Educazione degli adulti Prof.ssa Elena Marescotti Dispense a solo uso didattico interno Elena Marescotti 2012 Università degli Studi di Ferrara Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in Scienze dell’educazione Anno Accademico 2011/2012 “Educazione degli adulti”: aspetti didattici e organizzativi del corso - Programma d’esame (prerequisiti, contenuti, obiettivi) - Calendario e argomenti delle lezioni - Dispense didattiche on-line - Modalità di svolgimento dell’esame (prova orale; a partire dall’esposizione un argomento a scelta) - Appelli d’esame (21/05; 05/06; 19/06; 10/07; 11/09; 25/09/2012 – 08/01 30/01/2013 – ore 10.30) - Pre-appelli d’esame (17/04 e 08/05/2012, ore 12.00, Aula 14; riservat agli iscritti al III anno di corso per l’a.a. 2011/2012) - Ricevimento studenti - Tesi di laurea Educazione degli adulti: polisemia e ambiguità 1) Prassi (educazione in età adulta) (più o meno razionalizzata, più o meno eteronoma, più o meno spontaneistica, che ha una sua storia, sue regole, suoi presupposti, sue circostanze facilitanti e ostacolanti, suoi spazi, suoi contenuti, suoi metodi, ecc. Prassi che non di rado si è posta al servizio di determinate esigenze sociali, economiche, politiche – un qualcosa che accade; apprendimento) 2) Teoria (educazione per gli adulti) (che organizza al meglio quella prassi, o meglio teorie – di vario stampo: politiche, economiche, psicologiche, sociologiche – che intendono organizzare al meglio quella prassi e finalizzarla funzionalmente a determinati scopi contingenti – un qualcosa che si fa accadere in vista di obiettivi circoscritti; attività di formazione e di conformazione) 3) Teoria/Prassi della ricerca educativa (educazione permanente) (che fa capo ad una scienza, la Scienza dell’educazione, dalla quale trae i suoi presupposti e le sue necessità logiche e al cui sviluppo, chiarimento, approfondimento e progresso contribuisce. Il senso più corretto, allora, di Educazione degli Adulti, anche se esiste come disciplina di insegnamento a se stante, è quello di attività scientifica della Scienza dell’educazione – un settore di ricerca; una modo di essere dell’educazione; un qualcosa che si persegue in vista di finalità universalistiche e miglioristiche) Alcuni aspetti fondamentali: Nella dizione Educazione degli adulti, ormai sedimentatasi linguisticamente, la specificazione “adulti” non sta a significare l’oggetto di ricerca, bensì la sottolineatura di una situazione esistenziale e concettuale specifica; si tratta solo di denunciare l’intenzione di puntare i riflettori su questa dimensione per ragioni di tipo metodologico a livello euristico (di ricerca) ed ermeneutico (di interpretazione) In altri termini, si tratta di individuare un momento e una situazione particolare dell’educazione (quella che coinvolge l’adultità e tutto quello che ne consegue) per meglio comprendere il significato e la portata dell’educazione stessa come “universale” Diverse posizioni in contrasto… Educazione degli adulti… una scienza autonoma, a sé stante una delle presunte tante Scienze dell’educazione una scienza pratica una prassi una teoria una pista di ricerca della Scienza dell’educazione Problemi di sistemazione epistemologica… Fino agli anni Ottanta del Novecento, la maggior parte degli studi in questo ambito seguivano per lo più tre linee guida: 1) quella che porta a rimarcare la diversità all’interno degli altri luoghi entro i quali si attua la formazione dell’individuo 2) quella volta a considerare la relazione formativa con adulti un oggetto di studio prevalentemente orientato alla messa in luce di bisogni urgenti (l’alfabeto, il titolo di studio, l’aumento di professionalità, ecc.) 3) quella di ritenere che fosse possibile stabilire un’equazione deterministica, di immediata sequenzialità causa-effetto, tra azione educativa e azione di responsabilizzazione (coscientizzazione) politica, tra associarsi di adulti e valenze emancipative. Secondo Duccio Demetrio, aver sostenuto, molto più di quanto fosse necessario, che l’Educazione degli adulti è “altra cosa” rispetto ad altri canali formativi e che i bisogni adulti sono sempre specifici, finì con il separare i discorsi sugli adulti e sulla loro educabilità dal più generale dibattito scientifico che agitava il mondo dell’educazione. (D. Demetrio, La ricerca in Educazione degli adulti, in D. Demetrio, A. Alberici, Istituzioni di Educazione degli adulti, Milano, Guerini, 2002, pp. 18-19) Questioni di fondo… il problema della distinzione è un problema cruciale nel fare ricerca, in qualsiasi settore dalla Pedagogia alle Scienze dell’educazione Scienze dell’educazione: una “metafora irrigidita” moltiplicazione di presunte scienze: a) aggettivare la parola “pedagogia” o specificarla con un genitivo: sociale, interculturale, speciale, comparata, olistica, ecc. per il primo caso; della marginalità, della famiglia, del gioco, del lavoro, della scuola, del tempo libero, ecc. per il secondo caso; b) completare con la specificazione “dell’educazione” il