TRIBUNALE CIVILE DI ROMA, SEZ. III, SENTENZA 28 MAGGIO 2013, N.11676 Il Giudice ha pronunciato la seguente sentenza dandone lettura all’udienza del 28 maggio 2013, ai senti dell’art.281 sexies c.p.c., nella causa civile di primo grado iscritta al n.14424 del ruolo contenzioso generale dell’anno 2012 [omissis] [omissis] La società opposta, infine, ha richiesto la condanna dell’opponente al risarcimento del danno per lite temeraria. Ritiene il Tribunale che tale ultima domanda vada inquadrata nella fattispecie di cui al terzo comma dell’art.96 c.p.c., a tenore del quale in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art.91 c.p.c., il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata. Con riguardo a tale fattispecie, introdotta dalla legge 18 giugno 2009, n.69 (e, quindi, applicabile alla fattispecie in esame), è discusso se, per procedere alla condanna ai sensi del terzo comma, sia o meno richiesta l’esistenza di un danno di controparte. Sul punto questo giudice, aderendo alla tesi propugnata da parte della dottrina e condivisa dalla maggioritaria giurisprudenza edita, ritiene che l’articolo 96 comma 3 c.p.c. introduca nell’ordinamento una forma di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia (in questi termini, già Trib. Varese 23/1/2010 e 30/10/2009, Trib. Prato 6/11/2009, Trib. Milano 29/8/2009). Ciò esclude, come peraltro ben lumeggiato dai lavori preparatori, la necessità di un danno di controparte, pur se la condanna è stata prevista a favore della parte e non dello Stato, al probabile fine di rendere effettivo il recupero della somma e quindi l’afflittività della sanzione. Ed invero da una parte il contenuto letterale della norma pare inequivoco nel non presupporre l’esistenza di un danno di controparte, mentre, per altro verso, non vi sono parametri costituzionali che vietano al legislatore di introdurre tale tipologia di danno. www.juscivile.it, 2013, 12
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Con riguardo al profilo soggettivo concernente l’aver agito in giudizio senza la normale prudenza, il Tribunale rileva come l’opponente abbia instaurato il presente giudizio senza agire con la normale e dovuta prudenza: infatti, anche a voler prescindere dalla tardività con la quale l’opposizione è stata proposta, l’assoluta manifesta infondatezza della difesa dell’opponente, che addirittura non ha neanche presenziato alle udienze, successiva alla prima, del giudizio dalla stessa instaurato, unitamente alla stessa estrema genericità dell’opposizione ed alla mancata contestazione di gran parte della pretesa creditoria della opposta permette di rilevare il carattere manifestamente pretestuoso e dilatorio dell’azione di parte attrice, al solo evidente fine di procrastinare l’adempimento. In tale contesto la condotta processuale della parte opponente costituisce un evidente e consapevole abuso del diritto di azione, pur costituzionalmente garantito, a danno delle legittime pretese creditorie della controparte, che si è vista negare la prestazione pacificamente dovuta e costretta anche a dover resistere ad un’opposizione a decreto ingiuntivo palesemente infondata sia nelle premesse che nelle stesse modalità di attuazione in sede processuale. Deve pertanto essere affermata la responsabilità aggravata dell’opponente ex art.96 terzo comma c.p.c. Infine, quanto al pregiudizio, deve ritenersi che esso si riferisca a quello conseguente all’indebito coinvolgimento in un processo, evitabile con la diligenza processuale imposta dal predetto art.88 c.p.c., come tale non ristorato dalla mera ripetizione delle spese processuali. Conseguentemente, la liquidazione del danno dovrà avvenire, in via equitativa, tenendo conto del valore della causa, del tipo di condotta processuale adottata dal soccombente e dalla consistenza economica dei contendenti, quale indice della loro capacità di sostenere il peso del tempo o comunque della lite [omissis]. www.juscivile.it, 2013, 12
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ALESSANDRO MANNOCCHI
Avvocato
L’ART.96, 3° COMMA, C.P.C., COSTITUISCE UN’IPOTESI DI PUNITIVE DAMAGES? OF COURSE!
SOMMARIO : 1. La sentenza del Tribunale Civile di Roma n.11676/2013. - 2. Natura dei danni punitivi. - 3. I punitive
damages negli U.S.A.. - 4. La funzione del risarcimento del danno nel diritto italiano. - 5. La sentenza della
Cassazione n.1183/2007. - 6. Sussulti della giurisprudenza di merito. Il “caso Bitonto”. - 7. La lite temeraria. 8. L’art. 96 c.p.c. ante riforma del 2009. - 9. L’art. 96 c.p.c. dopo la riforma. L’avvento del danno punitivo in
Italia. - 10. Alcuni (superabili) profili critici. - 11. Conclusioni.
1. Una recente pronuncia del Tribunale Civile di Roma1 ripropone il tema dell’ammissibilità
nell’ordinamento italiano dei danni punitivi, con riferimento alla disposizione di cui all’art.96, 3°
comma, c.p.c.2
Secondo la sentenza appena citata, la novella avrebbe importato dal diritto anglosassone “[…]
una forma di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del
sistema giustizia. Ciò esclude, come peraltro ben lumeggiato dai lavori preparatori, la necessità di un
danno di controparte, pur se la condanna è stata prevista a favore della parte e non dello Stato, al
probabile fine di rendere effettivo il recupero della somma e quindi l’afflittività della sanzione […]”.
La Cassazione, però, ha sempre negato la possibilità di configurare nell’ordinamento italiano i
punitive damages, per la contrarietà dell’istituto all’ordine pubblico interno. In dottrina la questione
è fortemente dibattuta e, per quanto l’orientamento tradizionale3 esprima parere negativo rispetto alla
possibilità di importare nell’ordinamento italiano i danni punitivi, lo sparuto drappello di sostenitori
della necessità di “rafforzare adeguatamente la funzione preventiva e deterrente della responsabilità
civile” e, quindi, di porre rinnovata attenzione “al problema dei c.d. danni punitivi”4 accresce
progressivamente le sue fila. Di recente si è affermato in dottrina che “[…] anche nell’ordinamento
italiano, si avverte l’esigenza di prendere in considerazione l’istituto dei danni punitivi.
Semplificando, si tratta in primo luogo di fornire al giudice uno strumento dotato di grande elasticità,
poiché egli non dovrebbe più limitarsi a seguire la regola secondo cui il quantum del risarcimento
Tribunale Civile di Roma, Sez. III, Sentenza 28 maggio 2013, n.11676.
Introdotto con l’art.45 della Legge 18 giugno 2009, n.69. La norma stabilisce che “[…] in ogni caso, quando pronuncia sulle spese
ai sensi dell’art.91, il giudice, anche d’ufficio può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte,
di una somma equitativamente determinata […]”.
3 Un’esauriente carrellata di autori è riportata in F.D. Busnelli, S. Patti, “Danno e responsabilità civile”, Torino, 2013, pag.260, nota
37.
4 Le frasi tra le virgolette sono riportate dalla presentazione del programma del convegno su “La funzione deterrente della
responsabilità civile” (Siena 19-21 settembre 2007).
1
2
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deve essere equivalente al danno prodotto, ma in certi casi avrebbe la possibilità di oltrepassare
questo limite, al fine di prevenire, punendo il responsabile […]”5
Vi è allora da chiedersi se l’art.96, 3° comma, c.p.c., costituisca davvero il “grimaldello
normativo”6 attraverso il quale il Legislatore ha inteso introdurre nell’ordinamento italiano un’ipotesi
di danno punitivo. Superando alcune resistenze che sembrano dettate più che altro dal timore di
compiere un salto nel buio7, abbandonando le note categorie della responsabilità modello civil law
per aderire agli schemi alieni8 del diritto anglosassone, la risposta potrebbe essere positiva.
2. Cosa sono esattamente i danni punitivi? Siamo di fronte ad un istituto di difficile
comprensione per il giurista italiano, come dimostra subito il fatto che il termine “danni punitivi”,
con il quale comunemente si traduce l’espressione “punitive damages”, è in verità improprio. Sarebbe
maggiormente corretto tradurre con “risarcimento punitivo”, poiché gli ordinamenti di common law
distinguono tra damage per indicare il concetto di danno e damages9 per indicare il risarcimento.
Questa prima riflessione costituisce un utile indice della difficoltà di misurarsi con concetti che, già
dal punto di vista della comprensione letterale, risultano ostici allo studioso di estrazione civil law.
Fatta questa doverosa precisazione, è opportuno rilevare che le diverse componenti
della condanna pecuniaria inflitta al responsabile di un illecito civile sono abbastanza simili in tutti i
paesi di common law, poiché si possono distinguere, in base agli scopi che tendono a perseguire, in
risarcimenti aventi una finalità riparatoria e restitutoria (compensatory damages) e in reintegrazioni
con un fine punitivo e deterrente o solamente simbolico (non compensatory damages). Le funzioni
svolte dalla prima categoria di danni vengono soddisfatte con il ricorso agli special damages che
l’attore deve chiedere esplicitamente e di cui è tenuto a provare l’ammontare e ai general o
presumptive damages, comprendenti le condanne per il danno morale e soggettivo (damages for pain
and suffering), che invece non richiedono la dimostrazione della loro concreta entità10.
I punitive o vindicative ovvero exemplary damages11, invece, mettono in atto una
risposta punitiva verso il responsabile della lesione di un diritto e vengono concessi sia in funzione
(ulteriormente) satisfattoria dell’attore danneggiato, sia per prevenire il ripetersi di uno stesso
5 F.D. Busnelli, S. Patti, op. cit., p.277. Ciò per quanto gli Autori ammoniscono sul fatto che “[…] un’eventuale ‘importazione’ dei
danni punitivi dovrebbe innanzitutto tenere conto di differenze fondamentali dei sistemi giuridici […]”.
6 Trib. Varese, sez. Luino, 23 gennaio 2010, ord., in Foro it., 2010, I, 2229, con note di G. Scarselli e P. Porreca.
7 Il termine è utilizzato da F.D. Busnelli, E. D’Alessandro, “L’enigmatico ultimo comma dell’art.96 c.p.c.: responsabilità aggravata o
‘condanna punitiva’?”, in Danno e Responsabilità, 2012, n.6, pag.584 e ss.
8 G. Ponzanelli, “I danni punitivi”, in Nuova giur. civ. comm., 2008, II, 31.
9 F. De Franchis, Dizionario giuridico-Law dictionary (Milano 1984), XII Ed., 608-610. Per esigenza di chiarezza, e considerando che
il termine “danni punitivi” è in Italia assai diffuso ed utilizzato, ci si riferirà comunque in tal modo traducendo l’espressione punitive
damages.
10 Cfr. M. Santulli, “I c.d. punitive damages”, in Diritto e processo formazione n.3/2011
11 In Inghilterra, culla dell’istituto, si preferisce parlare di exemplary damages.
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comportamento in futuro. La condanna a punitive damages presuppone, però, che la parte
danneggiante abbia agito con malice, ovverosia, pur con una certa approssimazione, dolo12, oppure
con gross negligence, vale a dire ponendo in essere un comportamento gravemente colposo.
Il meccanismo dei punitive damages, quindi, prevede che al danneggiato che riesca a
dimostrare la malice o la gross negligence del danneggiante sia riconosciuto un risarcimento ulteriore
– il cui importo è rimesso al prudente apprezzamento del giudice - rispetto a quello necessario per
compensare il danno subito (i compensatory damages). Alla funzione risarcitoria, tipica della
sanzione per illecito civile, si affianca quindi una finalità punitiva e di deterrenza tipica della sanzione
penale, oltre che, in un certo qual modo, una funzione premiale per l’impegno profuso dalla vittima
nell’affermare il proprio diritto.
3. L’istituto non può essere compreso appieno senza un breve excursus nella
giurisprudenza statunitense. A dispetto della propria origine britannica, infatti, i punitive damages
hanno trovato terreno fertile per il proprio sviluppo negli U.S.A.13.
