughes et al., 2009). Non vi è accordo unanime, comunque, sulla definizione di DCIS a basso rischio. Alcuni clinici, infatti, definiscono il rischio di recidiva semplicemente in base all’aspetto istologico del DCIS, con un alto rischio identificato dalla presenza di un alto grado nucleare (G3) o dalla presenza di comedo-necrosi. È comunque chiaro che il rischio di recidiva sia legato anche ad altri fattori, quali: l’adeguatezza dei margini di resezione, l’età della paziente, la grandezza del DCIS. Silverstein et al. hanno L’ultimo aspetto controverso riguarda la terapia con tamoxifene, che viene in genere raccomandata nelle donne con DCIS ER-positivo che ricevono un trattamento locale conservativo più radioterapia. Anche se ampiamente impiegato, non esistono, invece, chiari dati a supporto del suo impiego nelle donne che ricevono la mastectomia. Inoltre, la sua utilità nei DCIS ER-negativi è sconosciuta. CARCINOMA LOBULARE IN SITU Il carcinoma lobulare in situ (LCIS) è una lesione proliferativa coinvolgente un’unità lobulare, che appare ripiena, nella sua variane di LCIS classico, di cellule prevalentemente monomorfe, che distorcono il lobulo, ma non infiltrano TABELLA 8.13 Score 1 2 3 Dimensioni (mm) <15 16-40 >41 Margini (mm) >10 1-9 <1 Classificazione patologica Non alto grado, senza necrosi Non alto grado, con necrosi Alto grado Età (anni) ≥61 40-60 ≤39 Da uno a tre punti sono assegnati per ciascuno dei 4 differenti parametri predittivi di recidiva locale (dimensioni, ampiezza dei margini, classificazione patologica ed età). I valori sono, quindi, sommati per produrre lo USC/VNPI score (da un minimo di 4 a un massimo di 12). Modificata da: Silverstein & Buchanan, The Breast 2003. Ca pito l o 8 lo stroma. A differenza del DCIS, il LCIS non è considerato un precursore del carcinoma invasivo, ma solo un fattore di rischio e, come tale, non richiede escissione chirurgica in caso di riscontro occasionale di un LCIS su una biopsia. Recentemente, è stata descritta una variabile pleomorfa del LCIS. Questa variante sembrerebbe maggiormente propensa all’evoluzione verso un carcinoma invasivo e il suo eventuale trattamento rimane controverso. CARCINOMA INVASIVO Negli ultimi decenni si è avuta una progressiva evoluzione delle tecniche chirurgiche, che sono progressivamente diventate meno aggressive e invasive. Questo cambiamento è stato indotto dalla parallela evoluzione delle conoscenze biologiche, che hanno consentito di capire che il carcinoma della mammella va considerato una malattia sistemica ab initio, per il rischio che eventuali micrometastasi sistemiche siano già presenti al momento della diagnosi. In una situazione del genere, la prognosi è soprattutto influenzata dall’impiego di un’efficace terapia sistemica adiuvante, mentre l’impiego di terapie locali aggressive si traduce solamente in un danno estetico e funzionale. L’approccio moderno, infatti, consiste proprio nel minimizzare l’aggressione locale puntando a preservare, quanto più possibile, l’estetica e la funzione, senza compromettere i risultati terapeutici. Per tale motivo, il trattamento ottimale del cancro mammario precoce (EBC) richiede un approccio multidisciplinare, con un’integrazione delle competenze del chirurgo senologo, del radioterapista, dell’oncologo, dell’anatomopatologo e dello specialista in diagnostica per immagini senologica. Terapia locoregionale Terapia chirurgica Il trattamento chirurgico, coadiuvato o meno dalla radioterapia, rappresenta il cardine della terapia locoregionale della mammella e comprende due atti complementari: la resezione del tumore primitivo e lo staging ascellare. Resezione del tumore primitivo Sono possibili tre diversi approcci chirurgici: la chirurgia conservativa seguita da radioterapia, la mastectomia e la mastectomia con ricostruzione. Sei studi randomizzati, e una metanalisi degli stessi, hanno dimostrato che non vi sono sostanziali differenze in termini di sopravvivenza tra la chirurgia conservativa e la mastectomia (Morris et al., 1997). Pertanto, la scelta ottimale del tipo di intervento dipende esclusivamente dalla possibilità di ottenere un buon risultato cosmetico, una volta effettuata una rimozione adeguata della lesione principale e di eventuali focolai circostanti. Quando questo obiettivo non è perseguibile, la mastectomia con ricostruzione dovrebbe essere l’opzione chirurgica di scelta, a meno che la paziente non sia fortemente orientata verso la conservazione di parte del seno, anche a rischio di un risultato cosmetico non soddisfacente. In linea generale, i fattori che orientano il chirurgo nella scelta sono rappresentati da: localizzazione della lesione, rapporto dimensioni tumore/dimensioni della mammella, caratteristiche mammografiche, preferenze della paziente. Nei casi in cui l’unico elemento che orienti verso una mastectomia sia il rapporto tra la dimensione del tumore e la N e o p lasi e della mammella dimensione della mammella (cioè, un tumore relativamente grande rispetto alle dimensioni del seno), e se la paziente appare motivata alla conservazione del seno, è possibile optare per un terapia sistemica primaria o neoadiuvante (in genere: chemioterapia ± terapia a bersaglio molecolare) con lo scopo di ridurre la neoplasia e permettere, quindi, un intervento conservativo. La scelta del tipo di terapia neoadiuvante da impiegare segue, in questo caso, gli stessi principi che ispirano il trattamento dei tumori localmente avanzati e che saranno discussi di seguito (vedi paragrafo “ Terapia della malattia localmente avanzata”). Alcune condizioni rappresentano delle controindicazioni relative alla chirurgia conservativa. Queste includono: ● ● ● ● ● impossibilità di accedere a un centro di radioterapia per problemi logistici; condizioni fisiche generali o psichiche della paziente compromesse; presenza di microcalcificazioni diffuse, sospette o maligne; tumori multicentrici; controindicazioni specifiche per la radioterapia, assolute e relative (si veda oltre). Gli interventi di chirurgia conservativa prevedono l’escissione del tumore fino a ottenere adeguati margini in tessuto sano. Questi interventi sono stati variamente denominati a seconda dell’ampiezza del tessuto sano rimosso di principio (tumorectomia, wide excision o escissione ampia, quadrantectomia). Tradizionalmente, la quadrantectomia, intervento tipicamente “europeo”, era caratterizzata da una più ampia escissione di tessuto sano rispetto agli altri interventi conservativi, praticati soprattutto negli USA. Queste differenze hanno via via perso di importanza e, attualmente, quello che si ritiene sufficiente è l’ottenimento di margini di escissione adeguatamente liberi da neoplasia. Il concetto di adeguatezza del margine rimane, comunque, controverso, ma molti Autori ritengono che quando la neoplasia giunga in prossimità del margine (<2 mm), si debba procedere all’allargamento dell’escissione (Forza Operativa Nazionale Carcinoma Mammario, 2012). L’intervento classico di mastectomia (mastectomia totale o semplice) prevede l’asportazione della mammella e della cute sovrastante. Nella variante proposta da Madden, quella più frequentemente praticata, il muscolo piccolo pettorale non viene asportato. Il risultato estetico e funzionale è accettabile, anche in assenza di adeguata ricostruzione. In casi selezionati vengono praticate varianti più conservative della mastectomia semplice che agevolano gli interventi di ricostruzione garantendo un migliore risultato estetico e vengono praticate in casi selezionati. Nella mastectomia skin-sparing, per esempio, vengono asportate la ghiandola e il complesso areola-capezzolo, mentre una porzione più o meno ampia di cute dell’area mammaria viene conservata. Sebbene non esistano studi randomizzati, i risultati di studi retrospettivi non hanno evidenziato un aumento delle recidive locali rispetto a procedure chirurgiche non skinsparing. Ancora più conservativa è la mastectomia nipplesparing, che prevede la conservazione anche del complesso areola-capezzolo, che va irradiato con elettroni in sede di intervento o successivamente. Questo intervento va riser- 273 274 Capitolo 8 Neo p la sie d ella m a m m ella vato a neoplasie lontane dall’area del capezzolo e dopo aver verificato intraoperatoriamente la negatività istologica del tessuto retroareolare. Va precisato, tuttavia, che sono attualmente ancora in corso studi randomizzati per verificare l’efficacia terapeutica di questo tipo di mastectomia (Forza Operativa Nazionale Carcinoma Mammario, 2012). Staging ascellare La presenza di linfonodi ascellari metastatici rappresenta ancora oggi un’informazione prognostica rilevante e, pertanto, lo staging ascellare costituisce un tempo fondamentale della chirurgia mammaria. Inoltre, in presenza di malattia ascellare, la rimozione dei linfonodi persegue, in teoria, anche un obiettivo terapeutico, sia per il controllo locale, sia, forse, per il controllo del rischio sistemico. Lo staging ascellare può essere effettuato con due tecniche fondamentali: la biopsia del linfonodo sentinella (BLS) e la dissezione linfonodale ascellare (DLA). Biopsia del linfonodo sentinella In assenza di coinvolgimento evidente dei linfonodi ascellari, la BLS rappresenta la tecnica standard per lo staging ascellare. Il linfonodo sentinella (LS) è il primo linfonodo che riceve linfa direttamente dal parenchima mammario e, quindi, dal tumore. I linfonodi ascellari sono raggiunti dalla linfa attraverso il circolo linfatico superficiale periareolare. Il principio su cui si fonda la BLS è rappresentato dalla diffusione linfatica ordinata delle cellule metastatiche, secondo cui le metastasi “a salto” (skip metastases) che coinvolgono le stazioni linfatiche successive senza aver interessato la prima stazione linfatica di deflusso (cioè il o i LS) sono molto rare. Vari studi hanno confermato questa ipotesi, mostrando un tasso di concordanza del 92-98% tra lo staging effettuato con BLS rispetto a quello con DLA, con un tasso di falsi negativi in media dell’8,8% (Lyman et al., 2005). Inoltre, in uno studio randomizzato coinvolgente circa 5.600 pazienti, non si è osservata alcuna differenza in termini di sopravvivenza tra pazienti sottoposte a DLA di principio, rispetto a quelle sottoposte a BLS con eventuale DLA in caso di LS positivo per la presenza di metastasi (Krag et al., 2010). Evitare la DLA in pazienti con LS libero da metastasi è fondamentale, in quanto migliora notevolmente la qualità di vita della paziente, riducendo il rischio di linfedema dell’arto Linfonodo clinicamente positivo al tempo della diagnosi Stadio clinico I, IIA, IIB e IIIA T3, N1, M0 FIG. 8.21 Algoritmo per lo staging ascellare nelle pazienti con carcinoma mammario. National Comprehensive Cancer Network. NCCN Guidelines v2.2013. Linfonodo clinicamente negativo al tempo della diagnosi Agoaspirato o biopsia percutanea positiva Agoaspirato o biopsia percutanea negativa Rilevamento ed escissione del linfonodo sentinella superiore e preservando in maniera ottimale la funzionalità dell’arto (Mansel et al., 2006; Krag et al., 2007). Nelle pazienti con metastasi ai LS si procede, normalmente, alla DLA (contestuale, se le metastasi ai LS sono evidenziate in sede di esame istologico intraoperatorio, o differenziata, in caso le metastasi siano evidenziate all’esame istologico definitivo). Tuttavia, la necessità di effettuare una DLA in caso di BLS positiva rimane controversa. Recentemente, infatti, uno studio randomizzato multicentrico ha dimostrato che evitare la DLA in pazienti con 1 o 2 metastasi ai LS che ricevono chirurgia conservativa seguita da radioterapia e appropriata terapia adiuvante non produce risultati inferiori alla DLA in termini di sopravvivenza libera da malattia e di sopravvivenza globale (Giuliano et al., 2011). Un algoritmo per la gestione della chirurgia ascellare che tiene conto delle più recenti acquisizioni scientifiche nel settore è riportato nella Figura 8.21. Dal punto di vista tecnico, il LS può essere identificato attraverso l’uso di un colorante vitale (patent blu-v) o con un tracciante colloidale radioattivo (eventualmente in combinazione con il colorante vitale). Nel primo caso, l’iniezione del tracciante viene effettuata durante l’intervento in sede subdermicamente a livello della proiezione cutanea della neoplasia o, direttamente, in sede subareolare. In caso di neoplasie profonde, può essere preferibile inoculare il tracciante in sede peritumorale, ma mai intratumorale. La metodica con il radiotracciante, che