nome di altre scienze già esistenti: psicologia dell’educazione, sociologia dell’educazione, medicina dell’educazione, economia dell’educazione, ecc. c) utilizzare le “varie” educazioni come nomi di discipline: educazione degli adulti, educazione ambientale, educazione alimentare, educazione interculturale, ecc. Articolare non è, e non deve essere, frammentare il senso e le finalità dell’educazione! Educazione in senso scientifico = processo di portata tendenzialmente universale La “nascita” dell’EdA: alcuni contributi teorici e situazioni storiche Platone (427-347 a.C.) A. Comenio (1592-1670) J. Locke (1632-1704) J. J. Rousseau (1712-1778) Rivoluzione industriale Rivoluzione francese Platone (427-347 a. C.) Il percorso formativo che Platone descrive ne La Repubblica, un percorso pensato per i veri filosofi, ovvero per gli uomini d’oro[1], coloro che sarebbero diventati i governanti, che può arrivare sino all’età di 50 anni (fino ai 20 anni, un’educazione propedeutica e la ginnastica; dai 20 ai 35 anni si svolgeva l'alta scuola di dialettica, seguivano poi altri 15 anni di prova, per dimostrare il proprio valore nel campo pratico e nel sapere, e a 50 anni si poteva giungere alla meta, ovvero ad esercitare il ruolo di governante); scrive Platone: “Fatti cinquantenni, quelli che si siano mantenuti integri e abbiano sotto ogni riguardo e in tutto primeggiato in opere e scienze, van finalmente condotti al punto finale, e obbligati, rivoltando in su il lume dell’anima, a guardare ciò che dà a tutti luce; e visto che abbiano il Bene in sé, e di esso servendosi come modello, a dar ordine allo stato, ai privati e a sé stessi nel resto della vita, ciascuno a turno, passando la maggior parte del tempo intenti alla filosofia, e quando giunge il loro turno, travagliandosi nelle faccende politiche e ricoprendo uffici di governo, ciascuno per amor dello stato, e non come facendo qualcosa di bello bensì di necessario; e così educando altri consimili, e lasciandoli al loro posto come Guardiani della città, se ne andranno infine ad abitare le Isole dei beati. E la città dovrà far loro pubblici monumenti funebri e sacrifici…” [2]. Il concetto di anamnesi, ovvero il conoscere come memoria che ricostruisce, si tratta della reminescenza delle idee, che è l’atto supremo del conoscere: le idee, dimenticate, ovvero cadute nell’oblio dopo aver bevuto l’acqua del fiume Lete, ritornano alla mente attraverso la conoscenza che, a questo punto, è un ricordare. Conoscere significa risvegliare quelle conoscenze che l’individuo ha in potenza. La stessa etimologia della parola, appunto di origine greca, anamnesis, significa ricordo. Bene, si tratta di un’ esperienza, questa, che accompagna l’individuo per tutto l’arco della vita; Il concepire la vita dell’uomo come continuo interrogarsi, in un ininterrotto dialogo ove il filosofo incarna la figura talvolta reale talvolta solo ideale del maestro; secondo Platone, l’insegnamento doveva avvenire attraverso discussioni e conferenze, volta volta retti anche dai discepoli più anziani. [1]. Questa la ripartizione sociale di Platone: gli uomini d’oro (i filosofi cui spettava il compito di governare); gli uomini d’argento (i guerrieri); gli uomini di rame (i commercianti); gli uomini di ferro (gli schiavi). [2]. Platone, La Repubblica, Milano, BUR, 1999, p. 555 (Libro VII, 540 b, c). Amos Comenio (1592-1670) Idea di educazione che egli propugna come universale: si tratta dell’ideale pansofico, secondo cui educare significa sempre insegnare tutto a tutti. Per Comenio questo ideale ha motivazioni teoriche, cioè non deriva da necessità di carattere contingente, ma si tratta di una necessità di principio che anima l’educazione: l’educazione o è per tutti – adulti compresi, quindi – o non è educazione. Tuttavia, Comenio si concentra soprattutto su quella che chiama “l’età crescente” e che egli suddivide in quattro fasi: infanzia, puerizia, adolescenza, giovinezza. Ad ognuna di queste fasi, Comenio fa corrispondere una scuola particolare: la scuola dell’infanzia (da 0 a 6 anni); la scuola di lingua nazionale (6-12 anni); la scuola di latino (12-18 anni) e l’Accademia (18-24 anni). In queste scuole, che seguono il principio della gradualità, non si fanno cose diverse, ma le stesse cose in modo diverso. È comunque tramite questo esercizio che si pongono le premesse affinché il processo di formazione possa durare sempre. J. Locke (1632-1704) Saggio sull’intelletto umano (1690): ogni individuo è suscettibile in ogni momento della sua vita di educazione, in quanto è suscettibile di creatività di pensiero. A quest’opera, segue come una sorta di completamento, La Guida dell’intelletto umano, che sarà pubblicata postuma: qui Locke traduce in una sorta di modello formativo il modello conoscitivo elaborato nel Saggio sull’intelletto umano. In questo modello formativo, emergono chiare le caratteristiche di un’educazione che, necessariamente, deve durare per tutta la vita. Seppure non manchino forti