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La base legislativa del diritto del lavoro
Oltre che sulla contrattazione collettiva, il diritto del lavoro ha sempre puntato
sulla legislazione statale che ne costituisce, invero, l’ossatura fondamentale (si
pensi, ad esempio, al c.d. “Statuto dei lavoratori”, l. n. 300/1970).
Tuttavia il panorama della legislazione lavoristica è molto intricato, e solo in
minima parte ha contribuito a semplificarlo l’avvento di alcuni “testi unici” (nel
diritto italiano per testo unico si intende una raccolta delle norme che
disciplinano una determinata materia, che veniva approvato con decreto del
Presidente della Repubblica (D.P.R.) sino al 1988, ma dopo la legge n. 400 del
1988 con Decreto legislativo, e sempre previa Legge delega) su materie di
rilievo come la tutela della salute e sicurezza, la disciplina della maternità e della
paternità, le pari opportunità tra uomo e donna, il lavoro pubblico.
Da ultimo il livello della normazione ha subito uno scadimento a causa della
prassi di inserire norme di settore, anche di diritto del lavoro, in maxi
provvedimenti (si pensi ai collegati alle leggi finanziarie) , con conseguenti gravi
problemi di conoscibilità delle norme.
Alla luce di ciò è stata avanzata l’idea di un nuovo Codice del lavoro,
proposto da Pietro Ichino, in una prospettiva di semplificazione radicale
della normativa.
Altra problematica è quella del sempre più frequente riscorso ai decreti
legislativi, emanati sulla scorta di leggi delega spesso carenti sotto il profilo della
specificità dei principi e dei criteri direttivi: il rischio è quello di una sostanziale
espropriazione, da parte del governo delle prerogative parlamentari a
detrimento della trasparenza democratica.
La legge regionale …..
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Se nel testo originario dell’art. 117 della Costituzione, non v’era dubbio che il
diritto del lavoro fosse di competenza esclusiva dello Stato, alla luce della
riforma “federalista”, approvata con legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.
165, si è creata una deprecabile situazione di incertezza sulla futura
ripartizione delle competenze normative nella materia del diritto del lavoro
• Vi è la distinzione tra tre categorie di materie:
a) di competenza statuale esclusiva (art. 117, comma 2, Cost.), come la politica
estera;
b) di potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni, con competenza
statuale sulla delineazione dei principi fondamentali e normativa di attuazione
lasciata alle Regioni (art. 117, comma 3, Cost.);
c) di competenza regionale esclusiva, cioè tutte quelle non comprese nelle
categorie sub a) e sub b) (art. 117, comma 4, Cost.); nel regime precedente,
invece, la competenza residuale era in capo allo Stato.
• Sono rintracciabili espressioni che fanno riferimento a materie o istituiti del
diritto del lavoro in seno alle declaratorie di ciascuna delle categorie richiamate:
- art. 117, comma 2, lett. l): spetta alla competenza esclusiva dello Stato la
normazione in tema di ordinamento civile (ove si consideri che il diritto del
lavoro fa parte del diritto civile, si deduce che il legislatore abbia inteso
riservare allo Stato la competenza esclusiva in diritto del lavoro);
…..La legge regionale
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art. 117, comma 2, lett. m): spetta alla competenza esclusiva dello Stato la
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali, da garantire su tutto il territorio nazionale (non solo i diritti
all’istruzione ed alla saluta ma anche i diritti connessi alla condizione di
lavoratore);
art. 117, comma 3: la materia della salute e sicurezza del lavoro è
regionalizzata, fatta salva la determinazione dei principi fondamentali, riservata
alla legislazione dello Stato.
Sebbene la possibilità di una regionalizzazione integrale o quasi del diritto del
lavoro aveva suscitato preoccupazione, ciò non toglie che l’istanza di una
maggiore aderenza della normazione alle esigenze specifiche delle varie realtà
territoriali, sia pure all’interno di una cornice nazionale, abbia un fondamento
sempre più riconosciuto.
Tuttavia, la lettura che si è imposta in dottrina esclude un decentramento forte in
virtù della riconduzione del diritto del lavoro alla nozione di ordinamento civile
(competenza esclusiva dello Stato) e, parallelamente, di una lettura riduttiva
dell’espressione “tutela e sicurezza del lavoro”, circoscritta gli istituti del mercato
del lavoro (tra cui, quello più regionalizzato, è l’apprendistato”).