Del resto, è proprio l’analisi del diritto statunitense ad aver condotto a numerosi
dibattiti sulla possibilità di esportare i punitive damages nell’Europa continentale. A partire dalla
seconda metà degli anni ottanta, infatti, sempre maggiore eco hanno provocato le pronunzie
d’oltreoceano che mostravano come negli States fosse possibile evidenziare la funzione
afflittiva/retributiva delle “pene private”14. Ciò che si intende dire è che negli Stati Uniti il raggio
d’azione dei danni punitivi, al di là dei requisiti formali e sostanziali dell’istituto, come tratteggiati in
precedenza, è estremamente ampio e riguarda una casistica oltremodo composita. In ultima analisi,
perché si possa ottenere una sanzione in ambito civile è sufficiente la configurabilità in capo al
soggetto danneggiante di un intentional infliction of emotional distress15.
Negli Stati Uniti i punitive damages, quindi, uscendo dagli stretti confini delineati dalla
giurisprudenza di matrice britannica16, sono divenuti una vera e propria clausola di chiusura del
12 “Malice” è termine che non ha una traduzione precisa in italiano e che è utilizzato per indicare: il dolo in generale, la premeditazione
nella commissione di un reato e l’intenzionalità di un atto illecito. Cfr. De Franchis, op. cit., 985.
13 Il primo rule case conosciuto di punitive damages risale al 1791 (Coryell v. Colbought), così come riporta A. Sirotti Gaudenzi, “Brevi
note in tema di danni punitivi”, 2008, in www.studiosirottigaudenzi.it
14 G. Ponzanelli, “Punitive damages e due process clause: l’intervento della Corte suprema Usa”, in Foro It., 1991, IV, 235. L’Autore
rileva che gli anni ottanti sono stati il periodo delle “pene private”. Per ulteriori approfondimenti: E. Urso, “Recenti sviluppi nella
giurisprudenza statunitense e inglese in materia di Punitive damages: i casi TXO Production Corporation v. Alliance Resources
Corporation e AB v. South West Water Services Ltd”, in Riv. dir. civ., 1995, I, pag. 81.
15 Si veda § 46 Restatements of Torts – Second. I restatements, pubblicati dall’influente American Law Institute, costituiscono una
sorta di digesto della più importante giurisprudenza americana.
16 Nel caso Rookes v. Barnard del 1964, la House of Lords ha chiarito che i danni punitivi possono essere ottenuti solo ove si sia
verificata una violazione grave di taluni diritti fondamentali dei cittadini da parte dell’Amministrazione dello Stato, oppure nel caso in
cui sia ravvisabile una precisa intenzione da parte del soggetto danneggiante di ottenere un guadagno ingiusto. Questa impostazione
restrittiva ha relegato nel Regno Unito i punitive damages ad un ruolo marginale.
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sistema, uno strumento utile per reprimere le condotte più varie ed intervenire in tutte quelle situazioni
che non troverebbero altrimenti adeguata tutela.
Alcuni cenni di questa evoluzione chiariranno meglio il concetto.
L’istituto dei danni punitivi è nato nell’alveo della responsabilità extracontrattuale, i
torts17 statunitensi.
Per converso, la giurisprudenza tradizionale americana – e di pari passo il Restatement
of Contracts18 - ha sempre negato che i danni punitivi potessero trovare ingresso nella materia
contrattuale. Sennonché le eccezioni al principio sopra esposto sono molto numerose e tali da mettere
in discussione le stesse argomentazioni che sono alla base del principio tradizionale19.
Nell’esperienza giurisprudenziale americana, i due presupposti che hanno giustificato
l’operatività dei danni punitivi anche all’interno del contratto (inadempimento fraudolento e
contemporanea presenza di un illecito) possono, infatti, essere almeno in astratto presenti in ogni
figura contrattuale, così da estendere di fatto il campo di applicazione dell’istituto anche oltre i propri
confini naturali. La forza espansiva delle concessione del rimedio processuale si è inizialmente
manifestata nelle ipotesi in cui l’inadempimento contrattuale costituisce l’espressione di
comportamento fraudolento, con tutte le incertezze ed oscillazioni per le quali la nozione di frode
possa costituire un criterio interpretativo uniforme di certe situazioni reali e concrete20.
In definitiva, la tendenza giurisprudenziale ad ampliare l’area applicativa del rimedio
è tale dall’aver ormai quasi del tutto svincolato l’applicazione dell’istituto all’effettiva esistenza di
un tort, spostando l’attenzione sul comportamento – connotato da malice – dell’agente, che paga non
più (e non solo) per il fatto commesso (la qualificazione giuridica del quale finisce con divenire
irrilevante), quanto piuttosto per l’elemento psicologico, la malice appunto, che ha caratterizzato la
condotta.
In una simile situazione, la liquidazione del quantum dei punitive damages era
totalmente affidata al potere discrezionale del giudice, circostanza che non ha mancato di creare
problemi. Quando, a partire dagli anni Settanta, i danni punitivi sono stati comminati anche in materia
di responsabilità del produttore, questo fenomeno innovativo ha determinato risultati di sovra
compensazione, con danni all’industria e al sistema assicurativo americano, oltre a comportare
un’evoluzione della struttura e delle funzioni dell’istituto, al quale si rimproverava di essere
17
Ciò per quanto sia impossibile equiparare semplicemente i due termini. Come avverte G. Alpa, op. cit. sub nota 31, “[…] la
distinzione tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale è rimasta sempre labile in common law, ove per ragioni
storiche la distinzione tra gli del tort ed effetti del concract e quindi tra danno contrattuale per inadempimento e danno aquiliano non
si è mai radicata […]”.
18 Vedi nota n.13.
19 Così F. Giovagnoli, “I Punitive Damages nell’esperienza statunitense: l’applicazione estensiva dell’istituto alle ipotesi di breach of
contracts e product’s liability”, in Magistra, Banca e Finanza - www.magistra.it - ISSN: 2039-7410, anno 2002.
20 Una composita casistica è riportata in F. Giovagnoli, op. cit.
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indeterminato nella definizione dell’ammontare delle condanne, senza le garanzie del procedimento
penale, con conseguente incertezza degli operatori sui possibili esiti dei processi, paragonabili a vere
e proprie lotterie21.
L’estensione crescente delle ipotesi di punitive damages è stata, quindi, considerata tra
le cause principali dell’incontrollata crescita della “litigiosità” in ambito civile22, il che ovviamente
tradisce la ratio di deterrenza che giustifica l’esistenza dell’istituto23. Negli Stati Uniti la maggior
parte delle cause di risarcimento danni sono concluse in via transattiva, con la relativa riduzione del
contenzioso in sede giudiziaria, e ciò anche per l’esistenza di una tradizionale carica deflattiva
immanente all’applicazione di punitive damages. L’estensione sconsiderata del campo di
applicazione dell’istituto, però, ha in qualche misura innescato un andamento opposto, aumentando
le liti civili piuttosto che diminuirle. Il danneggiato, infatti, sarà più disponibile ad agire anche per
danni minimi, laddove sia “allettato” dalla prospettiva di riuscire ad ottenere, a titolo di punitive
damages, un risarcimento stratosferico.
In altri termini, si è avvertita l’esigenza di evitare che fosse il danneggiato a (quanto
meno tentare di) lucrare sul danneggiante, il quale poteva ritenere conveniente transigere – a cifre
salate – anche una controversia di poco valore piuttosto che correre il rischio di subire una pronuncia
nella quale, a fronte di un danno “principale” di poco valore economico, fossero comminate somme
milionarie a titolo di punitive damages.
Un elemento decisivo è stato che in numerosi casi l’applicazione dei danni punitivi sia
stata ammessa nell’ambito della class action, vale a dire l’azione giudiziaria condotta da un singolo
membro di una categoria, che consente di sprigionare effetti nei confronti di tutti coloro che
appartengono a quel gruppo24. Questa forma di azione, espressamente contemplata dal FRCP (Federal
Rules of Civil Procedure, Rule 2332), comporta l’estensione del giudicato erga omnes, con
riferimento a tutti gli appartenenti ad una particolare cerchia di soggetti25. Se già i punitive damages
21
F. Giovagnoli, op.cit.
Cfr. lo studio comparato dei sistemi americano, inglese e tedesco di B.S. Markensis, Litigation-mania in Englad, Germany and the
USA: are we so very different?, The Cambridge Law Journal, 1990, 233 s. dove il quadro dell’aumento delle liti civili è stato ricostruito
sulla base di dati statistici. In realtà, l’autore pur non esaminando specificamente le ipotesi di punitive damages, compie un’approfondita
analisi dei tre sistemi giudiziari, fornendo un utile chiave di lettura sull’aumento del contenzioso civile.
23 Uno studio del Pacific Research Institute (riportato da F. Giovagnoli, op. cit nota 31) basato su 1024 controversie presentate presso
la Corte d’Appello di San Francisco (California) ha dimostrano che: 1) i danni punitivi sono richiesti in circa il 27 per cento dei casi in
cui sarebbe ipotizzabile il loro recupero; 2) i convenuti appartenenti alle categorie delle grandi imprese private e delle amministrazioni
pubbliche che vengono citati in giudizio sono in media quattro volte in più dei soggetti individuali; 3) le controversie che includono la
richiesta di danni esemplari hanno una durata di circa un terzo maggiore delle altre cause che non li prevedono (ventuno mesi); la
probabilità dell’irrogazione della condanna nelle azioni nelle quali si procede al giudizio per danni punitivi si attesta intorno al
quattordici per cento. I dati complessivi che emergono da inchieste svolte da istituti di ricerca giuridica specializzati (The Reason
Foundation) nelle giurisdizioni più rappresentative per popolazione, confermano il trend di crescita delle condanne con fini punitivi e
deterrenti. I risarcimenti attribuiti dalle Corti delle contee del Texas, degli Stati di New York e Illinois segnalano un aumento delle
condanne dagli 800.000 dollari del periodo compreso tra 1968-71, ai 312 milioni di dollari del periodo compreso tra il 1988 e il 1991.
24 Cfr. F. De Franchis, op. cit. (voce “Class Action”).
25 La class action deve rispondere ad una serie di requisiti: 1) presenza di un numero elevato di soggetti interessati all’azione (almeno
25 membri), che renderebbe di fatto impraticabile il litisconsorzio; 2) comunanza dei presupposti di fatto o di diritto per tali soggetti;
22
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possono pesare sull’agente in relazione ad un singolo caso, è ovvio che diventano dirompenti laddove
siano moltiplicati per un numero elevato di cittadini. Sia sufficiente pensare ai casi legati alle
condanne subite dai produttori di sigarette26.
La volontà di scongiurare tale fenomeno ha fatto sì che venissero invocate da più parti
specifiche previsioni normative tese alla definizione di alcuni paletti, soprattutto nel quantum
risarcitorio27.
La Corte Suprema, investita, della questione, ha affrontato in modo deciso sia i
presupposti dell’applicazione dell’istituto, sia il problema della determinazione del quantum
risarcitorio.
La lettura “costituzionalmente orientata” della Corte Suprema degli Stati Uniti28 ha
consentito di mitigare le conseguenze negative di un’applicazione sproporzionata ed incontrollata del
rimedio dei punitive damages, suggerendo alle Corti dei singoli Stati alcuni criteri generali per
uniformare le diverse decisioni, evitando il ricorso a soluzioni difformi ed eccessive. Nella causa
Bmw of North America v. Gore29, la Corte Suprema ha stabilito che l’ammontare della somma
riconosciuta alla vittima a titolo di punitive damages deve essere direttamente proporzionata alla
gravità del comportamento dell’agente e che tale rimedio non può essere considerato
indipendentemente dalle eventuali sanzioni penali altrimenti comminate per lo stesso fatto. Secondo
la Suprema Corte, ai fini dell’ammissibilità dei danni punitivi e della determinazione del loro preciso
ammontare occorrerà, pertanto, prendere in considerazione:
a) la gravità della condotta dell’agente;
b) la proporzione esistente tra compensatory damages e danni punitivi;
c) la relazione tra il riconoscimento di danni punitivi e quanto concesso in ipotesi simili
mediante sanzioni di altro tipo.