limiti, legati alla politica e alla ripartizione in classi sociali (educazione del gentleman), sono presenti nel pensiero di Locke germi assai fecondi, come l’idea che l’educazione sia la condizione necessaria per formare un uomo non più soggetto a un’autorità indiscutibile e, per questo motivo, capace di autogovernarsi a livello politico, ma anche a livello morale. Questo percorso educativo deve condurre l’uomo lungo il sentiero che gli consente di acquisire i tratti propri dell’umanità, che sono poi i tratti della ragionevolezza. Quindi, l’educazione dell’individuo-cittadino non è di tipo morale o civico, ma di tipo logico e intellettuale. L’intelletto deve essere educato, l’intelletto che è alla base dell’agire, della libertà del volere e dell’autodeterminazione. J. Locke (1632-1704) L’intelletto deve essere educato: questo significa sottoporlo ad un esercizio continuo e, pertanto, significa dotarsi di strumenti, di un valido indirizzo metodologico. Per giungere alla piena maturità, che è sinonimo di capacità, di retto giudizio e di autodeterminazione – oggi noi diremmo di adultità – è necessario abituarsi a guardare quanto ci circonda in maniera dubitativa, senza pregiudizi e senza ossequio verso l’autorità. Locke, infatti, usa spesso in questa opera l’espressione “libero esame”, per sottolineare la sua polemica contro i pregiudizi, i dogmi, la pigrizia, la parzialità, la presunzione, l’indifferenza e la superficialità con cui sovente, ci si approccia al mondo e ai suoi fenomeni, di qualsivoglia natura essi siano. Al contrario, Locke insiste sull’opportunità di considerare con attenzione l’esperienza, di lavorare sui concetti, di distinguerli, di ordinarli. Lo scopo di questo esercizio continuo non è solo l’arricchimento del contenuto del pensiero, certo anche questo, ma ancora di più la conquista della varietà e della libertà degli atti del pensiero e la crescita dei poteri e dell’attività della mente. Per questo sono necessarie pazienza, calma e gradualità. Solo attraverso l’acquisizione di una simile forma mentis l’uomo potrà dirsi pronto per affrontare argomenti e riflessioni impegnative, come i problemi morali, politici e religiosi e le questioni che riguardano quelle che lui chiama “verità fondamentali” J. J. Rousseau (1712-1778) In generale, l’educazione deve mirare a realizzare un rinnovamento della società che sia radicale, sviluppando nel soggetto le sue potenzialità in modo che possa diventare un individuo autonomo, capace di trovare in sé la capacità di fronteggiare sempre, in modo personale, le varie situazioni che si potranno verificare. Per Emilio si pensa ad una educazione continua, in tutte le fasi della sua esistenza (Emilio o dell'educazione, 1762). Organizzazione politica ed educativa del vivere sociale: “comunità educante” (Considerazioni sul governo della Polonia (1771-1782): si prevedono tutta una serie di attività – spettacoli, feste, ecc. – con intento formativo per un pubblico di adulti) Rivoluzione industriale accentua il cosiddetto sentimento dell’infanzia, sia per una separazione netta a livello lavorativo (cosa che in un sistema agricolo non avveniva), sia per l’intensificarsi delle rivendicazioni dei diritti dei bambini, sfruttati nelle fabbriche la categoria “adulta” rafforza la propria identità e gli operai sono sempre più chiamati ad istruirsi per meglio contribuire allo sviluppo industriale il formarsi della classe operaia, del resto, stimola una presa di coscienza a livello politico e sindacale, che sfocerà poi per buona parte nel socialismo utopico, ove l’istruzione e l’alfabetizzazione vengono ad essere concepite come ineludibili strumenti di emancipazione l'impianto industriale impone una inedita parcellizzazione del lavoro, che aliena l'individuo in quanto lo mette nella condizione di non conoscere più l'intero processo del lavoro - come accadeva con l'artigianato - inducendogli quindi il bisogno di capacità di ricostruzione, e quindi di strategie concettuali in stretta connessione a questo aspetto, va altresì sottolineato come la scuola e l'educazione degli adulti comincino ad attecchire per la presa di consapevolezza che si danno come strumenti di mobilità sociale: imparare continuamente serve a migliorare continuamente la propria qualità della vita. Rivoluzione francese (1789-1799) filosofia dei “lumi” istruzione come strumento per rendere gli uomini più uguali e più liberi alfabetizzazione come requisito fondamentale per supportare il suffragio universale Rivoluzione francese Nel Rapporto Condorcet, la relazione redatta da Antonine Caritat de Condorcet[1] su L'Organisation Générale de l'Intruction Publique (21 aprile 1792) leggiamo: "L'istruzione deve essere universale e cioè essere estesa a tutti i cittadini… Deve, nei suoi diversi livelli, abbracciare l'intero sistema delle conoscenze umane e assicurare agli uomini in tutte le età della vita, la facilità di conservare le loro conoscenze e di acquisirne delle nuove". Gli eventi storici, nell'immediato, impedirono la