prevede l’impiego di particelle colloidali di albumina (nanocoll) marcate con 99mTc, è generalmente considerata più affidabile e meglio performante. Le sedi di inoculo sono le stesse, ma l’iniezione del tracciante va effettuata da 2 a 24 ore prima dell’intervento chirurgico. È possibile, in questo caso, fare una linfoscintigrafia per localizzare in anticipo la proiezione cutanea del LS e che può essere di grande aiuto al chirurgo. In sede operatoria, comunque, è necessario disporre di una sonda per chirurgia radioguidata al fine di identificare correttamente il LS (o i LS) da asportare. L’esame istologico definitivo del LS dovrebbe essere effettuato con tecnica standard e colorazione con ematossilina-eosina. Il linfonodo è definito chiaramente metastatico in presenza di infiltrazione tumorale >2 mm (macrometastasi). Del tutto incerto è il significato di lesioni di dimensioni inferiori ( 2 mm), definite micrometa- Dissezione linfonodale livello I/II Linfonodo sentinella negativo Linfonodo sentinella positivo Unito a tutti i seguenti criteri: sentinella positivi della mammella per tutta la mammella Linfonodo sentinella non identificato Nessuna ulteriore chirurgia (categoria 1) Dissezione linfonodale livello I/II oppure Sì per tutti Considerare nessuna ulteriore chirurgia No neoadiuvante Dissezione linfonodale livello I/II Ca pito l o 8 stasi, che non richiedono, di regola, la successiva DLA per il basso rischio di ulteriori metastasi linfonodali. Ancora più incerto, e presumibilmente minore, è il significato della presenza nel LS di cellule tumorali isolate identificate all’indagine immunoistochimica o del loro DNA, identificato con tecniche di RT-PCR. La BLS, per la sua complessità tecnica, andrebbe effettuata solo da team esperti che effettuano almeno 100-150 procedure l’anno. Tuttavia, essa sta lentamente sostituendo la DLA di principio. Dissezione linfonodale ascellare Quando siano presenti lin- fonodi ascellari sospetti per metastasi, una verifica citologica o con core-biopsy dovrebbe essere effettuata e, in presenza di linfonodi positivi, la DLA di principio andrebbe effettuata in sede di intervento chirurgico sul primitivo (Fig. 8.21). La DLA consiste nella rimozione del tessuto adiposo ascellare in cui sono presenti i linfonodi. Può essere effettuata attraverso la stessa incisione praticata per la rimozione del tumore primitivo o, nel caso di chirurgia conservativa di tumori in aree distanti dall’ascella, attraverso una seconda incisione separata. Tradizionalmente, era prevista la rimozione dei linfonodi di tutti e tre i livelli di Berg, identificati dai margini del muscolo piccolo pettorale. Poiché questo intervento comporta un’elevata morbilità, in particolare per il rischio di linfedema dell’arto superiore, la tecnica standard di DLA prevede, attualmente, un’asportazione limitata ai primi due livelli che, in genere, comporta la rimozione di un numero soddisfacente di linfonodi (almeno 6-10). In presenza di malattia bulky ai primi due livelli, o in presenza di segni macroscopici di coinvolgimento dei linfonodi di III livello, la rimozione di questi ultimi è raccomandata per ridurre il rischio di recidive locali, che sono difficili da controllare con terapie mediche e radioterapia e sono associate a forte morbilità. Radioterapia adiuvante Il ruolo della radioterapia (RT) adiuvante nel controllo locoregionale della malattia consiste nell’eradicazione dei residui tumorali microscopici nella mammella per ridurre il tasso di recidive locali dopo chirurgia. Il recente aggiornamento della metanalisi dello EBCTCG (Early Breast Cancer Trialists’ Collaborative Group), tuttavia, ha evidenziato che la RT adiuvante riduce anche il rischio di recidiva a distanza e la mortalità (Early Breast Cancer Trialists’ Collaborative Group, 2011). Dopo chirurgia conservativa, la RT adiuvante è sempre indicata, salvo la presenza delle controindicazioni riportate nella tabella 8.14. Nelle pazienti non candidate a chemioterapia adiuvante, la RT va iniziata entro le 8-12 settimane dall’intervento chirurgico. Nelle pazienti che praticano chemioterapia adiuvante, la RT va effettuata dopo il termine della chemioterapia, se le pazienti ricevono antracicline e/o taxani, mentre può essere effettuata in contemporanea al regime CMF. La tecnica standard consiste nell’irradiazione del parenchima residuo con due campi tangenziali contrapposti e con dosi di 50 Gy in 25 frazioni, 5 volte alla settimana. N e o p lasi e della mammella TABELLA 8.14 Controindicazioni assolute e relative alla radioterapia adiuvante Controindicazioni assolute t Gravidanza (in alcuni casi, tuttavia, può essere presa in considerazione la chirurgia conservativa nel terzo trimestre se il trattamento radiante è previsto dopo il parto) t Impossibilità di mantenere una posizione di trattamento adeguata per una corretta irradiazione t Alcune malattie del collageno in fase attiva (lupus, sclerodermia, dermatomiosite) Controindicazioni relative t Precedente RT locale (inclusa l’irradiazione toracica per linfoma di Hodgkin) t Volume mammario non ottimale per una corretta irradiazione t Malattie del collageno in fase non attiva Tuttavia, alcuni studi randomizzati hanno indicato che schemi ipofrazionati (o accelerati), con dosi di 40-42,5 Gy in 13-16 frazioni, rappresentano un’accettabile alternativa sia in termini di controllo locale sia in termini cosmetici per le pazienti T1-2 N0 (Goldhirsch et al., 2011). L’aggiunta di un supplemento di dose (boost di 10-16 Gy) sul letto tumorale riduce il rischio di ricaduta locale (HR = 0,59; p <0,0001) senza generalmente aggiungere tossicità al trattamento, e con un modesto impatto sul risultato estetico. Il vantaggio assoluto in termini di controllo locale è più elevato nelle pazienti di età 40 anni. Alcuni Autori ritengono che, in pazienti anziane selezionate, la RT adiuvante dopo chirurgia conservativa possa essere omessa. Tale convinzione si basa sui risultati di un piccolo studio randomizzato (N = 639) condotto su pazienti con età 70 anni, con tumore 2 cm, cN0, ER-positivo. In tale studio nessuna differenza è emersa in sopravvivenza globale, sopravvivenza libera da metastasi a distanza, secondo tumore primitivo, percentuali di mastectomie tra il braccio che aveva ricevuto la RT rispetto ai controlli. Tuttavia, è stata osservata una differenza significativa in recidive mammarie (2% vs 9%, 6 vs 27 casi, a favore della radioterapia) (Hughes et al., 2013). Tuttavia, i dati disponibili non consentono, a tutt’oggi, di individuare un sottogruppo di pazienti nel quale la RT sia certamente superflua. Negli ultimi anni hanno guadagnato grande popolarità le tecniche di irradiazione parziale del parenchima mammario residuo (partial breast irradiation o PBI). L’irradiazione parziale della mammella può essere attuata con diverse metodiche: brachiterapia interstiziale (sia low dose rate, sia high dose rate), brachiterapia endoluminale (MammoSite), radioterapia a fasci esterni, e radioterapia intraoperatoria (IORT). Il volume irradiato e la dose somministrabile variano considerevolmente da una tecnica all’altra e ogni metodica presenta vantaggi e problematiche differenti. I vantaggi offerti dalla PBI sono rappresentati essenzialmente dalla riduzione del numero di sedute e quindi della durata del trattamento, con vantaggi logistici per le pazienti e il decongestionamento delle liste di attesa dei centri di radioterapia. Nonostante la sua rapida diffusione, la PBI va considerata una metodica ancora sperimentale e va appli- 275 276 Capitolo 8 Neo p la sie d ella m a m m ella cata solo a donne a basso rischio di recidiva locale (T1 N0 con recettori ormonali positivi) che andrebbero adeguatamente informate circa i potenziali vantaggi e svantaggi della metodica (Smith et al., 2009). Dopo mastectomia, la RT adiuvante è indicata nelle pazienti ad alto rischio di recidiva e, cioè, in caso di almeno uno dei seguenti fattori di rischio: tumore >5 cm, 4 linfonodi metastatici, estensione extracapsulare macroscopica a livello dei linfonodi ascellari, interessamento della cute, interessamento della parete toracica. Nelle donne con 1-3 linfonodi metastatici e senza altri fattori di rischio, l’impiego della RT adiuvante è controverso, anche se l’ultima edizione della metanalisi del EBCTCG indica che la riduzione del rischio di recidiva locale è approssimativamente intorno al 15%, indipendentemente dal numero di linfonodi interessati, mentre appare chiaramente trascurabile nelle donne N- (Clarke et al., 2005). Per tale motivo, alcuni Autori suggeriscono l’impiego della RT adiuvante postmastectomia nelle donne giovani con 1-3 linfonodi metastatici. Terapia sistemica adiuvante La terapia medica adiuvante o precauzionale viene impiegata dopo il trattamento locoregionale con l’obiettivo di colpire eventuali micrometastasi sistemiche e, conseguentemente, aumentare la probabilità di guarigione definitiva. Le classi di farmaci impiegabili come terapia adiuvante sono tre: farmaci endocrini (quali: tamoxifene, inibitori dell’aromatasi, analoghi del GnRH), efficaci solamente nei tumori con espressione dei recettori ormonali (cioè, nei sottotipi tumorali luminal A e B); chemioterapici (polichemioterapia con CMF, antracicline, taxani), teoricamente efficaci in tutti i sottotipi tumorali, ma forse maggiormente nei tumori ER- e PgR-; farmaci a bersaglio molecolare specifico. In quest’ultima classe terapeutica, l’unico farmaco attualmente approvato per l’uso clinico come terapia adiuvante è il trastuzumab, un anticorpo monoclonale anti-HER2, il cui impiego, pertanto, richiede come essenziale prerequisito, l’iperespressione di HER2 da parte del tumore. Queste tre classi di farmaci sono complementari e possono essere combinate in strategie terapeutiche complesse e “personalizzate”, sulla base dei fattori prognostici e predittivi espressi dal tumore e, in particolare, sulla base del sottotipo tumorale intrinseco. Volendo schematizzare, la strategia terapeutica generale può essere riassunta come riportato nei due seguenti paragrafi. Strategia terapeutica in base al sottotipo tumorale Luminal A: endocrinoterapia (± chemioterapia) La terapia endocrina da sola è il trattamento adiuvante di scelta nella maggior parte dei tumori luminal A. Questi tumori, infatti, sono poco aggressivi biologicamente e hanno una prognosi molto buona. Sono, inoltre, altamente endocrino-sensibili e il trattamento ormonale è sufficiente a garantirne la guarigione nella maggior parte dei casi (Goldhirsh et al., 2011). Controverso è l’impiego della chemioterapia nei tumori luminal A, sia per l’eccellente prognosi complessiva dopo terapia endocrina, sia perché varie evidenze sperimentali ne suggeriscono una scarsa sensibilità ai chemioterapici. L’aggiunta della chemioterapia alla terapia endocrina nell’ambito della strategia terapeutica adiuvante va limitata a pochi casi selezionati in questo sottotipo tumorale. Questa decisione è complessa e altamente specialistica e va basata su un’attenta analisi del rapporto tra potenziale beneficio aggiuntivo ed effetti tossici. Eventuali fattori che, in maniera puramente indicativa, possano consigliare l’aggiunta della chemioterapia sono rappresentati da: ● ● coinvolgimento linfonodale ascellare (in particolare se N >3); presenza di caratteristiche biologiche intermedie tra luminal A e B (recettori ormonali non molto alti, Ki67 vicino al 14%, grading elevato). Nei casi limite, l’impiego di una firma genetica (per esempio, Oncotype DX) può, in teoria, aiutare a dirimere il dubbio, ma il reale vantaggio nell’eseguire questi costosi test in tali situazioni è ancora oggetto di studio e pertanto l’uso di tale test andrebbe, al momento, limitato a situazioni particolari o all’ambito delle sperimentazioni cliniche (Goldhirsch et al., 2011). Luminal B HER2!: endocrinoterapia chemioterapia Il trattamento combinato chemio-endocrino è il trattamento adiuvante di scelta nella maggior parte dei tumori luminal B che non iperesprimono HER2. Questi tumori, infatti, sono più aggressivi biologicamente e hanno una prognosi meno buona rispetto ai luminal A. Sono, inoltre, meno endocrino-sensibili e, probabilmente, più chemiosensibili. Per quanto riguarda il timing, a scopo prudenziale e per evitare teoriche interferenze tra i due trattamenti, la chemioterapia andrebbe iniziata quanto prima dopo l’intervento chirurgico e la terapia endocrina andrebbe intrapresa, salvo eccezioni, solo al termine di questa. È opinione diffusa, tuttavia, che non tutti