3) coincidenza tra le domande o le difese della parte rappresentante in giudizio e le domande o difese di tutto il gruppo; 4) adeguatezza
e idoneità delle parti che agiscono in maniera tale che gli interessi del gruppo vengano adeguatamente rappresentati (adeguacy of
rappresentation), anche grazie una verifica sulla reale possibilità di far fronte alle spese di lite. Perché, poi, la class action sia ammessa,
è indispensabile che l’unica azione si renda necessaria di fronte al rischio che a diverse azioni separate seguano pronunzie diverse tra
loro e –addirittura- in contrasto tra loro, oppure che la vicenda imponga un injunctive relief o una pronuncia che veda interessati tutti i
membri del gruppo. Inoltre, è possibile ottenere l’ammissione della class action quando si verifica una prevalenza dei diritti o dei fatti
che coinvolgono la comunità rispetto a quelli che coinvolgono i singoli membri del gruppo (F. De Franchis, op. cit. nota 31).
26 Corte suprema degli Stati Uniti, sentenza 24 giugno 1992, Cipollone v. Ligget Group Inc. and others. Vedasi anche Corte distrettuale
federale, Distretto orientale della Luisiana; ordinanza 17 febbraio 1995; Castano v. The American Tabacco Company and others.
Nell’occasione, peraltro, la Corte ammise la procedibilità di una forma di class action intrapresa dagli eredi di un fumatore morto per
un cancro ai polmoni. Nell’ordinanza si afferma che tale class action è estendibile a tutti coloro che possono rientrare nella categoria
della “classe lesa” (sul punto, rileva il commento di G. Ponzanelli, “Class Action, tutela dei fumatori e circolazione dei modelli
giuridici”, in Foro It., 1995, IV, 305). Sempre a proposito dei rapporti tra danni punitivi e richieste di risarcimento promosse nei
confronti dei produttori di sigarette, si ricorda che 1999 è stata diffusa la notizia relativa al risarcimento pari a 50 milioni di dollari (a
fronte dei 15 richiesti da parte attrice) ottenuto da una malata di cancro ai polmoni (cfr. www.repubblica.it).
27 G. Ponzanelli, op. cit.
28 G. Ponzanelli, op. cit.
29 Corte suprema degli Stati Uniti d’America, sentenza 20 maggio 1996, con nota di G. Ponzanelli, L’incostituzionalità dei danni
punitivi “grossly excessive”, Foro it., 1996, IV, 42 e con nota di F. Cosentino, “Quando il troppo è troppo: un argine costituzionale ai
danni punitivi”, Danno e resp., 1997, 298.
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La Corte suprema degli Stati Uniti ha anche rilevato la necessità di stabilire un limite
ai fini della determinazione della somma concessa a titolo di punitive damages ritenendo che tale
somma non possa comunque essere dieci volte o più superiore a quella concessa per il risarcimento
del danno effettivo30.
Di rilievo anche la questione dell’effettivo soggetto destinatario dell’importo dei
punitive damages, che in numerosi casi non è (soltanto) il danneggiato. Ciò perché la funzione dei
danni punitivi risponde ad un esigenza non solo del singolo (che viene premiato per avere tutelato il
proprio diritto), ma anche della collettività: la deterrence, ossia lo scoraggiare tutti i consociati dal
porre in essere analoga condotta dannosa in futuro.
Molte legislazioni statali, quindi, hanno stabilito la concessione di una quota compresa
tra il 30% e il 75% a beneficio di agenzie statali, create con scopi assistenziali e previdenziali nei
confronti di specifiche categorie di cittadini, colpiti dalla commissione del crimine o dall’illecito.
Alcuni Stati hanno istituito organizzazioni come il Fondo di compensazione per le vittime di crimini
violenti, a cui nelle ipotesi previste vengono deferiti i tre quarti del valore della condanna31, mentre
in altri casi al giudice è stato assegnato il compito di ripartire pro quota il risarcimento punitivo, tra
l’attore, il suo avvocato e altri aventi diritto32.
4. Senza pretendere di volerci addentrare in un’analisi approfondita in merito al
concetto di “danno”33, del quale parte della dottrina nega addirittura la possibilità di ricostruzione in
modo unitario34, si rendono necessarie alcune considerazioni preliminari sulla funzione che il
risarcimento del danno svolge all’interno dell’ordinamento italiano. Solo partendo da questo
presupposto, infatti, è possibile comprendere pienamente il motivo per il quale la giurisprudenza e la
30
Si veda la causa State Farm Mutual Automobile Insurance Co. v. Inez Preece Campbell decisa con sentenza 7 aprile 2003 ed il
commento di G. Ponzanelli, “La costituzionalizzazione dei danni punitivi: tempi duri per gli avvocati nordamericani”, Foro it., 2003,
IV, 356 s.
31 Indiana, H. 1741, 109th Reg. Sess, 1995
32 Illinois, Comp. Stat. C.h. 735, section 5/2-1207, 1994
33 Numerosi sono i manuali e le pubblicazioni che affrontano in modo esaustivo il tema. Per un approfondimento si veda G. Alpa, “La
responsabilità civile. Parte Generale”, Roma, 2010; P. Franceschetti, “La responsabilità civile”, Bologna, 2009; L. Viola, “La
responsabilità civile e il danno”, Macerata, 2007; C. Castronovo, “La nuova responsabilità civile”, Milano, 2006 “Danno”, in AA.VV.,
“Enclopedia Giuridica Treccani online”, 2013; M.V. De Giorgi, “Il danno – teoria generale”, in AA.VV., “Enciclopedia Giuridica
Treccani”, Roma, 1988-1994, Vol. XI.
34 Ovviamente non è questa la sede per entrare nel merito del dibattito fra “unionisti” e “frammentaristi”. Si veda G. Alpa, op. cit., p.87
e ss; più risalenti R. Scognamiglio, “Appunti sulla nozione di danno”, in Rivista Trimestrale Diritto e Processo Civile, 1969, pp.464 e
ss.; contra A. De Cupis, “Il danno”, I-II, III ed., Milano, 1979, laddove si afferma la validità di una nozione unica di danno. Innegabile,
comunque, almeno da un punto di vista formale, la distinzione fra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, come rilevato da G.
Alpa, op. cit., per quanto l’Autore avverta che “[…] in una prospettiva assai più complessa e ricca, dettata da consapevolezza storica
e curiosità comparatistica, la distinzione è parsa ad un tempo arbitraria e inesatta […]”. Essa, tuttavia, permane solida nel nostro
ordinamento, tanto che la recente Cassazione ha avuto modo di sottolineare che “[…] proposta in origine domanda di risarcimento del
danno da responsabilità contrattuale, costituisce domanda nuova, come tale improponibile per la prima volta in appello ex art. 345
cod. proc. civ., quella di responsabilità extracontrattuale, giacché fondata su ‘petitum’ e ‘causa petendi’ differenti […]” (Cass., Sez.
III Civile, sentenza 10 maggio 2013, n.11118).
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dottrina italiana si oppongono – o almeno si sono opposte - tenacemente alla possibilità che in Italia
si possa introdurre l’istituto dei punitive damages.
Secondo autorevole dottrina35, la responsabilità civile assolve attualmente due funzioni
fondamentali: a) ripristinare la stato quo ante nel quale il danneggiato versava prima di subire il
pregiudizio (c.d. compensation); b) la funzione di deterrente (deterrence) per chiunque intenda
compiere atti o a svolgere attività da cui possano derivare effetti pregiudizievoli per i terzi36. Con
specifico riferimento a questo secondo aspetto, si è rilevato che l’aumento delle fattispecie risarcitorie
riconducibili alla responsabilità oggettiva tende ad elidere l’effetto deterrente, posto che in tali casi il
danno sorge per il semplice fatto che l’agente ha svolto un’attività rischiosa37. In simili ipotesi, la
responsabilità civile mantiene una funzione di deterrence solo ove l’obbligo risarcitorio incide a tal
punto sul patrimonio dell’agente da indurlo a non compiere l’attività rischiosa. Qualora, invece, le
conseguenze dannose non erodano il profitto, ogni forma di deterrence sarà facilmente superata dal
desiderio di realizzare utilità economiche38.
Quale che sia la funzione da considerare prevalente, è certo che nel diritto italiano il
risarcimento non ha funzione punitiva39, poiché il quantum in concreto risarcibile non può comunque
prescindere dal pregiudizio in concreto subito, sia esso perdita o mancato guadagno o danno non
patrimoniale.
Per ottenere un risarcimento, quindi, è necessaria la sussistenza a monte di un danno.
Si può discutere su quale sia la natura di tale danno o su come esso debba in concreto venire provato
di fronte ad un giudice. Si può allargare il novero delle fattispecie risarcibili e rendere più agevole la
loro dimostrazione, anche attraverso un sistema di presunzioni. Resta, indubbio, però, che è
considerato inammissibile che il danneggiato consegua un arricchimento: egli dovrà ottenere sempre
(e solo) una somma corrispondente al ripristino della situazione antecedente al pregiudizio40. Ciò
35 G. Alpa, op. cit., pag. 160 e ss.; F. Mastropaolo, “Il danno – risarcimento del danno”, in AA.VV., “Enciclopedia Giuridica Treccani”,
Roma, 1988-1994, Vol. XI
G. Alpa, op. cit., indica quattro ulteriori funzioni, due definite principali, ovverosia (i) reazione contro l’illecito, (ii) affermazione
del potere sanzionatorio dello Stato, due definite sussidiarie ed identificate (i) nella distribuzione delle “perdite” e (ii) nell’allocazione
dei costi. L’illustre Autore, tuttavia, avverte che “[…] la identificazione di queste funzioni, in una scala gerarchica variabilmente
disposta, è frutto di un approccio analitico che non sempre descrive la realtà delle cose. E’ innegabile, infatti, che mutando il periodo
storico e l’ambiente sociale […] una funzione diviene preminente rispetto ad un’altra […]”.
37 Oppure perché l’agente, sulla base di una scelta di politica del diritto, appare il soggetto che meglio di altri può sopportare la
traslazione del danno. Cfr. G. Alpa, op. cit., pag. 166 e ss.
38 E’ estraneo all’ordinamento italiano, ma non al meccanismo dei punitive damages, parametrare il risarcimento all’indebito profitto
conseguito dall’agente.
39 E ciò per quanto si sia affermato che “[…] a parte che talora finalità punitive possono concorrere con quelle riparatorie del
risarcimento, modificandone la misura, non può negarsi al risarcimento carattere, in senso lato, di sanzione, a meno di non attribuire
a quest’ultima i caratteri della pena. Anche il risarcimento costituisce una restaurazione dell’ordine giuridico violato e può rivelarsi
anzi rimedio più coerente della pena per raggiungere questo risultato […]” (cfr. F. Mastropaolo, op. cit.). Come si vede, però, il
concetto di sanzione qui richiamato è ben diverso della “pena privata” che costituisce il presupposto dei punitive damages.
40 Ciò per quanto in dottrina si siano sottolineati i limiti pratici al ristabilire la situazione quo ante, finalità che in concreto spesso risulta
di difficile raggiungimento, se non persino impraticabile. Cfr. G. Alpa, op. cit.
36
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senza che abbiano rilievo il grado di colpa dell’agente o, a differenza di quello che capita nelle
fattispecie ex art.2041 C.C., l’eventuale profitto conseguito da costui in ragione del danno procurato.