realizzazione delle proposte. Occorre aspettare almeno il 1820 per vedere affermarsi una serie di iniziative a favore della cultura del popolo. [1]. Marie Jean Antoine Caritat marchese di Condorcet (1741-1794 suicida). Di formazione matematico, segretario dell'Accademia delle Scienze dal 1776, si autoproclama discepolo di Voltaire. Si accosta ai lavori dell'Enciclopedia, coltivando sempre meno la "scienza pura" per dedicarsi ad esaltarne la virtù rinnovatrice e rivoluzionaria. Eletto deputato alla legislativa di Parigi, fu nominato presidente dell'Assemblea, cui presentò la relazione sull'istruzione pubblica. Tale relazione non fu mai discussa, ma divenne il punto di riferimento della cosiddetta "pedagogia rivoluzionaria" (Cfr. Ernesto Codignola, in Enciclopedia Italiana (Treccani), Roma, 1949, L’origine “danese” dell’EdA e il suo “capostipite” simbolico”… Nicolai Frederik Severin GRUNDTVIG (1783-1872) FolkehØjskole INGHILTERRA Nel 1903 Albert Mansbridge (1876-1952) fonda la Workers’ Educational Association, che svolgeva il suo lavoro educativo in povere stanze affittate nei quartieri periferici delle grandi città, vicino alle fabbriche, e che, secondo il suo fondatore, doveva diventare un movimento di autoeducazione popolare, realizzando altresì un solido collegamento tra le forze del lavoro e la scienza, e cioè tra sindacati, cooperative e università FRANCIA La Rivoluzione Francese ha avuto un ruolo di tutto rilievo nella costituzione teorica e operativa dell'Educazione degli Adulti. Nel Rapporto Condorcet, il rapporto di Antonine Caritat de Condorcet su L'Organisation Générale de l'Intruction Publique (21 aprile 1792) leggiamo: "L'istruzione deve essere universale e cioè essere estesa a tutti i cittadini… Deve, nei suoi diversi livelli, abbracciare l'intero sistema delle conoscenze umane e assicurare agli uomini in tutte le età della vita, la facilità di conservare le loro conoscenze e di acquisirne delle nuove". Gli eventi storici, nell'immediato, impedirono la realizzazione delle proposte. Occorre aspettare almeno il 1820 per vedere affermarsi una serie di iniziative a favore della cultura del popolo. Nel 1830 viene fondata l'Association polythecnique pour le Développement de l'instruction populaire, alla quale prestò la propria opera anche Auguste Comte Nel 1862, alla Esposizione Internazionale di Londra, avvengono i primi contatti tra i movimenti di cultura popolare francesi e i movimenti operai inglesi, che portano alla formazione della I Internazionale e a sempre più pressanti richieste di istruzione. Nel 1866 si costituisce la Ligue de l'enseignement. Il 16 giugno 1881 viene votata la legge sulla gratuità dell'insegnamento che nel 1889 viene reso obbligatorio e laico. Nel 1892 si costituisce la Lega per i diritti dell'uomo e sorgono le prime Università popolari. ITALIA A Torino, sin dal 1853 era stata fondata una Società di Istruzione, di educazione e di mutuo soccorso tra gli insegnanti, con l'intento di portare il contributo di una esperienza diretta alla scuola popolare. Nel 1893 nasce a Milano la Società Umanitaria, al fine di fornire l'alfabetizzazione a chi non l'avesse ancora ricevuta. Nel 1901 sorgono le Università popolari per iniziativa di organismi popolari, con l'eccezione dell'Università popolare di Roma che si costituì per volontà di un gruppo di docenti. Numerose furono le iniziative a favore, più o meno direttamente, dell'educazione degli adulti: leghe contadine, corsi rurali, cooperative, ecc. e anche i corsi fondati dalle Società di mutuo soccorso e dalle Società operaie che andavano moltiplicandosi. Particolare attenzione va riservata alle scuole per i contadini dell'Agro romano, fondate dal poeta Giovanni Cena e alla Associazione per gli interessi del mezzogiorno (1910): entrambe affrontarono il problema dell'analfabetismo degli adulti inquadrandolo nell'ambiente e nelle tradizioni locali; la prima, concentrandosi sulla cura e prevenzione della malaria (contributo di Angelo Celli) e sulle forme creative del lavoro artigianale, la seconda legando l'educazione col fattore economico tramite l'appoggio dato alla costituzione delle cooperative. Con l'avvento del fascismo, tutte queste iniziative vennero, in genere, osteggiate o comunque “sostituite”. CANADA 1899: nasce il Frontier College per opera di Alfred Fitzpatrick, un pastore presbiteriano missionario, con lo scopo principale di alfabetizzazione degli adulti. Con la prima guerra mondiale e in seguito all'ondata di nazionalismo che pervase il Canada, il centro si assunse altresì il compito di "canadesizzare" gli immigrati, per prevenire eventuali processi rivoluzionari. Secondo le intenzioni del fondatore, non solo tutti i lavoratori avrebbero dovuto avere accesso all'istruzione superiore, ma lavoro e educazione avrebbero dovuto alternarsi. U.S.A. L'opera di alfabetizzazione primaria degli adulti si accompagnò a quella dell'adattamento degli immigrati alla lingua e alla cultura del nuovo ambiente, senza trascurare, con i problemi