i tumori luminal B necessitino della chemioterapia. In maniera opposta rispetto ai luminal A, in questo sottotipo, la principale sfida terapeutica per l’oncologo è l’individuazione dei casi in cui la chemioterapia è superflua. Tale scelta è, come sopra, complessa e altamente specialistica e va basata su un’attenta analisi del rapporto tra potenziale beneficio aggiuntivo ed effetti tossici. Eventuali situazioni che, in maniera puramente indicativa, possano far propendere per un trattamento solo endocrino sono: ● ● dimensioni tumorali tra 0,6 e 1 cm in assenza di metastasi ascellari (pT1b N0 M0); per i tumori luminal 0,5 cm e N- (pT1a N0 M0) la chemioterapia è generalmente controindicata; presenza di caratteristiche biologiche intermedie tra luminal A e B (recettori ormonali altamente espressi, Ki67 vicino al 14%, grading basso). Anche in questi casi, l’esecuzione di test di firma genetica (per esempio, Oncotype DX) può aiutare a dirimere eventuali dubbi, anche se gli studi per la definitiva validazione di questi test sono ancora in corso (Goldhirsch et al., 2011). Luminal B HER2+: chemioterapia + trastuzumab + endocrinoterapia Questi tumori sono, in genere, più aggressivi rispetto al sottotipo precedente, ma hanno il vantaggio di essere Ca pito l o 8 potenzialmente sensibili a tutte e tre le classi di farmaci disponibili. Il trattamento adiuvante standard prevede, pertanto, l’impiego combinato di chemioterapia, trastuzumab e terapia endocrina. Il trattamento con trastuzumab può essere iniziato in contemporanea alla chemioterapia (scelta maggiormente efficace, ma con maggiore tossicità cardiologica potenziale) o in sequenza. Maggiori dettagli sono riportati nel paragrafo “Scelta del regime terapeutico”. Anche in questo caso, è preferibile iniziare la terapia endocrina dopo il termine della chemioterapia. Ancora controverso, comunque, è l’impiego del trastuzumab nei tumori di dimensioni inferiori a 1 cm e senza metastasi ascellari (pT1a-b N0 M0), in quanto questi tumori piccoli erano poco o nulla rappresentati nelle sperimentazioni randomizzate che hanno dimostrato l’utilità dell’anticorpo monoclonale anti-HER2. Tuttavia, molti dati indiretti e la maggior parte delle linee guida internazionali suggeriscono di effettuare regolarmente questo trattamento nei tumori che siano almeno superiori a 0,5 cm di diametro (pT1b N0 M0) (National Comprehensive Cancer Network, 2013). Alcuni Autori, ritengono che casi selezionati a basso rischio nell’ambito di questo sottotipo possano essere trattati con la sola terapia endocrina + trastuzumab, omettendo, quindi, la chemioterapia. Tuttavia, questo approccio è privo, al momento, di qualunque evidenza sperimentale e andrebbe limitato ai rari casi con controindicazioni chiare alla chemioterapia. HER2+ non luminal: chemioterapia + trastuzumab Si tratta di un sottotipo aggressivo, ma altamente sensibile al trattamento combinato chemioterapia + trastuzumab che, pertanto, rappresenta lo standard terapeutico per l’intero sottogruppo. Come per il sottotipo precedente, valgono le stesse considerazioni a proposito dei tumori di piccole dimensioni (National Comprehensive Cancer Network, 2013). “Triple negative” (ER-/PgR-/HER2!): chemioterapia Si tratta di un sottotipo il cui elemento caratterizzante è la non sensibilità ai trattamenti endocrini e anti-HER2. La chemioterapia rappresenta, pertanto, l’unica arma terapeutica disponibile ed è, spesso, una scelta obbligata. Infatti, i tumori triple negative (TN) hanno, mediamente, un rischio di recidiva più elevato rispetto agli altri sottotipi e sono comunemente considerati tumori aggressivi. In realtà, è oramai chiaro che il sottotipo TN è molto eterogeneo e comprende tumori a prognosi molto diversa. Nella maggior parte dei casi, i tumori TN hanno caratteristiche istologiche e immunoistochimiche che fanno pensare a un’alta aggressività biologica (grading alto, Ki67 elevato). In questi casi il trattamento chemioterapico adiuvante è, quasi sempre, indicato e può, ragionevolmente, essere omesso solo nei tumori di dimensioni molto piccole ( 0,5 cm) e senza linfonodi ascellari metastatici (pT1a N0 M0) (National Comprehensive Cancer Network, 2013). Più raramente, i tumori TN presentano caratteristiche di bassa aggressività (grading basso, Ki67 basso). In questi casi, l’indicazione alla chemioterapia può essere meno stringente e il trattamento può essere omesso anche in tumori N e o p lasi e della mammella pT1b N0 M0, in base a un’attenta analisi del singolo caso e del rapporto tra potenziale beneficio ed effetti tossici. Una discussione a parte meritano i tumori TN di istologia “midollare”, il cui trattamento rimane controverso. Questi rari tumori presentano, nella variante classica, un Ki67 molto alto, a indicazione di un’intensa attività proliferativa, ma si è ritenuto, in precedenza, che avessero un basso potenziale metastatico. Ciò ha portato alcuni Autori a suggerire, in questi casi, l’omissione della chemioterapia. Tuttavia, evidenze più recenti hanno messo in dubbio la buona prognosi dei tumori midollari. Inoltre, evidenze della letteratura indicano che la diagnosi di carcinoma midollare “tipico” ha un’alta variabilità e scarsa riproducibilità tra diversi patologi. Pertanto, per evitare la grave omissione di un trattamento potenzialmente guaritivo, si suggerisce, prudenzialmente, di trattare questo istotipo raro alla stregua dei comuni tumori duttali TN (National Comprehensive Cancer Network, 2013). Un altro oggetto di controversia è stata la sensibilità dei tumori TN ai diversi farmaci chemioterapici. Alcuni Autori, infatti, hanno ipotizzato che questo sottotipo tumorale, in particolare quando presenti caratteristiche basal-like, sia poco sensibile ai farmaci comunemente impiegati nel tumore mammario (antracicline e taxani) e che, invece, sia particolarmente sensibile ai derivati del platino o a regimi terapeutici obsoleti, come il classico CMF. In realtà, non esiste al momento alcuna solida evidenza a supporto di queste affermazioni. Anzi, la maggior parte delle evidenze disponibili depone per un’elevata sensibilità nei confronti di antracicline e taxani (Liedtke et al., 2008). Pertanto, in assenza di specifiche controindicazioni, il regime polichemioterapico da impiegare in questi casi dovrebbe contenere antracicline e taxani, così come suggerito dalle maggiori linee guida internazionali (National Comprehensive Cancer Network, 2013) e come recentemente deliberato da un panel di esperti internazionali riunitosi a marzo 2013 in occasione della Consensus Conference biennale di San Gallen, in Svizzera (appunti personali). Scelta del regime terapeutico Chemioterapia La chemioterapia rappresenta la prima forma di terapia adiuvante sviluppata a partire dalla metà del secolo scorso. Da allora, centinaia di studi clinici sono stati condotti in tutto il mondo, generando un’immensa mole di dati scientifici la cui interpretazione e trasposizione nella pratica clinica quotidiana è molto complessa. Un formidabile strumento di sintesi di tutta l’evidenza scientifica disponibile è costituito dalla metanalisi periodica dei dati raccolti in tutti gli studi randomizzati, nota come metanalisi di Oxford o dello EEBCTCG, la cui ultima edizione è stata recentemente pubblicata (Early Breast Cancer Trialists’ Collaborative Group, 2012). Il vantaggio della metanalisi è quello di stimare in maniera molto precisa l’effetto medio dei diversi trattamenti disponibili e di valutare se questo effetto differisce in particolari sottogruppi di pazienti. Coerentemente con la metanalisi, è possibile classificare i regimi polichemioterapici per il carcinoma mammario in tre diverse generazioni. 277 Capitolo 8 Neo p la sie d ella m a m m ella A B 50 5.253 donne: CMF standard (o vs CMF standard) (34% N+) No CTX 39,8% Recidiva (%) 40 FIG. 8.22 Effetto medio della somministrazione di un regime CMF adiuvante nel carcinoma mammario sul rischio di recidiva (A)e sulla mortalità globale (B). Early Breast Cancer Trialists’ Collaborative Group. Lancet 2012. Mortalità globale (%) 50 30,2% 30 29,6% CMF 20 20,3% RR: 0,70 (95%: 0,63-0,77) Log-rank 2p<0,00001 Miglioramento a 10 anni, 10,2% (ES, 1,4) 10 RR: 0,84 (IC 95%: 0,76-0,93) Log-rank 2p = 0,0004 Miglioramento a 10 anni, 4,7% (ES, 1,3) 26,0% CMF 20 16,4% 13,7% 10 5 0 10 5 10 Anni Anni A B 9.527 donne: regimi don dosi cumulative di antracicline ad alta efficacia (53% N+) vs CMF Recidiva (%) 40 FIG. 8.23 Effetto medio della somministrazione di un regime ad alta efficacia contenente antracicline sul rischio di recidiva (A) e sulla mortalità globale (B). CMF: ciclofosfamide-metotrexato-fluorouracile. Early Breast Cancer Trialists’ Collaborative Group. Lancet 2012. 30 CMF 33,8% 31,2% Antracicline 25,5% 20 5 9.527 donne 40 RR: 0,84 (IC 95%: 0,76-0,92) Log-rank 2p = 0,0002 Miglioramento a 10 anni, 3,9% (ES, 1,1) CMF 27,1% 23,2% Antracicline 20 RR: 0,89 (95% CI 0,82-0,96) Log-rank 2p=0,003 Miglioramento a 10 anni, 2,6% (ES, 1,1) 0 50 30 22,3% 10 0 15,7% 12,8% 10 0 10 0 5 10 Anni Anni B A 11.167 donne 40 Antracicline controllo 34,8% 30 30,2% Taxani + antracicline 27,3% 23,7% 20 RR: 0,84 (IC 95%: 0,78-0,91) Log-rank 2p <0,00001 Miglioramento a 8 anni, 4,6% (ES, 1,0) 10 Mortalità globale (%) 50 No CTX 30,7% 30 0 0 50 FIG. 8.24 Effetto medio della somministrazione contenente antracicline e taxani sul rischio di recidiva (A) e sulla mortalità globale (B). RR: Rischio Relativo; ES: Errore Standard. Early Breast Cancer Trialists’ Collaborative Group. Lancet 2012. 5.253 donne 40 0 Recidiva (%) 278 50 11.167 donne 40 RR: 0,86 (IC 95%: 0,79-0,93) Log-rank 2p = 0,0002 Miglioramento a 8 anni, 3,2% (es 0,9) 30 Antracicline controllo 16,7% 23,5% Taxani + antracicline 18,2% 20 16,3% 10 0 0 0 1 2 3 4 5 6 7 8 Anni 0 1 2 3 4 5 6 7 8 Anni Ca pito l o 8 Regimi di 1a generazione Questi regimi sono basati sulla combinazione di ciclofosfamide-metotrexato-fluorouracile (CMF) e, somministrati per un numero di 6-12 cicli, riducono mediamente il rischio di recidiva di circa il 30% (RR = 0,70) e la mortalità globale di circa il 16% (RR = 0,84) (Fig. 8.22). Sembrano essere particolarmente efficaci nelle donne al di sotto dei 55 anni e con linfonodi ascellari non metastatici (Early Breast Cancer Trialists’ Collaborative Group, 2012). Sono attualmente poco usati e rappresentano, perlopiù, un riferimento storico. Tuttavia, alcuni Autori li ritengono ancora validi per alcuni specifici sottogruppi di pazienti. In particolare, sulla base di analisi di sottogruppo non pianificate effettuate su un vecchio studio clinico randomizzato denominato NCCTG MA5 (Cheang et al., 2012) è stata avanzata l’ipotesi che questi regimi fossero più efficaci di quelli a base di antracicline nel sottotipo tumorale triple negative (in particolare nel basal-like). Questa ipotesi, tuttavia, è basata su dati deboli e non ha trovato, al momento, sostanziali conferme. Regimi di 2a generazione Si tratta di regimi polichemioterapici contenenti antracicline. Questi regimi sono mediamente più efficaci dei regimi tipo CMF. Tuttavia, è oramai chiaro che non tutti i regimi a base di antracicline sono egualmente efficaci. In particolare, è possibile distinguere orientativamente regimi a bassa efficacia e regimi ad alta efficacia. I regimi a bassa efficacia comprendono quelli denominati EC (epirubicina + ciclofosfamide) o AC (adriamicina + ciclofosfamide), che sono, in genere, somministrati per soli 4 cicli e sono perlopiù usati nelle pazienti a rischio limitato. Questi regimi sono sostanzialmente equivalenti al CMF in termini in efficacia terapeutica, ma hanno un diverso profilo di tollerabilità, inducendo meno tossicità gonadica e più alopecia e cardiotossicità (Early Breast Cancer Trialists’ Collaborative Group, 2012). I regimi ad alta efficacia comprendono quelli noti come FEC o CEF (fluorouracile + epirubicina + ciclofosfamide) e FAC o CAF (fluorouracile + adriamicina + ciclofosfamide), vengono somministrati in genere per 6 cicli e devono prevedere una dose di antracicline non inferiore a 60 mg/m2, nel caso della doxorubicina, o 100 mg/m2, nel caso della epirubicina. Questi regimi sono più efficaci del CMF, producendo un’ulteriore riduzione del rischio di recidiva del tumore (11%, pari a un RR = 0,89) e della mortalità globale (16%, pari a un RR = 0,84) (Fig. 8.13). Tuttavia, come rovescio della medaglia, sono gravati da una maggiore tossicità acuta e di lungo periodo. Quest’ultima, particolarmente temibile, ma per fortuna relativamente rara, comprende lo sviluppo di insufficienza