Educazione degli adulti
Prof.ssa Elena Marescotti
Dispense a solo uso didattico interno
 Elena Marescotti 2012
Università degli Studi di Ferrara
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in Scienze dell’educazione
Anno Accademico 2011/2012
“Educazione degli adulti”:
aspetti didattici e organizzativi del corso
- Programma d’esame
(prerequisiti, contenuti, obiettivi)
- Calendario e argomenti delle lezioni
- Dispense didattiche on-line
- Modalità di svolgimento dell’esame (prova orale; a partire
dall’esposizione un argomento a scelta)
- Appelli d’esame (21/05; 05/06; 19/06; 10/07; 11/09; 25/09/2012 – 08/01
30/01/2013 – ore 10.30)
- Pre-appelli d’esame (17/04 e 08/05/2012, ore 12.00, Aula 14; riservat
agli iscritti al III anno di corso per l’a.a. 2011/2012)
- Ricevimento studenti
- Tesi di laurea
Educazione degli adulti:
polisemia e ambiguità
1) Prassi (educazione in età adulta)
(più o meno razionalizzata, più o meno eteronoma, più o meno spontaneistica, che ha una
sua storia, sue regole, suoi presupposti, sue circostanze facilitanti e ostacolanti, suoi spazi,
suoi contenuti, suoi metodi, ecc. Prassi che non di rado si è posta al servizio di determinate
esigenze sociali, economiche, politiche – un qualcosa che accade; apprendimento)
2) Teoria (educazione per gli adulti)
(che organizza al meglio quella prassi, o meglio teorie – di vario stampo: politiche,
economiche, psicologiche, sociologiche – che intendono organizzare al meglio quella prassi
e finalizzarla funzionalmente a determinati scopi contingenti – un qualcosa che si fa
accadere in vista di obiettivi circoscritti; attività di formazione e di conformazione)
3) Teoria/Prassi della ricerca educativa
(educazione permanente)
(che fa capo ad una scienza, la Scienza dell’educazione, dalla quale trae i suoi presupposti e
le sue necessità logiche e al cui sviluppo, chiarimento, approfondimento e progresso
contribuisce. Il senso più corretto, allora, di Educazione degli Adulti, anche se esiste come
disciplina di insegnamento a se stante, è quello di attività scientifica della Scienza
dell’educazione – un settore di ricerca; una modo di essere dell’educazione; un
qualcosa che si persegue in vista di finalità universalistiche e miglioristiche)
Alcuni aspetti fondamentali:
 Nella dizione Educazione degli adulti, ormai sedimentatasi
linguisticamente, la specificazione “adulti” non sta a
significare l’oggetto di ricerca, bensì la sottolineatura di una
situazione esistenziale e concettuale specifica; si tratta solo di
denunciare l’intenzione di puntare i riflettori su questa
dimensione per ragioni di tipo metodologico a livello euristico
(di ricerca) ed ermeneutico (di interpretazione)
 In altri termini, si tratta di individuare un momento e una
situazione particolare dell’educazione (quella che coinvolge
l’adultità e tutto quello che ne consegue) per meglio
comprendere il significato e la portata dell’educazione stessa
come “universale”
Diverse posizioni in contrasto…
Educazione degli adulti…
 una scienza autonoma, a sé stante
 una delle presunte tante Scienze dell’educazione
 una scienza pratica
 una prassi
 una teoria
 una pista di ricerca della Scienza dell’educazione
Problemi di
sistemazione epistemologica…
Fino agli anni Ottanta del Novecento, la maggior parte degli studi in questo ambito
seguivano per lo più tre linee guida:
1) quella che porta a rimarcare la diversità all’interno degli altri luoghi entro i quali si
attua la formazione dell’individuo
2) quella volta a considerare la relazione formativa con adulti un oggetto di studio
prevalentemente orientato alla messa in luce di bisogni urgenti (l’alfabeto, il titolo di
studio, l’aumento di professionalità, ecc.)
3) quella di ritenere che fosse possibile stabilire un’equazione deterministica, di
immediata sequenzialità causa-effetto, tra azione educativa e azione di
responsabilizzazione (coscientizzazione) politica, tra associarsi di adulti e valenze
emancipative.
Secondo Duccio Demetrio, aver sostenuto, molto più di quanto fosse necessario, che
l’Educazione degli adulti è “altra cosa” rispetto ad altri canali formativi e che i bisogni
adulti sono sempre specifici, finì con il separare i discorsi sugli adulti e sulla loro
educabilità dal più generale dibattito scientifico che agitava il mondo
dell’educazione.
(D. Demetrio, La ricerca in Educazione degli adulti, in D. Demetrio, A. Alberici,
Istituzioni di Educazione degli adulti, Milano, Guerini, 2002, pp. 18-19)
Questioni di fondo…
 il problema della distinzione è un problema cruciale nel fare ricerca, in
qualsiasi settore
 dalla Pedagogia alle Scienze dell’educazione
 Scienze dell’educazione: una “metafora irrigidita”
 moltiplicazione di presunte scienze:
a) aggettivare la parola “pedagogia” o specificarla con un genitivo: sociale,
interculturale, speciale, comparata, olistica, ecc. per il primo caso; della
marginalità, della famiglia, del gioco, del lavoro, della scuola, del tempo libero,
ecc. per il secondo caso;
b) completare con la specificazione “dell’educazione” il nome di altre scienze
già esistenti: psicologia dell’educazione, sociologia dell’educazione, medicina
dell’educazione, economia dell’educazione, ecc.
c) utilizzare le “varie” educazioni come nomi di discipline: educazione degli
adulti, educazione ambientale, educazione alimentare, educazione
interculturale, ecc.
Articolare non è, e non deve essere, frammentare il senso e le finalità
dell’educazione!
Educazione in senso scientifico = processo di portata tendenzialmente
universale
La “nascita” dell’EdA:
alcuni contributi teorici e situazioni storiche
Platone (427-347 a.C.)
A. Comenio (1592-1670)
J. Locke (1632-1704)
J. J. Rousseau (1712-1778)
Rivoluzione industriale
Rivoluzione francese
Platone (427-347 a. C.)



Il percorso formativo che Platone descrive ne La Repubblica, un percorso pensato per i veri
filosofi, ovvero per gli uomini d’oro[1], coloro che sarebbero diventati i governanti, che può arrivare
sino all’età di 50 anni (fino ai 20 anni, un’educazione propedeutica e la ginnastica; dai 20 ai 35 anni si
svolgeva l'alta scuola di dialettica, seguivano poi altri 15 anni di prova, per dimostrare il proprio valore
nel campo pratico e nel sapere, e a 50 anni si poteva giungere alla meta, ovvero ad esercitare il ruolo
di governante); scrive Platone: “Fatti cinquantenni, quelli che si siano mantenuti integri e abbiano
sotto ogni riguardo e in tutto primeggiato in opere e scienze, van finalmente condotti al punto finale, e
obbligati, rivoltando in su il lume dell’anima, a guardare ciò che dà a tutti luce; e visto che abbiano il
Bene in sé, e di esso servendosi come modello, a dar ordine allo stato, ai privati e a sé stessi nel
resto della vita, ciascuno a turno, passando la maggior parte del tempo intenti alla filosofia, e quando
giunge il loro turno, travagliandosi nelle faccende politiche e ricoprendo uffici di governo, ciascuno per
amor dello stato, e non come facendo qualcosa di bello bensì di necessario; e così educando altri
consimili, e lasciandoli al loro posto come Guardiani della città, se ne andranno infine ad abitare le
Isole dei beati. E la città dovrà far loro pubblici monumenti funebri e sacrifici…” [2].
Il concetto di anamnesi, ovvero il conoscere come memoria che ricostruisce, si tratta della
reminescenza delle idee, che è l’atto supremo del conoscere: le idee, dimenticate, ovvero cadute
nell’oblio dopo aver bevuto l’acqua del fiume Lete, ritornano alla mente attraverso la conoscenza che,
a questo punto, è un ricordare. Conoscere significa risvegliare quelle conoscenze che l’individuo ha in
potenza. La stessa etimologia della parola, appunto di origine greca, anamnesis, significa ricordo.
Bene, si tratta di un’ esperienza, questa, che accompagna l’individuo per tutto l’arco della vita;
Il concepire la vita dell’uomo come continuo interrogarsi, in un ininterrotto dialogo ove il filosofo
incarna la figura talvolta reale talvolta solo ideale del maestro; secondo Platone, l’insegnamento
doveva avvenire attraverso discussioni e conferenze, volta volta retti anche dai discepoli più anziani.
[1]. Questa la ripartizione sociale di Platone: gli uomini d’oro (i filosofi cui spettava il compito di governare); gli uomini
d’argento (i guerrieri); gli uomini di rame (i commercianti); gli uomini di ferro (gli schiavi).
[2]. Platone, La Repubblica, Milano, BUR, 1999, p. 555 (Libro VII, 540 b, c).
Amos Comenio (1592-1670)
 Idea di educazione che egli propugna come universale: si tratta




dell’ideale pansofico, secondo cui educare significa sempre insegnare
tutto a tutti. Per Comenio questo ideale ha motivazioni teoriche, cioè non
deriva da necessità di carattere contingente, ma si tratta di una necessità di
principio che anima l’educazione: l’educazione o è per tutti – adulti
compresi, quindi – o non è educazione.
Tuttavia, Comenio si concentra soprattutto su quella che chiama “l’età
crescente” e che egli suddivide in quattro fasi: infanzia, puerizia,
adolescenza, giovinezza.
Ad ognuna di queste fasi, Comenio fa corrispondere una scuola
particolare: la scuola dell’infanzia (da 0 a 6 anni); la scuola di lingua
nazionale (6-12 anni); la scuola di latino (12-18 anni) e l’Accademia
(18-24 anni).
In queste scuole, che seguono il principio della gradualità, non si fanno
cose diverse, ma le stesse cose in modo diverso.
È comunque tramite questo esercizio che si pongono le premesse
affinché il processo di formazione possa durare sempre.
J. Locke (1632-1704)
 Saggio sull’intelletto umano (1690): ogni individuo è suscettibile in ogni




momento della sua vita di educazione, in quanto è suscettibile di creatività di
pensiero. A quest’opera, segue come una sorta di completamento, La Guida
dell’intelletto umano, che sarà pubblicata postuma: qui Locke traduce in una sorta
di modello formativo il modello conoscitivo elaborato nel Saggio sull’intelletto
umano.
In questo modello formativo, emergono chiare le caratteristiche di
un’educazione che, necessariamente, deve durare per tutta la vita.
Seppure non manchino forti limiti, legati alla politica e alla ripartizione in classi
sociali (educazione del gentleman), sono presenti nel pensiero di Locke germi
assai fecondi, come l’idea che l’educazione sia la condizione necessaria per
formare un uomo non più soggetto a un’autorità indiscutibile e, per questo
motivo, capace di autogovernarsi a livello politico, ma anche a livello morale.
Questo percorso educativo deve condurre l’uomo lungo il sentiero che gli
consente di acquisire i tratti propri dell’umanità, che sono poi i tratti della
ragionevolezza.
Quindi, l’educazione dell’individuo-cittadino non è di tipo morale o civico, ma
di tipo logico e intellettuale. L’intelletto deve essere educato, l’intelletto che è
alla base dell’agire, della libertà del volere e dell’autodeterminazione.
J. Locke (1632-1704)
 L’intelletto deve essere educato: questo significa sottoporlo ad un esercizio




continuo e, pertanto, significa dotarsi di strumenti, di un valido indirizzo
metodologico. Per giungere alla piena maturità, che è sinonimo di capacità, di
retto giudizio e di autodeterminazione – oggi noi diremmo di adultità – è
necessario abituarsi a guardare quanto ci circonda in maniera dubitativa, senza
pregiudizi e senza ossequio verso l’autorità.
Locke, infatti, usa spesso in questa opera l’espressione “libero esame”, per
sottolineare la sua polemica contro i pregiudizi, i dogmi, la pigrizia, la parzialità,
la presunzione, l’indifferenza e la superficialità con cui sovente, ci si approccia al
mondo e ai suoi fenomeni, di qualsivoglia natura essi siano.
Al contrario, Locke insiste sull’opportunità di considerare con attenzione
l’esperienza, di lavorare sui concetti, di distinguerli, di ordinarli.
Lo scopo di questo esercizio continuo non è solo l’arricchimento del contenuto
del pensiero, certo anche questo, ma ancora di più la conquista della varietà e
della libertà degli atti del pensiero e la crescita dei poteri e dell’attività della
mente. Per questo sono necessarie pazienza, calma e gradualità.
Solo attraverso l’acquisizione di una simile forma mentis l’uomo potrà dirsi
pronto per affrontare argomenti e riflessioni impegnative, come i problemi morali,
politici e religiosi e le questioni che riguardano quelle che lui chiama “verità
fondamentali”
J. J. Rousseau (1712-1778)
 In generale, l’educazione deve mirare a realizzare un rinnovamento
della società che sia radicale, sviluppando nel soggetto le sue
potenzialità in modo che possa diventare un individuo autonomo,
capace di trovare in sé la capacità di fronteggiare sempre, in modo
personale, le varie situazioni che si potranno verificare.
 Per Emilio si pensa ad una educazione continua, in tutte le fasi della
sua esistenza (Emilio o dell'educazione, 1762).
 Organizzazione politica ed educativa del vivere sociale: “comunità
educante” (Considerazioni sul governo della Polonia (1771-1782): si
prevedono tutta una serie di attività – spettacoli, feste, ecc. – con
intento formativo per un pubblico di adulti)
Rivoluzione industriale
 accentua il cosiddetto sentimento dell’infanzia, sia per una separazione netta a
livello lavorativo (cosa che in un sistema agricolo non avveniva), sia per
l’intensificarsi delle rivendicazioni dei diritti dei bambini, sfruttati nelle fabbriche
 la categoria “adulta” rafforza la propria identità e gli operai sono sempre più
chiamati ad istruirsi per meglio contribuire allo sviluppo industriale
 il formarsi della classe operaia, del resto, stimola una presa di coscienza a livello
politico e sindacale, che sfocerà poi per buona parte nel socialismo utopico, ove
l’istruzione e l’alfabetizzazione vengono ad essere concepite come ineludibili
strumenti di emancipazione
 l'impianto industriale impone una inedita parcellizzazione del lavoro, che aliena
l'individuo in quanto lo mette nella condizione di non conoscere più l'intero
processo del lavoro - come accadeva con l'artigianato - inducendogli quindi il
bisogno di capacità di ricostruzione, e quindi di strategie concettuali
 in stretta connessione a questo aspetto, va altresì sottolineato come la scuola e
l'educazione degli adulti comincino ad attecchire per la presa di consapevolezza che
si danno come strumenti di mobilità sociale: imparare continuamente serve a
migliorare continuamente la propria qualità della vita.
Rivoluzione francese
(1789-1799)

filosofia dei “lumi”
istruzione come strumento per rendere gli uomini
più uguali e più liberi

alfabetizzazione come requisito fondamentale per
supportare il suffragio universale

Rivoluzione francese
Nel Rapporto Condorcet, la relazione redatta da Antonine
Caritat de Condorcet[1] su L'Organisation Générale de
l'Intruction Publique (21 aprile 1792) leggiamo: "L'istruzione deve
essere universale e cioè essere estesa a tutti i cittadini… Deve,
nei suoi diversi livelli, abbracciare l'intero sistema delle
conoscenze umane e assicurare agli uomini in tutte le età della
vita, la facilità di conservare le loro conoscenze e di acquisirne
delle nuove".
 Gli eventi storici, nell'immediato, impedirono la realizzazione
delle proposte.
 Occorre aspettare almeno il 1820 per vedere affermarsi una
serie di iniziative a favore della cultura del popolo.

