Lezione XI: Relazioni verticali
• In molti casi i clienti delle imprese non sono consumatori finali ma altre imprese
(intermediarie o di trasformazione): si pensi alla catena produttore/grossista/dettagliante tipica della (grande) distribuzione.
• Questo fa differenza per (almeno) 2 ragioni.
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Relazioni verticali: introduzione
1. Il produttore che vende direttamente al consumatore finale controlla quasi tutte le variabili che determinano la domanda finale (prezzo, qualità, pubblicità, servizi di vendita, etc.), ma così non è nel
caso dell’impresa che venda ad un distributore (si
pensi alla pubblicità relativa allo specifico punto
di vendita, ma soprattutto al prezzo finale al consumo!).
2. Gli acquirenti/rivenditori (a differenza dei consumatori), sono potenzialmente in competizione tra
loro (e hanno solitamente qualche potere di mercato nei confronti del venditore/produttore).
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Relazioni verticali: introduzione
• Noi faremo riferimento alla situazione stilizzata in cui
un’impresa a monte (produttore, grossista o altro), P,
vende ad un’impresa a valle (rivenditore, dettagliante, o
altro), R.
• Tipicamente, la loro relazione sarà più complicata di
quella che si riassume in uno scambio mediante una tariffa di vendita lineare, e spesso implicherà l’adozione
di una (o più di una) restrizione verticale (per esempio
dei limiti sul prezzo al dettaglio) sul comportamento
dell’impresa a valle.
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Doppia Marginalizzazione
• Sia D(p) la domanda fronteggiata (monopolisticamente) da R, e supponiamo (per semplicità) che la sua tecnologia sia tale che una unità
di input, acquistata da P ad un prezzo unitario
pari a w, si possa trasformare in una unità di
output senza altri costi.
• Sia c invece il costo unitario di P, pure monopolista rispetto a R.
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Doppia Marginalizzazione: continuazione
• Se P e R fossero integrati verticalmente, w sarebbe solo un prezzo interno di “trasferimento”, il loro
profitto complessivo sarebbe pari a:
•  = P +  R
= (w - c)D(p) + (p - w)D(p) = (p - c)D(p),
• dove p è il prezzo pagato dai consumatori finali, e
la scelta ottimale per le imprese sarebbe il “prezzo
di monopolio” pm, con:
• (pm - c)D’(pm) + D(pm) = 0).
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Doppia Marginalizzazione: continuazione
• Se P e R sono invece imprese distinte (e non
colludono) non riusciranno a fare un livello
di profitto simile, a causa del loro conflitto
di interessi.
• Poiché infatti R massimizzerà:
R = (p - w)D(p),
si potrebbe ottenere pR = pm solo se w = c e
quindi P = 0.
• Perciò sarà sicuramente w > c e pertanto pR
> pm, con R + P =  < m = (pm - c)D(pm).
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Doppia Marginalizzazione: continuazione
• Si noti che se le imprese fossero integrate, al fine di
massimizzare i profitti congiunti l’impresa potrebbe
definire a monte il suo “prezzo di trasferimento” w =
pm e indicare che tale prezzo venga mantenuto a
valle.
• Con imprese distinte questo non funziona (R risulterebbe nullo) e P sceglie di vendere con un ulteriore ricarico monopolistico che conduce al valore di
pR indicato nella prossima figura (si noti che la curva di ricavo marginale di R corrisponde alla curva di
domanda di P).
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Doppia Marginalizzazione: graficamente
p
pR
PP(q) = R’(q) è la curva di
domanda di P,
RP’(q) = R’’(q)q + R’(q)
è il suo ricavo marginale.
R
w = pm
P(q)
P
c
0
C’
qR
qm
q
RP’(q) R’(q) = PP(q)
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Doppia Marginalizzazione: conclusione
• Si noti che:
• pR è il prezzo “di monopolio” di un’impresa con
costo unitario costante pari a w, e curva di domanda P(q);
• w è il prezzo “di monopolio” di un’impresa con
costo unitario costante pari a c, e curva di domanda PP(q);
• siccome P(q) e PP(q) sono entrambe lineari e condividono la medesima intercetta sull’asse delle ascisse, ne segue che w = pm < pR.
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Doppia Marginalizzazione: conclusione
• Il prezzo pR è dunque il risultato dell’applicazione
di due mark up (monopolistici), da cui il termine
doppia marginalizzazione.
• Perciò esso è troppo alto per massimizzare il profitto congiunto di P e R, e naturalmente anche
troppo elevato per il benessere collettivo (che sarebbe più elevato a pR = pm).
• A causa di questa inefficienza, una forma di integrazione tra le due imprese sarebbe potenzialmente la benvenuta, indipendentemente dalla presenza
di sinergie di costo tra di loro.