cardiaca congestizia e di leucemia mieloide acuta (Azim et al., 2011). La frequenza di questi effetti tossici, comunque, per quanto probabilmente sottostimata, non è tale da controbilanciare i favorevoli effetti sul rischio tumorale nella maggior parte delle donne, come dimostra la riduzione della mortalità globale legata ai trattamenti con antracicline nella metanalisi di Oxford (si veda Fig. 8.23). Grazie a questi dati, i regimi a base di antracicline si sono affermati ampiamente intorno agli anni Novanta del secolo scorso, soppiantando, soprattutto nelle donne a più elevato rischio, il classico CMF, e rappresentano ancora oggi una valida opzione terapeutica nelle donne candidate a ricevere una chemioterapia adiuvante. N e o p lasi e della mammella Regimi di 3a generazione Questi regimi sono stati sviluppati tra il 1990 e il 2000 circa, e comprendono regimi a base di antracicline + taxani, quali: TAC (docetaxel + adriamicina + ciclofosfamide) o TEC (docetaxel + epirubicina + ciclofosfamide), FEC seguito da docetaxel, AC (o EC) seguito da paclitaxel. Questi ultimi sono anche definiti regimi “blocco-sequenziali”, in quanto composti da due distinti blocchi somministrati in sequenza: uno a base di antracicline (AC/EC/FEC), normalmente somministrato per 3-4 cicli, e uno a base di taxani, perlopiù in monoterapia, somministrati per altrettanti cicli. L’ordine dei blocchi è, in taluni regimi, invertito (per esempio, paclitaxel AC). Questi regimi sono mediamente superiori a quelli di seconda generazione, e producono un’ulteriore riduzione del rischio di recidiva e della mortalità globale del 14-16% (Fig. 8.24). Va, comunque, precisato che questa superiorità è chiaramente evidente solo in quegli studi in cui il taxano sia stato aggiunto al regime di confronto con antracicline, aumentando, pertanto il numero di cicli complessivi della chemioterapia. Nei casi in cui il taxano sia stato impiegato in sostituzione di una parte del regime di confronto, la superiorità rispetto ai regimi di seconda generazione sarebbe marginale (Early Breast Cancer Trialists’ Collaborative Group, 2012). Anche in questo caso, comunque, l’impiego del taxano dovrebbe risultare teoricamente vantaggioso, consentendo di ottenere un regime di efficacia pari a quelli di seconda generazione, ma con il vantaggio di ridurre la dose totale di antracicline somministrate e, in definitiva, ridurre l’incidenza della cardiotossicità legata a esse. Per questi motivi, i regimi a base di taxani e antracicline, soprattutto quelli “blocco-sequenziali”, hanno guadagnato grande popolarità in quest’ultimo decennio, costituendo lo standard terapeutico più utilizzato nelle donne a rischio moderato-alto. Allo scopo di ridurre al minimo il rischio di cardiotossicità, sono stati recentemente sviluppati regimi con soli taxani senza antracicline, quali, per esempio, il TC (docetaxel + ciclofosfamide) somministrato per 4 cicli. Questo regime, confrontato con il regime di seconda generazione AC (adriamicina + ciclofosfamide), ha mostrato, a parità di numero di cicli, di essere più efficace in termini di riduzione del rischio di recidiva e di miglioramento della sopravvivenza globale (Jones et al., 2009), con il vantaggio di indurre una cardiotossicità trascurabile. Per quanto questo regime non sia mai stato confrontato direttamente con un regime di seconda generazione ad alta efficacia (FEC/FAC/ CEF/CAF), è ragionevole dedurre, in base alla superiorità nei confronti di AC, che sia di efficacia sostanzialmente paragonabile, con il grande vantaggio della minore durata (4 vs 6 cicli) e dell’assenza di cardiotossicità. Per questi motivi, il regime TC ha guadagnato recentemente grande popolarità come regime di riferimento per le pazienti con rischio moderato-basso che siano candidate a ricevere una chemioterapia adiuvante. Endocrinoterapia La terapia ormonale adiuvante è una terapia sistemica indicata in tutti i tipi di carcinoma mammario endocrino-responsivi (ER e/o PgR positivo >1%). Essa può seguire un trattamento chemioterapico (terapia endocrina sequenziale) o costituire l’unico trattamento sistemico adiuvante. In 279 280 Capitolo 8 Neo p la sie d ella m a m m ella caso di carcinoma mammario luminal B HER2+, la terapia endocrina può essere somministrata contemporaneamente alla terapia adiuvante anti-HER2. I composti utilizzati nell’ormonoterapia adiuvante appartengono a tre categorie di farmaci, distinte per meccanismo di azione, ma aventi tutte come obiettivo ultimo la riduzione della stimolazione estrogenica sul carcinoma mammario. I farmaci utilizzati nella terapia endocrina adiuvante nel carcinoma mammario appartengono a tre diverse classi: 1. modulatori selettivi del recettore per gli estrogeni (SERM); 2. inibitori dell’aromatasi (IA); 3. analoghi del GnRH (GnRHa). SERM Appartengono a questa classe il tamoxifene e il toremifene (clorotamoxifene). Tuttavia, mentre il tamoxifene è stato ampiamente studiato come terapia adiuvante, mancano dati sperimentali a supporto del toremifene. Pertanto, l’uso del toremifene come terapia adiuvante va, prudenzialmente, evitato e limitato ai rari casi di intolleranza ad altri agenti ormonali. Il meccanismo di azione dei SERM consiste in una competizione con l’estrogeno per il legame con il recettore specifico (ER). Una volta legato a ER, i SERM esercitano, a differenza dell’estrogeno, solo una debole stimolazione del recettore, impedendo competitivamente la stimolazione piena del recettore da parte del suo ligando naturale. Tuttavia, l’entità della stimolazione di ER da parte di un SERM è diversa a seconda dell’organo bersaglio e del tipo di farmaco. In linea di massima, il tamoxifene esercita una stimolazione molto debole sul tessuto mammario (risultando, quindi, in un effetto netto inibitorio rispetto al normale estrogeno), e in una stimolazione più forte su tessuto osseo (esercitando, così, un’azione protettiva contro l’osteoporosi) ed endometriale. Il tamoxifene è un farmaco ottimamente tollerato, ma non completamente privo di effetti collaterali. I più frequenti effetti vasomotori manifestati sono: flushing al volto, vampate di calore, tachicardia e sudorazione. Questi disturbi, presenti nel 15-20% delle pazienti, tendono a ridursi di intensità e frequenza nel tempo. Molto frequente è anche l’amenorrea, che si manifesta in circa il 40-50% delle donne in premenopausa. Molto meno frequenti, ma clinicamente importanti, sono gli eventi tromboembolici (1-3% dei casi) e le rare alterazioni della funzione visiva (cataratta, edema maculare, neurite ottica e retinopatia). Per l’effetto estrogeno-simile del tamoxifene a livello endometriale, in corso di trattamento può svilupparsi iperplasia endometriale semplice e, molto più raramente, un carcinoma dell’endometrio. Per quanto molto temuto, in realtà l’incidenza di carcinoma endometriale in donne trattate con tamoxifene è molto bassa e pari a circa 1,5% versus 0,6% nei controlli a 10 anni. Tra l’altro, essendo il carcinoma dell’endometrio altamente guaribile, ne deriva una mortalità correlata del tutto irrilevante (0,1% a 10 anni) (Early Breast Cancer Trialists’ Collaborative Group, 2011). Dal punto di vista farmacologico, va ricordato che il tamoxifene viene metabolizzato dal sistema enzimatico citocromo P450. In particolare, attraverso il citocromo CYP2D6 il tamoxifene viene trasformato in endoxifene che ha un’affinità per ER 100 volte maggiore e che ne rappresenta, pertanto, il vero metabolita attivo. Alcuni farma- ci antidepressivi inibitori del reuptake della serotonina, come paroxetina e fluoxetina, talora utilizzati anche nel trattamento di effetti collaterali (per esempio, vampate di calore), possono determinare inibizione del CYP2D6 e, teoricamente, ridurre l’efficacia del tamoxifene riducendone la conversione a endoxifene. È consigliabile, pertanto, evitarne l’impiego in corso di terapia con tamoxifene e di sostituirlo, eventualmente, con farmaci analoghi, ma con una minore azione inibitoria sul citocromo CYP2D6, quali venlafaxina, citalopram ed escitalopram. Inibitori dell’aromatasi L’aromatasi è un enzima ubiquitario principalmente espresso nelle gonadi e nelle ghiandole surrenaliche, responsabile della conversione degli androgeni (principalmente androstenedione e testosterone) in estrogeni. L’espressione dell’aromatasi è stata dimostrata anche a livello stromale di alcuni tumori mammari, suggerendo una produzione estrogenica autocrina. L’aromatasi appartiene alla famiglia dei citocromi P450 e catalizza selettivamente la produzione di estrogeni a differenza di enzimi simili che modulano la produzione di altri ormoni steroidei (glucocorticoidi, androgeni e mineralcorticoidi). Pertanto, l’inibizione selettiva dell’aromatasi riduce la sola produzione di estrogeni senza produrre alterazioni dei livelli di altri ormoni steroidei. Gli IA sono essenzialmente di due tipi: ● ● steroidei (ex tipo 1): sono definiti anche “inibitori suicidi” o inattivatori perché sono in grado di legarsi all’aromatasi in maniera covalente e di bloccarne in maniera irreversibile l’attività enzimatica (che può essere ripristinata solo dopo nuova sintesi dell’enzima stesso). L’unico tra gli IA moderni (cosiddetti IA di terza generazione) appartenente a questa classe è l’exemestano (Lønning, 2004); non steroidei (ex tipo 2): sono inibitori reversibili dell’aromatasi la cui azione avviene per legame con i siti enzimatici attivi in modo competitivo con il substrato naturale, cioè l’androstenedione. Appartengono a questa classe gli IA di terza generazione anastrozolo e letrozolo (Lønning, 2004). In premenopausa, l’espressione maggiore dell’aromatasi è a livello ovarico, dove FSH stimola le cellule della granulosa a sintetizzare più aromatasi e LH stimola le cellule della teca a sintetizzare androstenedione (il suo principale substrato). La riduzione dei livelli di estrogeni derivante dall’utilizzo di IA in premenopausa determina un incremento ipofisario di FSH/LH per mancato feedback negativo. Questa iperstimolazione induce la formazione di cisti ovariche e controbilancia l’effetto inibitorio del farmaco sulla produzione di estrogeni. Per questo motivo, la somministrazione di IA in donne premenopausali è assolutamente controindicata in assenza di un blocco dell’asse ipotalamo-ipofisario. Nella postmenopausa la principale produzione di estrogeni avviene per conversione periferica dell’androstenedione di origine surrenalica. Per questo motivo l’utilizzo di IA in donne in postmenopausa induce una significativa riduzione dei livelli circolanti di estrogeni, con conseguente inibizione della stimolazione tumorale (Lønning, 2004). La drastica riduzione degli estrogeni induce, comunque, una serie di effetti collaterali, di cui, i più frequenti, sono Ca pito l o 8 Analoghi del GnRH (GnRHa) Il GnRH (gonadotropin-releasing hormone) è un peptide secreto dai neuroni ipotalamici che regola la sintesi e la secrezione di FSH (ormone follicolostimolante) e LH da parte dell’ipofisi. Una caratteristica chiave della secrezione di GnRH è il suo rilascio pulsatile, che è regolato, fisiologicamente, da un generatore di impulsi di GnRH (o oscillatore di GnRH) localizzato nell’ipotalamo mediobasale. È dimostrato che, mentre il rilascio pulsatile del GnRH stimola la sintesi e la secrezione di gonadotropine, un’infusione continua di GnRH ne sopprime la secrezione a causa di una desensibilizzazione delle cellule gonadotrope ipofisarie. I GnRHa sono peptidi sintetici simili al GnRH, ma caratterizzati da una minore suscettibilità alla degradazione proteolitica e da una maggiore affinità per i recettori del GnRH. Essi sono, pertanto, anche denominati analoghi superagonisti del GnRH. La loro somministrazione in forma a rilascio prolungato simula l’infusione continua di GnRH e, desensibilizzando le cellule gonadotrope ipofisarie, inibisce la produzione di FSH e LH inducendo, in donne in età fertile, una menopausa farmacologica reversibile. Ne consegue una riduzione dei livelli di estrogeni circolanti e, di conseguenza, dello stimolo proliferativo sulle cellule tumorali endocrino-sensibili (Robertson e Blamey, 2003). Gli effetti collaterali indotti dai GnRHa sono sostanzialmente simili a quelli della menopausa naturale: vampate di calore, osteoporosi, aumento di peso, ipertensione, diabete e, ipoteticamente, aumento del rischio cardiovascolare. In funzione del diverso meccanismo di azione dei farmaci ormonali, la scelta del trattamento endocrino adiuvante dipende dallo stato menopausale della