I regolamenti – Le Autorità indipendenti
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Il peso dei regolamenti governativi in materia di diritto del lavoro si è solo
recentemente accresciuto, in funzione di esecuzione e specificazione della
normativa legale: accade, oramai di frequente, che le leggi non disciplinino tutti
gli aspetti delle materie da esse toccate, ma rimandino una parte di tali
discipline a regolamenti, da adottarsi da parte del governo (D.P.R.), del
Presidente del Consiglio dei Ministri (d.p.c.m.) o di singoli ministri (d.m.).
È ascrivibile al medesimo fenomeno l’accresciuto peso delle circolari e delle
risposte ad interpello, prodotte dal Ministero del Lavoro, che se per alcuni versi
è foriero di maggiori e positive certezze per gli operatori, dall’altro comporta il
rischio di sovrapposizioni tra il ruolo del legislatore e dell’interprete.
Le Autorità indipendenti sono organismi istituiti per assolvere a varie funzioni di
regolazione dei mercati.
Si segnala, in materia di diritto del lavoro, la Commissione di garanzia per
l’attuazione della legge 12 giugno 1990, n. 146”, istituita dalla legge omonima
(artt. 12 e ss.) per la regolamentazione degli scioperi nei servizi pubblici
essenziali, in particolare per l’elaborazione di regole limitative di questi scioperi.
È altresì importante il Garante per la protezione dei dati personali, i cui
provvedimenti integrano la normativa di tutela della privacy, e riguardano spesso
i lavoratori subordinati.
Il contratto collettivo
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Anche chi nega la riconducibilità del Contratto collettivo al sistema formale delle
fonti del diritto del lavoro non può non dare atto che in un’accezione
sostanzialistica del termine di fonte, il contratto collettivo ha pieno titolo ad
essere considerato tale.
Per una più ampia ed esaustiva trattazione della tematica si rimanda alla
trattazione sul diritto sindacale.
Il diritto del lavoro internazionale ed europeo
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Le norme di diritto internazionale, in forza dell’adesione dell’Italia a Trattati e/o
Convenzioni devono essere applicate dal paese: è anche questo il caso del
diritto comunitario, quel diritto, cioè, promanante da quell’organismo a cui l’Italia
appartiene sin dalla fondazione, ossia l’Unione Europea, già Comunità Europea.
L’applicazione di norme di diritto internazionale, tuttavia, è frutto dell’assunzione
di obblighi specifici da parte dello Stato, ai sensi dell’art. 10, c. 1, della Cost. –
secondo cui “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute” – e non è mai un’applicazione
diretta.
In materia di lavoro rientrano tra le norme in discorso “La Dichiarazione
Universale dei Diritti dell’Uomo” adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il
10 dicembre 1948; la “Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali” (CEDU), sottoscritta Roma il 4 novembre
1950: tuttavia tali norme sono rapportate a livelli minimali di protezione, ragion
per cui, in aggiunta alla menzionata carenza di efficacia diretta, la loro esistenza
viene spesso dimenticata.
Assai maggiore, invece, è l’importanza del diritto dell’Unione Europea per la
loro diversa capacità di incidenza nell’ordinamento interno nazionale: alcune
norme di diritto europeo possono avere un’efficacia diretta nell’ordinamento
italiano e persino prevalente su norme interne difformi.
Il diritto sociale europeo: genesi e sviluppo
• La Comunità Europea è stata istituita, il 23 marzo 1957, con il Trattato di Roma
che si è proposto l’obiettivo della creazione di uno spazio commerciale comune in
cui merci, capitali e lavoratori potessero circolare e dunque competere
liberamente: la ratio originaria della Comunità Europea è, pertanto, puramente
mercantilistica.
• La creazione di un modello sociale europeo non rientrava tra le finalità
originarie della Comunità. Il Trattato, nella sua versione originaria, conteneva solo
due norme: l’art. 45 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea)
stabilisce il principio di libera circolazione dei lavoratori privati – si pensi alla
sentenza Bosman della Corte di Giustizia che ha sancito la libertà di
spostamento all’interno dell’Unione dei calciatori comunitari – nonché l’art. 135
TFUE sulla parità di retribuzione tra uomini e donne sul lavoro, inserita, tuttavia,
non tanto per una preoccupazione di tipo sociale quanto per proteggere la libertà
di concorrenza all’interno del mercato comune, condizionata, in buona parte,
dalle differenze nei costi di lavoro.
•La norma ha così acquisito un rilievo sociale pur essendo animata, di fatto, da
una finalità di natura economico – commerciale: per questa via, tuttavia, il diritto
sociale europeo ha cominciato a svilupparsi ed a vivere di vita propria.