E’ proprio il problema della proporzionalità, ovverosia dell’inscindibile rapporto fra
quantum risarcitorio e danno in concreto subito, a sbarrare la strada ai punitive damages che, per la
loro natura sanzionatoria, non hanno collegamento con uno specifico pregiudizio41, essendo
finalizzati a reprimere la condotta iniqua dell’agente.
5. Tenendo presenti i concetti illustrati nel paragrafo precedente, risulta più agevole
comprendere la posizione di chiusura espressa a più riprese dalla Corte di Cassazione che, nell’ambito
dei processi per la delibazione delle sentenze straniere, ha affermato la contrarietà dell’istituto dei
punitive damages all’ordine pubblico italiano, per effetto negando che in Italia potessero essere
recepite pronunce (di regola statunitensi) che avevano comminato danni punitivi.
La pietra miliare di questo orientamento è Cassazione Civile, Sez. III, sentenza n.1183
del 19 febbraio 200742. Il ricorrente deduceva che la sentenza della corte statunitense, la cui
delibazione era stata negata dalla Corte d’Appello di Venezia, non fosse contraria all'ordine pubblico
interno, come aveva ritenuto il giudice territoriale, conoscendo anche il nostro ordinamento civilistico
istituti aventi natura e finalità sanzionatoria e afflittiva, quali la clausola penale e il risarcimento del
danno morale o non patrimoniale. La Cassazione respingeva con nettezza tale argomentazione,
rilevando in primo luogo che la clausola penale non ha natura e finalità sanzionatoria o punitiva. “[…]
Essa assolve la funzione di rafforzare il vincolo contrattuale e di liquidare preventivamente la
prestazione risarcitoria, tant'è che se l'ammontare fissato venga a configurare, secondo
l'apprezzamento discrezionale del giudice, un abuso o sconfinamento dell'autonomia privata oltre
determinati limiti di equilibrio contrattuale, può essere equamente ridotta. Quindi, se la somma
prevista a titolo di penale è dovuta indipendentemente dalla prova del danno subito e da una rigida
correlazione con la sua entità, è in ogni caso da escludere che la clausola di cui all'art. 1382 c.c.
possa essere ricondotta all'istituto dei punitive damages proprio del diritto nordamericano, istituto
che non solo si collega, appunto per la sua funzione, alla condotta dell'autore dell'illecito e non al
tipo di lesione del danneggiato, ma si caratterizza per un'ingiustificata sproporzione tra l'importo
liquidato e il danno effettivamente subito […]”. Ecco il punto: “l’ingiustificata sproporzione” fra
importo liquidato e danno subito è l’elemento che più di tutti rende inammissibili i danni punitivi
all’occhio di un giurista di civil law.
41
Ulteriore rispetto a quello “principale”, per il quale l’attore ha agito in giudizio.
Per quanto tale pronuncia sia riferibile al sistema previgente l’entrata in vigore della Legge 31 maggio 1995, n.218, che ha rivisitato
la materia della delibazione delle pronunce straniere, i principi ivi espressi sono del tutto compatibili anche con la nuova disciplina.
42
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Né aveva miglior fortuna di fronte alla Corte il parallelo proposto dal ricorrente fra
punitive damages e danni morali: “[…] il danno morale corrisponde ad una lesione subita dal
danneggiato e ad essa è ragguagliato l'ammontare del risarcimento. Nell'ipotesi del danno morale,
infatti, l'accento è posto sulla sfera del danneggiato e non del danneggiante: la finalità perseguita è
soprattutto quella di reintegrare la lesione, mentre nel caso dei punitive damages, come si è visto,
non c'è alcuna corrispondenza tra l'ammontare del risarcimento e il danno effettivamente subito
[…]”.
Esclusa l’esistenza di figure italiane affini al danno punitivo, la Cassazione si
soffermava a chiarire che nel vigente ordinamento l'idea della punizione e della sanzione è estranea
al risarcimento del danno, così come è indifferente la condotta del danneggiante. Alla responsabilità
civile è assegnato, precisava il Collegio, il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del
soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda ad
eliminare le conseguenze del danno arrecato. E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non
patrimoniale o morale, per il cui risarcimento, proprio perché non possono ad esso riconoscersi
finalità punitive, non solo sono irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità
patrimoniale dell'obbligato, ma occorre altresì la prova dell'esistenza della sofferenza determinata
dall'illecito, mediante l'allegazione di concrete circostanze di fatto da cui presumerlo, restando escluso
che tale prova possa considerarsi in re ipsa43.
La pronuncia appena esaminata costituisce una perfetta somma dei motivi che spingono
a ritenere i punitive damages figura estranea e incompatibile con l’ordinamento italiano. Al problema
della sproporzione e, quindi, di una liquidazione del danno che prescinde dal pregiudizio e si ancora,
invece, alla “gravità” (nel senso della malice) della condotta del danneggiante, si aggiunge il non
meno serio problema della prova del danno, che si pretende comunque rigorosa44, il che produce un
insanabile contrasto con qualsiasi tipo di finalità punitiva si voglia attribuire al risarcimento.
Se poi si volesse arrivare al punto di consentire una condanna risarcitoria senza
l’affermazione di un danno, si lederebbe il noto principio nemo locupletari potest in re aliena, in
quanto si riconoscerebbe ad una delle parti un’utilità maggiore rispetto alla situazione iniziale.
43
A tale proposito la Corte cita i seguenti precedenti: Cass. n. 10024/1997, n. 12767/1998, n. 1633/2000.
In verità per quanto riguarda la prova del quantum dei danni immateriali la giurisprudenza ha conosciuto e conosce significative
oscillazioni, considerando che tale prova diviene a tutti gli effetti diabolica laddove si debba ricorrere “[…] al canone riduttivo e
materialista dell'homo faber nel senso di giuridicamente tutelato solo in quanto produttore di reddito […]” (AA.VV., “Responsabilità
e risarcimento”, n.6/2007, pag.26). Sicché, ad esempio in tema di danno esistenziale, la Cassazione ha rilevato che il giudice può far
ricorso alle presunzioni semplici, in quanto costituiscono una prova completa su cui basare il proprio convincimento (Cass., sez. lav.,
07-03-2007, n. 5221). Ma il punto, a ben vedere, non è se il danno sia facile o difficile da provare, quanto piuttosto che, nell’ipotesi
dei punitive damages, non è nemmeno detto che un danno esista.
44
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La Suprema Corte in tempi più recenti ha di nuovo negato, con sentenza dell’8 febbraio
2012, n.178145 la compatibilità dei punitive damages con il nostro ordinamento. Si trattava di delibare
due sentenze pronunciate dalla Corte Suprema di Cambridge in Massachussets (USA), che aveva
condannato una società al pagamento di $ 5.000.000,00, oltre interessi dal 7 settembre 1997 al 7 aprile
2004, pari a $ 3.951.815,40, relativamente a danni subiti per un infortunio sul lavoro, derivante,
secondo quanto stabilito dal giudice americano, dal difetto di funzionamento (product liability) delle
macchine prodotte da tale azienda. La Corte d’Appello di Torino aveva ritenuto la sentenza
meritevole di delibazione, ma tale giudizio è stato ribaltato dalla Cassazione. Il Collegio giudicante,
infatti, ha confermato in pieno tutti i principi della sentenza n.1183/2007 – del quale la pronuncia in
commento riporta ampli stralci – annotando che nella specie “[…] i giudici di merito si sono affidati
al mero riscontro della compatibilità dell'intero ammontare della condanna straniera con la natura
e la gravità dei danni subiti […], e, dunque, ad una valutazione puramente astratta, apodittica,
concretante mera illazione, quando invece, seguendo tale impostazione, avrebbero dovuto dare
anche conto della ragionevolezza e proporzionalità del liquidato in sede estera in rapporto non solo
alle specificità dell'illecito ed alle patite conseguenze, ma anche in confronto dei criteri risarcitori
interni […]”.
Ecco che ritorna di nuovo il problema della corrispondenza fra danno e risarcimento,
che costituisce il vero leit motiv della giurisprudenza in esame.
6. L’applicazione rigorosa dei principi che regolano la materia della responsabilità
civile in Italia, come abbiamo visto, conduce alla negazione della figura dei danni punitivi.
Sennonché il fatto che l’istituto sia in apparenza incompatibile con l’ordinamento
giuridico non significa affatto che nella società non vi siano spinte significative in senso contrario.
Come sovente accade per figure considerate “dubbie”, è stata la giurisprudenza di merito dei giudici
di pace46 a tentare di aprire la strada all’ingresso in Italia dei punitive damages.
Il leading case arriva dal Giudice di Pace di Bitonto47 con la pronuncia del 27 maggio
200748, resa nel filone di controversie derivante dal noto provvedimento dell’Autorità Garante per la
Concorrenza e il Mercato49 che aveva censurato l’attività di “cartello” posta in essere da numerose
45 Pronunciata dalla I Sezione Civile. Una sentenza che in dottrina è stata definita “scialba” (così F.D. Busnelli, E. D’Alessandro, op.
cit.).
46 Se la giurisprudenza del giudice di pace ha il merito di tendere spesso verso la soluzione del caso concreto secondo equità, piuttosto
che nell’applicazione (a volte sterile) di astratti principi giuridici, il rovescio della medaglia è che spesso essa conduce ad effetti
paradossali. Sul punto si veda, fra i tanti contributi sull’argomento, il divertente “Se questa è una sentenza: il mondo dei Giudici di
Pace” di A. De Cataldo, pubblicato in “Centoundici, la rivista della Camera Penale di Roma”, 2011.
47 Pronuncia riportata da www.diritto.it, con nota di L. Sesta.
48 Manfredi c.\ Lloyd Adriatico Assicurazioni S.p.A.
49 Delibera n.8546 del 28.07.2000 dell’AGCM, confermata poi dalle sentenze del TAR Lazio e del Consiglio di Stato.
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compagnie assicurative al fine di far crescere artatamente i premi delle polizze RC auto50. Il Giudice
di Pace non solo ha accolto la pretesa dell’attore di ottenere la restituzione della maggiorazione del
premio versato, ma si è spinto ben oltre, facendo espresso riferimento al valore di deterrenza – e,
quindi, di sanzione – che il risarcimento del danno necessariamente doveva assumere nel caso di
specie. Leggiamo testualmente nella pronuncia in commento che “[…] alla parte attrice deve essere
riconosciuta, a titolo di risarcimento danni, una somma di denaro tale da aver anche l’effetto
deterrente nei confronti della parte convenuta e di terzi dal porre in essere altre intese o pratiche
concordate come quella sanzionata dall’AGCM. Infatti, se il risarcimento dei danni fosse ancorato
ai canoni generali sanciti negli artt. 1223 e 1224, comma 1, C.C., il principio di effettività del diritto
comunitario ne risulterebbe gravemente compromesso, in quanto l’autore dell’illecito, con altissimo
grado di probabilità, continuerebbe comunque a trarne profitto. Perciò, il danno da liquidarsi deve
essere di entità tale da render certo l’annullamento di qualsiasi vantaggio economico tratto da un
soggetto partecipe di un’intesa anticoncorrenziale o di una pratica concordata vietata dall’art.81
del Trattato; e lo stesso dicasi per le intese anticoncorrenziali e per le pratiche concordate sanzionate
nell’art.
2
della
legge
287/90.
Alla luce di tali considerazioni, il Giudicante ritiene di riconoscere all’attore un danno nella misura
del doppio, rispetto all’ammontare dei premi esatti dalla convenuta in esecuzione dell’intesa
anticoncorrenziale […]”. Si tratta di una pronuncia a suo modo rivoluzionaria perché, pur senza fare
riferimento diretto ai punitive damages, il giudice di fatto ancora il risarcimento del danno non già al
pregiudizio subito, ma all’esigenza che il danneggiante non tragga indebito profitto dalla propria
condotta, ed anzi subisca una “punizione” che svolga anche un ruolo di prevenzione di simili
comportamenti in futuro. Tutto ciò con l’affermazione, la cui portata dirompente è facilmente
comprensibile, che i criteri indicati nel Codice Civile si rivelano insufficienti a garantire l’effettività
del principio comunitario di tutela della concorrenza. Ad oggi si tratta dell’unico caso conclamato nel
quale sono stati riconosciuti e liquidati i danni punitivi.