paziente. Premenopausa In questo caso il trattamento di scelta è il tamoxifene, somministrato alla dose di 20 mg al giorno per os per 5 anni. A tali dosi il trattamento con tamoxifene riduce mediamente il rischio di recidiva di circa il 40% (RR = 0,61) e la mortalità cancro-correlata di circa il 30% (RR = 0,70) (Fig. 8.25). Ancora controverso è l’impiego di tamoxifene per periodi più prolungati. Alcuni studi iniziali di piccole dimensioni avevano ipotizzato un effetto negativo delle somministrazioni superiori a 5 anni. Recentemente, invece, una grossa sperimentazione clinica randomizzata (studio ATLAS) coinvolgente circa 13.000 donne ha dimostrato che la somministrazione di tamoxifene protratta per 10 anni è superiore a quella standard di 5 anni, riducendo ulteriormente sia il rischio di recidiva, sia la mortalità globale (Davies et al., 2013). Ne deriva che il trattamento per 10 anni possa essere preso in considerazione nelle donne a rischio moderato-alto, dopo attenta valutazione del rapporto tra potenziale beneficio aggiuntivo ed effetti tossici (San Gallen Breast Cancer Consensus Conference 2013, appunti personali). Per quanto ampiamente diffusi nella pratica clinica, il ruolo dei GnRHa è tutt’altro che chiaro e, probabilmente, sopravvalutato. In una recente metanalisi degli studi clinici randomizzati (Cuzik et al., 2007), il GnRHa come trattamento endocrino singolo non ha prodotto risultati terapeutici statisticamente significativi e, pertanto, va considerato un trattamento subottimale, da riservare solo a quei rari casi intolleranti a tutte le altre opzioni endocrine disponibili. Dalla stessa metanalisi si evince che, nelle pazienti che non ricevono la chemioterapia, l’aggiunta del GnRH al tamoxifene non migliora in maniera statisticamente significativa né il rischio di recidiva, né la mortalità. Tuttavia, si evidenzia una tendenza non significativa al miglioramento dell’efficacia terapeutica, soprattutto nelle donne con meno di 40 anni. Analoghi risultati, si osservano per le donne che ricevono chemioterapia seguita da tamoxifene, con un più spiccato trend a favore delle donne con meno di 40 anni. Ciò è in linea con il meccanismo di azione dei GnRHa il cui effetto terapeutico è, ipoteticamente, limitato alle sole donne che non vanno in amenorrea a causa del danno ovarico da chemioterapia (cosa che accade più frequentemente nelle donne giovani). Tenendo conto di questi dati, l’aggiunta del GnRHa al tamoxifene non deve essere presa come un obbligo terapeutico, ma come un’opzione da valutare caso per caso sulla base di un attento bilancio tra potenziali benefici e tossicità. In particolare, nelle donne che non ricevono la chemioterapia, il trattamento combinato tamoxifene + GnRHa può essere A Recidiva (%; +/– ES) 50 FIG. 8.25 Effetto medio della somministrazione di 5 anni di tamoxifene sul rischio di recidiva (A) e sulla mortalità cancro-correlata (B). ER: recettore degli estrogeni; RR: rischio relativo; ES: errore standard. Early Breast Cancer Trialists’ Collaborative Group. Lancet 2012. 10.645 donne (100% ER positivo, 44% linfonodo positivo, 51% chemioterapia) 40,1% 40 30 Controllo 46,2% 25,9% 16,4% 0 10.645 donne 50 Controllo 33,1% 30 25,1% 20 20 10 B 40 5 anni di tamoxifene 33,0% 28,7% Mortalità per cancro alla mammella (%; +/– ES) a carico del sistema osteoscheletrico, in particolare: artromialgie, osteoporosi e rischio di fratture. La comparsa di artralgie è stata riportata come la causa più frequente di sospensione del trattamento. Altri effetti collaterali tipici sono: vampate di calore, secchezza vaginale, incremento del peso corporeo, dislipidemie. N e o p lasi e della mammella RR: 0,61 (IC 95%: 0,57-0,65 Log-rank 2p <0,00001 Miglioramento a 15 anni, 13,2% (ES, 1,1) 0 5 10 15 anni Frequenza di recidiva (% per anno) e analisi del log-rank 11,9% 10 8,6% 0 0 5 anni di tamoxifene 23,9% 17,9% RR: 0,70 (IC 95%: 0,64-0,75 Log-rank 2p <0,00001 Miglioramento a 15 anni, 9,2% (ES, 1,1) 5 10 15 anni Frequenza di mortalità (% per anno): percentuale totale meno percentuale di donne senza recidiva e analisi del log-rank 281 Capitolo 8 Neo p la sie d ella m a m m ella preso in considerazione in quelle a rischio non particolarmente basso. Analogamente, nelle pazienti che ricevono la chemioterapia, l’aggiunta di un GnRHa al tamoxifene può essere presa in considerazione in quelle che non vanno incontro ad amenorrea chemio-indotta, soprattutto se a rischio moderato-alto di recidiva. Anche la durata del trattamento con un GnRHa è controversa, ma si ritiene che una somministrazione di almeno 2 anni sia necessaria. Eventuali somministrazioni più prolungate vanno, ancora una volta, prese in considerazione caso per caso sulla base della tollerabilità del trattamento e del rischio di recidiva della paziente. Ancora oggetto di sperimentazione, infine, è il ruolo degli IA. La somministrazione di tali farmaci in donne in premenopausa andrebbe, pertanto, limitata ai casi intolleranti al tamoxifene e va effettuata ponendo la paziente in menopausa iatrogena con la contemporanea somministrazione di un GnRHa per tutta la durata del trattamento endocrino con IA (Goldhirsch et al., 2011). Postmenopausa Nelle donne in postmenopausa, regimi endocrini adiuvanti contenenti IA di terza generazione (anastrozolo, letrozolo, exemestano) rappresentano il trattamento endocrino di scelta e comprendono due diverse opzioni: regimi up-front, in cui lo IA va somministrato direttamente in sostituzione del tamoxifene (per 5 anni); regimi di sequenza/switch in cui lo IA è somministrato in sequenza (per 2-3 anni) dopo 3-2 anni di tamoxifene, in modo che la durata complessiva di terapia endocrina sia comunque pari a 5 anni. Vari studi clinici randomizzati includenti complessivamente più di 20.000 donne, e una recente metanalisi di questi (Dowsett et al., 2010), hanno mostrato che sia i regimi up-front sia i regimi sequenza/ switch sono moderatamente più efficaci del classico tamoxifene nelle donne in postmenopausa in termini di prevenzione delle recidive di carcinoma mammario, con una riduzione assoluta del rischio di recidiva compresa tra 3,4% e 3,9% (Fig. 8.26). Meno chiaro, e probabilmente marginale, è il vantaggio in termini di riduzione della mortalità. Sulla base di questi dati, i regimi con IA hanno letteralmente soppiantato il tamoxifene e sono attualmente impiegati nella grande maggioranza delle donne postmenopausali che ricevono terapia endocrina adiuvante. Molti quesiti relativi all’ottimizzazione di impiego degli IA restano, comunque, ancora aperti. Per esempio, non è possibile al momento definire se, e quale, IA di terza generazione sia superiore agli altri. Un solo studio randomizzato di confronto diretto tra due diversi IA (studio MA.27) ha fornito, al momento, i risultati. In questo studio, l’exemestano e l’anastrozolo entrambi somministrati come regime up-front per 5 anni, sono risultati ugualmente efficaci e tollerati (Goss et al., 2013). Nell’attesa che altri studi simili giungano a maturazione, non esiste, pertanto, al momento, alcun elemento solido per preferire uno specifico IA. Allo stesso modo, non esiste una chiara evidenza scientifica a favore di un tipo specifico di regime (up-front vs sequenza/switch). Infatti, in uno studio randomizzato di quasi 10.000 pazienti (studio TEAM) il confronto tra exemestano in up-front versus la sequenza tamoxifene exemestano entrambi per una durata complessiva di 5 anni, non ha mostrato nessuna differenza significativa in termini di rischio di recidive e di mortalità (van de Velde et al., 2011). Tuttavia, un lieve e non significativo vantaggio in termini di recidive si osserva nei primi anni a favore del regime up-front nelle donne con coinvolgimento dei linfonodi ascellari. Analogamente, nello studio BIG1-98, il regime up-front con letrozolo è stato confrontato con due regimi sequenziali: tamoxifene letrozolo e letrozolo tamoxifene. Anche in questo studio, nessuna differenza significativa è emersa tra i regimi a confronto (Mouridsen et al., 2009). Anche in questo studio si osserva un lieve e non significativo vantaggio in termini di recidive nel corso dei primi 2 anni di trattamento per le donne con metastasi ascellari che avevano ricevuto il regime up-front. Questo fenomeno può essere spiegato con il fatto che, nelle donne a rischio più elevato, esiste un picco precoce di recidive proprio nei primi 2 anni dalla chirurgia e questo picco potrebbe essere meglio prevenuto dall’impiego del farmaco più efficace A 50 B Miglioramento a 3 anni, 3,1% (ES, 0,6) Miglioramento a 6 anni, 3,6% (ES, 1,1) Log-rank 2p <0,00001 30 20 19,2% 12,6% 15,3% Recidiva (%, +/– ES) 40 Inibitori dell’Aromatasi Tamoxifene 10 FIG. 8.26 Effetto medio della somministrazione di un trattamento adiuvante con inibitore dell’aromatasi rispetto al tamoxifen sul rischio di recidiva per i regimi up§front (A) e i regimi sequenza/ switch (B). ES: errore standard. Dowsett et al. J Clin Oncol 2010. 50 Miglioramento a 5 anni, 2,9% (ES, 0,7) Miglioramento a 8 anni, 3,9% (ES, 1,0) Log-rank 2p <0,00001 40 Recidiva (%, +/– ES) 282 Inibitori dell’Aromatasi Tamoxifene 30 20 16,0% 8,1% 10 12,6% 9,6% 0 0 5 Tempo (anni) 8 5,0% 0 (=0) 0 (=2) 3 (=5) 6 (=8) Tempo dall’assegnazione dei differenti trattamenti (anni) (e tempo approssimato dalla diagnosi) Ca pito l o 8 (cioè lo IA) fin dall’inizio. Volendo riassumere l’evidenza scientifica disponibile e usando il buon senso clinico si può affermare che entrambi i regimi, up-front e sequenza/ switch, rappresentano due valide opzioni terapeutiche e la scelta tra queste va effettuata caso per caso analizzando i potenziali benefici e tossicità di ciascuna opzione. In particolare, il regime up-front può essere preferito nelle donne a rischio più elevato perché maggiormente efficace nel prevenire il picco di recidive precoci che si osserva in queste pazienti. Il regime sequenza/switch, avendo un profilo di tollerabilità mediamente migliore, rappresenta l’opzione probabilmente più valida nelle pazienti a rischio moderato-basso. Questa indicazione di massima, tuttavia, può essere modificata per intollerabilità soggettiva e/o fattori di rischio per specifici effetti collaterali. Per esempio, in presenza di un elevato rischio tromboembolico il tamoxifene andrebbe evitato e il regime up-front diventa la scelta nettamente preferibile. Viceversa, in presenza di grave osteoporosi, la bilancia tende a spostarsi a favore del regime sequenziale. Nei casi di intolleranza importante agli IA, il tamoxifene rimane una valida opzione terapeutica (visto che è solo moderatamente inferiore agli IA), sia da solo, sia nell’ambito di un regime sequenziale invertito IA tamoxifene (Godhirsch et al., 2011). Una discussione a parte meritano i regimi cosiddetti extended, in cui lo IA è somministrato per 3-5 anni al termine di 5 anni di tamoxifene e, quindi, per una durata complessiva di terapia adiuvante fino a 10 anni. Il maggior studio randomizzato a sostegno di questo tipo di regime è lo studio MA.17 (2005) che dimostra chiaramente come, nelle donne che hanno ricevuto 5 anni di tamoxifene senza andare incontro a recidiva, l’aggiunta di 5 anni di letrozolo riduce ulteriormente il rischio residuo di recidiva di circa il 40%. La sopravvivenza, tuttavia, migliora marginalmente solo nel sottogruppo di pazienti con metastasi ai linfonodi ascellari. Questo regime, tuttavia, trova poco spazio nella pratica clinica perché, per limitare al massimo il rischio di recidiva nei primi 5 anni, la maggior parte delle pazienti riceve un regime up-front o sequenza/switch e non esistono, al momento, dati di efficacia e tollerabilità per prolungare ulteriormente il trattamento endocrino oltre i 5 anni con questi regimi. Tuttavia, un trattamento extended con IA andrebbe specificamente preso in considerazione in quelle donne che iniziano il trattamento adiuvante con tamoxifene in età fertile e che si ritrovano chiaramente postmenopausali al termine dei 5 anni di trattamento, in particolare se il tumore era N+ (Godhirsch et al., 2011). Terapia a bersaglio molecolare L’unico farmaco della categoria attualmente registrato per l’impiego adiuvante è il trastuzumab; si tratta di un anticorpo monoclonale diretto contro il dominio extracellulare del recettore HER2. Di per sé ha attività moderata contro il carcinoma mammario HER2+, ma sinergizza fortemente con i regimi chemioterapici. Tuttavia, per la sua intrinseca cardiotossicità, non può essere somministrato a pazienti con una frazione di eiezione ventricolare inferiore alla