• Oggi, i temi toccati dalla direttive di c.d. “armonizzazione sociale” sono svariati
ed importanti: licenziamenti collettivi; diritto dei lavoratori in caso di trasferimento
di imprese; parità tra uomo e donna; tutela della salute e sicurezza sul lavoro
I diritti sociali fondamentali
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La costruzione istituzionale europea è oggi fondata su due Trattati, con il
medesimo valore giuridico: il Trattato sull’Unione Europea (TUE) e il Trattato sul
funzionamento dell’Unione Europea.
Essi definiscono gli obiettivi generali delle politiche europee, le prerogative
istituzionali degli organi dell’Unione Europea e il riparto di competenze tra Stati
ed Unione: manca una Costituzione dei diritti europea.
Un passo importante è stato rappresentato dall’adozione della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europeo, Carta di Nizza del 7 dicembre 2000, che
rappresenta un mero elenco solenne di principi.
L’art. 6, comma 1, TUE, ha completato il processo di integrazione della Carta di
Nizza nelle fonti comunitarie: “L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi
sanciti nella carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre
2000…che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati”.
Tale riconoscimento è di notevole rilevanza, atteso come le norme del Trattato
in quanto di immediata applicazione nel diritto interno, prevalgono (c.d. primato
del diritto europeo) sulle norme interne difformi, che devono di conseguenza
essere disapplicate dal giudice nazionale.
Difatti nel momento in cui le previsioni della Carta acquisiscono il medesimo
rango delle norme del Trattato, il Giudice nazionale potrebbe farne
un’applicazione diretta, dando così luogo ad una sorta di controllo diffuso
esercitabile dai singoli giudici, senza dover passare dalla Corte Costituzionale.
I diritti sociali pertinenti al lavoro
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Nella Carta di Nizza ne individua diversi tra cui il generalissimo principio di tutela
della dignità umana (art. 1) che riverbera nel divieto della schiavitù e del lavoro
forzato (art. 5).
Nel capo II “Libertà” risaltano l’art. 15 che prevede la libertà professionale ed il
diritto di lavorare e l’art. 16 sulla libertà di impresa.
Nel capo III, “Eguaglianza”, campeggia l’art. 20, che prevede il principio di
eguaglianza formale dinanzi alla legge, cui fanno riscontro il generale divieto di
discriminazione (art. 21) ed il principio di parità tra uomini e donne in tutti i campi
e segnatamente “in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione”.
I diritti contenuti nella Carta di Nizza, tuttavia, non possono andare a discapito di
quelli contenuti nelle Costituzioni degli Stati membri: per tenere assieme
tradizioni diverse occorreva attestarsi su un denominatore comune, pertanto si è
optato per riconoscere a tale livello i diritti che rappresentano il nucleo
fondamentale del patrimonio giuridico europeo.
La politica sociale europea
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L’art. 151 TFUE contiene l’enunciazione degli obiettivi fondamentali dell’UE: “L’Unione
e gli Stati Membri, tenuti presenti i diritti sociali fondamentali (…) hanno come obiettivi
la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro
(…) il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a conseguire un livello
occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione”.
La proclamazione delle finalità sociali consente di ritenere superato il c.d. vizio
d’origine (“mercantilistico”) del diritto europeo: tali obiettivi, tuttavia, devono essere
contemperati con la necessità di mantenere alta la competitività dell’economia
dell’Unione, ergo con l’istanza economica.
L’azione europea deve, dunque, cercare di tenere insieme gli obiettivi di protezione
sociale con quelli di efficienza, secondo una logica profondamente diversa rispetto a
quella classica del diritto del lavoro, orientata soltanto alla protezione dei diritti dei
lavoratori.
Tali obiettivi possono essere conseguiti attraverso politiche che competono tanto agli
Stati nazionali tanto alla stessa Unione a mezzo dei propri organi istituzionali:
occorre, pertanto, stabilire i criteri di ripartizione delle rispettive competenze.
A tal proposito distinguiamo i principi di attribuzione e di sussidiarietà, in base ai quali
rispettivamente l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le
sono attribuite dagli Stati Membri e nei settori di propria esclusiva competenza
interviene solo se e quando gli obiettivi dell’azione prevista non posso essere
conseguiti dagli Stati Membri ma possono esserlo meglio a livello di Unione.
Le direttive
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Nell'ambito del diritto comunitario viene detto Direttiva dell'Unione Europea
uno degli atti che il Parlamento europeo congiuntamente con il Consiglio e la
Commissione può adottare per l'assolvimento dei compiti previsti dal Trattato
che istituisce la Comunità Europea.