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Tariffe a due parti
• In realtà, l’inefficienza indicata si annulla anche senza bisogno di integrazione verticale se
P può utilizzare per vendere il suo prodotto una
tariffa a due parti (w, f).
• In tal caso la scelta ottima per P sarebbe w = c
e f = m, che non sorprendentemente realizzerebbe una sorta di discriminazione perfetta in
questo contesto. Ovvero:
pR = pm, q = qm, P = m = vR, R = 0 = vP.
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Tariffe a due parti: continuazione
• L’utilizzo di una tariffa a due parti in questo contesto
assomiglia ad un contratto di franchising (anche se in
quel caso il contratto comprenderebbe potenzialmente
altre prestazioni da parte di P).
• Di fatto trasforma il problema di massimizzazione del
profitto di P in un problema di massimizzazione del
profitto congiunto, con il valore di f che svolge il
ruolo di distribuire tale profitto tra le due imprese.
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Tariffe a due parti: conclusione
• Il risultato sopra ottenuto dipende comunque dalla
mancata presenza di concorrenti a valle (come vedremo), e richiede una perfetta informazione di P sui
“fondamentali” del mercato a valle.
• Si noti inoltre che, come sopra suggerito, in alternativa ma con gli stessi risultati P potrebbe utilizzare w
= pm e una clausola che imponga a R un prezzo al
dettaglio massimo pari a pm (questa pratica funziona se non ci sono altri costi per R oltre a w).
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Competizione tra rivenditori
• Se i rivenditori sono più di uno e tra loro in
concorrenza, un prezzo all’ingrosso w = c non
induce un prezzo al dettaglio di equilibrio pari
a pm, poiché la competizione spinge il prezzo
di equilibrio ad essere più basso (si pensi al
caso di una competizione à la Cournot).
• Non conviene dunque a P praticare tale prezzo
neppure se può disporre di una parte fissa della
tariffa per fare profitti (e w è solo un prezzo
“marginale”).
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Competizione tra rivenditori: continuazione
• Comunque, con competizione à la Bertrand
(perfetta concorrenza tra i rivenditori), senza
vincoli di capacità, è ovvio che P dovrebbe
porre w = pm, ottenendo per sé il profitto di
monopolio.
• In generale, si dimostra che quanto più accesa
è la concorrenza tra rivenditori, più elevato
deve essere il prezzo ottimale per P (che però
non si appropria in generale dell’intero profitto
di monopolio).
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Esternalità (tra rivenditori)
• E’ possibile che i servizi alla vendita offerti da
un rivenditore (si pensi al settore degli elettrodomestici) siano utilizzati da clienti di altri rivenditori che praticano prezzi più scontati e
minori servizi alla clientela.
• Tale possibilità di free riding tra rivenditori ha
come conseguenza la minor fornitura di servizi
alla clientela, e dunque una riduzione inefficiente della domanda finale che danneggia anche il produttore.
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Esternalità (tra rivenditori): continuazione
• Il problema si risolve se P può imporre un
prezzo (minimo) imposto (resale-price
maintenance), che permette al rivenditore che
investe in maggiori servizi alla clientela di ottenerne un ritorno in termini di un maggiore
volume di vendita.
• Un problema analogo si pone nel caso di rivenditori che fanno pubblicità (generica) al prodotto. In tal caso una soluzione potrebbero essere le concessioni territoriali di vendita in
esclusiva ottenute dai rivenditori (com’è il
caso delle automobili in Europa).
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Controllo indiretto
•
•
Ci sono altri casi in cui i servizi di vendita sono importanti, anche se è difficile che diano luogo a vere e
proprie esternalità tra rivenditori (ex: abbigliamento).
In generale, il raggiungimento del massimo profitto
complessivo dipenderà dal valore del prezzo di vendita, piR, e dall’ammontare dei servizi offerti, si, dai
singoli rivenditori. L’investimento in tali servizi dipende dal margine di profitto piR – w ottenuto dallo
specifico rivenditore i su ciascuna vendita (se non
può essere fissato contrattualmente).
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Controllo indiretto: continuazione
•
•
Anche in questi casi, P potrebbe trovare conveniente utilizzare una clausola di mantenimento
del prezzo (o di prezzo minimo).
In particolare, il produttore dovrebbe adottare w
= c e imporre piR = pm, in deroga al precedente
risultato per il quale la presenza di competizione tra i rivenditori aumenta il valore di w che P
dovrebbe fissare, per ottenere il massimo profitto
complessivo (redistribuito poi attraverso la parte
fissa di una tariffa a due parti).
• Ex: Levi’s.
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Controllo indiretto: conclusione
• La clausola di mantenimento del prezzo serve
qui (come nel caso della esternalità tra rivenditori) per attenuare gli effetti indesiderati della
competizione: in questo caso, che si riducano
gli investimenti promozionali.