norma. Inoltre, e per la sua capacità di potenziare la cardiotossicità da antracicline, la somministrazione contemporanea a questi citotossici è controindicata. N e o p lasi e della mammella Varie sperimentazioni cliniche randomizzate, che complessivamente hanno arruolato circa 15.000 donne, hanno dimostrato che la somministrazione di trastuzumab adiuvante in donne con tumore HER2+ che avevano ricevuto chemioterapia adiuvante riduce il rischio di recidiva di un 45-50% e la mortalità di circa il 35-45%. La somministrazione standard di trastuzumab prevede 1 anno di trattamento (18 somministrazioni ogni 3 settimane) e la terapia con trastuzumab può essere cominciata o in sequenza, dopo il termine della chemioterapia, o in contemporanea alla chemioterapia. Il regime chemioterapico preferibile, in quest’ultimo caso, è il regime blocco-sequenziale AC o (EC) taxano (docetaxel trisettimanale o paclitaxel settimanale) in cui il trastuzumab viene iniziato sul secondo blocco, in contemporanea con il taxano. Uno studio randomizzato (NCCTG N9831) ha confrontato direttamente l’efficacia e la tollerabilità della somministrazione contemporanea alla chemioterapia rispetto a quella sequenziale (Perez et al., 2010) e ha dimostrato che la somministrazione contemporanea è più efficace di quella sequenziale in termini di riduzione del rischio di recidiva. Tuttavia, questa modalità di somministrazione produce un lieve incremento della cardiotossicità, con una percentuale di insufficienza cardiaca congestizia pari a 2,2%, nel regime contemporaneo, versus l’1,5%, nel regime sequenziale. Riconciliando tutti i dati disponibili si può affermare che il regime contemporaneo è la migliore scelta nelle donne a rischio moderato-alto, in particolare quando non vi siano particolari fattori di rischio per cardiotossicità, mentre il regime sequenziale rappresenta una scelta opportuna nei casi a rischio basso e/o in presenza di fattori di rischio cardiovascolare (per esempio, età avanzata, ipertensione, sindrome metabolica ecc.). Proprio al fine di limitare la cardiotossicità, nello studio BCIRG 006 è stato sperimentato un regime chemioterapico completamente privo di antracicline (TCH: docetaxel, carboplatino e trastuzumab). Il regime è risultato efficace, ma tendenzialmente inferiore, seppure in maniera non significativa, rispetto al classico regime blocco-sequenziale AC docetaxel + trastuzumab (Slamon et al., 2011). Tuttavia, per la sua bassissima cardiotossicità, questo regime rappresenta una valida opzione terapeutica nelle donne a rischio moderato-basso e/o in presenza di fattori di rischio cardiovascolare aggiuntivi (Goldhirsch et al., 2011). TERAPIA DELLA MALATTIA LOCALMENTE AVANZATA Il termine di carcinoma mammario localmente avanzato comprende un gruppo eterogeneo di tumori, che corrispondono allo stadio III, come definito dal sistema di stadiazione dell’American Joint Cancer Committee. Sono comprese in questa definizione situazioni cliniche molto diverse tra loro e per le quali la strategia terapeutica ottimale deve essere valutata di volta in volta, su base multidisciplinare. Tuttavia, in linea di principio, l’intervento chirurgico di prima istanza è controindicato, perché tecnicamente non fattibile o perché insoddisfacente in termini di risultati terapeutici, nella maggior parte dei tumori in stadio III. 283 Capitolo 8 Neo p la sie d ella m a m m ella In presenza di stadio IIIA per effetto di linfonodi ascellari fissi a struttura (N2) o di stadio IIIB per effetto di fissità del nodulo alla parete toracica, edema o ulcerazione della cute, presenza di noduli cutanei satelliti, o per carcinoma infiammatorio (T4), è indicata una strategia terapeutica integrata, che consiste in una chemioterapia primaria o neoadiuvante, seguita da chirurgia o radioterapia, a loro volta eventualmente seguite da altri cicli di chemioterapia. Generalmente, i regimi impiegati in chemioterapia primaria sono gli stessi previsti per la terapia adiuvante (Goldhirsch et al., 2011) e, in particolare, quelli comprendenti un’antraciclina e un taxano, preferibilmente in un regime blocco-sequenziale. Tali regimi possono essere somministrati interamente in fase preoperatoria. Questa modalità di terapia è in grado di indurre il 70-90% di remissioni, di cui un 5-15% di remissioni complete anatomopatologiche (cioè di completa scomparsa del tumore al successivo esame istologico del parenchima mammario rimosso). In alternativa, una volta raggiunta l’operabilità, si può inviare la paziente alla chirurgia, per poi completare il regime chemioterapico nella fase postchirurgica. Nel caso di tumori HER2+ è indicata l’associazione di trastuzumab alla chemioterapia. In questo caso il trastuzumab viene proseguito nel postoperatorio fino al completamento del trattamento standard di 1 anno. La percentuale di risposte complete patologiche raggiunge, in questi casi, il 40-50% (Gianni et al., 2010). Nei casi in cui la malattia è rimasta inoperabile si pratica una radioterapia per ottenere un controllo locale. Se, invece, la malattia è rientrata nei limiti tecnici di operabilità, il trattamento preferibile è la mastectomia o, in casi selezionati, la chirurgia conservativa seguita da radioterapia sul parenchima mammario residuo. Alla mastectomia, può essere fatta seguire la radioterapia sulla parete toracica (che viene in genere praticata dopo l’eventuale chemioterapia postchirurgica). La sopravvivenza a 5 anni è in media circa il 50% delle pazienti, ma con ampia variabilità a seconda della situazione clinica e della risposta alla chemioterapia primaria. In particolare, le pazienti che vanno incontro a una remissione completa patologica hanno una sopravvivenza sostanzialmente migliore. Paziente Malattia Carico tumorale Intervallo libero da malattia Trattamento FIG. 8.27 Fattori che influenzano il processo decisionale nel trattamento del carcinoma mammario metastatico. o dell’altro trattamento dipende da diversi fattori la cui analisi assume un significato cruciale nel processo decisionale (Fig. 8.27). L’avanzamento delle conoscenze in termini di biologia tumorale e lo sviluppo parallelo di nuovi agenti antitumorali diretti contro determinati bersagli molecolari (targeted therapies) ha reso particolarmente complessi ma al contempo più efficienti gli algoritmi terapeutici. L’intento di perseguire un approccio personalizzato in funzione della specifica situazione clinica coniuga informazioni relative alle caratteristiche patologiche, immunofenotipiche e molecolari del tumore con valutazioni che riguardano il paziente (aspettative di cura, desideri, comorbilità, età, stato menopausale ecc.). Negli ultimi anni, grazie agli avanzamenti ottenuti in campo sia diagnostico sia terapeutico, si è assistito a un graduale incremento della sopravvivenza mediana delle pazienti con carcinoma mammario metastatico (Fig. 8.28) (Giordano et al., 2004; Chia et al., 2007). Tuttavia, sebbene sia riportata una percentuale esigua di lungosopravviventi, l’intento della terapia rimane a tutt’oggi palliativo. Fra gli scopi principali del trattamento, l’incremento della sopravvivenza globale, della sopravvivenza libera da progressione e della sopravvivenza libera TERAPIA DELLA MALATTIA METASTATICA Circa il 5-10% dei carcinomi mammari si presenta in stadio avanzato alla diagnosi. Inoltre, circa un quinto delle pazienti con diagnosi di carcinoma mammario metastatico sopravvivrà fino a 5 anni. A seguito di una diagnosi di carcinoma mammario in stadio precoce, in base ai diversi fattori prognostici, fino al 30% e fino al 70% delle pazienti sperimenterà una recidiva rispettivamente in assenza o in presenza di un pregresso coinvolgimento linfonodale (Cardoso et al., 2012b). Le opzioni di trattamento sistemico del carcinoma mammario in stadio avanzato includono l’endocrinoterapia, la chemioterapia, i farmaci biologici e le possibili combinazioni tra queste modalità terapeutiche (Cardoso et al., 2012b; Andreetta et al., 2010). La selezione di uno Sopravvivenza cumulativa 284 0,8 0,6 1990-1994 1995-2000 0,4 1985-1989 0,2 1980-1984 1974-1979 0,0 0 12 24 36 48 60 Mesi FIG. 8.28 Miglioramento della sopravvivenza in pazienti con carcinoma mammario metastatico negli anni. Giordano SH, Buzdar AU, Smith TL et al. Is breast cancer survival improving? Cancer 2004;100:44-52. Ca pito l o 8 da sintomi sono da considerarsi i più rilevanti, insieme all’obiettivo implicito di garantire la migliore qualità di vita possibile alle pazienti. Nella scelta fra le diverse opzioni di terapia, l’oncologo medico segue un processo decisionale, strutturato in modo analitico-sintetico, il cui esito si traduce in proposta terapeutica (Puglisi et al., 2006). Da un punto di vista metodologico, possono essere descritti i seguenti passaggi principali: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. analisi delle caratteristiche della patologia tumorale; analisi delle caratteristiche cliniche; analisi della letteratura scientifica; interpretazione dei dati della letteratura scientifica; proposta terapeutica; discussione interattiva medico-paziente; decisione terapeutica. Analisi delle caratteristiche della patologia tumorale Vi è crescente evidenza che la patologia tumorale mammaria sia caratterizzata da una variabilità biologica a cui corrisponde una variabilità di comportamento clinico (Kennecke et al., 2010). Fra i diversi parametri biomolecolari che definiscono specifici sottogruppi, lo stato dei recettori ormonali (estrogenici e progestinici) e lo stato di HER2 sono considerati i più rilevanti per indirizzare la scelta terapeutica (Fig. 8.29). In particolare, l’espressione dei recettori ormonali identifica una patologia generalmente a prognosi più favorevole e con potenziale endocrino-sensibilità. In tali situazioni, N e o p lasi e della mammella in assenza di un carico elevato di malattia, un trattamento antiormonale può essere preso in considerazione nelle prime linee di trattamento. Infatti, la positività per i recettori ormonali costituisce un fattore predittivo di beneficio terapeutico dagli agenti che interferiscono con lo stimolo ormonale (antiestrogeni, agonisti LHRH, inibitori dell’aromatasi, fulvestrant, progestinici). Lo stato di HER2 è un altro parametro altrettanto rilevante e condizionante le scelte terapeutiche. I tumori HER2 positivi, definiti tali sulla base dell’iperespressione del recettore documentata con metodica immunoistochimica o dell’amplificazione del gene HER2/neu all’esame FISH o CISH, si caratterizzano per un comportamento clinico maggiormente aggressivo. Tuttavia, la prognosi è ribaltata in senso favorevole dall’impiego sequenziale di terapie anti-HER2 (trastuzumab, pertuzumab, lapatinib, T-DM1) in associazione alla chemioterapia e/o alla terapia endocrina (associazione di trastuzumab o lapatinib con inibitori dell’aromatasi) (Dawood et al., 2010; Puglisi et al., 2012). In altri termini, l’HER2 positività costituisce un fattore prognostico sfavorevole e, al contempo, un fattore predittivo di beneficio terapeutico dai farmaci anti-HER2. La patologia a oggi considerata a prognosi peggiore e per la quale non esiste che l’unica opzione della chemioterapia, eventualmente associata all’agente antiangiogenico bevacizumab, è il carcinoma mammario cosiddetto “triple negative” caratterizzato dall’assenza di espressione di entrambi i recettori ormonali e dall’assenza di iperespressione/amplificazione di HER2. Pertanto, gli studi sulla patologia triple negative si stanno attualmente focalizzando sulla ricerca di potenziali bersagli alternativi, quali l’espressione dei recet- Carcinoma mammario avanzato Recettori ormonali positivi Recettori ormonali negativi HER2– HER2+ HER2+ HER2– Endocrinoterapia SERM (tamoxifene) SERD (fulvestrant) Inibitori dell’aromatasi (AI) Soppressione ovarica (LHRH analoghi) Lapatinib + Al Trastuzumab + Al Trastuzumab + taxani +/– pertuzumab Chemioterapia* Inibitore dell’aromatasi + inibitore di mTOR (everolimus) T-DM1 Lapatinib + trastuzumab? Lapatinib + capecitabina? Paclitaxel +/– bevacizumab, Antracicline (doxorubicina, epirubicina, doxorubicina liposomiale), taxani (paclitaxel, docetaxel, nab-paclitaxel), capecitabina, eribulina, vinorelbina, gemcitabina * monoterapia o combinazione Chemioterapia* *L'uso sequenziale di agenti singoli (monoterapia) viene perlopiù proposto nei tumori con espressione dei recettori ormonali, dopo diverse linee di terapia endocrina e in caso di malattia a lenta crescita. La polichemioterapia viene proposta principalmente nei carcinomi con immunofenotipo "triple negative", in caso di malattia rapidamente progressiva e in pazienti con patologia localmente avanzata. FIG. 8.29 Algoritmo decisionale basato sulle caratteristiche della patologia tumorale. SERM, modulatori selettivi del recettore per gli estrogeni; SERD, down-regolatori selettivi del recettore per gli estrogeni; LHRH, ormone rilasciante l’ormone luteinizzante. 