Per quanto non esistano precedenti affini alla pronuncia del Giudice di Pace di Bitonto,
è presente in giurisprudenza una diffusa casistica di situazioni nelle quali il risarcimento del danno
può essere avvicinato ad una sanzione, piuttosto che ad un effettivo ristoro. A ben vedere, però, si
tratta perlopiù di fattispecie nelle quali è stato riconosciuto un danno non patrimoniale in assenza di
prova. Non si potrebbe parlare, quindi, di punitive damages in senso stretto, quanto piuttosto
50
Tutte le compagnie assicurative avevano, peraltro, contestato la competenza funzionale dei Giudici di Pace a decidere in materia,
rilevando la violazione della Legge n.287/1990, che attribuisce alla Corte d’Appello la competenza a conoscere delle violazioni della
normativa antitrust. La presente sentenza, confortata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea (Corte giust., 13 luglio 2006,
Manfredi, cause riunite da C-295/04 a C-298/04, in Racc. 2006, I-06619), ha però rilevato che l’attività illegittima contestata agli
assicuratori, alcuni dei quali nemmeno italiani, rientrava nel più ampio alveo dell’art.81 del Trattato U.E. Per un approfondimento su
questo aspetto si veda L. Sesta, op. cit.
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dell’esigenza di “smarcare” il risarcimento del danno immateriale da una dimostrazione rigorosa. Il
risarcimento, infatti, è veramente punitivo quando manca un ulteriore pregiudizio rispetto ad un danno
già risarcito, non quando un danno sia riconosciuto perché considerato in re ipsa o comunque senza
necessità di una dimostrazione puntuale51.
L’accostamento fra le due fattispecie è probabilmente dovuto al fatto che traduciamo
punitive damages con “danni punitivi”, il che ci porta sempre a ritenere che un danno debba pur
esserci e che il problema costituisca, semmai, la prova di questo. In realtà, traducendo correttamente
“risarcimento punitivo”, ci rendiamo facilmente conto che il punto è, invece, riconoscere un
risarcimento in assenza di danno, ciò che lo rende in effetti “punitivo”.
7. Che in Italia ci sia una certa “voglia” di danni punitivi è bene attestato, oltre che dalla
giurisprudenza appena commentata, dal fatto che da più parti si sia tentato di scorgere elementi propri
dei punitive damages nei più vari istituti del diritto. Tra le figure assimilate ai punitive damages
possiamo ricordare, senza pretesa di esaustività, la clausola penale, i danni morali, il risarcimento del
danno ambientale nella Legge n.349/1986, il danno da diffamazione a mezzo stampa ex Legge
n.47/1948, l’art.709 ter c.p.c. sull’affidamento condiviso.
Tutti gli istituti appena enumerati, per quanto talora presentino innegabili analogie con
i danni punitivi, non sono del tutto sussumibili a questi ultimi. In nessuno di essi, infatti, sono presenti
contemporaneamente (e solamente) gli elementi che connotano gli exemplary damages nel diritto
anglosassone, ed in particolare che il risarcimento riconosciuto dal giudice: a) abbia come unico
presupposto la condotta fraudolenta di una parte; b) non sia collegato con un ulteriore pregiudizio
patito dall’altra parte, rispetto a quanto già risarcito in via ordinaria.
In Italia c’è solo una figura che risponde a questi due requisiti e, anticipando le
conclusioni che seguiranno, possiamo ben dire che solo essa sia l’unica, reale ipotesi di punitive
damages nell’ordinamento italiano: la lite temeraria ex art.96 c.p.c. dopo la riforma del 2009.
8. La disposizione di cui al primo comma dell’art. 96 c.p.c.52 è sempre stata considerata
una fattispecie risarcitoria con funzione compensativa del danno cagionato dal c.d. illecito
processuale53, ovverosia del pregiudizio derivante dalla proposizione di una lite temeraria. Era
51
Ciò per quanto la dottrina avverta che“[…] Più problematico è riconoscere una funzione che non sia esclusivamente punitiva a
quella (purtroppo) copiosa giurisprudenza dei giudici di pace, che liquidano qualche centinaio di euro di risarcimento pur in difetto
di qualsiasi prova (sia pure presuntiva) di un danno non patrimoniale […]” (il commento è di F. Bilotta, “RC: l’ingresso nel nostro
sistema di danni punitivi e pene private”, in “Responsabilità e risarcimento”, n.4/2008, pag.95.
52 “[…] Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra
parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza […]”.
53 Sull’argomento si veda G. Chiovenda, “La condanna alle spese giudiziali”, ristampa anastatica, Napoli, 2011, pag. 318 ss., per quanto
l’Autore si riferisca non all’art.96 c.p.c., ma al precedente art.370 c.p.c. 1865, il quale disponeva che la parte soccombente fosse
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pacifico, quindi, che ci si trovasse in presenza di una fattispecie ricondotta al genus della
responsabilità extracontrattuale (art. 2043 c.c.), di cui l’art. 96, comma 1, c.p.c. costituiva una
species54.
Gli elementi costitutivi della specifica fattispecie in esame possono essere così
riassunti: a) la qualità di parti processuali del danneggiante e del danneggiato. In particolare, il
danneggiante deve essere colui che è risultato totalmente soccombente ed il danneggiato, viceversa,
deve essere il vincitore del (ovvero di quel grado del) giudizio; b) la sussistenza di un danno nella
sfera giuridica del danneggiato, diverso ed ulteriore rispetto alla necessità di aver dovuto resistere in
giudizio; circostanza, questa, a cui già pone rimedio l’istituto della condanna alle spese processuali
di cui all’art. 91 c.p.c.; c) la mala fede oppure la colpa grave del danneggiante/soccombente.
Come ogni risarcimento, anche quello de quo è ottenibile solo su domanda di parte,
mentre il riferimento alla possibilità di agire “d’ufficio”, contenuto nella parte finale del primo comma
condannata alle spese del giudizio e, in caso di lite temeraria, al risarcimento del danno. Altri approfondimenti sull’argomento in C.
Vocino, “Sequestro e lite temeraria”, in “Scritti in onore di Pugliatti”, Milano, 1978, III, 1419 e ss.; R. Rossi, “La liquidazione equitativa
del danno”, in G. Vettori (a cura di) “Il danno risarcibile”, Padova, 2004, 1435 e ss.; C. Consolo, “Tutela risarcitoria di posizioni
giuridiche schiettamente processuali?” in Riv. Dir. Civ., 1991, II, 71 e ss. La natura compensativa della fattispecie di cui all’art. 96,
comma 1, c.p.c. è stata affermata anche da Corte cost., ord. 23 dicembre 2008, n. 435, Rel. Finocchiaro, in Corr. giur., 2009, 260 ed in
Giur. it., 2009, 2242, con nota di F. Maccario. La Consulta ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 96, comma 1, c.p.c., in riferimento agli artt. 3, 24, 111 Cost., nella parte in cui subordina la condanna per lite
temeraria alla necessaria istanza di parte. Il giudice a quo aveva motivato i dubbi di legittimità costituzionale ricordando “[…] la
tendenza di alcuni giudici di merito a fornire una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 96 c.p.c., il quale, posto in correlazione
con i principi del giusto processo costituzionalizzati attraverso la nuova formulazione dell’art. 111 Cost., non sarebbe più inteso solo
come tradizionale strumento risarcitorio posto a tutela d’interessi privatistici, inserendosi nel contesto della disciplina del danno
aquiliano, ma avrebbe altresì una funzione sanzionatoria di una condotta riprovevole e dannosa per l’interesse della collettività, che
si tradurrebbe anche in una agevolazione dell’onere della prova gravante sul danneggiato […]”. La Consulta, nel rigettare la
questione, ha precisato che “[…] per quanto riguarda la pretesa violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della diversità di
trattamento rispetto alle fattispecie relative alla disciplina delle spese processuali, si deve rilevare che si tratta di ipotesi
ontologicamente differenziate, collocandosi quella in questione nell’area della responsabilità civile, con conseguenti profili risarcitori,
in relazione ai quali si pongono problemi di onere probatorio a carico del richiedente (nell’ambito del principio dispositivo), laddove
le norme richiamate dal rimettente riguardano deroghe al principio della soccombenza nel giudizio quale criterio per la condanna
alle spese processuali […]”. Si noti però che in un passo successivo dell’ordinanza, il giudice delle leggi rileva che “[…] inconferente
appare il riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., i quali hanno riguardo al diritto alla tutela giurisdizionale ed al giusto processo, che,
invece, non vengono in discussione nel sistema delineato dall’art. 96 c.p.c., che ha finalità risarcitoria e sanzionatoria […]”. In
dottrina, invero, non manca chi ha ritenuto che quella de qua sia una misura esclusivamente finalizzata ad infliggere una pena pecuniaria
di natura sanzionatoria e non compensativa: si tratta di G. Scarselli, “Le spese giudiziali civili”, Milano, 1988, spec. 400.
54 E. Grasso, “Della responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali”, in “Commentario al codice di procedura civile”,
a cura di E. Allorio, I, Torino, 1973, spec. 1032; G. Bongiorno, “Responsabilità aggravata”, in Enc. giur. Treccani, XXVI, Roma,
1991, 1 ss.; F.P. Luiso, “Diritto processuale civile”, I, VI ed., Milano, 2011, 433; M.P. Gasperini, “Domanda cautelare e responsabilità
aggravata ex art. 96 c.p.c.”, in Riv. dir. proc., 1996, 885 ss., spec. 888. In giurisprudenza, in questo senso, da ultimo Cass., sez. un.,
23 marzo 2011, n. 6597, in Giust. civ., 2011, I, 1199; in Notariato, 2011, 382; in Corr. mer., 2011, 609, con nota di G. Travaglino, nella
cui motivazione si legge che “[…] l’art. 96 c.p.c. regola la responsabilità conseguente all’aver agito o resistito in giudizio, restando
soccombente, e per un verso completa la responsabilità che deriva dalla soccombenza, per altro verso disciplina il fatto costitutivo di
tale responsabilità in modo speciale rispetto a quella generale da fatto illecito, perché qui può venire in rilievo non il fatto in sé di
avere difeso il proprio diritto in giudizio, ma la violazione di un connesso reciproco dovere di lealtà delle parti, nell’esercizio di un
diritto costituzionalmente garantito. Da questo specifico tratto della disciplina sostanziale della responsabilità processuale aggravata
deriva poi il tratto ulteriore, attinente però alla disciplina processuale, per cui giudice della violazione del dovere di lealtà debba
essere quello che è stato investito dalla originaria domanda. Risponde alla stessa esigenza di concentrazione che presidia la sua
competenza sulle spese processuali, il fatto che, avendo conosciuto del fondo della domanda, quel giudice conosca delle conseguenze
che la parte risultata vincitrice gli espone d’aver subito, a causa del comportamento sleale dell’altra rimasta invece soccombente.
Slealtà che quel giudice è nella miglior condizione per poter valutare rispetto ad altro […]”; Cass., sez. III, 3 marzo 2010, n. 5069,
banca dati Le leggi d’Italia; Cass., sez. I, 26 novembre 2008, n. 28226, in Fallimento, 2009, 621; Cass., sez. III, 24 luglio 2007, n.
16308, in Giur. it., Mass. 2007; Cass., sez. III, 20 luglio 2004, n. 13455, in Guida al dir., 2004, n. 43, 49; Cass., sez. III, 17 ottobre
2003, n. 15551, in Arch. civ., 2004, 973 ed in Giur. it., 2004, 1598; Cass., sez. II, 12 marzo 2002, n. 3573, in Arch. civ., 2003, 99;
Cass., sez. III, 23 aprile 2001, n. 5972, in Giur. it., Mass. 2001; Cass., sez. III, 12 gennaio 1999, n. 253, in Giur. it., Mass. 1999.