posti da una forte industrializzazione e da una forte crescita urbana, i temi della fruizione del tempo libero. Un esempio significativo: La Hull House, fondata a Chicago nel 1889 da Jane Addams: è il più famoso fra i social settlements che si diffusero negli Stati Uniti dalla seconda metà dell'Ottocento. La Hull House ospitava stabilmente, per periodi più o meno lunghi intellettuali impegnati nella difesa delle classi più deboli della società, offriva a tali classi non solo aiuti concreti e materiali (ad esempio, nursery per accudire i bambini), ma anche l'apporto di molte competenze culturali (corsi di inglese, teatro, musica, lavori artigianali, conferenze di filosofia e di economia) NB: per un approfondimento di alcuni momenti paradigmatici della storia dell’educazione degli adulti, cfr. A. Lorenzetto, Lineamenti storici e teorici dell’educazione permanente, Studium, Roma, 1976. John Dewey (1859-1952) Egli afferma decisamente che l'educazione non è un fatto costituito di tappe concluse in se stesse, ma è, come l'esperienza di tutti i momenti esistenziali, un processo che non conosce conclusioni, ma solo momenti significativi, solo apparentemente conclusivi, i quali sono a ben vedere punti di partenza per ulteriori approfondimenti. L'educazione, per Dewey, dura per tutta la vita e non può che essere così. Curiosità, immaginazione, senso critico, apertura ai problemi e sforzo di risoluzione - che sono le stesse fasi del metodo scientifico e dello stile democratico di vita - sono per Dewey costitutive dell'educazione e del comportamento di ogni uomo che è veramente tale. Per Dewey, l'educazione degli adulti è strettamente congiunta al problema della democrazia, intesa come stile di vita in cui ciascuno deve essere messo in grado di dare il meglio di sé. L'educazione degli adulti, per Dewey, ha dunque un senso nell'ottica dell'educazione che non può che essere permanente, ovvero costante compagna dell'uomo in tutti i suoi tentativi di interpretazione e trasformazione del mondo. Caratteristiche “iniziali”dell’EdA percorso formativo per pochi, finalizzato politicamente e/o economicamente per preservare, mantenere, consolidare o raggiungere un determinato assetto percorso compensativo di alfabetizzazione primaria: ovvero attività di recupero di quanto avrebbe dovuto essere appreso negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza percorso di “educazione popolare” con finalità politicosociali, assimilabile, nei suoi intenti di fondo, all’educazione dell’infanzia, per via di una sovrapposizione, nelle concezioni delle classi dirigenti, tra infanzia e popolo nascenti tensioni intitolate al nesso educazione/istruzione/emancipazione UNESCO UNESCO: United Nations Educational Scientific and Cultural Organization ONU: 26 giugno 1945 16 novembre 1945 (Londra) – 4 novembre 1946 (Parigi) 8 novembre 1947 – 27 gennaio 1948: ammissione dell’Italia Potere di “orientamento culturale” e “normativo” (2011: 194 Stati membri; 7 Stati associati) Principali avvenimenti nell’ambito dell’Educazione degli Adulti: Conferenza di Elsinör (16-26 giugno 1949) Convegno internazionale di studi sull'educazione degli adulti (Roma, 4- 6 aprile 1951) Conferenza di Montreal (21-31 agosto 1960) Convegno "Alfabeto e società" (Roma, 24-29 settembre 1962) Congresso mondiale dei Ministri dell'educazione sull'eliminazione dell'analfabetismo (Teheran 8-19 settembre 1965) Conferenza internazionale di Tokyo su "L'educazione degli adulti nel contesto dell'educazione permanente“ (25 luglio-7 agosto 1972) … V Conferenza internazionale sull'Educazione degli Adulti (Amburgo, 14-18 luglio 1997) I temi della Conferenza di Elsinor: cultura di pace concetto di condivisione: l'umanità è un destino comune al quale tutti sono chiamati a partecipare idea di educazione degli adulti non come mera istruzione e trasmissione di contenuti, quanto, soprattutto, di strategie; in questo senso l'educazione stessa è vista come un fine, come un processo che non ha termine concezione dell'alfabetizzazione come mezzo dell'educazione degli adulti e non come suo fine ultimo l'educazione degli adulti, intesa anche come educazione popolare, non deve cadere nello stesso errore dell'educazione di èlite, cui intende ovviare, ovvero diventare altrettanto settaria (la cultura non si può pensare in termini di up e down, serie A e serie B, tantomeno la scienza che rappresenta la forma più raffinata dal punto di vista razionale di conoscenza) la cultura, l'educazione e la scienza, per essere veramente tali, devono essere pensate come di tutti insistenza sul nesso tra istruzione/educazione, libertà e democrazia (libertà e democrazia non solo a livello di organizzazione politica ma, ancor prima, come habitus mentale, come forma mentis); stretta relazione tra educazione e lavoro, nel senso di fornire all'individuo gli strumenti per realizzarsi nel lavoro, non subirlo in prospettiva di alienazione, e non concepirlo alla stregua di un mero strumento di sopravvivenza problema del tempo