285 286 Capitolo 8 Neo p la sie d ella m a m m ella tori androgenici o alcune caratteristiche molecolari delle cellule con genotipo basal-like o mesenchimal stem cell-like. Un tema di crescente interesse scientifico per le possibili implicazioni clinico-terapeutiche è quello dell’indicazione alla biopsia delle metastasi. I principali intenti della biopsia sono la conferma diagnostica e la ridefinizione dell’immunofenotipo (stato recettoriale e di HER2), con la potenzialità di ampliare il ventaglio di opzioni terapeutiche (Vignot et al., 2012; Foukakis et al., 2012; Macfarlane et al., 2012). Infatti, vi è evidenza che in circa un caso su tre o su quattro la biologia della metastasi può risultare differente rispetto a quella della neoplasia primitiva. In tali situazioni, la decisione terapeutica si basa sull’informazione che offre maggiori possibilità di cura per la paziente. L’estensione della patologia tumorale (definita anche come “carico tumorale”, traduzione del termine inglese “tumor burden”), l’identificazione di un’eventuale malattia oligometastatica (numero limitato di sedi metastatiche), la caratterizzazione delle sedi di interessamento metastatico (malattia viscerale versus malattia ossea e/o dei tessuti molli) sono tutti elementi che vengono presi in considerazione nel processo decisionale terapeutico. Analisi delle caratteristiche cliniche Fra le principali caratteristiche della paziente che possono influenzare le scelte terapeutiche, le seguenti assumono un significato di primaria importanza: ● ● ● ● ● performance status (correlazione con la prognosi e la tollerabilità dei trattamenti); età (determinazione dell’età biologica rispetto all’età anagrafica, con valutazione geriatrica multidimensionale); presenza di patologie ed eventuali terapie concomitanti (stima dell’aspettativa di vita, valutazione di potenziali interazioni farmacologiche); trattamenti antitumorali ricevuti in precedenza (prevenzione di eventuali forme di tossicità dose-dipendente, considerazioni sul re-challenge in funzione del diseasefree interval); stato menopausale (terapie limitate allo stato di premenopausa o postmenopausa, considerazioni riguardo a metodi di contraccezione). Interpretazione dei dati della letteratura scientifica Gli studi di fase III si prefiggono di valutare se un farmaco sperimentale o una nuova combinazione di farmaci sia in grado di indurre un beneficio, rispetto al cosiddetto standard. L’obiettivo primario di uno studio di fase III, è pertanto quello di confrontare l’efficacia di un trattamento sperimentale rispetto al trattamento standard, al placebo o alla best supportive care (nel caso in cui non esista alcun trattamento specifico che sia valido per la condizione clinica in esame). In base al disegno sperimentale, si distinguono in: ● studi di superiorità, volti a verificare una differenza in termini di efficacia tra i trattamenti; ● studi di equivalenza, volti a verificare una pari efficacia tra i trattamenti, posto un ragionevole vantaggio in termini di tollerabilità. Nella patologia metastatica, per la valutazione dell’efficacia terapeutica, gli indicatori (end-point) più frequentemente utilizzati sono i seguenti: ● ● ● PFS (progression-free survival): sopravvivenza libera da progressione, equivalente all’intervallo dalla randomizzazione fino all’evento (morte o progressione); TTP (time to progression): tempo alla progressione, equivalente all’intervallo dalla randomizzazione fino all’evento (progressione); OS (overall survival): sopravvivenza globale, equivalente all’intervallo dalla randomizzazione fino all’evento (morte). Per verificare l’obiettivo primario si definisce un parametro di riferimento (primary end-point) che avrà le caratteristiche di tipo “tempo a evento” (event time) e sul quale si baserà la definizione del campione. In particolare, la numerosità campionaria deve essere tale da consentire di osservare, nell’intervallo di durata dello studio, un numero sufficiente di eventi (progressione, morte). Sebbene vi sia un accordo unanime nel considerare la OS un obiettivo rilevante dal punto di vista clinico, è stato osservato come sia particolarmente difficile dimostrare un vantaggio in OS nei trial che analizzano i diversi trattamenti per il carcinoma mammario metastatico, specie nella prima linea di trattamento. In particolare, la numerosità campionaria richiesta per garantire un’adeguata potenza statistica potrebbe essere particolarmente elevata e difficilmente ottenibile anche in studi internazionali e multicentrici. La SPP (survival post progression), ovvero l’intervallo di tempo che va dall’evento progressione all’evento morte, è un concetto di recente valorizzazione nella metodologia clinica (Broglio e Berry, 2009). Attraverso analisi simulate, è stato dimostrato che esiste una correlazione assoluta tra hazard ratio (HR) di OS e HR di PFS quando la SPP è uguale a 0, ovvero quando l’evento registrato dalla PFS coincide con la morte, mentre la correlazione tra HR di OS e HR della PFS diventa sempre più debole a mano a mano che la SPP aumenta. Pertanto, al crescere della SPP, la probabilità di evidenziare una differenza in termini di OS si riduce. In particolare, in studi con un vantaggio documentato di PFS, la probabilità di osservare un vantaggio anche in OS sarà superiore al 90% per una durata di SPP intorno ai 2 mesi, mentre sarà inferiore al 20% se la durata del SPP è dell’ordine dei 24 mesi. Per incrementare la probabilità di evidenziare un vantaggio in OS potrebbe essere necessario allocare un numero diverso di pazienti a seconda della durata della SPP. Per esempio, in uno studio che sia in grado di dimostrare un vantaggio di 3 mesi in PFS analizzando 280 pazienti, sarebbe necessario arruolare circa 2.500 pazienti per dimostrare un vantaggio in OS in presenza di una SPP di 24 mesi. Viceversa, sarebbe sufficiente un campione di circa 350 pazienti per dimostrare un vantaggio in OS, se la SPP fosse di soli 2 mesi. Tali considerazioni sono molto importanti quando si analizzano i risultati di uno Ca pito l o 8 studio clinico. Talvolta, infatti, l’assenza di un documentato vantaggio in OS non significa che il farmaco sia poco efficace ma unicamente che sia stato metodologicamente impossibile evidenziarne il beneficio in termini di sopravvivenza globale. Proposta terapeutica e discussione interattiva medico-paziente Nell’esplicitare la proposta terapeutica alla paziente, l’oncologo medico deve sottolineare intenti e obiettivi del trattamento e informare in merito agli aspetti di tollerabilità (stima degli effetti collaterali ed eventuale istruzione sulla gestione degli stessi) e alle modalità di somministrazione (durata, numero degli accessi in ospedale, eventuale necessità di ricovero). Le diverse opzioni terapeutiche devono essere presentate in termini di benefici attesi e di rischio di incorrere in effetti indesiderati. I desideri della paziente vanno ascoltati e rispettati. La discussione interattiva dovrebbe essere condotta avendo presente il concetto di strategia terapeutica, cioè intravedendo i passaggi successivi (sequenza di diverse linee di trattamento) e focalizzando sulla priorità di una scelta rispetto alle alternative. Il trattamento del carcinoma mammario metastatico richiede una conoscenza approfondita della letteratura scientifica in merito alla biologia tumorale e alle implicazioni cliniche della stessa (studi di ricerca traslazionale su fattori prognostici e predittivi). Inoltre, la letteratura sui farmaci (endocrinoterapia, chemioterapia, farmaci biologici) è sempre più articolata e in continua evoluzione dal punto di vista metodologico. La valutazione dei risultati di un trial clinico non deve prescindere da un’analisi critica degli end-point primari e secondari scelti nel disegno dello studio stesso. Talvolta, l’evidenza scientifica non è direttamente disponibile e le scelte terapeutiche richiedono particolare esperienza clinica, da associare sempre al buon senso e a un grado elevato di umanizzazione. Opzioni terapeutiche Sulle base delle considerazioni precedenti, è chiaro come non esista un trattamento standard del carcinoma mammario avanzato. La terapia è pertanto adattata alla situazione clinica e alle caratteristiche della paziente e della patologia. Per quanto attiene alla chemioterapia, in termini di sopravvivenza, l’uso sequenziale di agenti singoli è nella maggioranza dei casi equivalente alla terapia di combinazione (Cardoso et al., 2009). Ne consegue che quest’ultima viene riservata alle situazioni in cui è richiesta una risposta (riduzione del volume tumorale) in tempi brevi. Pertanto, in pazienti in cui la malattia non mostra una tendenza alla rapida progressione e per le quali il trattamento endocrino non è indicato, la chemioterapia con agente singolo rappresenta la prima scelta terapeutica. La durata di ciascun regime e il numero di cicli da somministrare vengono stabiliti in base agli agenti chemioterapici impiegati, tenendo conto della tossicità cumulativa degli stessi e avendo cura di rispettare la qualità di vita della paziente (tollerabilità su base individuale). N e o p lasi e della mammella TABELLA 8.15 Agenti endocrini impiegati in monoterapia o in combinazione nel trattamento del carcinoma mammario metastatico Modulatori selettivi dei recettori estrogenici t Tamoxifene t Toremifene Deregolatore del recettore estrogenico t Fulvestrant Agonisti LHRH t Goserelin t Triptorelin t Leuprorelina Antiaromatasi t Non steroidei (anastrozolo, letrozolo) t Steroidei (exemestane) Progestinici t Megestrolo acetato t Medrossiprogesterone acetato LHRH: ormone rilasciante l’ormone luteinizzante. Nelle pazienti in cui il tumore presenta espressione dei recettori ormonali e assenza di iperespressione/amplificazione di HER2, la terapia endocrina è l’opzione da preferire indipendentemente dalle sedi di malattia ma a condizione che non sia richiesta una risposta terapeutica in tempi rapidi (Cardoso et al., 2012a). Generalmente, il trattamento ormonale è ben tollerato e pertanto viene proseguito fino a evidente progressione di malattia. Le diverse opzioni di terapia endocrina sono riassunte nella tabella 8.15. La scelta dell’agente da impiegare è basata sullo stato menopausale, sulla presenza di controindicazioni specifiche, sul profilo di tossicità del farmaco e sulla terapia eventualmente impiegata in fase adiuvante. In particolare, in pazienti in stato premenopausale nelle quali non era stato precedentemente utilizzato il tamoxifene o nelle quali l’antiestrogeno era stato sospeso da oltre un anno, il tamoxifene, eventualmente in combinazione con l’ablazione/soppressione ovarica (agonista del LHRH, ovariectomia o radioterapia sulle gonadi), è l’opzione terapeutica di scelta. Le linee successive non differiscono da quanto impiegato in postmenopausa (si veda oltre). Nelle donne in postmenopausa, gli inibitori dell’aromatasi non steroidei (anastrozolo, letrozolo) o steroidei (exemestano) sono le opzioni da preferire se non precedentemente impiegati o se interrotti da oltre un anno. Tale indicazione si basa sull’evidenza di superiorità rispetto al tamoxifene in termini di tasso di risposta, tempo alla progressione e, per il letrozolo, sopravvivenza a 2 anni. In caso di progressione a un inibitore steroideo è preferibile impiegare un agente non steroideo e viceversa. Tra le altre opzioni, il tamoxifene rimane una scelta accettabile anche come prima linea di trattamento insieme al fulvestrant che, alla dose di 500 mg ogni 4 settimane, ha dimostrato una superiorità rispetto all’anastrozolo. Le linee di terapia ormonale successive alla prima sono condizionate dalla scelta terapeutica effettuata in prima linea e comprendono: 287 288 Capitolo 8 Neo p la sie d ella m a m m ella tamoxifene, inibitore dell’aromatasi di classe differente rispetto a quella impiegata in precedenza, fulvestrant e progestinici (per esempio, megestrolo acetato e medrossiprogesterone acetato). Recentemente, è stato dimostrato che l’aggiunta di un inibitore di m-TOR, l’everolimus, a un antiaromatasi steroideo o al tamoxifene è in grado di migliorare l’outcome, se confrontato