• La fissazione del massimo margine possibile
per i rivenditori (piR – c) assicura in effetti che
questi ultimi offrano il livello dei servizi si che
massimizza il profitto congiunto.
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Competizione tra produttori
• E’ naturalmente possibile che ci siano molte imprese
anche a monte, e/o che il potere di mercato stia piuttosto a valle (è sovente il caso della grande distribuzione nel settore alimentare).
• Questo cambia naturalmente la natura dei contratti
verticali “ottimali” monte/valle, e introduce interazione strategica tra i produttori.
• Per esempio, la pratica “ottimale” di fissare un prezzo
marginale all’ingrosso elevato (per attenuare la competizione) può implicare che la componente fissa sia
negativa (sia per pagare i costi fissi dei rivenditori sia
per concedere loro una quota significativa dei profitti).
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21
Competizione tra produttori:
continuazione
• Si osservano infatti, tipicamente, delle
slotting allowances pagate dai produttori
per il diritto ad ottenere l’esposizione dei
loro prodotti sugli scaffali dei supermarket.
• Inoltre, si osservano clausole di esclusiva
imposte ai produttori dai distributori.
Ex: settore dei giocattoli.
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Esternalità tra produttori
• Le clausole di esclusiva imposte ai rivenditori possono poi essere interpretate come
una soluzione al problema delle esternalità
tra produttori.
• Ex: si pensi al settore delle automobili, in
cui i venditori spesso sono formati a carico
delle ditte automobilistiche.
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Market foreclosure
• Le clausole di esclusiva (e più in generale molte delle
restrizioni verticali che abbiamo visto) possono naturalmente essere un modo di aumentare il potere di mercato delle imprese. In particolare, un modo per “chiudere”
(foreclose) il mercato ai competitori a monte o a valle.
• Ex1: è tipico che la Coca-Cola e la Pepsi-Cola abbiano
contratti di esclusiva coi loro distributori.
• Ex2: la causa intentata nel 1994 contro la Microsoft, che
imponeva ai produttori di harware di pagare una royalty
su ciascun computer indipendentemente dal fatto che
avessero installato il suo sistema operativo. Un sistema
per spiazzare gli altri produttori di sistemi operativi?
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Collusione via restrizioni verticali
• E’ ovvio in quel che abbiamo detto che l’uso
di restrizioni verticali può attenuare la competizione tra imprese col fine di realizzare
forme di collusione.
• Per esempio, un mercato di rivenditori à la
Betrand con w = c (praticamente, un intero
settore perfettamente competitivo) può essere
trasformato in un settore di fatto monopolizzato se l’industria adotta una clausola di
prezzo minimo piR  pm.
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Restrizioni verticali e politica antitrust
• Le ultime considerazioni suggeriscono che la
valutazione delle restrizioni verticali dal punto di
vista del benessere collettivo sia molto complicata.
• Da un lato ci sono considerazioni “di efficienza”
(riduzione delle esternalità, aumento del livello di
investimento nei servizi sussidiari alla vendita),
dall’altro le possibili implicazioni in termini di
potere di mercato (chiusura del mercato ai
concorrenti).
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Considerazioni antitrust
• Di fatto, sia le autorità europee che quelle statunitensi sembrano essersi orientate nel tempo
verso una considerazione più favorevole.
• Ciò è particolarmente vero negli Stati Uniti, in
cui si è passati da una proibizione “di per sé”,
ad una valutazione “caso per caso”, sino alla
legalizzazione di una clausola di prezzo massimo.
• In Europa, le restrizioni verticali sono vietate
dal Trattato di Roma come abusi di posizione
dominante o intese tra imprese.
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Considerazioni antitrust: continuazione
• Il Trattato di Roma ammette comunque tutta una
serie di esenzioni “per giustificazioni economiche
o tecniche, se i consumatori si appropriano di una
quota dei corrispondenti benefici”.
• Di fatto, ci sono settori per i quali le clausole di
esclusiva e i territori esclusivi sono ammessi (automobili) e settori per i quali sono vietate (bevande, gelati), e ammesso è il franchising.
• In particolare, i prezzi imposti sono vietati ma non
così quelli “consigliati”!
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Il caso del mercato del latte artificiale
Una decisione interessante dell’Autorità Antitrust
italiana ha riguardato nel 1999 (su denuncia di una
associazione di consumatori) il mercato del latte
artificiale.
A quel tempo i prodotti, sostanzialmente omogeneni
e realizzati da un oligopolio di 7 imprese, non erano
venduti nei supermercati, e il prezzo medio era molto
più elevato che in altri paesi europei.
L’Antitrust ha sentenziato che gli oligopolisti si rifiutavano (tranne la Star) di vendere nei supermercati
per paura di non riuscire a controllare i prezzi al di
fuori del circuito delle farmacie.
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