libero I limiti della Conferenza di Elsinor: Paesi dell’Europa dell’Ovest e dell’America del Nord. Tradizionale impostazione liberale inglese dell’educazione degli adulti, definita come l’insieme degli studi volontari intrapresi da un individuo che ha raggiunto la maggiore età al fine di sviluppare capacità e attitudini al fine di assumere responsabilità sociali, morali e intellettuali in seno alla comunità. In questo senso, si presuppone sia già stato raggiunto un certo grado di istruzione generale. Manca una concettualizzazione dell'educazione permanente come sfondo logico che giustifichi l'educazione degli adulti; quest'ultima continua ad esse percepita come un tipo di educazione sollecitata da esigenze contingenti: la grande assente, in sostanza, è la Scienza dell'educazione che, necessariamente e a prescindere dalle contingenze, richiede che l'educazione sia per tutti gli individui e, quindi, anche per gli adulti I temi della Conferenza UNESCO sull’Educazione degli adulti di Amburgo (1997) Educazione degli adulti e risoluzione dei grandi problemi che attanagliano l'epoca a noi contemporanea: il problema ecologico, il totalitarismo politico, la giustizia, il razzismo, la violenza, l'economia, la scienza SETTORI INDIVIDUATI: l'alfabetizzazione degli adulti il diritto al lifelong learning il diritto alle pari opportunità Multiculturalismo la cultura della pace Nuove tecnologie la diversità culturale la promozione della salute Progressiva senilizzazione l'educazione ambientale della società l'accesso all'informazione l'integrazione dei disabili l'apprendimento in età senile } Dal MULTICULTURALISMO all’INTERCULTURA Intercultura: emergenza e compito (cfr. F. Cambi, Intercultura: fondamenti pedagogici, Roma, Carocci, 2001) EMERGENZA: 1) il ritorno del razzismo, con le sue chiusure, le sue violenze, le sue varie forme di manifestazione; 2) le migrazioni dei popoli, spinte dall’incremento demografico, dal sottosviluppo, dagli scambi resi sempre più possibili dal villaggio globale creatosi a livello planetario, e che hanno ormai reso l’Europa quel melting pot che già si è realizzato negli USA; 3) la crisi della cultura occidentale, ormai molto più insicura intorno ai propri valori guida, ai propri ideali di civiltà e percorsa da esigenze di profonda autocritica, che induce ad una apertura verso modelli culturali altri, per riceverne suggestioni, prospettive, strumenti interpretativi. Questo aspetto dell’emergenza è quello più operativo e contingente, ed anche quello più studiato e su cui pare si abbiano le idee più chiare in relazione all’intercultura. Si tratta di affrontare un problema che emerge con forza nel mondo contemporaneo e che pone quesiti urgenti e complessi: accettare gli immigrati, spesso di culture radicalmente altre rispetto a quelle autoctone; stabilire un dialogo con loro; apprendere a collaborare; rifiutare razzismo e intolleranze. MULTICULTURALISMO COMPITO: Si tratta del fronte teorico, cioè della lettura del problema intercultura a livello di epistemologia pedagogica, ovvero a livello di strutture portanti della pedagogia stessa come scienza. Un ambito che viene spesso ignorato o fagocitato da quello intitolato all’emergenza o da un vago buon senso, e ancora che viene spesso considerato un eventuale punto di arrivo, e non un punto di partenza. Nel senso che solitamente ci si imbatte in un modo di procedere che va dalla constatazione di una necessità contingente (l’interculturalità) all’attribuzione di tale dimensione alla pedagogia che, in qualche modo, viene sollecitata a farvi fronte. A ben vedere, la questione è molto più complessa, poiché il discorso della diversità, del dialogo, del rapporto con altro, della trasformazione, è un discorso che appartiene alla pedagogia, se vuole essere una scienza, a prescindere dai flussi migratori più o meno intensi. Questi, più che altro, disvelano le complessità operative di un problema che, a livello teorico, va considerato comunque. Questa impostazione è decisiva per la stessa identità della pedagogia come scienza, che va pensata come a capo dei processi educativi, e non in coda, come referente principale e garanzia logica dell’educazione e non come giustificazione a posteriori. L’emergenza in atto consente di insistere ulteriormente su alcuni punti fondamentali della pedagogia come scienza, e di ogni sapere che voglia dirsi scientifico: congedo definitivo e totale dell’etnocentrismo, assunzione di una visione laica (dal greco laikos = del popolo) della scienza e della convivenza sociale, che ponga al centro i principi della tolleranza, del dialogo, della ragione come guida e come costruzione in comune. NUOVE TECNOLOGIE 1) il versante della formazione, dell’aggiornamento e della riqualificazione professionale: apprendere ad usare le nuove tecnologie come credito da spendere sul mercato del lavoro 2) il versante dell’informazione: di fronte all’esplosione mass-mediatica, dell’informazione creata da pochi per molti, si rende necessario riflettere sulla necessità di raffinare di continuo, in un processo che non conosce fine, le nostre capacità critiche, di interpretazione, di analisi di quanto ci viene offerto, di pensiero autonomo, di scelta e di responsabilità di scelta 3) le nuove tecnologie sono solo strumenti, privi di significato intrinseco, oppure contengono in sé logiche, saperi diversi da quelli tradizionali e quindi si configurano veramente come paradigmi di conoscenza e di costruzione della conoscenza? 