A. Giannaccari - Il caso latti per l’infanzia
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IL CASO LATTI PER L’INFANZIA commenti a margine del Provvedimento n. 14775 del 12 Ottobre 2005
dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato
[caso I623, “Prezzi del latte per l’infanzia”]
A. GIANNACCARI 1
A. Giannaccari - Il caso latti per l’infanzia
NOTA CERM 03/2006
in corso di pubblicazione su “Mercato Concorrenza Regole”
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1. Introduzione Con la decisione in epigrafe l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha concluso l’istruttoria relativa al cosiddetto ‘caro latte (per l’infanzia)’, rilevando l’esistenza di comportamenti collusivi tra i principali produttori di alimenti per neonati: l’attenzione dell’authority si è infatti appuntata sulle ragioni che favoriscono, nel quadrante italiano, l’alterazione delle normali dinamiche di mercato, con definizione di prezzi a livelli assai superiori rispetto agli omologhi prodotti europei. La decisione, sfociata nella censura delle pratiche concordate e nell’irrogazione di rilevanti sanzioni (complessivamente pari a circa dieci milioni di Euro), offre il destro per abbozzare alcune considerazioni a margine, non senza una qualche cautela, anche sull’operato dell’Autorità. Un breve richiamo alla vicenda è utile per inquadrare il problema. Tutto inizia nel maggio del 2003, a seguito delle denunce presentate all’AGCM da parte di alcuni consumatori, i quali lamentavano l’eccessività dei prezzi dei latti per l’infanzia commercializzati in Italia rispetto a quelli applicati negli altri paesi europei. Dopo circa un anno, e a seguito di un’indagine preliminare, l’Autorità avviava l’istruttoria – nei confronti di quindici società – nel tentativo di dimostrare che il livello dei prezzi era sostanzialmente ascrivibile ad una condotta concertata tra le parti. 2. La spessa degli utenti in latte per l’infanzia: il prezzo è giusto?
Il primo nodo da sciogliere era ovviamente relativo alle caratteristiche e alla strutturazione del mercato. In proposito, l’Autorità individuava tre mercati distinti – i latti di partenza, di proseguimento e speciali – con un’estensione geografica limitata al territorio nazionale: l’assenza di sostituibilità veniva principalmente associata alle diverse esigenze alimentari alle quali sono destinati i latti per l’infanzia e, per l’ambito territoriale, alle differenti regolamentazioni ed etichettature adottate a livello nazionale. L’AGCM metteva inoltre in rilievo che, nell’ambito dei diversi canali distributivi –farmacie, grande distribuzione organizzata (GDO) e catene di negozi specializzati–, i produttori di alimenti per l’infanzia erano ricorsi principalmente al settore farmaceutico, con un’incidenza almeno pari al 60% delle vendite, ma in progressiva diminuzione nel quinquennio di riferimento (2000‐
2004). Tuttavia, il dato più interessante (e incontrovertibile) emerso dalle risultanze istruttorie attiene proprio alla comparazione dei prezzi di vendita: i prezzi dei latti per l’infanzia (in particolare, per i latti di partenza e di proseguimento), rilevati nel nostro paese, sono di gran lunga superiori rispetto a quelli applicati negli altri paesi europei. Più precisamente, è emerso che i differenziali tra i prezzi italiani e quelli esteri, distribuiti attraverso il canale farmaceutico, presentano maggiorazioni comprese tra il 100% e il 300%, con punte prossime al 350%. Il dato assume contorni di particolare gravità se si considera che non solo sussiste una completa fungibilità tra i prodotti venduti in Italia e quelli, dello stesso gruppo, messi in commercio all’estero (come è stato candidamente ammesso da diverse case produttrici); ma anche che tra prodotti di aziende differenti non corrono differenze qualitative tali da far preferire un alimento rispetto ad un altro. A tal proposito, la constatazione che tali alimenti devono rispettare standard fissati dal Ministero della Salute e che le strutture sanitarie decidono la somministrazione del prodotto in modo indipendente dalla marca corrobora le lagnanze dei consumatori circa l’iniquità (comparata) dei prezzi. Morale spicciola: nel quinquennio 2000‐2004 si sono registrati prezzi talmente elevati da non trovare 3
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giustificazione –a dispetto di quanto sostenevano le parti a gran voce– nella minore redditività del mercato nostrano e nemmeno nella struttura dei costi delle diverse società. 3. L’iter logico dell’Autorità