[1]. Marie Jean Antoine Caritat marchese di Condorcet (1741-1794 suicida). Di
formazione matematico, segretario dell'Accademia delle Scienze dal 1776, si
autoproclama discepolo di Voltaire. Si accosta ai lavori dell'Enciclopedia, coltivando
sempre meno la "scienza pura" per dedicarsi ad esaltarne la virtù rinnovatrice e
rivoluzionaria. Eletto deputato alla legislativa di Parigi, fu nominato presidente
dell'Assemblea, cui presentò la relazione sull'istruzione pubblica. Tale relazione non fu
mai discussa, ma divenne il punto di riferimento della cosiddetta "pedagogia
rivoluzionaria" (Cfr. Ernesto Codignola, in Enciclopedia Italiana (Treccani), Roma, 1949,
L’origine “danese” dell’EdA e il suo
“capostipite” simbolico”…
Nicolai Frederik Severin
GRUNDTVIG
(1783-1872)
FolkehØjskole
INGHILTERRA
Nel 1903 Albert Mansbridge (1876-1952) fonda la
Workers’ Educational Association, che svolgeva
il suo lavoro educativo in povere stanze affittate
nei quartieri periferici delle grandi città, vicino
alle fabbriche, e che, secondo il suo fondatore,
doveva diventare un movimento di
autoeducazione popolare, realizzando altresì un
solido collegamento tra le forze del lavoro e la
scienza, e cioè tra sindacati, cooperative e
università
FRANCIA
 La
Rivoluzione Francese ha avuto un ruolo di tutto rilievo nella costituzione teorica e
operativa dell'Educazione degli Adulti. Nel Rapporto Condorcet, il rapporto di Antonine
Caritat de Condorcet su L'Organisation Générale de l'Intruction Publique (21 aprile 1792)
leggiamo: "L'istruzione deve essere universale e cioè essere estesa a tutti i cittadini… Deve,
nei suoi diversi livelli, abbracciare l'intero sistema delle conoscenze umane e assicurare agli
uomini in tutte le età della vita, la facilità di conservare le loro conoscenze e di acquisirne
delle nuove".
Gli eventi storici, nell'immediato, impedirono la realizzazione delle proposte.
 Occorre aspettare almeno il 1820 per vedere affermarsi una serie di iniziative a favore
della cultura del popolo. Nel 1830 viene fondata l'Association polythecnique pour le
Développement de l'instruction populaire, alla quale prestò la propria opera anche Auguste
Comte
 Nel 1862, alla Esposizione Internazionale di Londra, avvengono i primi contatti tra i
movimenti di cultura popolare francesi e i movimenti operai inglesi, che portano alla
formazione della I Internazionale e a sempre più pressanti richieste di istruzione.
 Nel 1866 si costituisce la Ligue de l'enseignement.
 Il 16 giugno 1881 viene votata la legge sulla gratuità dell'insegnamento che nel 1889 viene
reso obbligatorio e laico.
 Nel 1892 si costituisce la Lega per i diritti dell'uomo e sorgono le prime Università popolari.
ITALIA
 A Torino, sin dal 1853 era stata fondata una Società di Istruzione, di educazione
e di mutuo soccorso tra gli insegnanti, con l'intento di portare il contributo di una
esperienza diretta alla scuola popolare.
 Nel 1893 nasce a Milano la Società Umanitaria, al fine di fornire
l'alfabetizzazione a chi non l'avesse ancora ricevuta.
 Nel 1901 sorgono le Università popolari per iniziativa di organismi popolari,
con l'eccezione dell'Università popolare di Roma che si costituì per volontà di un
gruppo di docenti.
 Numerose furono le iniziative a favore, più o meno direttamente,
dell'educazione degli adulti: leghe contadine, corsi rurali, cooperative, ecc. e
anche i corsi fondati dalle Società di mutuo soccorso e dalle Società operaie che
andavano moltiplicandosi.
 Particolare attenzione va riservata alle scuole per i contadini dell'Agro romano,
fondate dal poeta Giovanni Cena e alla Associazione per gli interessi del
mezzogiorno (1910): entrambe affrontarono il problema dell'analfabetismo degli
adulti inquadrandolo nell'ambiente e nelle tradizioni locali; la prima,
concentrandosi sulla cura e prevenzione della malaria (contributo di Angelo Celli)
e sulle forme creative del lavoro artigianale, la seconda legando l'educazione col
fattore economico tramite l'appoggio dato alla costituzione delle cooperative.
 Con l'avvento del fascismo, tutte queste iniziative vennero, in genere,
osteggiate o comunque “sostituite”.
CANADA
1899: nasce il Frontier College per opera di Alfred
Fitzpatrick, un pastore presbiteriano missionario, con lo
scopo principale di alfabetizzazione degli adulti. Con la
prima guerra mondiale e in seguito all'ondata di
nazionalismo che pervase il Canada, il centro si assunse
altresì il compito di "canadesizzare" gli immigrati, per
prevenire eventuali processi rivoluzionari. Secondo le
intenzioni del fondatore, non solo tutti i lavoratori
avrebbero dovuto avere accesso all'istruzione superiore,
ma lavoro e educazione avrebbero dovuto alternarsi.
U.S.A.
 L'opera di alfabetizzazione primaria degli adulti si accompagnò a quella
dell'adattamento degli immigrati alla lingua e alla cultura del nuovo ambiente,
senza trascurare, con i problemi posti da una forte industrializzazione e da
una forte crescita urbana, i temi della fruizione del tempo libero.
 Un esempio significativo: La Hull House, fondata a Chicago nel 1889 da
Jane Addams: è il più famoso fra i social settlements che si diffusero negli
Stati Uniti dalla seconda metà dell'Ottocento. La Hull House ospitava
stabilmente, per periodi più o meno lunghi intellettuali impegnati nella difesa
delle classi più deboli della società, offriva a tali classi non solo aiuti concreti
e materiali (ad esempio, nursery per accudire i bambini), ma anche l'apporto
di molte competenze culturali (corsi di inglese, teatro, musica, lavori
artigianali, conferenze di filosofia e di economia)
NB: per un approfondimento di alcuni momenti paradigmatici della storia
dell’educazione degli adulti, cfr. A. Lorenzetto, Lineamenti storici e teorici
dell’educazione permanente, Studium, Roma, 1976.
John Dewey (1859-1952)
Egli afferma decisamente che l'educazione non è un fatto costituito di
tappe concluse in se stesse, ma è, come l'esperienza di tutti i momenti
esistenziali, un processo che non conosce conclusioni, ma solo
momenti significativi, solo apparentemente conclusivi, i quali sono a
ben vedere punti di partenza per ulteriori approfondimenti.
L'educazione, per Dewey, dura per tutta la vita e non può che essere
così. Curiosità, immaginazione, senso critico, apertura ai problemi e
sforzo di risoluzione - che sono le stesse fasi del metodo scientifico e
dello stile democratico di vita - sono per Dewey costitutive
dell'educazione e del comportamento di ogni uomo che è veramente
tale. Per Dewey, l'educazione degli adulti è strettamente congiunta al
problema della democrazia, intesa come stile di vita in cui ciascuno
deve essere messo in grado di dare il meglio di sé. L'educazione degli
adulti, per Dewey, ha dunque un senso nell'ottica dell'educazione che
non può che essere permanente, ovvero costante compagna dell'uomo
in tutti i suoi tentativi di interpretazione e trasformazione del mondo.
Caratteristiche
“iniziali”dell’EdA
percorso formativo per pochi, finalizzato politicamente e/o
economicamente per preservare, mantenere, consolidare o
raggiungere un determinato assetto
 percorso compensativo di alfabetizzazione primaria:
ovvero attività di recupero di quanto avrebbe dovuto essere
appreso negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza
 percorso di “educazione popolare” con finalità politicosociali, assimilabile, nei suoi intenti di fondo, all’educazione
dell’infanzia, per via di una sovrapposizione, nelle concezioni
delle classi dirigenti, tra infanzia e popolo
 nascenti tensioni intitolate al nesso
educazione/istruzione/emancipazione

UNESCO
UNESCO: United Nations Educational Scientific and Cultural
Organization
 ONU: 26 giugno 1945
 16 novembre 1945 (Londra) – 4 novembre 1946 (Parigi)
 8 novembre 1947 – 27 gennaio 1948: ammissione dell’Italia

 Potere di “orientamento culturale” e “normativo”
(2011: 194 Stati membri; 7 Stati associati)
Principali avvenimenti nell’ambito
dell’Educazione degli Adulti:
 Conferenza di Elsinör (16-26 giugno 1949)
 Convegno internazionale di studi sull'educazione degli adulti (Roma, 4-
6 aprile 1951)
 Conferenza di Montreal (21-31 agosto 1960)
 Convegno "Alfabeto e società" (Roma, 24-29 settembre 1962)
 Congresso mondiale dei Ministri dell'educazione sull'eliminazione
dell'analfabetismo (Teheran 8-19 settembre 1965)
 Conferenza internazionale di Tokyo su "L'educazione degli adulti nel
contesto dell'educazione permanente“ (25 luglio-7 agosto 1972)
…
 V Conferenza internazionale sull'Educazione degli Adulti (Amburgo,
14-18 luglio 1997)
I temi della Conferenza di Elsinor:









cultura di pace
concetto di condivisione: l'umanità è un destino comune al quale tutti sono chiamati a
partecipare
idea di educazione degli adulti non come mera istruzione e trasmissione di contenuti,
quanto, soprattutto, di strategie; in questo senso l'educazione stessa è vista come un
fine, come un processo che non ha termine
concezione dell'alfabetizzazione come mezzo dell'educazione degli adulti e non come
suo fine ultimo
l'educazione degli adulti, intesa anche come educazione popolare, non deve cadere
nello stesso errore dell'educazione di èlite, cui intende ovviare, ovvero diventare
altrettanto settaria (la cultura non si può pensare in termini di up e down, serie A e
serie B, tantomeno la scienza che rappresenta la forma più raffinata dal punto di vista
razionale di conoscenza)
la cultura, l'educazione e la scienza, per essere veramente tali, devono essere pensate
come di tutti
insistenza sul nesso tra istruzione/educazione, libertà e democrazia (libertà e
democrazia non solo a livello di organizzazione politica ma, ancor prima, come habitus
mentale, come forma mentis);
stretta relazione tra educazione e lavoro, nel senso di fornire all'individuo gli strumenti
per realizzarsi nel lavoro, non subirlo in prospettiva di alienazione, e non concepirlo
alla stregua di un mero strumento di sopravvivenza
problema del tempo libero
I limiti della Conferenza di Elsinor:
 Paesi dell’Europa dell’Ovest e dell’America del Nord.
 Tradizionale impostazione liberale inglese dell’educazione
degli adulti, definita come l’insieme degli studi volontari
intrapresi da un individuo che ha raggiunto la maggiore età al
fine di sviluppare capacità e attitudini al fine di assumere
responsabilità sociali, morali e intellettuali in seno alla
comunità. In questo senso, si presuppone sia già stato raggiunto
un certo grado di istruzione generale.
 Manca una concettualizzazione dell'educazione permanente
come sfondo logico che giustifichi l'educazione degli adulti;
quest'ultima continua ad esse percepita come un tipo di
educazione sollecitata da esigenze contingenti: la grande
assente, in sostanza, è la Scienza dell'educazione che,
necessariamente e a prescindere dalle contingenze, richiede che
l'educazione sia per tutti gli individui e, quindi, anche per gli
adulti
I temi della Conferenza UNESCO
sull’Educazione degli adulti di Amburgo (1997)
Educazione degli adulti e risoluzione dei grandi problemi che
attanagliano l'epoca a noi contemporanea: il problema
ecologico, il totalitarismo politico, la giustizia, il razzismo, la
violenza, l'economia, la scienza
SETTORI INDIVIDUATI:
 l'alfabetizzazione degli adulti
 il diritto al lifelong learning
 il diritto alle pari opportunità
Multiculturalismo
 la cultura della pace
Nuove tecnologie
 la diversità culturale
 la promozione della salute
Progressiva senilizzazione
 l'educazione ambientale
della società
 l'accesso all'informazione
 l'integrazione dei disabili
 l'apprendimento in età senile
}
Dal MULTICULTURALISMO
all’INTERCULTURA
Intercultura: emergenza e compito
(cfr. F. Cambi, Intercultura: fondamenti pedagogici, Roma, Carocci, 2001)
EMERGENZA:
1) il ritorno del razzismo, con le sue chiusure, le sue violenze, le sue varie forme di
manifestazione;
2) le migrazioni dei popoli, spinte dall’incremento demografico, dal sottosviluppo,
dagli scambi resi sempre più possibili dal villaggio globale creatosi a livello
planetario, e che hanno ormai reso l’Europa quel melting pot che già si è realizzato
negli USA;
3) la crisi della cultura occidentale, ormai molto più insicura intorno ai propri valori
guida, ai propri ideali di civiltà e percorsa da esigenze di profonda autocritica, che
induce ad una apertura verso modelli culturali altri, per riceverne suggestioni,
prospettive, strumenti interpretativi.
Questo aspetto dell’emergenza è quello più operativo e contingente, ed anche quello
più studiato e su cui pare si abbiano le idee più chiare in relazione all’intercultura. Si
tratta di affrontare un problema che emerge con forza nel mondo contemporaneo e
che pone quesiti urgenti e complessi: accettare gli immigrati, spesso di culture
radicalmente altre rispetto a quelle autoctone; stabilire un dialogo con loro;
apprendere a collaborare; rifiutare razzismo e intolleranze.
MULTICULTURALISMO
COMPITO:
 Si tratta del fronte teorico, cioè della lettura del problema intercultura a livello di
epistemologia pedagogica, ovvero a livello di strutture portanti della pedagogia stessa
come scienza. Un ambito che viene spesso ignorato o fagocitato da quello intitolato
all’emergenza o da un vago buon senso, e ancora che viene spesso considerato un
eventuale punto di arrivo, e non un punto di partenza. Nel senso che solitamente ci si
imbatte in un modo di procedere che va dalla constatazione di una necessità contingente
(l’interculturalità) all’attribuzione di tale dimensione alla pedagogia che, in qualche modo,
viene sollecitata a farvi fronte.
 A ben vedere, la questione è molto più complessa, poiché il discorso della diversità, del
dialogo, del rapporto con altro, della trasformazione, è un discorso che appartiene alla
pedagogia, se vuole essere una scienza, a prescindere dai flussi migratori più o meno
intensi. Questi, più che altro, disvelano le complessità operative di un problema che, a
livello teorico, va considerato comunque.
 Questa impostazione è decisiva per la stessa identità della pedagogia come scienza, che
va pensata come a capo dei processi educativi, e non in coda, come referente principale e
garanzia logica dell’educazione e non come giustificazione a posteriori.
 L’emergenza in atto consente di insistere ulteriormente su alcuni punti fondamentali
della pedagogia come scienza, e di ogni sapere che voglia dirsi scientifico: congedo
definitivo e totale dell’etnocentrismo, assunzione di una visione laica (dal greco laikos = del
popolo) della scienza e della convivenza sociale, che ponga al centro i principi della
tolleranza, del dialogo, della ragione come guida e come costruzione in comune.
NUOVE TECNOLOGIE
1) il versante della formazione, dell’aggiornamento e della riqualificazione
professionale: apprendere ad usare le nuove tecnologie come credito da spendere
sul mercato del lavoro
2) il versante dell’informazione: di fronte all’esplosione mass-mediatica,
dell’informazione creata da pochi per molti, si rende necessario riflettere sulla
necessità di raffinare di continuo, in un processo che non conosce fine, le nostre
capacità critiche, di interpretazione, di analisi di quanto ci viene offerto, di pensiero
autonomo, di scelta e di responsabilità di scelta
3) le nuove tecnologie sono solo strumenti, privi di significato intrinseco, oppure
contengono in sé logiche, saperi diversi da quelli tradizionali e quindi si
configurano veramente come paradigmi di conoscenza e di costruzione della
conoscenza?
4) l’impatto dell’e-learnig e della formazione a distanza (FAD), sistemi utilizzati
massicciamente proprio nell’ambito dell’educazione degli adulti, soggetti da un lato
impegnati in un lavoro, e quindi con meno tempo a disposizione o, meglio, con una
gestione del tempo che varia da soggetto a soggetto e a seconda del momento e delle
disponibilità individuali (ritagli di tempo) e, dall’altro, che proprio in quanto adulti
hanno un maggiore grado di autonomia, autodisciplina, consapevolezza
NUOVE TECNOLOGIE
FAD = Formazione A Distanza
Si tratta di una pratica ormai largamente diffusa che ha mantenuto
pressoché inalterati i caratteri individuati per le cosiddette open university
inglesi degli anni Sessanta:
 separazione tra docente e discente
 separazione dei discenti tra di loro
 influenza di un’organizzazione formativa nello sviluppo e
nell’acquisizione dei materiali utili all’apprendimento
 uso di mezzi di comunicazione (video, registrazioni, radio, tv, satellite,
internet, e-mail, videoconferenze, telefono, ecc.) per mettere in contatto
docenti e discenti e introdurre i contenuti da insegnare
 comunicazione a due vie: il discente può dialogare con il sistema anche di
sua iniziativa (con il docente o con tutor intermediari)
 una sorta di industrializzazione del processo di insegnamento (nonostante
seri tentativi di individualizzazione, il processo insegnamento/apprendimento
pare mercificarsi come un qualsiasi prodotto standardizzato, di cui non si
condividono più le fasi intermedie, ma si riceve solo qualcosa di finito e
predefinito).
SENILIZZAZIONE DELLA
SOCIETÀ
Dalla logica della medicalizzazione/assistenza
a quella dell’educazione
 La vecchiaia è oggi una realtà demografica in continua espansione, che
pertanto impegna la società, le politiche e, non ultimo, la ricerca scientifica
ad accendere i riflettori su un tema che le attuali pressioni globalizzanti - ma
sarebbe meglio dire omologatizzanti – tendono a trascurare e marginalizzare
sul piano del consumismo e dell’assistenzialismo.
 Anche la Pedagogia ha acceso i riflettori su questo tema, e qui vale lo stesso
discorso fatto per l’intercultura: l’anziano diventa soggetto educabile perché
ne ravvisiamo l’opportunità o perché non può che essere così? Può sembrare
lo stesso, ma non lo è: che cosa succederebbe se ci legassimo al fattore
opportunità condivisa e un giorno non lo fosse più? La scienza non avrebbe
alcuna garanzia, sarebbe in balia del momento.
Alcuni dati/previsioni ISTAT

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L’aspetto in assoluto più certo di tutte le previsioni è il progressivo e inarrestabile
incremento della popolazione anziana
I numeri assoluti dicono che, rispetto agli attuali 11,8 milioni, gli anziani ammonteranno
entro il 2051 a 20,3 milioni
Gli ultra 64enni, oggi pari al 19,9% del totale (1 anziano ogni 5 residenti), perverranno al
33% nel 2051 (1 anziano ogni 3 residenti)
Cresce in misura soverchiante il numero delle persone molto anziane: i cosiddetti “grandi
vecchi” (convenzionalmente individui di 85 anni e oltre) passano da 1,3 milioni nel 2007 a
4,8 milioni nel 2051, per una proporzione che aumenta dal 2,3% al 7,8%”[1]
“La vita media per l’Italia passa da 78,6 a 84,5 per gli uomini (+ 5,9) e da 84,1 a 89,5 per
le donne (+ 5,4)”[2].
Guardando, infine, alla composizione in termini percentuali della popolazione italiana per
classi d’età, la situazione risulterebbe così definita: 0-14 anni (14% nel 2011, 12,9% nel
2051); 15-29 anni (15,7% nel 2011, 14% nel 2051); 30-44 anni (22,8% nel 2011, 16,8%
nel 2051); 45-64 anni (27,2% nel 2011, 23,4% nel 2051); 65-84 anni (17,5% nel 2011,
25,1% nel 2051); 85 anni e oltre (2,8% nel 2011, 7,8% nel 2051)[3].
[1]. Previsioni demografiche 1 gennaio 2007 – 1 gennaio 2051, nota informativa ISTAT, 19
giugno 2008, p. 4
[2]. Ivi, p. 11.
[3]. Cfr. http://www3.istat.it/grafici_ra/sostenibilita/demografica.html, consultato in data 19
settembre 2011.
SENILIZZAZIONE DELLA
SOCIETÀ
Pedagogia e età senile
 Si tratta di un accostamento che, ai non addetti ai lavori, potrebbe sembrare
azzardato, se non addirittura improprio. Ma, se andiamo oltre al senso
comune e assumiamo l’ottica scientifica, quello tra pedagogia ed età senile si
configura come un nesso più che plausibile, ossia necessario. Il modello
educativo messo a punto dalla pedagogia come scienza, infatti, si identifica con
un processo di crescita e sviluppo delle potenzialità umane che si snoda lungo
tutto l’arco della vita e che, quindi, non può non riguardare anche la
cosiddetta terza età.
 La pista intrapresa dalla pedagogia in questo settore si configura come una
vera e propria sfida ai quei radicati stereotipi che concepiscono l’età senile
come età dell’inevitabile ed inarrestabile decadimento, della rassegnazione,
dell’inattività fisica e mentale. Si tratta di una sfida che non solo intende
rilanciare la vecchiaia come risorsa, mettendone in evidenza tutto il potenziale
intellettuale, creativo ed affettivo, ma anche e soprattutto rinsaldare l’identità
della pedagogia come scienza dell’educazione tout court. In effetti, oggi più che
mai la pedagogia necessita sbarazzarsi di quei riduttivismi che per lungo
tempo l’hanno identificata con la riflessione sui problemi educativi
dell’infanzia, depauperandone non solo gli ambiti di intervento ma anche e
soprattutto il suo stesso spessore scientifico.
Centri Territoriali Permanenti
 L’istituzione dei CENTRI TERRITORIALI
PERMANENTI pare volere rispondere alle esigenze
complesse che, sinergicamente, le tre istanze citate –
intercultura, nuove tecnologie, progressiva
senilizzazione della società – in sinergia tra di loro,
producono nella nostra attuale compagine sociale.
 I CTP sorgono con l’O.M. n. 455 del 29 luglio 1997.

riduttivismi pratici: formazione civica e professionale, e non vera scuola!
L’istituzione e il ruolo dei Centri
Territoriali Permanenti
In Italia, una delle iniziative più interessanti, nell’alveo delle molteplici attività
promosse sia dal comparto pubblico sia dal comparto privato, è rappresentata
dall’istituzione, con l’Ordinanza Ministeriale n. 455 del 29 luglio 1997, dei Centri
Territoriali Permanenti (CTP), “per l’istruzione e la formazione in età adulta”.
 Il CTP nasce in stretto aggancio con la scuola: esso viene, di fatto, istituito dal
Provveditore agli Studi – poi Dirigente CSA (Centro Servizi Amministrativi), oggi
Dirigente USP (Ufficio Scolastico Provinciale) – e funziona presso una istituzione
scolastica il cui Collegio dei docenti è chiamato alla programmazione delle attività,
sulla base delle puntuali proposte formulate dal Coordinamento del personale del
CTP medesimo, che comprende, a sua volta, tutti coloro che sono impegnati nella
realizzazione delle sue attività didattiche e formative. L’organico di base assegnato al
CTP è composto da tre docenti di scuola elementare e cinque docenti di scuola media
inferiore
 Il CTP si presenta come un’entità indissolubilmente agganciata alla scuola e
organizzata, nei suoi principali meccanismi di gestione, in maniera assai similare ad
essa: il CTP, sulla base e al termine delle attività realizzate, può rilasciare
certificazioni relative al conseguimento di licenza elementare e media, nonché di
attestati di attività di professionalizzazione o di riqualificazione professionale e di
attività di cultura generale
Ordinanza Ministeriale n. 455 del 29 luglio 1997:
“Educazione in età adulta, istruzione e formazione”
Alcuni problemi…
 Resta, tuttavia, da verificare se, anche dal punto di vista sostanziale, il CTP
possa essere considerato una vera scuola, a prescindere dal rilascio o meno di
titoli dal valore legale. È necessario appurare se le finalità che intende
perseguire possano essere considerate finalità educative oppure se si tratta di
finalità prevalentemente agganciate alle esigenze del territorio, come, ad
esempio, l’acquisizione di specifiche competenze pensate al solo scopo di essere
spese nel settore lavorativo (licenza delle scuole dell’obbligo, corsi di lingua
inglese, corsi di informatica, ecc.) o, per quello che riguarda la massiccia
presenza di immigrati, la padronanza della lingua italiana e la conoscenza del
tessuto culturale in senso lato del Paese.
 Il testo di legge, così come i rapporti di monitoraggio sull’offerta formativa
dei CTP, la loro distribuzione territoriale, l’affluenza ai corsi organizzati, ecc.,
non sembrerebbero consentire, di primo acchito, di dare una risposta ben
definita, giacché richiami e coloriture educative e cedimenti alle pressioni
contingenti si mescolano. Ciononostante, una lettura attenta dell’O.M. e di
diversi documenti che, a vario titolo, rendono conto delle attività progettate e
svolte o riflettono su di esse cercando di evidenziarne la ratio, la valutazione
non può che propendere per un CTP che, potenzialmente scuola, tende di fatto
a porsi come un servizio.
Le attività svolte dai CTP sono sintetizzabili in attività di “accoglienza, ascolto
e orientamento; alfabetizzazione primaria funzionale e di ritorno, anche
finalizzata ad un eventuale accesso ai livelli superiori di istruzione e di
formazione professionale; apprendimento della lingua e dei linguaggi;
sviluppo e consolidamento di competenze di base e di saperi specifici; recupero
e sviluppo di competenze strumentali, culturali e relazionali idonee a duna
attiva partecipazione alla vita sociale; acquisizione e sviluppo di una prima
formazione o riqualificazione professionale; rientro nei percorsi di istruzione e
formazione di soggetti in situazione di marginalità”. Si specifica, inoltre, che il
CTP opera “per l’acquisizione di saperi che permettano una reale integrazione
culturale e sociale e che sostengano e accompagnino i percorsi di formazione
professionale per facilitare l’inserimento o il reinserimento nel mondo del
lavoro, in relazione alle dimensioni: comunicazione; progettualità, operatività.
Pertanto gli assi culturali di riferimento dovranno essere: i linguaggi e le
culture; l’alfabetizzazione e la multimedialità; la formazione relazionale come
conoscenza del sistema sociale, ambientale, economico, geografico”
 Dal 2008 si attende ancora la trasformazione dei CTP in CPIA (Centri
Provinciali per l’Istruzione degli Adulti): questa riforma presenta un dato
positivo (l’assegnazione di un organico ad hoc) ed uno negativo (un’offerta
pensata sull’”invarianza” della domanda)