4) l’impatto dell’e-learnig e della formazione a distanza (FAD), sistemi utilizzati massicciamente proprio nell’ambito dell’educazione degli adulti, soggetti da un lato impegnati in un lavoro, e quindi con meno tempo a disposizione o, meglio, con una gestione del tempo che varia da soggetto a soggetto e a seconda del momento e delle disponibilità individuali (ritagli di tempo) e, dall’altro, che proprio in quanto adulti hanno un maggiore grado di autonomia, autodisciplina, consapevolezza NUOVE TECNOLOGIE FAD = Formazione A Distanza Si tratta di una pratica ormai largamente diffusa che ha mantenuto pressoché inalterati i caratteri individuati per le cosiddette open university inglesi degli anni Sessanta: separazione tra docente e discente separazione dei discenti tra di loro influenza di un’organizzazione formativa nello sviluppo e nell’acquisizione dei materiali utili all’apprendimento uso di mezzi di comunicazione (video, registrazioni, radio, tv, satellite, internet, e-mail, videoconferenze, telefono, ecc.) per mettere in contatto docenti e discenti e introdurre i contenuti da insegnare comunicazione a due vie: il discente può dialogare con il sistema anche di sua iniziativa (con il docente o con tutor intermediari) una sorta di industrializzazione del processo di insegnamento (nonostante seri tentativi di individualizzazione, il processo insegnamento/apprendimento pare mercificarsi come un qualsiasi prodotto standardizzato, di cui non si condividono più le fasi intermedie, ma si riceve solo qualcosa di finito e predefinito). SENILIZZAZIONE DELLA SOCIETÀ Dalla logica della medicalizzazione/assistenza a quella dell’educazione La vecchiaia è oggi una realtà demografica in continua espansione, che pertanto impegna la società, le politiche e, non ultimo, la ricerca scientifica ad accendere i riflettori su un tema che le attuali pressioni globalizzanti - ma sarebbe meglio dire omologatizzanti – tendono a trascurare e marginalizzare sul piano del consumismo e dell’assistenzialismo. Anche la Pedagogia ha acceso i riflettori su questo tema, e qui vale lo stesso discorso fatto per l’intercultura: l’anziano diventa soggetto educabile perché ne ravvisiamo l’opportunità o perché non può che essere così? Può sembrare lo stesso, ma non lo è: che cosa succederebbe se ci legassimo al fattore opportunità condivisa e un giorno non lo fosse più? La scienza non avrebbe alcuna garanzia, sarebbe in balia del momento. Alcuni dati/previsioni ISTAT L’aspetto in assoluto più certo di tutte le previsioni è il progressivo e inarrestabile incremento della popolazione anziana I numeri assoluti dicono che, rispetto agli attuali 11,8 milioni, gli anziani ammonteranno entro il 2051 a 20,3 milioni Gli ultra 64enni, oggi pari al 19,9% del totale (1 anziano ogni 5 residenti), perverranno al 33% nel 2051 (1 anziano ogni 3 residenti) Cresce in misura soverchiante il numero delle persone molto anziane: i cosiddetti “grandi vecchi” (convenzionalmente individui di 85 anni e oltre) passano da 1,3 milioni nel 2007 a 4,8 milioni nel 2051, per una proporzione che aumenta dal 2,3% al 7,8%”[1] “La vita media per l’Italia passa da 78,6 a 84,5 per gli uomini (+ 5,9) e da 84,1 a 89,5 per le donne (+ 5,4)”[2]. Guardando, infine, alla composizione in termini percentuali della popolazione italiana per classi d’età, la situazione risulterebbe così definita: 0-14 anni (14% nel 2011, 12,9% nel 2051); 15-29 anni (15,7% nel 2011, 14% nel 2051); 30-44 anni (22,8% nel 2011, 16,8% nel 2051); 45-64 anni (27,2% nel 2011, 23,4% nel 2051); 65-84 anni (17,5% nel 2011, 25,1% nel 2051); 85 anni e oltre (2,8% nel 2011, 7,8% nel 2051)[3]. [1]. Previsioni demografiche 1 gennaio 2007 – 1 gennaio 2051, nota informativa ISTAT, 19 giugno 2008, p. 4 [2]. Ivi, p. 11. [3]. Cfr. http://www3.istat.it/grafici_ra/sostenibilita/demografica.html, consultato in data 19 settembre 2011. SENILIZZAZIONE DELLA SOCIETÀ Pedagogia e età senile Si tratta di un accostamento che, ai non addetti ai lavori, potrebbe sembrare azzardato, se non addirittura improprio. Ma, se andiamo oltre al senso comune e assumiamo l’ottica scientifica, quello tra pedagogia ed età senile si configura come un nesso più che plausibile, ossia necessario. Il modello educativo messo a punto dalla pedagogia come scienza, infatti, si identifica con un processo di crescita e sviluppo delle potenzialità umane che si snoda lungo tutto l’arco della vita e che, quindi, non può non riguardare anche la cosiddetta terza età. La pista intrapresa dalla pedagogia in questo