Ben più complesso appariva l’iter logico seguito dell’Autorità per provare la concertazione. Nell’ampio catalogo delle condotte suscettibili di generare effetti anticompetitivi, le pratiche vocazionalmente deputate ad elevare i prezzi a carico dell’utenza finale si candidano quali obiettivi privilegiati della repressione antimonopolistica. Le pratiche concordate, pur non formalizzate in accordi espliciti, rientrano indubitabilmente nella categoria; nondimeno, di là dall’allineamento dei prezzi su valori inopinatamente elevati, è necessario provare l’esistenza di una volontà comune chiaramente volta all’illecito. In proposito, il ragionamento (censorio) dell’Autorità garante ha fatto leva sullo scambio di informazioni, avvenuto sia direttamente che indirettamente. Quanto al primo, la prova del coordinamento è stata desunta dalla riduzione dei prezzi applicati dalle imprese, a seguito dell’invito espresso in tal senso dal Ministro della Salute. Nel 2004, infatti, lo stesso Ministro aveva convocato a più riprese le società, sollecitando un intervento deflativo sui prezzi in misura (almeno) pari al 10%, e minacciando, in caso contrario, l’adozione di provvedimenti sanzionatori. La successiva diminuzione dei prezzi, sebbene prossima alla soglia indicata dal Ministro, non sembra tuttavia sufficiente a dimostrare l’intento concertativo. In altri termini, distillare la volontà comune dalle riunioni presso il Ministero, nelle quali sia l’Ufficio giuridico dello stesso Ministero, sia le aziende erano consapevoli dei rischi anticompetitivi di una riduzione dei prezzi di eguale ammontare, per di più realizzata in momenti e quantità differenti, non aiuta a dare spessore alla concertazione. In ogni caso, avendo efficacia ex nunc, appare inidonea a provare la collusione nel quinquennio precedente. L’illiceità di una condotta avvenuta in passato andava suffragata diversamente. In effetti, l’altro torno argomentativo, lo scambio indiretto di informazioni, ha poggiato sulla presunzione che i produttori potessero coordinarsi attraverso la fissazione, e successiva comunicazione alle farmacie, dei prezzi di vendita consigliati al pubblico. Sotto questo profilo, l’Autorità, oltre a rilevare che i listini delle società erano inseriti in apposite banche dati e quindi accessibili per i concorrenti, ha posto enfasi sul fatto che, attraverso la detrazione del margine dei farmacisti (pari circa al 25%), fosse possibile risalire ai prezzi di cessione degli alimenti ai distributori. Anche nel caso in cui i produttori non fossero stati abbonati ad una banca dati, l’attività di intelligence commerciale condotta sul territorio (i.e. presso le farmacie) consentiva di rilevare i prezzi (consigliati e) applicati al pubblico: scomputando il mark‐up dei farmacisti era parimenti agevole risalire ai prezzi di cessione dei concorrenti ai distributori. Dunque, sosteneva l’Autorità, la fissazione e comunicazione dei prezzi consigliati rappresentavano le modalità per scambiarsi (indirettamente) le informazioni e controllare le reciproche strategie di prezzo: la prassi, unita ai contatti diretti intercorsi durante le riunioni avvenute nel 2004, appariva sufficiente a provare l’esistenza dell’intesa restrittiva nei mercati dei latti di partenza e proseguimento, non per i latti speciali per i quali non era stato possibile rintracciare analoghe evidenze. La compartimentazione del mercato italiano e l’ingessatura dei prezzi su livelli elevati facevano conseguentemente scattare l’art. 81 del Trattato UE e l’imposizione delle sanzioni. 4
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4. Considerazioni conclusive
Sulla base dei rilievi sin qui appuntati, c’è appena lo spazio per operare alcune telegrafiche osservazioni. Anzitutto, per chiedersi se le modalità con le quali la concertazione ha avuto luogo, con particolare riferimento allo scambio indiretto di informazioni, siano state effettivamente provate dall’Autorità. Certo, il meccanismo favoriva la trasparenza del mercato e l’ipotetico coordinamento indiretto delle società, ma non senza la ‘collaborazione’ del canale farmaceutico. Proprio il settore farmaceutico, non a caso scelto dalla più parte dei produttori quale canale primario di distribuzione degli alimenti per l’infanzia (chi ha optato per la traiettoria alternativa della grande distribuzione è sfuggito ai rigori della repressione antitrust), rappresenta uno dei comparti nei quali appare fondamentale introdurre principi di concorrenza. Ciò si evince (anche) dal caso in esame: se ci fosse stata concorrenza di prezzo tra le farmacie, e non l’applicazione di un margine sostanzialmente predeterminato, sarebbe riuscito più complesso per i produttori