A questo proposito, i rilievi da segnalare, nella prospettiva
della Scienza dell’educazione sono essenzialmente due:
1) Il primo (# problema di Scienza dell’educazione #). Fino a quando il linguaggio
dell’universo educativo non sarà chiarito e disambiguato, ovvero fino a
quando non si potrà contare su un linguaggio scientifico e tecnico per
designare, in primis, le entità educazione e scuola, permarranno confusioni e
scorrettezze teoriche dalle ampie ricadute sulla prassi. Ne è un significativo
esempio il fatto che quando, a vari livelli, si parla di CTP, si usano pressoché
indifferentemente i termini educazione, formazione, istruzione,
alfabetizzazione, integrazione, ecc. La stessa etichetta “Educazione degli
adulti” ufficialmente assunta a perno dei CTP, contrassegna, di fatto, attività
formative, compensative, di aggiornamento, ecc.
2) Il secondo (# problema della Politica #). Il CTP come servizio pensato
soprattutto, in ultima analisi, per la promozione economica di un territorio e,
nonostante questo, presentato come una emanazione della scuola, riflette,
purtroppo, in maniera coerente e le derive della gestione Berlinguer (19962000; Prodi/D’Alema)-De Mauro (2000-2011; Amato) prima, e della gestione
Moratti (2001-2006; Berlusconi), poi che hanno, infatti, disegnato una nonscuola, volta a soddisfare le diversificate esigenze del territorio, votata alla
personalizzazione e al precoce inserimento nel mondo del lavoro, del tutto
sorda ai princìpi di una Scienza dell’educazione degna di tale nome.
Per concludere:
una brevissima annotazione
 Ben vengano le attività di aggiornamento professionale, i corsi mirati
per acquisire abilità strumentali, le opportunità formative per gli
immigrati, ecc. Non è certamente a un tale fermento politico,
economico e culturale che si rivolge il commento critico, a meno che
tale fermento non agisca prevaricando la scuola e contribuendo a
snaturare ulteriormente il significato dell’espressione “Educazione
degli adulti”, come, invece, è sempre più frequente riscontrare.
 Se vogliamo, infatti, che di educazione e, quindi, di scuola si tratti,
dobbiamo abbandonare la logica del servizio e perseguire, appunto,
quella della scuolità, andando ben oltre al mero sforzo di adeguamento
alle istanze imposteci dalla realtà contingente e dalle schiaccianti forze
economico-politiche.
 Potenziare – qualitativamente non meno che quantitativamente – sia la
ricerca nel campo della Scienza dell’educazione sia il raccordo tra
ricerca e didattica e armonizzarne il rapporto con la politica, mi
sembra, a monte, l’unica chance su cui valga veramente la pena
investire, affinché si possa pensare di organizzare il vivere civile
guardando all’ideale di una comunità permanentemente educante
Linguaggio e Scienza dell’educazione
 In ambito scientifico, il problema del linguaggio rappresenta, in stretta
interazione con quello del metodo e dell’oggetto di ricerca, una delle
questioni più complesse ed ardue da affrontare, per via delle
innegabili “responsabilità epistemologiche” di cui è portatore.
 In effetti, il linguaggio entra in gioco a tutti i livelli di fondazione
scientifica di un sapere, qualificandolo dal punto di vista euristico (di
individuazione e percorribilità di piste di ricerca), ermeneutico (di
interpretazione e re-interpretazione continua della realtà) e, non
ultimo, divulgativo, cioè di partecipazione pubblica ai suoi processi e
prodotti, in un’ottica di circolarità che rende questi tre momenti
necessari l’uno all’altro.
 Non è certo questa la sede per ripercorrere il contraddittorio dibattito
intitolato al linguaggio delle scienze cosiddette “umane” in generale
(e della pedagogia in particolare), definite spesso ambigue e incerte,
in altre parole “meno scientifiche”, proprio a causa di un registro più
incline alla suggestione e al senso comune che non
all’argomentazione logica e alla chiarezza di significato. Tuttavia, tale
dibattito è da tenere sempre presente sullo sfondo delle riflessioni qui
proposte, se non altro come ideale termine di confronto.
Scienza e linguaggio
Scienza è linguaggio
“ogni linguaggio si può considerare come un sistema di ‘modelli’ isomorfi
basati su ripetute duplicazioni. Anzitutto esso ‘duplica’ le cose, permettendo
di sostituirle fino a un certo punto con degli equivalenti maneggevoli sui
quali vengono esperite operazioni ‘vicarie’. La scienza muove dai fenomeni,
ma ragiona su ‘enunciati’ che ne fanno le veci… per la natura combinatoria
del linguaggio, questo viene a costituirsi con elementi variamente connessi.
Oltre al criterio di verificabilità empirica (che include anche il controllo di
falsificabilità delle ipotesi) ossia di ‘referenza’ significativa, il linguaggio
deve rispettare nelle sue connessioni regole di coerenza, a cominciare dalla
non-contraddizione; altrimenti si autodistruggerebbe. Ciò induce a un livello
più basilare di quello linguistico, che è quello logico; dalle strutture
superficiali del linguaggio manifesto siamo rinviati alle sottostanti intenzioni
comunicative, e da queste alle strutture basilari del pensiero (logica delle
proposizioni e logica dei predicati, giudizi e inferenze induttive, deduttive,
abduttive)”
M. Laeng, Termini e testi. Dizionari ed enciclopedie, in “CADMO”, n. 8, 1995, pp. 7, 8, passim
Educando
Giovanni Vidari, voce Educando:
“L’educazione si riferisce soltanto… al momento iniziale, così che possa
definirsi la pedagogia come la scienza dell’educazione dell’uomo nel periodo
di suo sviluppo, oppure essa si riferisce all’uomo in qualunque momento e
fase di sua vita?… Se l’educazione si rivolge all’uomo in quanto soggetto
cosciente e autocosciente, essa avrà ragione di essere sempre là dove la vita
spirituale appaia, pur in gradi e forme diverse, in processo di continua
elaborazione e di svolgimento; epperò nell’infante come nel fanciullo,
nell’adolescente e nel giovine, nell’uomo e nella donna, nel normale e nel
deficiente, purché un qualche barlume di spiritualità vera, cioè attiva e non
mecanizzata (sic), vi brilli. E l’educazione d’altra parte non ha più ragione
né possibilità di essere là dove la vita dello spirito sia spenta o vada
spegnendosi nella ripetizione meccanica di atti, nella incoscienza, nella
insensibilità: se essa si rivolge essenzialmente all’uomo, l’uomo che si educa
non può essere in largo senso che il giovine: quando l’uomo invecchia (e si
può invecchiare a venti anni), cessa di essere soggetto di educazione”
(in Dizionario delle Scienze pedagogiche, diretto da G. Marchesini, Milano, Società Editrice Libraria, 1929, vol. I, p.
443)
Il concetto di ADULTO
Chi è l’adulto? Sulla base di quali parametri si
costruisce la sua identità concettuale?
L’etimologia del termine così come la pluralità di
canoni solitamente utilizzati per definirlo – di natura
fisica, psicologica, giuridica, sociale, culturale, ecc.
– fanno capo ad una significazione che,
evidentemente, rimanda alla conclusione di un
percorso di crescita e all’acquisizione e
stabilizzazione di determinate capacità e ruoli
sociali.
Dal latino adultum, participio passato di adolescere,
cresciuto, sviluppato.
Il concetto di ADULTO
 Non è possibile rilevare una congruenza tra i criteri comunemente
adottati per sancire lo status di adulto né una loro affidabile continuità
nel tempo e nello spazio:
basti pensare alle possibili sfasature, in prospettiva sia diacronica che
sincronica, tra il raggiungimento della maggiore età, l’ingresso nel mondo
del lavoro, la maturità sessuale, la conclusione degli studi, il godimento dei
diritti politici, l’autosufficienza, ecc.
 Tuttavia, il principio sostanziale comune è quello di decretare il
compimento della fase evolutiva per eccellenza – quella dell’infanzia e
dell’adolescenza, appunto – e l’ingresso in una fase della vita
contraddistinta, fondamentalmente, dalla responsabilità sociale, dalla
partecipazione al ciclo produttivo e da un sempre più accentuato
decadimento fisico e mentale
 Poco importa se, presi ad uno ad uno ed a seconda dei contesti e
dei periodi storici, tali criteri anticiperanno o posticiperanno, da un
punto di vista meramente cronologico, questa tappa esistenziale. Di
fatto, in questa prospettiva, essa segna il passaggio da un periodo di
crescita e trasformazione – e quindi, di educazione – ad un periodo di
stabilità che precede una presunta involuzione senile e la morte.
Il concetto di ADULTO
 Per contro, introducendo il criterio della Scienza dell’educazione per la