“La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato
da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito
alla forma e ai mezzi” (art. 288 TFUE, 3° comma)
L'elemento principale della direttiva è, pur essendo un atto vincolante, la portata
individuale che la contraddistingue dal regolamento, invece generale: i
destinatari dell'atto normativo sono un singolo o un numero definito di stati
membri, anche se non sono mancate cosiddette direttive generali rivolte a tutti
gli stati. Il fine principale di questa fonte del diritto comunitario è l'avvicinamento
degli istituti giuridici riguardanti date materie tra gli Stati dell'Unione.
La direttiva è obbligatoria in tutti i suoi elementi, proprio come i
regolamenti, ma lascia spazio all'iniziativa legislativa di ogni stato cui è
diretta: pertanto è obbligatorio il principio e il fine fissato in ambito
comunitario, ma poi lo stato ha la facoltà di disciplinare la materia coi
mezzi che ritiene più idonei (obbligo di risultato). La libertà dello stato non è
assoluta in quanto deve garantire l'effetto voluto dalla Comunità, se ad esempio
deve modificare una materia disciplinata da fonti primarie (leggi e atti aventi
"forza di legge") non può farlo attraverso fonti regolamentari.
Le direttive
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In materia di diritto sociale europeo, un ruolo importante è affidato alle
associazioni sindacali europee che aggregano le rispettive associazioni
nazionali (Ceep per i sindacati dei lavoratori e Unice per gli imprenditori): prima
di presentare proposte nel campo della politica sociale la Commissione consulta
le parti sociali a livello europeo le quali posso manifestare la volontà di
addivenire, entro 9 mesi, salvo proroghe, alla stipulazione di un accordo
collettivo sulla materia oggetto della possibile direttiva.
Tale accordo può mantenere o lo status di contratto o, su richiesta congiunta
delle parti firmatarie, può essere versato in una direttiva formale.
Importanti direttive sociali come quelle sui congedi parentali, sul part time o sul
contratto a tempo determinato sono state precedute da accordi quadro stipulati
tra le associazioni sindacali europee.
L’efficacia della direttiva non è di tipo orizzontale, ossia non è efficace nei
rapporti tra privati, ma è di tipo verticale, nel rapporto tra cittadini e rispettivi
Stati, a condizione, però che le prescrizioni delle direttive siano chiare precise e
vincolanti (c.d. direttive self executing).
L’efficacia verticale non riguarda quasi mai le questioni del diritto del lavoro che
si svolgono sul rapporto privatistico lavoratore – datore di lavoro: il percorso
normale di una direttiva è che questa sia recepita dello Stato nazionale tramite
una legge dello Stato che rimane sovrana in ordine ai mezzi migliori per
perseguire i fini indicati dalla direttiva stessa.
Le direttive
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L’art. 153, comma 3, TFUE riserva un ruolo significativo alla parti sociali,
giacché prevede che uno Stato membro affidi ad esse, su loro richiesta
congiunta il potere di recepire una direttiva tramite un contratto collettivo.
Nell’ordinamento italiano, tuttavia, questa tecnica di ricezione non ha potuto,
sinora essere utilizzata; e ciò in quanto il contratto collettivo non dispone di
un’efficacia erga omnes, a causa della non attuazione dell’art. 39, seconda
parte della Cost., il che impedisce di ricorrere a tale procedura che presuppone
che l’accordo collettivo di ricezione possa essere efficace nei confronti di tutti i
soggetti appartenenti ad un dato ambito di riferimento.
L a politica europea per l’occupazione
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È stata istituita una “Strategia Europea per l’Occupazione” che prevede la
presentazione annuale da parte di ciascun Stato membro di Piani nazionali per
l’occupazione, seguita da una discussione a livello europeo per valutare i risultati
conseguiti da ciascun Stato ed individuare le soluzioni di maggio successo (best
pratice).
• La Strategia è basata non già su una integrazione normativa in senso classico (hard
law), bensì su un metodo di coordinamento aperto (soft law) che si fonda
sull’indicazione di criteri guida dell’azione comune e su strumenti non coercitivi di
pressione politica.
• Nel merito la politica occupazionale europea è basata sui seguenti quattro pilastri cui
deve ispirarsi l’azione dei singoli Stati:
1) occupabilità, per promuovere la quale gli Stati sono sollecitati a promuovere la
formazione e la qualificazione della forza lavoro, onde rendere i lavoratori, appunto,
“occupabili”;
2) adattabilità, sinonimo europeo di flessibilità, col quale è rimarcata l’esigenza di puntare
su una gestione dinamica della forza lavoro;
3) imprenditorialità, il cui sostegno comporta politiche miranti ad incentivare lo sviluppo di
iniziative imprenditoriali qualificate;
4) pari opportunità, la cui promozione implica azioni a favore delle categorie
svantaggiate.
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