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dell’art. 96 c.p.c., deve essere inteso non già nel senso della superfluità della istanza di parte ma,
viceversa, come sottolineato da parte della dottrina, nel senso della possibilità, per il giudice, di
liquidare ex officio ed in via equitativa il quantum del danno anche ove quest’ultimo non sia provato
nel suo ammontare55, a seguito del mero assolvimento da parte del danneggiato dell’onere della prova
concernente l’an56 del pregiudizio e la mala fede o la colpa grave dell’agente.
L’esigenza della dimostrazione di un danno, derivante dalla natura compensativa
dell’istituto, costituiva il maggior limite a qualsiasi possibilità di assimilare la lite temeraria ai
punitive damages, poiché, come più volte ribadito, il danno punitivo rifugge da qualsiasi finalità
compensativa e costituisce una sanzione la cui ragion d’essere non risiede in un pregiudizio subito,
ma nella malafede della parte punita.
Cionondimeno, parte della dottrina aveva cercato di accostare l’art.96 c.p.c. all’ipotesi
dei punitive damages57, prendendo spunto da una sentenza del Tribunale Civile di Rimini58 che, in
materia di risarcimento del danno da circolazione stradale, aveva citato i danni punitivi in relazione
alla lite temeraria. Ma, al di là di queste voci isolate, lo schema originario dell’art.96 c.p.c., non
lasciava molto spazio alla possibilità di vedere in esso un’ipotesi di danno punitivo, pesando come
un macigno l’esigenza che venisse provato un pregiudizio ulteriore rispetto alla mera rifusione delle
spese di giudizio.
Sennonché, proprio l’aver voluto ricondurre l’istituto nell’alveo della responsabilità
aquiliana lo aveva di fatto reso inutile. In questo senso, non aveva molta importanza che,
nell’evoluzione giurisprudenziale, si fosse alfine negata la natura esclusivamente patrimoniale del
danno da lite temeraria59 o che vi fosse un’apertura rispetto ad una prova più leggera in ordine al
55
F.P. Luiso, “Diritto processuale civile”, cit. 433, il quale sottolinea che “[…] per tale ragione, la giurisprudenza ritiene che non
possa aver luogo, nella presente ipotesi, una separazione del giudizio sull’an dal giudizio sul quantum. Infatti, una volta dimostrato
che un danno vi è stato, la sua quantificazione è operata d’ufficio dal giudice […]”; R. Rossi, “La liquidazione equitativa del danno”,
in G. Vettori (a cura di), Il danno risarcibile, cit., 1504.
56 In giurisprudenza, in ordine all’onere della prova del quantum, sono ravvisabili due orientamenti di legittimità: il primo, per lo più
(anche se non esclusivamente) riferito ad ipotesi di lite temeraria enucleate in sede di regolamento di giurisdizione - laddove, come
noto non è possibile apportare elementi di prova non addotti nella fase di merito - fa leva sul tenore letterale dell’art. 96, comma 1,
ultima parte, c.p.c. per giungere ad affermare che il quantum è generalmente determinabile dal giudice sulla base di nozioni di comune
esperienza ed è accertabile sulla base di presunzioni (così in Cass., Sez. Un., 19 febbraio 2002, n.434), a seguito dell’assolvimento, da
parte dell’istante, dell’onere della prova concernente l’elemento soggettivo e l’an. Un secondo orientamento di legittimità, invece,
legge in maniera restrittiva il riferimento ai poteri officiosi del giudice di cui all’art. 96, comma 1, c.p.c. reputando necessaria la
domanda di parte ed, al contempo, gravando l’istante dell’onere di allegare gli elementi di fatto, desumibili dagli atti di causa, necessari
al giudice per effettuare la relativa quantificazione. Dunque, soltanto in via residuale, i.e. solo quando il danno non possa essere provato
nel suo preciso ammontare - in conformità a quanto sancito dagli artt.1226 c.c. e 2056 c.c. - il giudice potrebbe effettuare la
quantificazione in via equitativa ex officio (Cass., Sez. III, 18 gennaio 2012, n.691).
57 Si veda A. Grassi in www.dannipunitivi.it. Del medesimo autore: A. Grassi, “Danni punitivi”, in Il foro Riminese, n. 4/99, pp. 15 –
16. A. Grassi, “Il concetto di danno punitivo”, in Tagete - Rivista Medico Giuridica, n. 1 marzo 2000, pp 107 –108.
58 Sentenza 25 giugno 1999, n.3264. In verità, il riferimento è piuttosto generico, né il giudice spiega quale dovrebbe (o avrebbe dovuto
essere) il collegamento fra le due fattispecie.
59 Cfr. Il danno non patrimoniale. Guida commentata alle decisioni delle S.U. 11 novembre 2008, nn. 26972/3/4/5, a cura di G.
Ponzanelli- M. Bona, Milano, 2009; La liquidazione del danno alla persona. Riflessioni e prospettive ad un anno dalle SS.UU. nn.
26972- 75, a cura di A. D’Angelo-G. Comandè-D. Amram, Milano, 2010.
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quantum60: era proprio l’esigenza di base, cioè la necessità di dimostrare l’esistenza di un danno
(perché solo in tal modo si giustifica un risarcimento “compensativo” e non “punitivo”), che rendeva
la lite temeraria una figura di applicazione marginale, tanto che si era giunti a parlare di una
“inapplicabilità di fatto dell’istituto”61 o addirittura di un tendenziale “fallimento operativo”62, mentre
parte della dottrina63 spingeva affinché la norma venisse comunque interpretata come un ipotesi di
punitive damages, il che ne avrebbe permesso finalmente una concreta applicazione.
9. In questo contesto si inserisce l’intervento del Legislatore che, come detto in
precedenza, ha aggiunto nel corpo dell’art.96 il terzo comma che recita: “[…] in ogni caso, quando
pronuncia sulle spese ai sensi dell’art.91, il giudice, anche d’ufficio può altresì condannare la parte
soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata
[…]”.
Risulta controversa64 la natura della disposizione in commento, rimanendo quale unica
(pur opinabile, ad avviso di chi scrive) certezza che – almeno stando al tenore letterale della norma la previsione ha carattere concorrente rispetto a quella del primo comma. La norma in commento,
peraltro, ricalca in parte il tenore dell’ultimo comma dell’art. 38565 c.p.c., tranne che per un rilevante
aspetto: mentre l’art. 385, ultimo comma, c.p.c. richiedeva espressamente il presupposto soggettivo
dell’avere la parte proposto il ricorso o dell’avere resistito anche solo con colpa grave, l’ultimo
comma dell’art. 96 c.p.c. tace in proposito.
La non felice formulazione della novella non ha mancato di suscitare numerose
perplessità in dottrina66, laddove in particolare è stata evidenziata la poca chiarezza dei confini tra la
fattispecie di cui all’art. 96, comma 1, c.p.c., e quella di cui al terzo comma, sul presupposto che in
ambedue i casi si verta in presenza di una disposizione che disciplina una pretesa risarcitoria. Si
sostiene che non sarebbe dato comprendere quali sarebbero i tratti ulteriori e distintivi che
caratterizzano la fattispecie di cui al terzo comma, differenziandola da quella già contenuta
nell’incipit della norma. I medesimi Autori ravvisano un altro difetto nella previsione di cui al terzo
60
Cfr. nota 150.
Trib. Piacenza, 15 novembre 2011, in Nuova giur. civ. comm., 2012, 269, con nota di L. Frata
62 Trib. Varese, sez. Luino, ord. cit.
63 G. Ponzanelli, “I danni punitivi”, op.cit.
64 F.D. Busnelli, E. D’Alessandro, op.cit.
65 Abrogato, infatti, dalla Legge n.69/2009 e che recitava “[…] Quando pronuncia sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all'articolo
375, la Corte, anche d'ufficio, condanna, altresì, la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma,
equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito
anche solo con colpa grave […]”. La norma, che era stata introdotta dalla Legge n.40/2006, ha avuto vita brevissima.
66 S. Menchini, in G. Balena-R. Caponi-A. Chizzini-S. Menchini, “La riforma della giustizia civile”, Torino, 2009, 27. Conformi A.
Proto Pisani, “La riforma del processo civile: ancora una riforma a costo zero (note a prima lettura)”, in Foro it., 2009, V, 222 ss.; G.
Balena, “La nuova pseudo-riforma della giustizia civile”, in Giusto processo civ., 2009, 749 ss.; G. Scarselli, “Le modifiche in tema di
spese”, in Foro it., 2009, V, 258 ss., spec. 263. Si vedano anche G. Scarselli, “Il nuovo art. 96, 3° comma c.p.c.: consigli per l’uso”, in
Foro it., 2010, I, 2237; P. Porreca, “L’art. 96, 3° comma, c.p.c., tra ristoro e sanzione”, in Foro it., 2010, I, 2242.
61
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comma dell’art. 96, c.p.c. nella parte in cui prevede che il giudice possa liquidare il quantum dovuto
anche d’ufficio. Si afferma, precisamente, che “[…] poiché la condanna può essere resa anche
d’ufficio, il principio della domanda e l’art. 112 c.p.c., paiono essere violati […]”67.
Queste contestazioni nascono sul presupposto che anche il nuovo comma dell’art.96
preveda un’ipotesi di responsabilità aquiliana. Ma nel momento in cui si accetta di trovarsi di fronte
ad una fattispecie di danno punitivo, queste censure sono destinate ad essere confutate.
Questo è l’orientamento assunto dalla giurisprudenza68, laddove prevale la convinzione
che quella contemplata dall’art. 96, comma 3, c.p.c. non sia una fattispecie di responsabilità civile
vera e propria ma che si tratti, piuttosto, di una condanna punitiva, ossia di una pena privata giudiziale
avente funzione sanzionatoria e deterrente pro futuro. Muovendo dalla convinzione per cui si verte
in presenza di una sanzione pecuniaria e non di una domanda risarcitoria, i giudici affermano che la
somma dovuta ex art. 96, comma 3, c. p.c. è suscettibile di essere disposta d’ufficio dal giudice senza
che ciò costituisca violazione del principio della domanda di cui all’art. 112 c.p.c. Altresì, non
sussisterebbe sovrapposizione tra la sfera di operatività del primo comma e quella del terzo comma
dell’art. 96 c.p.c., in quanto le due norme avrebbe senso e finalità diverse.
Al fine di configurare la “nuova” lite temeraria come un’ipotesi di punitive damages
risulta dirimente il potere del giudice di disporre la relativa condanna ex officio. Se, infatti, un
risarcimento può conseguire in assenza di domanda, ciò significa che esso prescinde (anche) dalla
prova (rectius, dalla stessa esistenza) di un pregiudizio e che ha natura evidentemente punitiva e/o
sanzionatoria. Viene rotto, quindi, non solo il principio di proporzionalità fra danno risarcito e danno
provato dal richiedente, ma anche e soprattutto il brocardo del nemo locupletari potest. Il giudice
67
S. Menchini, op. cit.
Così Cass., sez. I, 30 luglio 2010, n. 17902, cit., 3134 secondo cui “[…] l’art. 45, 12º comma, l. 18 giugno 2009 n. 69, […] ha
aggiunto un 3º comma all’art. 96 c.p.c., introducendo una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte,
sia dalla prova del danno causalmente derivato alla condotta processuale dell’avversario […]”. Nell’ambito della giurisprudenza di
merito, Trib. Bari, sez. III, 14 febbraio 2012, banca dati Leggi d’Italia; Trib. Piacenza, 15 novembre 2011, in Nuova giur. civ. comm.,
2012, 269, con nota di L. Frata; Trib. Pistoia, 20 gennaio 2011, in Riv. critica dir. lav., 2011, 513, con nota di L. Amoriello (“[…] Lo
strumento configurato dal comma 3 dell’art. 96 c.p.c. non ha natura risarcitoria, poiché altrimenti costituirebbe irragionevole
ripetizione delle disposizioni di cui ai commi 1 e 2 della stessa norma, ma rappresenta la generalizzazione del disposto dell’abrogato
ultimo comma dell’art. 385 c.p.c., e riveste funzione sia sanzionatoria, per il passato, che deterrente, per il futuro, nei confronti di
condotte processuali non sorrette dal minimo grado di diligenza tollerabile, tanto da non consentire che, nel bilanciamento degli
interessi in gioco, il diritto di difesa possa prevalere su quello a una ragionevole durata del processo […]”); Trib. Rovigo, sez. dist.