con la terapia endocrina da sola, in pazienti che sperimentano una progressione durante o dopo una terapia con inibitori dell’aromatasi. (Baselga et al., 2012a). In pazienti con evidenza di endocrino-resistenza (de novo o acquisita) il trattamento si avvale della chemioterapia (Tab. 8.16). La scelta della prima linea, così come osservato per la terapia endocrina, è condizionata dalla terapia utilizzata in fase adiuvante. Pertanto, i taxani (paclitaxel, docetaxel, nab-paclitaxel) sono da preferire in caso di precedenti trattamenti a base di antracicline. Nelle forme più aggressive caratterizzate da un carico di malattia elevato, una combinazione di agenti chemioterapici può essere vantaggiosa. Un’opzione ulteriore da adottare in prima linea consiste nell’agente antiangiogenico bevacizumab che, combinato con un taxano o con capecitabina, ha dimostrato una superiorità in termini di sopravvivenza libera da progressione rispetto alla sola chemioterapia (Gray et al., 2009; Miles et al., 2010; Robert et al., 2011). La mancata dimostrazione di un vantaggio TABELLA 8.16 Agenti chemioterapici impiegati in monoterapia o in combinazione nel trattamento del carcinoma mammario metastatico A base di antracicline t Doxorubicina o epirubicina in monoterapia (schedula settimanale o trisettimanale) t Doxorubicina + ciclofosfamide (AC) o epirubicina + ciclofosfamide (EC) t Doxorubicina liposomiale (monoterapia) o in combinazione con ciclofosfamide t Fluorouracile + doxorubicina + ciclofosfamide (FAC) t Fluorouracile + epirubicina + ciclofosfamide (FEC) A base di taxani t Paclitaxel settimanale in monoterapia t Paclitaxel settimanale in combinazione con bevacizumab t Docetaxel trisettimanale o settimanale in monoterapia t Nab-paclitaxel t Combinazione antracicline + taxani t Docetaxel + capecitabina t Paclitaxel + gemcitabina t Paclitaxel + vinorelbina t Paclitaxel + carboplatino Agenti singoli t Capecitabina t Eribulina t Vinorelbina Altre combinazioni t A base di platino (cisplatino + 5-fluorouracile; carboplatino + gemcitabina) t Ciclofosfamide + metotrexato + fluorouracile (CMF) t Capecitabina + vinorelbina t Ciclofosfamide orale con metotrexato orale (regime metronomico) in sopravvivenza globale, sebbene verosimilmente legata ad aspetti di ordine metodologico, ha reso controverso il riconoscimento di un reale vantaggio della combinazione bevacizumab/chemioterapia e ne suggerisce un impiego limitato a casi selezionati previa valutazione attenta del rapporto costo/beneficio. Le linee chemioterapiche successive alla prima possono includere i diversi farmaci con dimostrata attività terapeutica nel carcinoma mammario metastatico (antracicline, capecitabina, eribulina, vinorelbina, gemcitabina ecc.). In pazienti con carcinoma mammario HER2 positivo, la scelta si sposta verso la combinazione di una terapia anti-HER2 (trastuzumab, pertuzumab, lapatinib) con la chemioterapia e, in casi selezionati con concomitante espressione dei recettori ormonali, si adotta la combinazione terapia endocrina in associazione a trastuzumab o lapatinib (Puglisi et al., 2012; Arteaga et al., 2011). In prima linea, l’aggiunta del pertuzumab alla combinazione di trastuzumab e docetaxel ha dimostrato un vantaggio in termini di tasso di risposta, sopravvivenza libera da progressione e sopravvivenza globale (Baselga et al., 2012b). Tuttavia, la trasferibilità e la generalizzabilità dei risultati dello studio con il pertuzumab sono incerte dal momento che la popolazione analizzata non viene considerata rappresentativa di quanto si osserva nella pratica clinica corrente. In particolare, solo il 10% delle pazienti dello studio aveva ricevuto trastuzumab e circa il 50% delle pazienti non era stato trattato con antracicline e taxani in fase adiuvante. Recentemente, l’impiego di un immunoconiugato, il TDM1, si è dimostrato vantaggioso in termini di tasso di risposta, tempo alla progressione e sopravvivenza rispetto alla combinazione di capecitabina e lapatinib (Verma et al., 2012). Inoltre, il T-DM1 ha evidenziato un profilo di tossicità talmente favorevole da rendere molto probabile una sua collocazione nel trattamento di seconda linea del carcinoma mammario metastatico HER2 positivo. Nelle linee successive, mantenere il blocco di HER2 con il trastuzumab modificando l’agente chemioterapico di affiancamento è considerato una strategia terapeutica proficua pur in assenza di un’evidenza scientifica formalmente solida (Pegram e Liao, 2012). In particolare, la combinazione di lapatinib e capecitabina si è dimostrata superiore rispetto alla sola capecitabina in termini di tempo alla progressione in pazienti precedentemente trattate con trastuzumab, antracicline o taxani (Cameron et al., 2010). Non è noto, tuttavia, se la combinazione capecitabina/lapatinib sia da preferire alla strategia di mantenere il trastuzumab modificando il partner chemioterapico. Infine, a sostegno dell’importanza di mantenere un blocco di HER2 con il trastuzumab in pazienti già trattate con trastuzumab, uno studio ha dimostrato la superiorità in termini di sopravvivenza globale della combinazione lapatinib/trastuzumab rispetto alla monoterapia con lapatinib (Blackwell et al., 2012). Lo studio, condotto in pazienti pretrattate con diverse linee di terapia, aveva come prerequisito un pregresso trattamento con trastuzumab, antracicline e taxani. Ca pito l o 8 In pazienti con metastasi ossee, l’impiego di bifosfonati (per esempio, acido zoledronico) o di denosumab (anticorpo anti-RANKL ligando) trova indicazione al fine di ridurre il rischio di complicanze (fratture, dolore, ipercalcemia ecc.) (Wong et al., 2012). Particolare attenzione va posta alla prevenzione degli effetti collaterali di tali farmaci (insufficienza renale, osteonecrosi mandibolare), adattandone l’impiego e la durata alle situazioni cliniche specifiche. In casi particolari, previa valutazione specialistica multidisciplinare, il trattamento delle metastasi ossee può giovare del ricorso alla radioterapia o dell’impiego di radioisotopi. In pazienti con metastasi encefaliche, la radioterapia panencefalica trova indicazione in presenza di un coinvolgimento esteso (lesioni multiple e/o di grandi dimensioni). Viceversa, in presenza di uno o pochi foci metastatici, la resezione chirurgica o la radiochirurgia stereotassica costituiscono valide alternative terapeutiche (Lim e Lin, 2012). FOLLOWUP Gli obiettivi principali del follow-up nel carcinoma mammario riprendono quelli generici applicabili alle diverse patologie oncologiche e assumono alcune peculiarità specifiche (Hayes, 2007): ● ● ● prevenzione e diagnosi precoce di nuovi tumori mammari e di eventuali recidive ancora suscettibili di trattamento con intento radicale; sorveglianza per le recidive a distanza o per l’insorgenza di tumori in altre sedi (per esempio, ovaio, colon-retto, utero); prevenzione e sorveglianza degli effetti collaterali fisici e psicologici delle terapie oncologiche. Convenzionalmente, il follow-up del carcinoma mammario consiste nel ricorso a esami clinici periodici e nell’esecuzione di una mammografia annuale. A oggi, infatti, non è stata prodotta alcuna evidenza scientifica a sostegno di un follow-up più intensivo e tale pratica, in assenza di beneficio, andrebbe scoraggiata. Recentemente, l’ASCO (American Society of Clinical Oncology) ha incluso il follow-up del carcinoma mammario nella lista delle prime cinque attività oncologiche che potrebbero essere migliorate e semplificate al fine di limitare costi ingiustificati (Schnipper et al., 2012). Follow-up FIG. 8.30 Follow-up del carcinoma mammario. N e o p lasi e della mammella Secondo l’ASCO (Khatcheressian et al., 2013; Khatcheressian et al., 2006) e sostanzialmente in linea con quanto raccomandato da altre società scientifiche come l’ESMO (European Society of Medical Oncology) e l’AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica), la visita medica periodica e la mammografia annuale costituiscono i fondamenti di un follow-up ottimale. In sintesi, le linee guida ASCO suggeriscono di effettuare un esame clinico ogni 3-6 mesi nei primi 3 anni dopo la diagnosi, ogni 6-12 mesi tra il terzo e il quinto anno dalla diagnosi e su base annua dopo il quinto anno. La prima mammografia di controllo viene consigliata non prima di 6 mesi dal completamento del trattamento radioterapico sul parenchima mammario residuo e, quindi, circa 9-12 mesi dopo l’intervento chirurgico. Successivamente, è raccomandato un controllo mammografico annuale. Sebbene non siano disponibili riferimenti scientifici in merito all’età alla quale sospendere i controlli mammografici, è noto come nelle donne più anziane la mammografia sia caratterizzata da una sensibilità elevata (Lash et al., 2007). Ne consegue che la decisione sull’eventuale sospensione dei controlli annuali viene effettuata su base individuale, valutando situazione clinica e aspettativa di vita della paziente. Tra le altre indagini diagnostiche sulla mammella, l’ecografia può costituire un valido complemento in presenza di mammelle “mammograficamente dense” (Nothacker et al., 2009). Inoltre, il ricorso alla risonanza magnetica mammaria è consigliato in donne portatrici di mutazione a livello dei geni BRCA1 e BRCA2 con aumentato rischio di secondo tumore primitivo a livello sia ipsilaterale sia controlaterale (Warner et al., 2011). Attualmente, in assenza di sintomi o segni clinici che richiedano un approfondimento diagnostico, le linee guida delle diverse società scientifiche non supportano il ricorso a esami ematochimici (esame emocromocitometrico, profilo epato-renale, marcatori tumorali) ed esami radiologici (radiografia del torace, scintigrafia ossea, ecografia epatica, tomografia computerizzata multidistrettuale, tomografia a emissione di positroni ecc.). Tali raccomandazioni si basano sui risultati di studi randomizzati che, tuttavia, risalgono ad anni in cui si disponeva di minori opzioni Mammografia annuale. Visita clinica ogni 3-6 mesi per i primi 5 anni poi ogni 12 mesi Altri esami sulla base di sospetto clinico Tamoxifene Esami ginecologici su indicazione clinica Antiaromatasi Densitometria ossea su indicazione clinica Se terapia ormonale 289 290 Capitolo 8 Neo p la sie d ella m a m m ella diagnostico-terapeutiche e di informazioni limitate riguardo alla biologia tumorale (GIVIO Investigators, 1994; Palli et al., 1999; Rosselli Del Turco et al., 1994). In particolare, oggi è noto che il rischio di recidiva è funzione dell’immunofenotipo. Per esempio, tumori con espressione dei recettori ormonali presentano un rischio di recidiva minore ma più prolungato nel tempo (Davies et al., 2011). Viceversa, la patologia cosiddetta “triple negative” (assenza di espressione dei recettori ormonali e di iperespressione/amplificazione di HER2) presenta un pattern di recidiva caratterizzato da un rischio più elevato che si concentra nei primi 2 anni dalla diagnosi e si riduce in modo sostanziale negli anni successivi (Dent et al., 2009; Jatoi et al., 2011). Sulla base di tali premesse, è sentita la necessità di disegnare nuovi studi rivolti a sottogruppi di pazienti per le quali siano ipotizzabili potenziali vantaggi da un follow-up più intensivo, al fine di poter intervenire con beneficio su metastasi individuate precocemente (malattia oligometastatica) (Hortobagyi, 2001). La verifica dell’aderenza ai trattamenti oncologici, nonché il monitoraggio e la gestione di eventuali effetti collaterali dei trattamenti stessi sono altri obiettivi fondamentali del follow-up. In pazienti in postmenopausa, sia essa fisiologica o indotta dai trattamenti, trova indicazione effettuare una densitometria ossea basale prima di assumere farmaci per i quali l’osteoporosi rappresenta un effetto collaterale potenziale (antiaromatasi, agonisti LHRH) (Dhesy-Thind, 2012). Inoltre, alle donne in trattamento con inibitori dell’aromatasi va consigliato uno stile di vita che includa attività fisica quotidiana e un apporto adeguato di vitamina D3, riservando il trattamento con bifosfonati alle situazioni in cui vi sia già una diagnosi di osteoporosi (Hillner et al., 2003). L’esame pelvico, preferenzialmente attraverso un’ecografia transvaginale, trova indicazione in pazienti non isterectomizzate che stiano ricevendo tamoxifene con intento adiuvante e che, in corso di trattamento, presentino una metrorragia di qualsiasi entità (Fig. 8.30) (Bezircioglu et al., 2012). BIBLIOGRAFIA Aebi S, Davidson T, Gruber, Cardoso F. 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