definizione concettuale dell’individuo adulto si pongono le premesse per
ribaltare quelle radicate concezioni che per lungo tempo hanno pesantemente
influenzato sia l’affermazione scientifica del sapere sull’educazione sia
l’organizzazione del sistema formativo (“oltre” la Pedagogia)
Introdurre il criterio della Scienza dell’educazione, infatti, significa
introdurre la prospettiva della permanenza dell’educazione in qualsiasi
fase della vita dell’individuo. Prospettiva che si dà come necessaria da un
punto di vista logico – e, quindi, a prescindere da un’ideologia politica, da
una spinta filantropica, da un’emergenza contingente, ecc. – nel momento
in cui si avverte l’esistenza di una SCIENZA DELL’EDUCAZIONE che, in
quanto tale, mette a punto un oggetto, l’educazione, che non cambia o
non svanisce a seconda dei soggetti cui via via si rivolge.
In altre parole, nell’ottica della Scienza dell’educazione, l’adulto non può
essere considerato come colui che ha terminato la sua crescita, il suo
sviluppo.
Portando alle estreme conseguenze un simile discorso, potremmo
affermare che, nell’ottica della Scienza dell’educazione, tutti gli individui
sono adolescenti, ovvero soggetti in crescita
Scienza dell’educazione e riconoscimento dell’educabilità continua
dell’individuo vanno di pari passo.
Il concetto di ADULTO
Vale a dire che, laddove il sapere sull’educazione
perdesse la sua connotazione scientifica, non vi
sarebbe alcuna garanzia logica di perseguimento
continuo dell’educazione.
E viceversa: laddove venisse meno l’idea
dell’individuo come entità passibile di educazione –
ossia di trasformazione migliorativa – da una certa
età o situazione in poi, e su questo venisse
organizzato il vivere sociale in generale e il sistema
formativo in particolare, il sapere sull’educazione
subirebbe un duro colpo a livello di legittimità
scientifica, poiché si troverebbe a mettere a punto
un oggetto di studio che non solo non può
sperimentare a pieno, ma non può neppure pensare
in ottica universalistica.
Adulto e “adultità”
 Tutta la saggistica più recente tende a definire
l’adulto in modo tale da avvalorare l’idea di
educazione come continuum esperienziale;
tuttavia molto spesso ci si concentra su questo
aspetto più per le ricadute tecniche del “fare
educazione” che non per rinsaldare l’impianto
scientifico del sapere sull’educazione
 Adultità  volontà di concettualizzare
l’insieme delle caratteristiche che definiscono
l’essere adulto
Adultità e Maturità
Il concetto di ADULTO è da intendersi come strettamente
intrecciato a quello di Maturità, la cui definizione per non pochi
aspetti si sovrappone e/o integra quelle di Adultità e di Adulto. È
il caso, ad esempio, della trattazione di Wanda Visconti, che
identifica la maturità con l’età adulta, ovvero con il “periodo
della vita umana compreso tra l’adolescenza e la vecchiaia”[1].
Tra i vari criteri in base ai quali una persona può essere
definita matura – e, quindi, adulta – l’Autrice indicava una
serie di doveri da perseguire attraverso i rapporti che
l’individuo intrattiene con l’ambiente circostante: ampliamento
delle proprie conoscenze; assunzione di responsabilità;
miglioramento delle proprie capacità di comunicazione
verbale; maturazione verso una specifica e creativa relazione
sessuale; passaggio da uno stato egocentrico ad uno in cui la
persona sia capace di porsi in relazione con gli altri
[1] W. Visconti, voce Maturità, in Enciclopedia pedagogica, diretta da M. Laeng,
Brescia, La Scuola, 1978, Vol. IV, p. 7449.
Il concetto di ADULTO… e la
Pedagogia (un ossimoro superabile!)
 Il problema centrale è quello di sciogliere, con un’argomentazione
solida e, quindi, andando oltre ad una dichiarazione di fatto,
l’apparente paradosso tra quanto suggerisce sia l’etimo del termine
sia la funzione sociale dell’adulto, da un lato, e l’inarrestabile
divenire educativo postulato dalla pedagogia (laddove voglia
condurre ad una Scienza dell’educazione), dall’altro.
 In proposito, Giovanni Genovesi sostiene che “in ottica educativa,
il concetto di adulto… può avere il suo significato più pieno allorché
lo si intende come ‘cresciuto per poter cominciare ad assumersi le
responsabilità derivanti dalla vita associata’ e, in prima istanza,
quelle del lavoro, cioè di una professione che, nel momento stesso
in cui gli permette di offrire prodotti comunitariamente attesi e
fruibili, gli permette anche di esercitare al meglio il suo impegno
etico-politico, ossia la sua dimensione morale”
(G. Genovesi, Le parole dell’educazione. Guida lessicale al discorso educativo, Ferrara, Corso, 1998, p. 16, passim)
Adulti maggiori = coloro che sono divenuti capaci di auto-istruirsi
Adulti minori = coloro che, pur avendo percorso l’intero itinerario della
scuola obbligatoria, sono ancora bisognosi di aiuto e di assistenza per
diventare “spiritualmente maggiorenni”
(S. Valitutti, Definizione dell’adulto, in La Pedagogia, diretta da L. Volpicelli, Milano, Vallardi, 1972.
Vol. III, p. 248)
Valitutti, rifacendosi alla tripartizione di Sergej Hessen (1887-1950),
secondo la quale la vita dell’individuo, dal punto di vista educativo,
attraversa le fasi dell’anomia, dell’eteronomia e dell’autonomia,
sostiene che l’uomo adulto è l’uomo “spiritualmente autonomo, non
colui che, secondo il significato fisico della parola adulto, non cresce più
essendo già cresciuto, ma colui che è diventato capace di crescere
spiritualmente nella pienezza e nella libertà delle sue forze”
( Ibidem)
Infine, il ritratto dell’adulto può essere significativamente
tracciato ricorrendo a cinque “discorsi simbologici”:
1) l’immagine dell’adulto come eroe mitico
2) l’immagine alchemica medioevalistica dell’adulto sfidante
3) l’immagine dell’adulto come mandala della mente
4) l’immagine ebraico-cristiana del compito decisionale adulto
5) l’immagine liberatoria dell’adulto ludens
Cfr. D. Demetrio, Paradigmi istituenti e prospettive epistemologiche, in D.
Demetrio, A. Alberici, Istituzioni di Educazione degli adulti, Milano,
Guerini, 2002, pp. 121-126.
1) L’immagine dell’adulto come eroe mitico
L’eroe-mitologico è un eroe-adulto che:
 riesce a evocare desideri di rigenerazione delle forze spente
 interpreta le istanze intrapsichiche umane desiderose di metamorfosi e di
cambiamenti magici
 esprime la necessità di fuga, ludico-dionisiaca, dal mondo quotidiano
Si tratta, cioè, di una figura trasgressiva che educa alla discontinuità, alla
rottura attraverso:
 lo svincolarsi dalla madre (perché sia possibile la conquista dell’identità
maschile o femminile)
 il superamento delle fissazioni infantili, perché l’eroe, sottoponendosi alle
prove per perseguire la meta (l’elisir), dimostra la sua disponibilità
all’avventura, al rischio e, soprattutto, sa accettarne le conseguenze; e
questo senza sapere in anticipo che sul suo cammino irromperanno figure
soccorritrici
 la dimostrazione che è possibile controllare la morte, perché l’adulto sa,
attraverso la sperimentazione diretta, che la vita è metamorfosi
2) L’immagine alchemica medioevalistica
dell’adulto sfidante
L’adulto simboleggia il miscuglio alchemico degli elementi fra loro
contrapposti, in conflitto eterno, negatori l’uno dell’altro (acqua-aria; cieloterra, ecc.) ma indispensabili alla identità paradossale, perché ouroborica, di
ogni individuo.
L’adulto è chi:
 accetta e riesce a raffigurarsi non solo oniricamente l’ignoto degli eterni
conflitti
 sa utilizzare le procedure alchemiche per stabilire distanze o prossimità
tra i vari elementi
 sa, a proprio rischio, ciò che va fatto e ciò che non va introdotto nel
sistema “uomo”
 ha imparato a esplorare il mondo inconscio e a convivere con gli archetipi
3) L’immagine dell’adulto come mandala
della mente
Il mandala (lett. sanscr. cerchio) è una complessa
rappresentazione simbolica (grafico-pittorica) dell’evoluzione e
dell’involuzione cosmica ma, al contempo, delle forze dinamiche
della psiche umana adulta.
Nella gnosi indo-tibetana buddistica e indù tale
rappresentazione è densa di significati formativi, primo fra tutti
quello di orientarsi nel labirinto della ricerca di sé, del proprio
centro, di dominarsi più che di dominare.
4) L’immagine ebraico-cristiana del compito
decisionale adulto
Il peccato originale e la cacciata dal
paradiso terrestre rappresenterebbero il
passaggio dall’infanzia alle durezze dell’età
adulta. È la donna, futura adulta, che
trasgredisce e invita il maschio a uscire
dall’infanzia paradisiaca: è la scelta di
entrare nella storia, e nell’eterno conflitto
tra bene e male.
L’adulto è colui che non può non decidere.
5) L’immagine liberatoria dell’adulto
ludens
L’adulto è colui che ha il potere di concedere e di
concedersi il gioco, la simulazione, il puro esercizio
dell’immaginario, perché è colui che
consapevolmente e intenzionalmente può
acconsentire o negare che tutto ciò si compia.
Lo spazio adulto di cui l’adulto può essere garante
si trasforma quindi in una zona franca in cui tutto è
possibile e in cui l’apprendimento delle regole è un
gioco.
Adultità e Adolescenza
 Il concetto di adolescenza (adolescere = crescere, rafforzarsi), in
buona sostanza, è il più significativo dal punto di vista della
Scienza dell’educazione per fare riferimento alla continua
perfettibilità, e quindi crescita e trasformazione, dell'individuo.
 Uno studioso francese, Guy Avanzini, aveva, in proposito, colto
nel segno laddove, parlando di educazione permanente, aveva
coniato un nuovo termine: "antropolescente". Tuttavia, tale
termine è inficiato da un riduttivismo: quello di contemplare una
parola greca, quale radice etimologica, che si riferisce all'uomo cioè all'individuo maschio - senza alcuna sottolineatura di
perfettibilità.
 Adolescente (che sta crescendo, che è in crescita), per contro,
etimologicamente parlando, è una vox media, che vale sia per il
genere maschile sia per il genere femminile e che è carica di
valenze intitolate alla trasformazione, al divenire, alla
processualità, al possibile continuo perfezionamento e,
parallelamente, alla sua insanabile incompiutezza.
Adultità e Educazione
Coerentemente a quanto affermato sino ad ora,
una considerazione dell’Educazione degli
adulti come attività di recupero o di
compensazione o di mero aggiornamento del
già acquisito è scorretta, oltre che riduttiva.
L’adulto è un soggetto educabile perché è
suscettibile di trasformazione, ovvero
perché può essere diverso, e migliore, di
quanto già non sia.
In ottica educativa…
- non si diventa adulti per via del semplice e ineluttabile
trascorrere del tempo… ma nella misura in cui il trascorrere
del tempo testimonia un percorso di acquisizione di
conoscenze e competenze
- definire l’adulto significa alludere ad uno status, ambire ad
una situazione esistenziale ideale che, pertanto può
compiersi solo in parte… ma ciò è quanto muove
all’impegno, alla progettualità, allo sforzo di continuare ad
educarsi
- si colgono e si rispettano le molteplici ed eterogenee
manifestazioni individuali e soggettive dell’essere adulto
reale… ma si guarda sempre ad un adulto ideale, ad un
adulto “sognato”
Adultità: PAROLE CHIAVE
Le “parole chiave” dell’adultità rimandano ai
concetti di responsabilità, di autonomia, di
consapevolezza, di intenzionalità… di maturità;
Sono concetti tra loro circolarmente interrelati al
punto da costituire l’uno il presupposto e l’esito
degli altri.
Nel loro insieme, essi sottolineano con forza
crescente l’evidenza degli effetti dell’educazione
sull’individuo, vale a dire la realizzazione, pur
sempre parziale, dello sviluppo delle potenzialità
dell’individuo in direzione di una più piena
appropriazione dello svolgersi della propria
esistenza e partecipazione sociale.
Autonomia
- progressivo esercizio di autonomia
- non è svincolo assoluto
- è assunzione consapevole di vincoli, nel
perenne tentativo di armonizzare la
dimensione individuale con quella
collettiva
Consapevolezza
- progressivo esercizio di consapevolezza
- scandagliata riflessione su se stessi e sul
mondo
- partecipazione voluta e motivata
Intenzionalità
- progressivo esercizio di intenzionalità
- interrogarsi e rispondersi continuamente
sui propri desideri di cambiamento
- impegno etico-morale nelle proprie scelte
di vita
Responsabilità
- progressivo esercizio di responsabilità
- dispositivo che regola l’intersecarsi dei
comportamenti individuali con quelli
collettivi
- banchi di prova: il proprio e l’altrui giudizio
Maturità
- attesta la compresenza di autonomia,
responsabilità, intenzionalità,
consapevolezza
- si esprime, paradossalmente,
nell’avvertimento della propria immaturità
e in quest’ultima avverte il bisogno, e il
piacere, di educarsi
Lo status di adulto
 Un individuo può dirsi in situazione adulta quando
cominciano a svilupparsi e a consolidarsi in lui
quelle caratteristiche che consentono di farne un
educatore, oltre che un educando, e un educatore
e per se stesso e per gli altri.
 È, questo, un meccanismo il cui innescarsi
dipende in maniera decisiva dal fatto di aver
potuto contare, a monte, negli anni dell’infanzia e
dell’adolescenza, sull’opera della scuola, come
occasione intensa e sistematica di educazione, e
solo secondariamente e relativamente da tutti qui
fattori comunemente adottati per parametrare la
condizione adulta: età, capacità riproduttiva, ruolo
sociale, ecc.
Le “sfide” dell’EdA
Coerentemente a quanto sostenuto fin
qui, la prima sfida da affrontare e da
“vincere” per l’EdA è, sul piano
concettuale e su quello storico,
quella della
qualità della scuola
Alcuni assunti di fondo:
alfabeto, scuola, educazione permanente
Se per educazione permanente intendiamo la durata dell’educazione lungo tutto
l’arco di vita dell’individuo, di tutti gli individui, e la sua estensione in tutti i
luoghi in cui si svolge la sua esistenza, diventa fondamentale concentrarci sulle
basi che possono garantire questo infinito dispiegarsi del processo educativo.
La principale tra queste è l’alfabetizzazione, e con essa la scuola, intesa come
luogo sistematico di educazione, di raffinamento di capacità razionali che
trovano nel possesso sempre più sicuro dell’alfabeto – nei suoi vari livelli – lo
strumento cardine.
La prima sfida che si pone all’educazione permanente e, in particolar modo
all’educazione degli adulti, è quella che si intreccia al ruolo e alla funzionalità
della scuola come situazione in cui – per mezzo del lavoro dell’insegnante –
tutti gli individui devono essere avviati al cammino della conoscenza.
Ne deriva che la qualità della professionalità docente, unitamente alla qualità
dell’impianto istituzionale e organizzativo del sistema scolastico, si aggancia
quindi alle reali possibilità di pensare all’educazione degli adulti come al
necessario permanere dell’ideale educativo ben oltre la situazione scolastica,
in cui ha preso avvio ed è stato accuratamente coltivato.
Dalla scuola
all’educazione degli adulti
La scuola rappresenta per l’educazione degli adulti la base più solida
e il presupposto (logico e teorico di fondo, in primis, così come anche
a livello di sostanziale efficacia) degli apprendimenti di cui l’adulto
potrà fare esperienza in molteplici ed eterogenei contesti.
E questo perché nel continuum dell’educazione permanente, la
scuola rappresenta un momento estremamente significativo,
cruciale: essa è (e dovrebbe sempre essere) una «officina di metodo»,
ove si costruiscono «conoscenze generative» e «conoscenze
euristiche»[1].
[1]. Cfr. F. Frabboni, Sognando una scuola normale, Palermo,
Sellerio, 2009, p. 90.
Scuola  Educazione permanente e
degli adulti:
una propedeuticità necessaria
Non ci può essere vera educazione degli adulti, dunque, se non c’è stata,
prima, una vera scuola.
E questa affermazione solo apparentemente collide con una lunga storia di
educazione degli adulti, per larga parte tuttora in corso (e necessaria),
intesa come recupero e compensazione di una scuola che non c’è stata
o c’è stata a intermittenza o, ancora, di una scuola dall’identità debole
sul piano cognitivo e metacognitivo.
Infatti, a ben vedere, non si può non rilevare quanto ciò testimoni il fatto, al
fondo, che la scuola non può mai essere bypassata e che, in nome di
questa necessità, si sia disposti a dar luogo a situazioni faticose e
forzate nel loro anacronismo ma che sono ineludibili, come “tornare
sui banchi di scuola” o, magari, sedervisi per la prima volta, anche se
anagraficamente adulti
È evidente che non si sta andando in questa direzione:
la politica ministeriale italiana degli ultimi tempi – pur prendendo atto di come la
qualità o non qualità della scuola, e quindi degli insegnanti, sia gravida di
ripercussioni sullo stato di più o meno “piena adultità” della vita del nostro Paese –
agisce, in questo settore, al pari di altri, puntando “al ribasso”:
alcune “spie”…

sospensione e, di fatto, chiusura della SSIS (Scuola di Specializzazione per
l’Insegnamento Secondario) [1].