Adria, 7 dicembre 2010, www.altalex.com; Trib. Varese, 21 gennaio 2011, Merito extra 2011, 74.2 e 74.3 ed in Giur. mer., 2011, 2698,
con nota di G. Barreca; Trib. Varese, sez. Luino, 23 gennaio 2010, ord., in Foro it., 2010, I, 2229, con note di G. Scarselli e P. Porreca;
Trib. Piacenza, 7 dicembre 2010, in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, 435, con nota di R. Breda; Trib. Varese, sez. I civ., 30 ottobre
2009, in Giur. merito, 2010, 2, 431 e Resp. civ., 2010, 387 ss.; Trib. Prato, 6 novembre 2009, in Foro it., 2010, I, 2229, con note di G.
Scarselli e P. Porreca; Trib. Salerno, 9 gennaio 2010, Foro it., 2010, I, 1018, con nota di richiami di S. De Santi. Nel medesimo senso
si sono espressi, in dottrina, G. De Marzo, “Le spese giudiziali e le riparazioni nel processo civile”, cit., 397 ss.; L. Viola, “I danni
punitivi nella responsabilità civile della p.a. dopo il nuovo codice del processo amministrativo”, in Resp. civ., 2010, 806 ss.; G. Barreca,
“La responsabilità processuale aggravata: presupposti della nuova disciplina e criteri di determinazione della somma oggetto della
domanda”, in Giur. mer., 2011, 2704 ss.; M. Lupano, “La “nuova” responsabilità aggravata”, in Giur. it., 2011, 237 ss.; P. Nappi, in
Codice di procedura civile commentato a cura di C. Consolo, Milano, 2011, sub art. 96, spec. 1076, secondo cui sussistono gli estremi
per procedere alla condanna della somma equitativamente determinata a favore dell’opposto ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c. in
tutte le ipotesi in cui il processo sia instaurato senza valide ragioni e con condotte processuali unicamente volte ad ostacolare la
realizzazione del diritto del creditore mediante l’abuso del processo.
68
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862
dispone la condanna ex art.96 c.p.c., III comma, non già perché vi sia in concreto un danno da
risarcire, ma al solo scopo di punire la condotta dell’agente, di tal che l’altra parte non consegue un
ristoro, ma un vero e proprio guadagno.
Il problema, semmai, come parte della dottrina ha acutamente annotato69, è che
l’articolo in esame non contiene alcun riferimento alla mala fede o comunque all’elemento soggettivo
che connota (o dovrebbe connotare) la condotta dell’agente. La questione è stata risolta dalla
giurisprudenza70 precisando che, trattandosi di una pena privata finalizzata a sanzionare il
comportamento particolarmente riprovevole di colui che ha abusato dello strumento processuale, la
liquidazione, pur nel silenzio del Legislatore, non può prescindere dall’accertamento, da parte del
giudice71, dalla sussistenza dell’elemento soggettivo, ossia dal dolo o colpa grave che ha connotato il
comportamento processuale della parte soccombente72, come richiesto dal primo comma dell’art. 96
c.p.c. L’elemento soggettivo sarebbe, quindi, indispensabile, in quanto componente necessaria della
pena privata.
Sotto questo profilo, l’art. 96, comma 3, c.p.c., si porrebbe in una situazione di
continuità rispetto ai primi due commi della disposizione73 ed, anzi, proprio perché la previsione
introdotta dalla novella del 2009 assurgerebbe ad una finalità distinta rispetto a quella meramente
compensativa, sarebbe possibile il cumulo tra la condanna ex art. 96, comma 1 e comma 3, c.p.c.74.
69
F.D. Busnelli, E. D’Alessandro, op. cit.
Cfr. sentenze citate sub note 162 e 163.
71 Il che sembra implicare che anche l’accertamento dell’elemento psicologico avvenga ex officio. Una soluzione accettabile
considerando il limitato ambito di applicazione della norma alla condotta processuale scorretta.
72 Trib. Foggia, 28 gennaio 2011, in Giur. mer., 2011, 2698, con nota di G. Barreca (“[…] L’art. 96 comma 3 c.p.c. prevede una
sanzione pecuniaria irrogabile anche in assenza della prova di un pregiudizio effettivamente subito dalla parte a favore della quale è
pronunciata la relativa condanna. Ai fini dell’irrogazione della sanzione, si richiede che la parte soccombente abbia agito o resistito
in giudizio con mala fede o colpa grave […]”); Trib. Bari, 28 aprile 2010, in Foro it., 2011, I, 2171; Trib. Oristano, 17 novembre 2010,
ord., in Foro it., 2011, I, 2200, con nota di richiami di G. Carmellino. In dottrina, così G. Scarselli, “Il nuovo art. 96, 3° comma c.p.c.:
consigli per l’uso”, cit., 2237 ss. G. Balena, “La nuova pseudo-riforma del processo civile”, in Giusto proc. civ., 2009, 769; A.
Briguglio, “Le novità sul processo ordinario di cognizione nell’ultima, ennesima riforma in materia di giustizia civile”, in Giust. civ.,
II, 2009, 260 ss., spec. 270. Diversamente Trib. Catanzaro, 18 febbraio 2011, in Giur. mer., 2011, 2698, con nota di G. Barreca, ad
avviso del quale la norma dell’art. 96, comma 3, c.p.c. fornisce al giudice uno strumento sanzionatorio delle condotte tenute dalla parte
soccombente che, pur non configurate dall’elemento psicologico del dolo e della colpa grave, siano comunque rimproverabili alla luce
del principio di lealtà processuale. Sennonché in tal modo si finirebbe con l’affermare che l’art. 96, comma 3, c.p.c. pur essendo uno
strumento sanzionatorio prescinderebbe dalla necessità dell’elemento soggettivo, ossia della mala fede o della colpa grave dell’agente
(A. Carratta, “L’abuso del processo e la sanzione: sulle incertezze applicative dell’art. 96, comma 3, c.p.c.”, in Fam. e dir., 2011, 814
ss., spec. 818). Il che andrebbe persino aldilà dell’idea di danno punitivo, poiché si arriverebbe ad una sanzione senza dolo.
73 Trib. Rovigo, sez. dist. Adria, 7 dicembre 2010, www.altalex.com.
74 In questo senso si è espresso Trib. Piacenza,15 novembre 2011, cit., nella cui motivazione si precisa che la fattispecie di cui all’art.
96, comma 1, c.p.c. avrebbe un’applicazione residuale in quanto “[…] la Suprema Corte presuppone la prova di un danno non aliunde
risarcito […]”. Questa, peraltro, era la soluzione prevista dal c.d. disegno di legge Mastella per la razionalizzazione e l’accelerazione
del processo civile - cui si sono ispirati i lavori preparatori della l. n. 69 del 2009 - dove l’incipit del terzo comma dell’art. 96 c.p.c.
risultava così formulato “[…] nei casi previsti dai commi precedenti, il giudice condanna altresì […]” (art.13). Ad ogni modo il
problema del “cumulo” è marginale, poiché l’applicazione dell’art.96 c.p.c., 1° comma, è rara avis nell’esperienza giurisprudenziale,
proprio per le difficoltà legate alla prova del danno. Cosicché potrebbe perfino non risultare scorretto affermare che i due commi, pur
se formalmente concorrenti per via della (non felice) formulazione della novella, dovrebbero in verità essere letti come un’unica
fattispecie.
70
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863
10. La soluzione scelta dalla giurisprudenza ha il pregio di dare finalmente un senso
all’art.96 c.p.c. (nel suo complesso considerato), ma è certamente difficile da accettare per un giurista
di civil law.
Così si è tentato75 di riportare ancora una volta la previsione nell’alveo della
responsabilità aquiliana, sostenendo che il peculiare potere di condanna “anche d’ufficio”, ai sensi
dell’ultimo comma, sembrerebbe doversi riferire esclusivamente a quei danni non patrimoniali
(rectius, morali) che, imponendo una connessione stretta tra l’esigenza di tutela risarcitoria hic et inde
del danneggiato e l’esigenza di salvaguardia de futuro dell’interesse pubblico sottostante, reclamano
modalità di risarcimento rispondenti a “[…] una funzione mista nella quale la componente punitiva
prevale su quella solidaristica […]”76, cosicché il comma aggiunto all’art.96 c.p.c. sembrerebbe
doversi interpretare come uno dei “casi previsti dalla legge”, ai quali l’art. 2059 c.c. riserva “[…]
una limitata sfera di risarcibilità di danni aventi un connotato lato sensu punitivo […]”77.
Né può convincere l’orientamento, rimasto un unicum nel panorama giurisprudenziale,
per la quale l’art.96, 3° comma, c.p.c., costituirebbe un’ipotesi risarcitoria, ma il danno sarebbe da
considerarsi in re ipsa78 relativo a tutte a quelle attività inerenti il processo che non sarebbero
compensate dalla condanna alle spese giudiziali.
Queste tesi si risolvono nel semplificare la prova danno, ma non prescindono
comunque dalla sua esistenza, il che sembra ridurre solo al momento probatorio il potere di
liquidazione d’ufficio di cui all’art.96, 3° comma c.p.c., che così diventa l’inutile duplicato di quello
già previsto al 1° comma.
Ciò, che con il dato meramente letterale della norma, finisce con annullare il portato
innovativo della novella del 2009, finendo con renderla di marginale utilità pratica.
Se si ancora il riconoscimento di una somma ad un pregiudizio, esso deve, infatti,
esistere ed essere provato79, restando, ai fini che interessano, irrilevante se per questa prova sia
richiesto più o meno rigore o addirittura se essa sia da considerarsi automatica.
La vera novità, ed in questo senso ha colto perfettamente nel segno la sentenza del
Tribunale Civile di Roma in commento, è che la novella del 2009 consente al giudice di disporre un
75
F.D. Busnelli, E. D’Alessandro, op. cit.
M. Franzoni, “Il danno risarcibile”, Milano, 2004, 491.
77 F.D. Busnelli, “Deterrenza, responsabilità civile, fatto illecito, danni punitivi”, in Europa e dir. priv., 2009,
78 Trib. Oristano, decisione del 14 dicembre 2010, in Giur. mer., 2011, 2699, con nota di G. Barreca, laddove si è affermato che “[…]
La funzione dell’istituto di cui all’art. 96 comma 3 c.p.c. è quella di assicurare la riparazione di un danno che, secondo l’id quod
plerumque accidit, è normalmente collegato al-la celebrazione di un processo irragionevole, cioè il pregiudizio patito dalla parte
vittoriosa, per essere stata costretta a reagire all’iniziativa del tutto ingiustificata dell’avversario, attivandosi ed impiegando il proprio
tempo e le proprie energie per le valutazioni preliminari al contrasto processuale, per la scelta del difensore, per le successive
consultazioni con lo stesso e per la valutazione della linea difensiva, per il necessario approntamento del materiale difensivo, per la
stessa partecipazione al processo quando imposta o, comunque, intervenuta nell’esercizio delle facoltà processuali etc.; quindi per
attività non compensate dalla pronuncia sul rimborso delle spese giudiziali […]”.