risalire ai prezzi di cessione degli alimenti. Tanto più che l’indicazione di un prezzo consigliato al pubblico non costituisce di per sé prassi illecita: alle farmacie non è fatto obbligo alcuno di attenersi ai prezzi consigliati dai produttori, così come non ‘sembra esistere’ divieto di applicare sconti o di definire autonomamente i prezzi al pubblico. E tanto meno di applicare adesivamente un margine che consenta ai produttori di risalire ai prezzi di cessione (in tal caso) degli alimenti per l’infanzia. A mò di amarcord del comparto, è opportuno allora ricordare che la stessa Autorità garante aveva pubblicato nel 1997 “L’indagine conoscitiva nel settore farmaceutico” (cfr. Provvedimento n. 5486, IC14, in Bollettino n. 9/1998) caldeggiando l’introduzione della concorrenza e la liberalizzazione dei prezzi finali. Fenomeni di parallelismo nelle politiche di prezzo o di concertazione collusiva tra i produttori, ampiamente riscontrati anche in passato, sarebbero stati efficacemente ridotti qualora si fosse assistito ad un nuovo corso: la progressiva liberalizzazione dei prezzi al pubblico e la concorrenza tra i vari punti vendita. I guadagni di efficienza nella rete di distribuzione, anche attraverso criteri di selezione dei fornitori, avrebbero consentito di ridurre la spesa privata in farmaci, favorendo il passing on all’utenza finale. La vicenda in esame, tuttavia, ha dimostrato una volta di più che la strutturazione del canale farmaceutico comporta ancora una concorrenza del tutto ipotetica e disincentiva il ricorso a meccanismi di distribuzione alternativi. La concorrenza di prezzo nel mercato a valle, tra le farmacie, avrebbe invece contribuito a ridurre la trasparenza del mercato, così come la possibilità di concertazione tra i produttori di latte. Nel nostro caso, al contrario, alla sostanziale ingessatura del mercato a valle si è aggiunta l’assenza di concorrenza sulla qualità dei prodotti. Pertanto, la liberalizzazione del settore, con la conseguente fissazione di prezzi differenti sul territorio, si candida quale strumento privilegiato (anche) per scardinare condotte collusive tra i produttori, che appaiono difficili da provare sulla scorta di meri elementi indiziari. Ciò apre la strada ad un altro profilo critico: l’Autorità, per individuare l’accordo anticompetitivo, sottraendolo al novero delle fattispecie di allineamento lecito, ha cercato di accreditare il riscontro di un mercato oligopolistico: un ambiente caratterizzato dalla presenza operativa di pochi soggetti è propizio al dispiegarsi di un coordinamento illecito. L’attenzione è stata quindi rivolta a sette società –Humana, Plada, Nestlé, Nutricia, Milupa, Humana e Milte– le quali, in ragione dei legami societari, consentivano di individuare quattro soggetti; le relative quote di mercato congiunte, pari circa al 70%, sono apparse ulteriori elementi per restringere il contesto di riferimento. Altre imprese, che avevano posto in essere condotte simili a quelle censurate, sono state considerate estranee all’intesa, adducendo lo scarso peso competitivo. Sennonché, a parte la bizzarria di un’assoluzione ‘quantitativa’ per comportamenti identici a quelli giudicati illeciti, l’asimmetria tra le società attive in uno stesso mercato avrebbe potuto rappresentare un elemento tale da far vacillare l’impianto censorio: il 5
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coordinamento e l’eventuale punizione in caso di deviazione dagli accordi sarebbero stati più complessi da rintracciare in presenza di un numero più elevato di soggetti. Al contrario, evitare di caratterizzare alcune società quali fringe competitors rendeva l’impianto dell’Autorità più solido, in linea con la teoria economica. In conclusione, l’evidenza del caso è data dall’esistenza di un prezzo (oligopolistico) elevato, soprattutto se confrontato con la migliore pratica europea, nonché dalla strutturazione di un mercato impermeabile ai crismi della concorrenza e nel quale un parallelismo consapevole tra i produttori appare esito ‘naturale’. La domanda, ancora in cerca di una risposta affidante, è se l’architettura concettuale costruita dall’Autorità sia sufficiente a provare la collusione tacita dei produttori, anche perché le modalità con le quali il mercato è stato ritagliato, togliendo dal giro numerose società (obiettivamente minori, ma) responsabili dello stesso tipo di condotte, rischiano di rivelarsi strumentali all’individuazione dell’intesa collusiva. Ma su questi punti sarà presumibilmente chiamato a pronunciarsi il TAR del Lazio. 6
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