scarso ruolo riconosciuto all’aggiornamento in servizio degli insegnanti

più in generale, continua e progressiva riduzione delle risorse
[1]. Cfr. la Legge n. 133 del 6 agosto 2008, comma 4 ter.
Paradosso:
Proprio quando, da più parti, si invocano l’educazione e la formazione
permanente, enfatizzate più che mai, lamentando al contempo le gravi
lacune degli adulti di oggi, si vanno ad intaccare le fondamenta su cui
quell’educazione e formazione permanente debbono innestarsi,
attecchire e svilupparsi.
È chiaro che ciò che più interessa è una funzionale e RAPIDA conformazione
alle esigenze politiche ed economiche del momento, ed è altrettanto
chiaro che, di là di quanto proclamato, tanto la scuola militante quanto il
settore dell’educazione degli adulti (laddove rifiutano questi intenti e
toccano con mano la necessità di promuovere conoscenze e competenze
forti e durature) operano “controcorrente”, per non dire in una
situazione di “resistenza”
Alcuni dati sull’analfabetismo degli
adulti oggi… e domani
Come è noto, e come si a più riprese già visto, una delle funzioni
storiche dell’educazione degli adulti, in senso moderno –
non l’unica, ma sicuramente la più massiccia – è quella della
lotta all’analfabetismo, una funzione, cioè, che dovrebbe
spettare alla scuola.
E si tratta di una lotta che non solo non può dirsi conclusa,
tutt’altro, ma che addirittura, nella nostra contemporaneità
e anche laddove l’analfabetismo di base sembrerebbe
pressoché del tutto debellato – dalla scuola, appunto – va
urgentemente rinvigorita, a fronte di “nuovi” e dilaganti
analfabetismi, paradossalmente “generati” anche dalla
stessa scuola.
a) analfabetismo strumentale
(nel mondo)
Si tratta di una situazione che, ancora per lungo tempo, ipotecherà
l’educazione degli adulti come recupero, compensazione e, di fatto, come
forma, sia pure adattata, di educazione scolastica:
le ricerche elaborate dall’Istituto di Statistica dell’UNESCO, in particolare il
Global Age Specific Literacy Projections Model (GALP), ci consegnano, a
livello mondiale, un numero totale di analfabeti adulti di 677.857.600 per
l’anno 2010 e di 657.259.300 per l’anno 2015[1].
Proiezioni, queste, che non possono non essere lette senza il riferimento ai dati
più recenti relativi al tasso di scolarizzazione, secondo i quali, nell’anno
2007 e sempre su scala mondiale, 71.791.000 bambini e 71.033.000
adolescenti risultano non scolarizzati rispettivamente per la scuola
primaria e per il primo ciclo di scuola secondaria[2].
[1]. Cfr. Statistiques Internationales sur l’alphabétisme: exsamen des concepts, de la
méthodologie et des données actuelles, Institut de Statistique de l’UNESCO, Montréal, 2008,
p. 46. Occorre inoltre precisare sia che tali dati si riferiscono alla popolazione dai 15 anni
d’età in poi, sia che il significato di alfabetizzazione assunto in tali ricerche è quello relativo
alla capacità “de lire et d’écrire, en le comprenant, un exposé simple et bref de faits en
rapport avec la vie quotidienne” (UNESCO, Liens entre les initiatives globales en matière
d’éducation. L’éducation pour le développement durable en action, Dossier technique no. 1,
Paris, UNESCO, 2005, p. 64).
[2]. Cfr. Adolescents non scolarisés, Institut de Statistique de l’UNESCO, Montréal, 2010, p. 11.
b) analfabetismo strumentale
(in Italia)
Dalle stime dell’UNESCO per l’anno 2008 emerge un
tasso di alfabetizzazione degli adulti del 98,8% e di
alfabetizzazione dei giovani del 99,9% che, in
numeri assoluti, corrispondono alla presenza,
rispettivamente per le due categorie anagrafiche, di
619.460 e di 5.921 analfabeti[1].
[1]. Istituto di Statistica dell’UNESCO in http://stats.uis.unesco.org. Già l’Istat,
in occasione del censimento del 2001, aveva evidenziato, relativamente
alla popolazione residente in Italia a partire dai 6 anni di età, 782.342
analfabeti e 5.199.237 alfabeti ma privi di alcun titolo di studio (cfr.
ISTAT, Annuario statistico italiano 2008, Roma, Istituto Poligrafico e
Zecca dello Stato, 2008, p. 669).
b) analfabetismo
funzionale
In prospettiva educativa, il senso dell’alfabetizzazione travalica il
semplice e pedissequo esercizio di traduzione in/da un codice e,
pure, la già più raffinata abilità di comprensione dei significati del
messaggio, giacché comporta altresì:
la capacità di analizzare e di riflettere sui vari livelli di significato del
messaggio, cioè di utilizzare l’alfabeto come strumento non solo di
acquisizione di conoscenze (intese come semplici asserzioniprodotto) ma anche e soprattutto come strategia per lo sviluppo e
l’invenzione di meta-conoscenze (intese come conoscenzeprocesso);
la capacità di capire le conseguenze delle conoscenze e delle metaconoscenze acquisite sui comportamenti, ovvero la loro incidenza
e, talvolta, la loro prescrittività performativa;
la capacità di decidere se considerare o meno tali conseguenze come
fattibili, perseguibili e, non ultimo, auspicabili
c) 6 categorie a rischio
1) alfabetizzati (ma comunque a rischio alfabetico);
2) analfabeti di fatto (coloro che non posseggono alcun titolo di studio
e non sanno né leggere né scrivere);
3) illetterati (che pur possedendo un minimo repertorio di lettura e
scrittura non sono in grado di utilizzare il linguaggio scritto per
ricevere o formulare messaggi);
4) analfabeti di ritorno (esposti al rischio di regresso, laddove tali
capacità non siano state esercitate);
5) semianalfabeti (possessori del solo titolo di licenza elementare, che
nella nostra società corrisponde a minime possibilità di inclusione
sociale e culturale);
6) analfabeti funzionali (che non sanno esercitare le abilità di base per
poter esprimere il loro diritto di cittadinanza)[1].
[1] Cfr. B. Schettini, Tanti analfabetismi anche oggi. La situazione
italiana e le risposte a un problema che non si risolve ancora, in
http://www.bdp.it, 19 luglio 2005.
d) analfabetismo funzionale:
alcuni dati
Secondo la ricerca Ials-Sials (Second International Adult Literacy Survey),
sviluppata dall’Oecd-Ocde in due successive tornate tra il 1994 e il 2000,
il 34,6% della popolazione italiana nella fascia d’età 16-65 anni, non
supera il primo livello di competenza alfabetica funzionale (“soggetti che
possiedono una competenza estremamente debole, ai limiti
dell’analfabetismo”).
Se a questo dato, poi, sommiamo quello relativo a coloro che si arrestano al
secondo livello individuato (“soggetti che possono leggere testi molto
semplici, ma hanno difficoltà nell’affrontare nuovi compiti e
nell’apprendere nuove competenze professionali”) la percentuale supera
addirittura il 60%[1]
[1]. Cfr. V. Gallina, L’analfabeta globalizzato, in “Italiano e oltre”, n. 1/2001,
pp. 38-43.
In questo stato di cose, un duplice fraintendimento – costringe
l’educazione degli adulti, impedendole di decollare per
quello che essa veramente è e dovrebbe essere:
- prosecuzione dell’educazione oltre la scuola;
- ulteriore fase nel cammino di perfezionamento dell’individuo;
- esercizio di un’adultità in divenire al banco di prova della
responsabilità sociale, politica, lavorativa;
- esperienza piena di svariate e flessibili occasioni di:
crescita personale
trasformazione degli orientamenti esistenziali
scoperta e coltivazione di interessi e motivazioni
affermazione e gratificazione
conoscenza e informazione
scelta e azione
effettiva partecipazione alle sorti del vivere collettivo.
1° fraintendimento dell’EdA
Logica dello “scaricabarile”:
possibilità, teorica e pratica, di continuare ad apprendere al di fuori e oltre
la scuola, nell’ambito del lavoro e nel tempo libero, anche grazie alla
“celerità” e alle “scorciatoie” oggi facilmente rese disponibili dalle
sempre più onnipresenti ed evolute tecnologie informatiche (in
particolare i cosiddetti self-media)
Questo spinge a rimandare, a rinviare ad un indefinito tempo futuro il
conseguimento di quelle conoscenze e di quelle competenze la cui
mancanza, a ben vedere, è all’origine di ricorrenti, e sempre più difficili
da sanare, ritardi.
Si tratta di un perverso effetto del discorso sull’educazione permanente, così
finalizzata ad «alleviare la tensione che si produce nella scuola man
mano che diventa sempre più evidente che questa istituzione non fa ciò
per cui afferma di esistere»[1].
[1]. G. Rossetti, L’educazione permanente tra innovazione e ripetizione, in M.
Gattullo, A. Visalberghi (a cura di), La scuola italiana dal 1945 al 1983, Firenze,
La Nuova Italia, 1986, p. 224.
2° fraintendimento dell’EdA
Intendere il lifelong learning pressoché totalmente
assorbito dalle esigenze del mercato del lavoro.
Quello della professionalizzazione precoce è diventato
anche il criterio regolativo delle riforme scolastiche che,
negli ultimi anni, hanno interessato la scuola secondaria
superiore (cfr. alcuni indirizzi del canale liceale e,
soprattutto, il canale degli istituti tecnici e professionali)
Progressiva erosione del segmento finale della scuola da
parte dell’oltrescuola: precorrendo ciò che verrà dopo e
che deve venire dopo la scuola, si trasforma quest’ultima
nell’anticamera diretta di determinati mestieri e
professioni.
In linea di massima, i tentativi profusi negli ultimi tempi
mettono in ombra le istanze formative proprie della
scuola, sbilanciandosi prematuramente sull’acquisizione
di competenze particolaristiche a scapito del maturo
conseguimento di competenze generali – trasferibili,
declinabili, contestualizzabili, modificabili – che devono,
appunto, connotare la scuola.
È un quadro, questo, ulteriormente aggravato dalla
conferma dell’obbligo formativo dal quindicesimo al
diciottesimo anno di età (che, potendo essere assolto
al di fuori dell’istituzione scolastica, ha fatto “tornare
indietro”, dai 16 ai 14 anni d’età, l’obbligo
scolastico)[1], in cui i problemi principali, allora, sono
sostanzialmente due:
- il fatto che la scuola secondaria di secondo grado non
rientri necessariamente nell’assolvimento dell’obbligo
formativo
- e il fatto che essa, comunque, sia sempre più chiamata a
svolgere compiti professionalizzanti in senso stretto.
[1]. Cfr. la Legge 6 agosto 2008, n. 133, art. 64, comma 4 bis.
Al riguardo, è infine interessare ricordare e riprendere una “supposizione
futurologica” riguardante il rapporto tra educazione, scuola e mondo
del lavoro elaborata da Torsten Husén:
L’educazione generale e la formazione professionale saranno sempre più
interconnesse, soprattutto perché non sarà più possibile prevedere
quali specifiche conoscenze professionali saranno necessarie nel
futuro. Paradossalmente, l’educazione generale (intesa come possesso
di una serie fondamentale di capacità e conoscenze) costituirà la forma
migliore di addestramento professionale. La scuola di base starà a
fondamento della rieducabilità[2].
Quel futuro è arrivato, dispiegandosi nei termini prefigurati… ma lo stesso
non può dirsi per l’assetto della scuola, ridimensionata tanto nel
segmento di base e dell’obbligo, quanto a quel livello “superiore” che,
proprio in virtù dell’articolarsi proteiforme del concetto di
alfabetizzazione nella nostra società, non può che essere anch’esso
considerato “di base”.
[2]. T. Husén, Le nuove direzioni, in K. W. Richmond (a cura di), Educazione
permanente nella società aperta. Fondamenti teorici e pratici, Roma, Armando,
1974, p. 87.
Non si può attingere per abbrivio, sic et simpliciter, al dominio del
metacognitivo, della strategia concettuale, della flessibilità, senza
passare attraverso un processo consapevolmente e competentemente
guidato di costruzione della conoscenza, di graduale padronanza dei
suoi meccanismi e, non ultimo, di progressiva maturazione, in senso
etico-civile, del suo valore e delle sue direzioni d’uso.
Insomma, il rafforzamento della scuola e, in prospettiva dell’educazione
degli adulti, degli influssi di questa a largo raggio, richiede una decisa
inversione di rotta, giacché non si può certo pensare di continuare a
lungo in quella prospettiva di “controtendenza” e di “resistenza” cui
si è accennato.
La cittadinanza attiva non si improvvisa, dunque, si impara, si acquisisce
prima di tutto come abito mentale. Ma perché il concetto che incarna
non si riduca ad un simulacro svuotato di senso e di effettività,
occorre che ogni individuo sia in grado di padroneggiare con
competenza gli strumenti del comprendere, del comunicare, del
riflettere, dell’elaborare e del restituire.
L’uomo, nella prospettiva dell’educazione
permanente,
«è un uomo incompiuto che ha coscienza della
propria incompiutezza.
Sapendo che non gli è lecito ritirarsi sulla
montagna, non cessa di operare nel mondo
affinché il mondo sia opera sua»[1].
[1]. R. De Montvalon, Un millard d’analphabètes. Le savoir et la culture,
Paris, Éditions du Centurion, 1965 ; tr. it. Un miliardo di analfabeti. Il
sapere e la cultura, Roma, Armando, 1966, p. 170
Le “sfide” dell’EdA
Coerentemente a quanto sostenuto fin qui,
la seconda sfida da affrontare e da
“vincere” per l’EdA è, sul piano
concettuale e su quello storico, quella
della
qualità del lavoro
Etimologia della parola LAVORO: dal verbo
lavorare, dal lat. laborare: faticare
LAVORO
- questione complessa, gravida di implicazioni, “scottante”
Costituzione Italiana:
PRINCIPI FONDAMENTALI
 Art. 1 L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro
 Art. 4 La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e
promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni
cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la
propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso
materiale o spirituale della società
Parte prima – DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI – TITOLO III
– RAPPORTI ECONOMICI
 Art. 35
La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori.
Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali
intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro.
Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla
legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero.
 Art. 36
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla
quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad
assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali
retribuite, e non può rinunziarvi.
 Art. 37
La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di
lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al
lavoratore.
Le condizioni di lavoro devono consentire
l'adempimento della sua essenziale funzione
familiare e assicurare alla madre e al bambino una
speciale adeguata protezione.
La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro
salariato [dal 1 settembre 2007 l'età minima per
l'ammissione al lavoro salariato passa da 15 a 16 anni ]
La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali
norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il
diritto alla parità di retribuzione.
«Non è che io ami il mio lavoro: preferisco
starmene attorno in ozio e fantasticare
di tante belle cose che si potrebbero fare.
Non amo il lavoro, nessuno lo ama; ma mi
piace quel che avviene di trovare nel
lavoro, l’occasione di scoprire se stessi»
(J. Conrad, Heart of Darkness, W. Blackwood and Sons, London,
1902; tr. it. Cuore di tenebra, Torino, Einaudi, 1976, p. 162)
L’EdA, nei fatti, quando non è “recupero” della scuola,
perlopiù è formazione professionale dell’adulto…
“Tradizione storica” dell’EdA che si è diffusa e va diffondendosi
sempre più in un aggancio così stretto con la formazione e
l’aggiornamento professionale da rischiare di identificarsi
pressoché completamente con essi.
3 esempi “storici”:
- Platone e la “formazione professionale” degli uomini d’oro, d’argento,
di rame, di ferro
- Rivoluzione industriale e “formazione professionale” degli operai
- Società della conoscenza e “formazione professionale” continua
Si è progressivamente profilata una situazione di potenziale/effettivo
contrasto:
Valore educativo del lavoro e
necessità di una formazione al lavoro
vs
Visione utilitaristica dell’educazione degli adulti
Dimensione educativa (autonoma; prescritta, per
tutti, come necessaria da una Scienza
dell’educazione; incentrata, mediante i contenuti i
più svariati, sull’acquisizione di strumenti
metacognitivi trasferibili; “gratuita”)
vs
Dimensione formativa (eteronoma; negoziata su
committenza; incentrata sulle conoscenze che,
volta volta, sono immediatamente spendibili in
una determinata funzione lavorativa; “utile”)
Educazione
vs
Formazione
EDUCAZIONE/FORMAZIONE
Educazione
Formazione
Finalità:
 universalistiche, oltre i contenuti
specifici
 miglioristiche, a livello
individuale e collettivo
Finalità:
 direttamente correlate ai
contenuti specifici
 non necessariamente
miglioristiche
Intenzionalità (e, quindi,
consapevolezza) educativa, da
parte dell’educatore e, via via,
dell’educando che si fa adulto
L’accento è posto sulla
TRASFORMAZIONE
L’accento è posto sulla
TRASMISSIONE
Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente
(Commissione Europea, Bruxelles, 30 ottobre 2000)
Definisce le nuove competenze di base menzionate nelle
Conclusioni del Consiglio Europeo di Lisbona del 23-24
marzo 2000 (competenze in materia di tecnologie
dell'informazione, lingue straniere, cultura tecnologica,
imprenditorialità e competenze sociali) come
«le competenze indispensabili alla partecipazione attiva
nella società e nell’economia della conoscenza – sul
mercato del lavoro e sul luogo di lavoro stesso, in seno a
comunità “reali” e virtuali, nonché in una democrazia».
In particolare, «imparare ad apprendere, sapersi adattare al
cambiamento e gestire i grandi flussi d’informazione
sono le competenze generali di cui ciascuno di noi
oggigiorno dovrebbe disporre. I datori di lavoro esigono
sempre più dalla manodopera la capacità di apprendere,
di assimilare rapidamente le nuove competenze e di
adattarsi alle nuove sfide e situazioni» (ivi, p. 12, passim).
“imparare ad apprendere”???
Come criterio di per sé non è sufficiente a garantire l’educazione
permanente e degli adulti nel lavoro, non garantisce affatto
l’inverarsi progressivo di quel miglioramento universale che
l’educazione, in quanto tale, persegue.
Occorre, innanzitutto e seriamente, domandarsi:
“Imparare ad imparare per continuare la catena in maniera più
“produttiva”, “prestante”, “adeguata” o, in primo luogo, imparare a
“disimparare” modelli fondati sulla competitività, l’individualismo,
l’esclusione, il primato di una razza e di un popolo? Forse, dopo
questo disimparare, appariranno all’orizzonte nuovi apprendimenti
che riposano sul sapere collettivo, il piacere della cultura, il
pensiero critico e il senso della vita. Allora, nuove forme di
insegnamento, a distanza o residenziali, con tutta la panoplia della
tecnologia educativa, avranno un’altra giustificazione. Si imparerà a
creare posti di lavoro sotto tutte le diverse forme e non a
distruggerli. Si imparerà a vivere la cultura e a non trasformare
quest’espressione dell’uomo in puro mercato.[1]
[1]. E. Gelpi, Educazione degli adulti. Inclusione ed esclusione, Milano, Guerini e Associati, 2000, p. 111.
Una postilla…
Nel Memorandum sull’istruzione e la
formazione permanente il termine
“educazione” è utilizzato solo 31 volte
(soprattutto in locuzioni quali “Ministri
dell’educazione” e simili, quindi non certo
per scelta concettuale), a fronte delle 97
occorrenze della parola “apprendimento”,
delle 229 occorrenze della parola
“istruzione” e delle 320 occorrenze della
parola “formazione”.
“Europa 2020”
“Un’agenda per nuove competenze e nuovi posti di lavoro”:
“modernizzare i mercati occupazionali agevolando la mobilità
della manodopera e l’acquisizione di competenze lungo
tutto l’arco della vita al fine di aumentare la partecipazione
al mercato del lavoro e di conciliare meglio l’offerta e la
domanda di manodopera”[1]
[1]. Commissione Europea, Europa 2020. Una strategia per una crescita
intelligente, sostenibile e inclusiva, Bruxelles, 3 marzo 2010, p. 32. Il
Consiglio Europeo ha adottato la proposta della Commissione il 17 giugno
2010.
Lifelong learning
Training
…
Lifelong education… processo permanente che
coinvolge sì l’apprendimento e la formazione, ma
imprimendo loro un orientamento, una finalizzazione,
una direzione di senso che, pur soddisfando le
contingenze che, inevitabilmente, lo connotano (la
storicità dei contenuti, dei tempi, degli strumenti, degli
attori, delle situazioni eccetera), intende travalicarle,
mantenendo saldo il senso di giustizia sociale e di
responsabilità politica
Il fine, discriminante, dell’educazione è
dunque quello non di «adattare le capacità
umane al ritmo sfrenato dei cambiamenti del
mondo» quanto, piuttosto «di rendere il
mondo, in continuo e rapido cambiamento,
più ospitale per l’umanità» [1]
[1]. A. Porcheddu (a cura di), Zygmunt Bauman. Intervista
sull’educazione. Sfide pedagogiche e modernità liquida, Roma,
Anicia, 2005, pp. 89-93, passim.
Come integrare formazione professionale ed
educazione degli adulti?
La formazione professionale, prima e durante il lavoro, si può
inscrivere nell’educazione degli adulti se, e solo se, investe su
e mira a quei dispositivi mentali superiori che connotano il
cosiddetto pensiero divergente:
“il pensiero divergente, in cui si esprime la creatività, entra in
gioco quando i processi convergenti si sono sviluppati al punto
da permettere un’adeguata padronanza del settore di
applicazione, per cui, fino a una determinata soglia intellettiva,
tra i due tipi di pensiero esiste una stretta interdipendenza che
tende a diminuire a livelli molto alti di intelligenza. Per essere
creativi dunque bisogna avere organizzato bene le basi da cui
spiccare il volo, altrimenti il destino è quello di Icaro” [1]
[1]. U. Galimberti, Parole nomadi, Milano, Feltrinelli, 1994, p. 42,
corsivo nel testo.
La formazione professionale dell’adulto, per avere una
valenza ANCHE educativa…
…non può rendere il soggetto schiavo delle nuove acquisizioni sulle
quali va aggiornandosi, ma deve renderlo padrone di esse.
Una padronanza che consenta all’individuo di programmare il suo
divenire attraverso scelte che, nell’ambito professionale
soprattutto, lo rendono responsabile di fronte a sé stesso e agli
altri.
Perché questo avvenga, tali scelte non possono essere casuali, ma si
configurano necessariamente come la risultante di un processo
logico: proprio quanto, in definitiva, rende il soggetto “padrone”,
ovvero competente, consapevole, in grado di gestire
autonomamente quanto va facendo.
Da una simile riflessione, emergono, quindi, almeno due aspetti da
tenere sempre presenti:
- il primo è rappresentato dal fare come momento di conoscenza,
conoscenza legata alla consapevolezza del processo operativocreativo;
- il secondo aspetto, annette al fare come momento di conoscenza il
quid della padronanza: il creatore è, difatti, colui che domina
quello che fa