79 Così, d’altro canto, la Cass. 1183/2007 cit.
76
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risarcimento in assenza (anche solo della mera affermazione) di un danno. Al giudice non viene
chiesto, infatti, di accertare d’ufficio l’esistenza di un pregiudizio e, quindi, risarcirlo, quanto di
reprimere con una sanzione una condotta processuale riprovevole.
Il potere ex officio del giudice, invece, va letto nel senso opposto, ossia in quello di
svincolare il risarcimento (rectius, la sanzione) da un pregiudizio patito – sia esso morale o
patrimoniale, sia da provare in pieno o sia in re ipsa – ed invece ancorarlo alla condotta riprovevole
dell’agente.
Altra dottrina ha annotato che “[…] anche ove lo si legga alla luce della qualificazione
prevalente in giurisprudenza, l’art. 96, comma 3, c.p.c. presenta un ‘difetto di fattura’, un vulnus,
essendo silente in ordine ai parametri di quantificazione della somma da liquidare a titolo
sanzionatorio […]”80.
Si tratta della stessa questione che, in altri termini, ha affrontato la giurisprudenza
americana, quando ci si è resi conto che l’assenza di elementi certi rischiava di produrre un effetto di
overdeterrence81 e, comunque, rischiava di aumentare il contenzioso, piuttosto che diminuirlo.
Questo secondo problema, in verità, non si pone con riferimento all’art.96 c.p.c., poiché
qui la sanzione non è accessoria ad un danno o ad un inadempimento tout court, ma solo ad una
condotta processuale scorretta e non è logicamente ipotizzabile che si inizi un giudizio confidando
nella condanna di controparte ex art.96 c.p.c.
Al di là di ciò, se pure il tema non va sottovalutato, non è condivisibile l’eccessivo
allarme che ne accompagna la presentazione, laddove si teme che il riconoscimento di un potere
discrezionale del giudice potrebbe tramutarsi in mero arbitrio. Come ha rilevato un’attenta
giurisprudenza, la mancata predeterminazione degli indici di liquidazione della sanzione prevista
dall’art. 96, comma 3, c.p.c. non costituisce violazione del principio di legalità, in quanto una simile
modalità di costruzione della norma assolve alla necessità di non vincolare il giudice a fronte di
situazioni che per la loro mutevolezza non possono essere previamente determinate ed alla necessità
di adeguare quanto più compiutamente il fatto concreto della norma astratta82.
Al proposito è interessante la soluzione adottata dal Tribunale di Milano nel c.d. caso
Rizzoli83, laddove ai fini della liquidazione della somma ex art.96, 3° comma, c.p.c., sono stati
80
F.D. Busnelli, E. D’Alessandro, op. cit. Gli Autori, citando Moravia, paragonano l’effetto prodotto dall’ultimo comma dell’art.96
c.p.c. a “[…] l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno […]”.
81 Cfr. paragrafo n.3.
82 Trib. Min. Milano, decr. 4 marzo 2011, in Fam. e dir., 2011, 809 con nota di A. Carratta. Il riferimento all’equity anglosassone pare
evidente. Un’altra è stata adottata da Trib. Oristano, 17 novembre 2010, ord., cit., che ha colmato la lacuna de qua utilizzando i
parametri di quantificazione del danno da violazione del diritto alla ragionevole durata del processo fissati dalla giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo.
83 L’imprenditore ed editore Angelo Rizzoli nel 2010 aveva intentato causa di risarcimento per i danni asseritamente subiti nella nota
vicenda della vendita della casa editrice, avvenuta nei primi anni ’80. La domanda è stata respinta con sentenza dell’11 gennaio 2012
e l’attore condannato ad un cospicuo risarcimento per lite temeraria.
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utilizzati84 tre criteri di valutazione equitativa: 1) il risarcimento del danno come riconoscimento
simbolico del valore attribuito all’interesse leso e come riconoscimento sul piano sociale della
ingiustizia della sua violazione85; 2) il parametro dell’ingiusto profitto del danneggiante come misura
essenzialmente sanzionatoria, diretta a impedire che l’autore dell’illecito possa farne propri i
vantaggi; 3) la scelta di una misura minima, diretta a impedire una ingiusta locupletazione del
danneggiato.
Ciò implica che, fermo restando che comminare una sanzione privata è riconducibile
ad un interesse latamente pubblico, nel concetto di punitive damages non si può dimenticare che il
risarcimento deve essere personalizzato, ovverosia che la condotta fraudolenta di una parte assume
(dis)valore proprio perché va a porsi in relazione con la sfera dei diritti dell’altra.
In questo senso, quindi, appare semplicistica l’affermazione del Tribunale Civile di
Roma per la quale la somma è riconosciuta al privato, pure se siamo di fronte alla tutela di un interesse
pubblico, solo perché ciò rende più certo il recupero e, quindi, concreta l’afflizione di chi la condanna
ha subito.
Rimane valida sul punto la lezione americana, laddove si è rilevato che l’interesse
protetto è misto, poiché alla funzione pubblica tipica della sanzione si accompagna uno scopo
“privato”, vale a dire premiare chi ha profuso impegno per affermare il proprio diritto86.
11. Il Legislatore del nuovo comma dell’art.96 è andato persino oltre rispetto
all’esperienza anglosassone. Negli U.S.A., infatti, i punitive damages sono una sanzione accessoria
rispetto ad un illecito (contrattuale o extracontrattuale) che nel giudizio è stato oggetto di
compensatory damages. Nel riformato art.96, invece, la sanzione può essere comminata a margine di
ogni controversia, abbia ad oggetto o meno l’accertamento di un illecito. Ciò discende dal fatto che
il 3° comma dell’art.96 c.p.c. è diretto unicamente a reprimere una condotta processuale scorretta,
mentre i punitive damages possono applicarsi ad ogni caso nel quale il danneggiante abbia agito con
malice.
Al di là di questa pur significativa differenza, il nuovo comma dell’art.96 prevede un
risarcimento che, prescindendo dall’esistenza di un danno, deve considerarsi punitivo sul modello
84
Secondo il giudice milanese “[…] equo appare commisurare almeno simbolicamente l’importo da corrispondere in ragione della
rilevata temerarietà della lite intentata alla entità dell’ingiusto profitto che l’attore intendeva ricavare dal presente giudizio e che si
ritiene pertanto di poter individuare nella pur minima misura complessiva dell’1% della domanda proposta dall’attore […]”
85 In dottrina si è parlato di una regolazione simbolica del conflitto come alternativa a una stima equitativa della sanzione, ritenuta
improponibile in quanto “la funzione sanzionatoria presuppone la certezza della pena, non già una reazione indeterminata o basata
su stime equitative” (G. Cricenti, “Persona e risarcimento”, Padova, 2005, 187 ss.) Sul punto anche C. Scognamiglio, “Danno morale
e funzione deterrente della responsabilità civile”, in Resp. civ. prev., 2007, 2498 s. Il fatto è che il principio di certezza della pena non
pare, per la verità, riferibile alla funzione sanzionatoria del danno che, pur se affine, non è analoga a quella penale. Si tratta di commenti
che scontano, comunque, il fatto di essere antecedenti alla riforma del 2009.
86 A. Sirotti Gaudenzi, op. cit.
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americano, posto che anche negli U.S.A. per ottenere i punitive damages l’attore non deve dimostrare
un (ulteriore) pregiudizio rispetto a quello oggetto di richiesta compensativa, ma soltanto il dolo o la
colpa grave della controparte.
Ci si può chiedere, non senza fondatezza, quale sia l’utilità dell’inquadramento della
nuova lite temeraria in una categoria che non ha nel nostro ordinamento una sua disciplina generale
che possa consentire di risolvere i dubbi interpretativi della disciplina speciale. Sebbene qualche utile
spunto in tal senso potrebbe pur sempre venire dall’analisi comparata, ricondurre l’art.96 c.p.c. nelle
categorie del common law svolge piuttosto la diversa funzione di dimostrare l’intrinseca debolezza
della tesi della Cassazione e, di conseguenza, il fatto che in Italia sia possibile parlare e addirittura
proporre l’introduzione dei danni punitivi senza che questo costituisca motivo di vulnus per l’ordine
pubblico.
L’importazione dei punitive damages nel nostro ordinamento, con tutte le cautele del
caso, contribuirebbe a riaffermare la funzione di deterrenza che è propria anche della responsabilità
civile italiana e che, come visto in precedenza, ha subito nel tempo un processo di elisione. In dottrina
si è posto in luce che lo stesso fine potrebbe essere realizzato mediante alcune norme del diritto
vigente, intervenendo, ad esempio, sul nesso di causalità, sul numero delle lesioni considerate
risarcibili, sulla posizione processuale del danneggiato87. Per quanto simili riforme sono senza dubbio
auspicabili, resta sul tavolo il fatto che attraverso i punitive damages non si intende risarcire uno
specifico pregiudizio effettivamente patito dal danneggiato, quanto piuttosto punire la malice
dell’agente, scopo che appare difficilmente realizzabile con gli attuali strumenti dell’ordinamento
italiano88.
Si tratta di temi che ovviamente richiederanno un ulteriore approfondimento e sui quali
la giurisprudenza di legittimità dovrà senza dubbio pronunciarsi ancora. Sarebbe auspicabile, anzi,
che la dottrina “riprendesse in mano il timone e avesse il coraggio di indicare la strada da seguire al
giudice e al Legislatore”89.
Resto, però, il fatto che ad oggi nell’ordinamento italiano esiste un’ipotesi di punitive
damages, tanto che persino gli Autori che guardano con maggiore cautela al fenomeno hanno
87
Così F.D. Busnelli, S. Patti, op. cit., pag.280-281. Secondo gli Autori, una significativa spinta in tal senso arriva dal diritto
comunitario. La direttiva sulla sicurezza dei prodotti, ad esempio, “[…] ha inteso prevenire il danno e rappresenta pertanto un modello
da seguire in un ordinamento moderno che mira non soltanto a ristabilire l’equilibrio tra danneggiante e danneggiato ma, anche
attraverso gli strumenti del diritto civile, cerca di evitare che il danno si verifichi […]”.
88 In questo senso “[…] un’indicazione di grande interesse proviene dall’Avant-projet di riforma del Code civil […]”, dove uno dei
nuovi articoli “[…] introduce espressamente i danni punitivi: l’art.1371 stabilisce, infatti, che in caso di prova di una ‘colpa
deliberata’, precisamente di una ‘colpa lucrativa’, cioè che mira ad ottenere un vantaggio economico, è possibile il risarcimento dei
danni punitivi. Si precisa che la sentenza di condanna deve contenere una motivazione specifica sul punto, e deve distinguere la
condanna ai danni compensativi da quella ai danni punitivi; come pure che questi ultimi non possono costituire oggetto di un contratto
di assicurazione, poiché altrimenti verrebbe meno la funzione deterrente […]” (F.D. Busnelli, S. Patti, op. cit.)
89 Si tratta di “un insegnamento e un monito di Rodolfo Sacco”, ripreso da F.D. Busnelli, S. Patti, op. cit., p. 282.
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affermato che “[…] il muro della contrarietà all’ordine pubblico, apoditticamente eretto per
sbarrare l’accesso (non solo a vere e proprie pene private, ma addirittura) a danni lato sensu
punitivi, […] continua dunque a resistere. Ma i recenti fermenti giurisprudenziali propiziati da norme
di nuovo innesto nel codice di procedura civile, come l’art. 709 ter e l’art. 96, comma 3, lasciano
presagire che il muro è destinato prima o poi a cadere […]”90.
Insomma, il tempo dei danni punitivi potrebbe essere prossimo anche in Italia.
90
F.D. Busnelli, E. D’Alessandro, op. cit. Gli Autori, come chiarito in precedenza, sostengono che l’art.96, 3° comma, c.p.c.,
costituirebbe pur sempre un’ipotesi risarcitoria, ma che il pregiudizio riparato sarebbe latu sensu punitivo, in quanto riferibile
all’art.2059 c.c.
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