CREATIVITÀ
Etimologia del termine creatività:
dal latino creare (far crescere, produrre, causare), la cui radice kar
(fare, creare) è nel sanscrito kar-oti (fare) e si ritrova nel greco
kraino (creo, produco, compio, comando), krantor e kreion (colui
che crea, che fa e che quindi è dominatore), kronos (il creatore),
fino a ceres (la divinità delle messi, propriamente colei che
produce);
di qui, è interessante, per le suggestioni che ne derivano, notare
come nel greco risultino attinenti termini quali poieo (faccio),
demiourgos (colui che plasma, che dà forma) e kronos (colui che
crea)
(cfr. L. Rocci, Vocabolario Greco Italiano, Roma, Società Editrice
Dante Alighieri, 1995), che attestano quanto sia importante la
dimensione della conoscenza.
 “pregiudizi” e “stereotipi” relativi alla creatività
Una “nuova” dimensione della
qualità lavoro…
- dimensione economica
- dimensione ergonomica
- dimensione della complessità
- dimensione dell’autonomia
- dimensione del controllo
-…
la sfida è quella di dare concretezza ad una dimensione educativa
della qualità del lavoro, che non si aggiunge a quelle indicate
ma le organizza in vista più di una crescita reale e umanizzante
dell’adulto-lavoratore che non di un sistema economicoproduttivo autoreferenziale.
 il tipo di formazione professionale “ci dice molto” sul tipo di
lavoro cui si riferisce
Se diviene questa la cartina di tornasole per valutare la qualità del
lavoro, gli effetti non possono che essere dirompenti, tanto sul
piano sociale che su quello politico, giacché il problema principale
è, oltre a quello di riconoscere nel lavoro una dimensione formativa
(di formazione al lavoro e di formazione nel lavoro, che sempre
esiste, sia pure a livelli diversi), anche e soprattutto quello di
riconoscere una dimensione educativa da contemperare a priori, e
non solo da ricavarsi a posteriori.
Ciò, infatti, porterebbe al rifiuto netto – progettuale ed esistenziale
insieme – di tutto ciò che è fare e produrre ma non realizzazione di
sé, e che si accetta per ovviare al solo rischio di indigenza materiale
anche se lascia margini estremamente stretti (quando non
inesistenti) di gratificazione e di slancio personale, di crescita e di
miglioramento.
Non si tratta quindi di incentivare un’interpretazione educativa
solipsistica del lavoro così come è, addossando in toto al lavoratore
lo sforzo di cogliere, di ricostruire e di dotare di significato il proprio
percorso, quanto, piuttosto, di scardinare alla base le logiche di un
modello ove l’educazione è solo un eventuale indotto e non un
criterio strutturale del lavoro.
In conclusione….
Questo significa mettere il dito nella piaga di una situazione lavorativa che
presenta, sia pure a livelli diversificati per intensità e modalità, i caratteri
dello sfruttamento, della mera esecutività, della fatica fine a sé stessa,
del paradosso[1] e senza alcuna contropartita in termini di sviluppo delle
capacità di fruizione/produzione degli individui.
Il riferimento è a tutti quei lavori utili per la collettività, ma dannosi e
alienanti per il singolo, strutturati in modo tale da tagliare fuori le
possibilità educative del momento formativo e di aggiornamento, limitati,
di fatto, ad un elementare addestramento.
[1]. Mi riferisco a quei circoli viziosi, messi in luce da diversi studi sul job searching, che producono
uno stallo del processo decisionale dell’individuo, nella misura in cui il sistema lavorativo richiede, per
potervi accedere attingendo ai suoi livelli di qualità, prerequisiti che il sistema stesso non dà la
possibilità di maturare (ad esempio, un giovane fresco di studi non ottiene un lavoro adeguato alle
sue competenze se è privo di esperienza, ma non c’è modo di acquisire una reale adeguata
esperienza senza lo svolgimento di tale lavoro). Di fronte a un simile stato delle cose, solo adeguate
scelte di policy possono modificare le regole del gioco che generano tali paradossi, abbattendo le
paratie stagne che riducono le situazioni a veri e propri vicoli ciechi (cfr. G. A. Micheli, Sempregiovani
& maivecchi. Le nuove stagioni della dipendenza nelle trasformazioni demografiche in corso, Milano,
FrancoAngeli, 2009, pp. 132-133).
Le “sfide” dell’EdA
Coerentemente a quanto sostenuto fin qui,
la terza sfida da affrontare e da
“vincere” per l’EdA è, sul piano
concettuale e su quello storico, quella
della
qualità del tempo libero
«Nessun dittatore ha mai amato gli
ozi, e nessun ozioso ha mai
preso una dittatura sul serio»
(A. Torno, Le virtù dell’ozio, Milano, Mondadori, 2001, p. 21)
Un primo problema: che cos’è il
“tempo libero”?
Fare coincidere il tempo libero con il tempo non impiegato in attività
lavorativa (e scolastica) scatena immediatamente una serie di
contraddizioni tali da fare cadere qualsiasi possibilità di sostenere
logicamente una simile posizione.
Se così fosse, infatti, dovremmo pensare che:
- chi non lavora o non va a scuola non può avere tempo libero;
- il tempo libero può essere definito solo al negativo, per sottrazione da un
tempo avvertito come coercitivamente occupato;
- la sua unica pregnanza educativa risiede nella occasione che offre di
essere utilizzato per fruire delle svariate opportunità formative messe a
disposizione dalla comunità nel contesto territoriale, assecondando, al
tempo stesso, i propri interessi personali e il desiderio di svago e di
divertimento.
Il tempo libero, adottando questi criteri, risulta essere esclusivamente una
nicchia, una parentesi, un intervallo, da considerarsi sempre in rigida
separazione/contrapposizione con la magna pars del tempo
esistenziale… testimoniando, non di rado, una certa schizofrenia ed
incomunicabilità dello stesso individuo tra sé e sé.
Un secondo problema:
può esistere un tempo “libero”?
Contraddizione più lampante: il tempo libero, inteso come tempo svuotato
da impegni, da attività, responsabilità o regole, per essere vissuto deve
riempirsi nuovamente di contenuti che, anche se differenti da quelli che
vanno a rimpiazzare, comportano non meno impegni, attività,
responsabilità e regole, e questo è tanto più evidente laddove si
innescano situazioni educative presso centri culturali, parrocchie,
partiti, associazioni di vario genere e così via.
Il tempo libero, allora, sembrerebbe esistere solo nominalmente giacché, di
fatto, esso si concretizza nel momento in cui lo si occupa.
Paradossale è anche l’estremo soggettivismo che porta a scambiare,
indifferentemente, ciò che è tempo libero e ciò che non lo è a seconda
delle preferenze e delle situazioni individuali
(esempio: il politico di professione potrebbe ravvisare nella lavorazione della
ceramica il proprio tempo libero, mentre per un ceramista di professione,
altrettanto verosimilmente, questo potrebbe consistere nell’attivismo politico)
Quest’ultimo paradosso, a ben vedere, ci può suggerire un aspetto
importante per avviare la definizione di “tempo libero” sui binari
della rigorosa razionalità e per il chiarimento della sua valenza
educativa.
Infatti, non pare essere tanto e in assoluto il contenuto specifico a
qualificare il tempo libero, bensì l’approccio ad esso e,
parallelamente, il grado di gratificazione che ne deriva.
Al punto che laddove il tempo liberato dal lavoro dovesse essere,
per le ragioni le più svariate, impiegato in attività avvertite come
sgradevoli e opprimenti, la percezione di tempo libero finirebbe
con lo spostarsi verso quello che sino ad ora è apparso come
tempo non-libero.
 Nella prospettiva dell’educazione esiste un unico tempo,
suddivisibile in diversi momenti ognuno con caratteristiche
peculiari, certo, ma complessivamente coinvolto nel processo
educativo.
 Questo testimonia, in prima istanza e ancora una volta, che
l’educazione non si esaurisce nel solo contesto scolastico e,
quindi, che non interessa solo gli individui in età scolare, anche
se l’esserci della scuola, come occasione sistematica del suo
perseguimento, è fondamentale per poter parlare di educazione,
in prospettiva sia individuale sia comunitaria. Ma significa
anche, in seconda istanza, considerare tutto il tempo del
soggetto come tempo educativo: quindi anche quello lavorativo,
quello in alternanza al lavoro (per l’individuo adulto) e, non
ultimo, quello post-lavorativo (per l’individuo anziano).
 La riflessione sul tempo libero in termini educativi,
pertanto, consente di andare al cuore del problema,
proprio perché chiama in causa il senso della libertà
e la responsabilità di significarla, a partire da una
situazione, da uno spazio-tempo non
preventivamente irreggimentato nelle opzioni e nelle
scelte: vero e proprio banco di prova dell’educazione
in termini di auto-organizzazione e, soprattutto, autodeterminazione e auto-affermazione.
 Questo, in definitiva, porta a domandarci se ci sia o
meno permeabilità, se non coerenza e continuità, tra
una condizione e l’altra in cui si esplica l’adultità o, al
contrario, rigida separazione se non, addirittura,
contrasto e opposizione.
In questa prospettiva, allora, determinante
diventa la percezione di una venatura di
libertà del proprio tempo di vita,
impegnato nel lavoro, nel divertimento,
nella relazione interpersonale, nella
coltivazione dei propri interessi, e
considerando questi aspetti in termini di
non necessaria ed automatica reciproca
esclusione
C. Volpi, Il tempo libero tra mito e progetto, Torino, ERI,
1976, p. 196, passim, corsivo mio):
«La teoria dialettica del tempo unico dell’uomo riconosce, in esso,
l’esistenza di diversi momenti e di diversi aspetti costitutivi, ma non
identifica meccanicamente la libertà e la necessità con determinate
forme di attività. Essa sottolinea il fatto che tutte le attività dell’uomo
possono essere libere od obbligate a seconda della qualità della
partecipazione umana, della capacità che ha l’uomo di progettarne e
controllarne la direzione e il significato.
Il divertimento non è intrinsecamente liberatore, ma può trasformarsi sia in
evasione passiva che in approfondimento culturale, a seconda del
ruolo che l’uomo può assumere di fronte alla struttura economica e
culturale degli svaghi.
Il lavoro non è intrinsecamente obbligante, ma può essere creativo
(secondo la funzione che gli è propria) o alienante, tenendo conto della
sua organizzazione e delle sue finalità in un determinato contesto
politico ed economico […]
Lo sviluppo educativo dell’uomo non può cristallizzarsi su una dicotomia
intrinseca che contrappone rigidamente attività in sé obbligate ed
attività in sé libere, ma deve ricercare, in tutte le attività umane, quel
coefficiente di libertà e di significatività che dipende dalla
consapevolezza e dalla partecipazione effettiva del singolo»
G. M. Bertin, Educazione alla socialità e processo di
formazione, Roma, Armando, 1972, p. 167, passim, corsivo
mio:
a) deve essere effettivamente tempo libero dal lavoro e da obbligazioni
analoghe […];
b) in esso il soggetto deve avere effettiva possibilità di scelta tra attività
varie, in modo da accogliere quelle che sono effettivamente
corrispondenti alle esigenze di affermazione e di sviluppo della sua
personalità e al tipo particolare di socializzazione che le è
congeniale[…];
c) il soggetto deve poter dedicarsi a tali attività con una carica ancora
intatta di energie, poiché se esse sono fiaccate da un eccessivo e per
giunta sgradevole lavoro, il tempo libero non potrà essere dedicato
che al rilassamento e allo “stordimento”;
d) il soggetto deve essere educato ad un impiego razionale del tempo
libero, e cioè a un impiego orientato al recupero del momento della
“vitalità” personale, alla sua valorizzazione in direzione di disponibilità
sociale, a un suo raffinamento e ad una sua elevazione in senso
culturale
Da ciò deriva, prosegue Bertin,
«che non può essere considerato razionale quell’uso del tempo libero
che costituisce uno sperpero per la vitalità personale (in quanto
ottunde la sensibilità, involgarisce e standardizza il gusto, incoraggia
l’inerzia, porta all’anonimo e, in definitiva, alla noia», «né può esserlo
quell’uso del tempo libero che, pur esercitandosi in forme intellettuali
ed estetiche, crea per il singolo un mondo di evasione che lo allontana
dagli altri uomini nella ricerca di emozioni, più o meno preziose, fini a
se stesse. Il tempo libero sarà tanto più valido pedagogicamente
quanto più stimolerà le qualità creatrici del soggetto, ma anche quanto
più queste saranno indotte ad aprirsi in direzione di disponibilità agli
altri e a considerare tale disponibilità come la condizione stessa
principale di vigore e di rafforzamento individuale» (ivi, pp. 167-168).
In definitiva, «Occorre insegnare a scegliere – come scriveva Jean
Laloup – ma soprattutto insegnare ad essere: l’essere superiore sa
scegliere bene, mentre l’essere inferiore impiega malamente poveri
criteri di scelta faticosamente appresi» (J. Laloup, Le temps du loisir,
Tournai, Editions Casterman, 1962; tr. it., Il tempo dell’ozio, Torino,
SEI, 1966, p. 227).
elementi cruciali:
- alternativa rispetto al lavoro e, quindi, necessità di integrazione tra i
due momenti, anche alla luce della sperimentazione di una varietà
(per contenuti, attività, approcci, stili comunicativi) di esperienze;
- possibilità e responsabilità di operare una scelta, non limitandosi,
quindi, a quanto offerto-imposto ma, anche e soprattutto,
assumendosi un impegno di valutazione e di autovalutazione e, al
contempo, esigendo un impegno politico-sociale di offerta estesa e
capillare di tali attività;
- esclusione, dal tempo libero, del tempo dedicato al riposo, affinché
tale alternativa non sia solo fittizia (o estremamente marginalizzata o
connotata in termini di reazione/ribellione), e quindi con evidenti
ripercussioni sull’assetto qualitativo e quantitativo del tempo di
lavoro;
- recupero di una vitalità personale in vista del proprio
perfezionamento come criterio educativo sulla base del quale
individuare il proprio tempo libero.
 in questo senso, il tempo libero non può e non deve
essere una “consolazione” delle frustrazioni lavorative
o una “fuga” temporanea e ciclica, quanto, piuttosto,
occasione di ridefinizione del proprio percorso di vita.
 in una prospettiva di educazione degli adulti, questo
aspetto, solo apparentemente lontano dagli impegni e
dalle responsabilità, convoglia su di sé ed esprime al
meglio l’istanza partecipativa e costruttiva dell’identità
adulta a livello comunitario, come soggetto che non
solo utilizza quanto è a sua disposizione ma,
avendone gli strumenti, reclama migliori condizioni e
occasioni
 Sembrerebbe proprio la percezione educativa del tempo libero,
quindi, il criterio fondamentale per una sua definizione, e non gli
aspetti quantitativi di tale tempo, la relativa allocazione o i vari
contenuti che inevitabilmente lo attivano
 Di più: allorché si instaura tale percezione, il tempo libero,
proprio in virtù della sua qualità, evidenzia le cifre, positive e
negative, del tempo di lavoro.
 Alla luce di questo, non solo si spiega ma, anche, si giustifica
l’intrinseca ambiguità del tempo libero, il suo essere spaziotempo di frontiera tra il lavoro e altro-dal-lavoro, tra l’individualità
e la collettività, tra l’attività e la passività, la creazione e la
fruizione e, non ultimo, l’occasione educativa e l’inganno
conformativo e consumistico.

[1]. S. Pivato, A. Tonelli, Italia vagabonda. Il tempo libero degli italiani,
Roma, Carocci, 2001, p. 183.
“Inganni” del tempo libero
 Si sta facendo sempre più strada un’offerta di attività per il tempo
libero che, facendo leva non solo su vuoti e relative paure ma,
anche, su frustrazioni e ambizioni di riscatto e di affermazione, si
impone in maniera generalizzata e pervasiva.
 «Intemperanza ludica»
derivante sia
da una insoddisfacente ed inadeguata esperienza lavorativa, sia
dall’incapacità di dare una significazione originale e creativa al
tempo libero) e commercializzazione (come business, ma
anche come “distrattore” politico e civico), rappresentano le forme
ingannevoli – illusoriamente emancipative – del tempo liberato
dal lavoro e, stando così le cose, impedito nel suo farsi tempo di
libertà
(= mancanza di controllo e di moderazione;
tempo liberato  tempo libero  tempo di libertà
Una realtà, questa, che porta l’educazione degli adulti a
confrontarsi con le trappole di una pseudo-libertà – oggi
amplificata dal virtuale, dal simultaneo e dall’onnipresenza
ripetuta e ossessiva di un tempo libero modaiolo e trendy –
in cui la mera esteriorità ed ostentazione (essere presenti e
visibili in un luogo, mostrare un possesso) hanno il
sopravvento.
Al punto che scelte diverse da quelle pubblicizzate, da quelle di
un’élite (economica e mediatica, soprattutto) che la massa
cerca di imitare parzialmente come può, sono considerate
nell’immaginario collettivo se non eccentriche, quantomeno
di nicchia, in “controtendenza” e, comunque, avvertite e
calcolatamente etichettate in contrapposizione con il
divertimento e lo svago che devono connotare il vissuto del
tempo libero.
Ma più questo tempo libero stride al confronto con
il tempo lavorativo, ovvero più si connota in
termini di eccezionalità rispetto alla quotidianità,
più la sfida educativa si fa seria ed impegnativa.
La sproporzione tra sentimenti, comportamenti e,
anche, consumi esperiti in un tempo e nell’altro
testimonia uno squilibrio di dimensioni tali che
non si può pensare di armonizzare, se non in
modo fittizio, con una media matematica tra
eccessi, dalla quale far scaturire una cifra
accettabile di soddisfazione.
 In questi termini, la ricerca di una possibile
compensazione non solo è destinata a fallire, ma ciò
che più conta, sul piano educativo, è che non si avvia
alcun processo di trasformazione: si oscilla,
alternativamente, da un piano di lavoro a un piano di
tempo libero lasciandone inalterati gli assetti, in
entrambi i casi subiti.
 Si continua, sostanzialmente, a perdere qualcosa e ad
illudersi di recuperala; si sopporta qualcosa
procrastinando un piacere che svanisce in fretta per
ricominciare tutto daccapo.
 Per queste ragioni, non è peregrino parlare di inganni
relativamente a quel tempo libero che, in realtà, è
imposto da un mercato del lavoro che, in un circolo
vizioso, deve potersi reggere su un corrispondente e
coerente mercato del tempo libero.
Ha scritto Domenico De Masi che:
“da parte mia, riesco ad individuare il seme della felicità solo nel
lavoro creativo e nel tempo libero: perciò coltivo l’ipotesi che l’ozio,
nella società postindustriale, possa diventare importante almeno
quanto il lavoro e che via via finisca per fare tutt’uno con esso,
entrambi assumendo le connotazioni del gioco”[1]
Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione mentale che, da un
lato, porterebbe vantaggi non meno preziosi di quelli che furono
assicurati dalla rivoluzione industriale ma, anche, e moltiplicati, gli
stessi ostacoli: resistenza culturale ai cambiamenti psicologici e
sociali e, non ultimo, resistenza politica ad una inevitabile – in
questo scenario – ridistribuzione del potere
[1]. D. De Masi, Il futuro del lavoro. Fatica e ozio nella società
postindustriale, Milano, Rizzoli, 1999, p. 49.
“proverbio zen”
MAESTRO DI VITA
Chi è maestro nell'arte di vivere fa poca distinzione
tra il proprio lavoro ed il proprio gioco, tra la propria
fatica ed il proprio divertimento, tra la propria mente
ed il proprio corpo, il proprio studio e il proprio svago,
il proprio amore e la propria religione. Quasi non sa
quale sia dei due. Persegue semplicemente il proprio
ideale di eccellenza in tutto quello che fa, lasciando
agli altri decidere se stia lavorando o stia giocando.
Ai suoi occhi, infatti, lui sta sempre facendo entrambi.
Il gioco… tra lavoro e tempo libero
La dimensione del gioco diventa il perno di tutto il discorso: ma se, e solo
se, considerato nella sua peculiare valenza educativa.
L’orientamento ludico contraddistingue, quindi, la marca educativa tanto
del tempo libero quanto del lavoro, disvelando le reali occasioni di
crescita e di trasformazione individuale ad entrambi i livelli, in questa
prospettiva solo metodologicamente distinti e distinguibili.
Tracciandone le caratteristiche salienti, Johan Huizinga rilevava che:
“Comunque sia, per l’uomo adulto e responsabile il gioco è una funzione
che egli potrebbe anche tralasciare. Il gioco è superfluo. Il bisogno di
esso è urgente solo in quanto il desiderio lo rende tale. Il gioco può in
qualunque momento essere differito o non aver luogo. Non è imposto da
una necessità fisica, e tanto meno da un dovere morale. Non è un
compito. Si fa nell’ozio, nel momento del loisir dopo il lavoro. Solo in un
secondo momento, facendosi il gioco funzione culturale, i concetti
dovere, compito, impegno, vi si congiungono. Ecco dunque una prima
caratteristica del gioco: esso è libero, è libertà” [1]
[1]. J. Huizinga, Homo ludens. Versuch einer Bestimmung des Spielelmentes der Kultur, Amsterdam,
Pantheon Akademische Verlagsanstalt, 1939; tr. it. Homo ludens, Torino, Einaudi, 1973, p. 11.
 L’orientamento ludico diventa così una strategia di
vitale importanza per la permanenza dell’educazione,
una “fuga” finalizzata sempre ad un consapevole ed
arricchito “ritorno” in termini di apprendimento,
capacità interpretativa e di intervento sul reale.
 In questo senso, in quanto esperienza educativa e
forma mentis, il gioco è, solo apparentemente, un
parentesi, un trastullo, un passatempo, un’attività
circoscritta fine a se stessa, giacché si offre come
esercizio di simulazione analogica e di
potenziamento immaginativo-creativo.
 E, soprattutto, si offre altresì a sua volta come
criterio di scelta e di gestione del tempo libero,
imponendo ad ognuno di essere, in qualche
modo, giocatore, protagonista attivo, attore del
gioco stesso.
 Ciò comporta, ancora una volta, la
considerazione del tempo libero come tempo
dell’impegno e della cura di tutte le dimensioni
del sé, come banco di prova e di valutazione
cosciente di tutto il nostro tempo.
Più che di consolazione e di recupero, dunque, il
tempo libero si dimostra in primis opportunità di
conoscenza di sé e della propria situazione
esistenziale e, di qui, possibile molla di
cambiamento e transizione ad un altro status, in cui
il lavoro possa rispondere a quelle istanze di
passione, coinvolgimento, gratificazione, creatività e
di relazione appagante (con se stessi, con gli altri)
sperimentate, appunto, come tali in un tempo libero
ludicamente vissuto.
E non è un caso che uno dei desideri più ricorrenti
nell’adulto sia quello di conciliare, se non addirittura
fare coincidere, le attività elette per il proprio tempo
libero con quelle del lavoro
 Riconoscere, scegliere e, prima di tutto, desiderare di imprimere
al proprio tempo libero la direzione verso “tempo di cura di sé”
rappresenta una vera e propria sfida dell’educazione
permanente e, in modo particolare, dell’educazione degli adulti,
giacché è soprattutto l’adulto a vivere sulla propria pelle un
costante rischio di dimidiazione spazio-temporale.
 La portata della questione coinvolge, come si vede, il piano del
singolo non meno di quello della collettività, quello della
domanda non meno di quello dell’offerta di attività
specificatamente approntate per il tempo libero e, pertanto, si
scontra con quelle logiche politico-economiche che
spersonalizzano il mondo del lavoro e quello dello svago
conducendo a forme fondamentalmente analoghe di alienazione
Il tempo per sé e per la cura di sè…
“È tempo per riposare, per orientarsi, per informarsi, per
prendere decisioni; ancora: per ascoltarsi, per stare con
se stessi; tempo per prendere distanza e per cercare di
capire. Tempo per sé è condizione per l’apprendimento
continuo, per l’autoconoscenza, per la costruzione della
riflessività: processi che caratterizzano gli attori sociali
nella vita quotidiana. Non è tempo libero e non è tempo
di lavoro, anche se come il primo è caratterizzato dalla
flessibilità e dall’autodirezionalità, e come il secondo è
non rinunciabile e non occasionale”
L. Balbo, Tempo di lavoro, tempo libero, tempo per sé, in “Storia in Lombardia”, n.
1-2/1995, p. 68
Due “livelli” nel modo di intendere il
tempo libero:
 il primo, distaccandosi dal lavoro, per consentire
all’individuo di mettere in atto, dopo il necessario
recupero delle forze fisiche e psichiche, energie
creativo-produttive e relazionali intitolate al
perseguimento di una qualità della vita più piena
e più partecipativamente pensata e goduta
 il secondo, riallacciandosi al tempo di lavoro per
una appropriazione coerente (nei meccanismi,
nelle finalità) di tutto il tempo esistenziale.
Una duplice sfida educativa in
relazione al tempo libero:
Al primo livello, la sfida educativa più impegnativa risiede nel saper
fruire e nel saper richiedere occasioni di tempo libero che – lungi
dall’incrementare l’acquiescenza del lavoratore verso forme
alienanti di lavoro e, parimenti, l’omologazione indotta dal mercato
del tempo libero come tempo di remissivo consumismo – siano di
reale gratificazione per l’individuo, mobilitandone e sollecitandone
il divenire di sé
Al secondo livello, poi, l’impegno educativo si colora oltremodo di
idealità, laddove ravvisa nel tempo libero la chance per
eccellenza in grado di scardinare un’impostazione del lavoro che
non va oltre la mera sopravvivenza, guardando, utopicamente,
non solo ad una integrazione tra otium e negotium, ma addirittura
alla possibilità dell’otium nel negotium, condizione stessa
dell’inverarsi dell’educazione permanente come processo diffuso.
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MATERIALE DIDATTICO a.a. 2011/2012