settore si configura come una vera e propria sfida ai quei radicati stereotipi che concepiscono l’età senile come età dell’inevitabile ed inarrestabile decadimento, della rassegnazione, dell’inattività fisica e mentale. Si tratta di una sfida che non solo intende rilanciare la vecchiaia come risorsa, mettendone in evidenza tutto il potenziale intellettuale, creativo ed affettivo, ma anche e soprattutto rinsaldare l’identità della pedagogia come scienza dell’educazione tout court. In effetti, oggi più che mai la pedagogia necessita sbarazzarsi di quei riduttivismi che per lungo tempo l’hanno identificata con la riflessione sui problemi educativi dell’infanzia, depauperandone non solo gli ambiti di intervento ma anche e soprattutto il suo stesso spessore scientifico. Centri Territoriali Permanenti L’istituzione dei CENTRI TERRITORIALI PERMANENTI pare volere rispondere alle esigenze complesse che, sinergicamente, le tre istanze citate – intercultura, nuove tecnologie, progressiva senilizzazione della società – in sinergia tra di loro, producono nella nostra attuale compagine sociale. I CTP sorgono con l’O.M. n. 455 del 29 luglio 1997. riduttivismi pratici: formazione civica e professionale, e non vera scuola! L’istituzione e il ruolo dei Centri Territoriali Permanenti In Italia, una delle iniziative più interessanti, nell’alveo delle molteplici attività promosse sia dal comparto pubblico sia dal comparto privato, è rappresentata dall’istituzione, con l’Ordinanza Ministeriale n. 455 del 29 luglio 1997, dei Centri Territoriali Permanenti (CTP), “per l’istruzione e la formazione in età adulta”. Il CTP nasce in stretto aggancio con la scuola: esso viene, di fatto, istituito dal Provveditore agli Studi – poi Dirigente CSA (Centro Servizi Amministrativi), oggi Dirigente USP (Ufficio Scolastico Provinciale) – e funziona presso una istituzione scolastica il cui Collegio dei docenti è chiamato alla programmazione delle attività, sulla base delle puntuali proposte formulate dal Coordinamento del personale del CTP medesimo, che comprende, a sua volta, tutti coloro che sono impegnati nella realizzazione delle sue attività didattiche e formative. L’organico di base assegnato al CTP è composto da tre docenti di scuola elementare e cinque docenti di scuola media inferiore Il CTP si presenta come un’entità indissolubilmente agganciata alla scuola e organizzata, nei suoi principali meccanismi di gestione, in maniera assai similare ad essa: il CTP, sulla base e al termine delle attività realizzate, può rilasciare certificazioni relative al conseguimento di licenza elementare e media, nonché di attestati di attività di professionalizzazione o di riqualificazione professionale e di attività di cultura generale Ordinanza Ministeriale n. 455 del 29 luglio 1997: “Educazione in età adulta, istruzione e formazione” Alcuni problemi… Resta, tuttavia, da verificare se, anche dal punto di vista sostanziale, il CTP possa essere considerato una vera scuola, a prescindere dal rilascio o meno di titoli dal valore legale. È necessario appurare se le finalità che intende perseguire possano essere considerate finalità educative oppure se si tratta di finalità prevalentemente agganciate alle esigenze del territorio, come, ad esempio, l’acquisizione di specifiche competenze pensate al solo scopo di essere spese nel settore lavorativo (licenza delle scuole dell’obbligo, corsi di lingua inglese, corsi di informatica, ecc.) o, per quello che riguarda la massiccia presenza di immigrati, la padronanza della lingua italiana e la conoscenza del tessuto culturale in senso lato del Paese. Il testo di legge, così come i rapporti di monitoraggio sull’offerta formativa dei CTP, la loro distribuzione territoriale, l’affluenza ai corsi organizzati, ecc., non sembrerebbero consentire, di primo acchito, di dare una risposta ben definita, giacché richiami e coloriture educative e cedimenti alle pressioni contingenti si mescolano. Ciononostante, una lettura attenta dell’O.M. e di diversi documenti che, a vario titolo, rendono conto delle attività progettate e svolte o riflettono su di esse cercando di evidenziarne la ratio, la valutazione non può che propendere per un CTP che, potenzialmente scuola, tende di fatto a porsi come un servizio. Le attività svolte dai CTP sono sintetizzabili in attività di “accoglienza, ascolto e orientamento; alfabetizzazione primaria funzionale e di ritorno, anche finalizzata ad un eventuale accesso ai livelli superiori di istruzione e di formazione professionale; apprendimento della lingua e dei linguaggi; sviluppo e consolidamento di competenze di base e di saperi specifici; recupero e sviluppo di competenze strumentali, culturali e relazionali idonee a duna attiva partecipazione alla vita sociale; acquisizione e sviluppo di una prima formazione o riqualificazione professionale; rientro nei percorsi di istruzione e formazione di soggetti in situazione di marginalità”. Si specifica, inoltre, che il CTP opera “per l’acquisizione di saperi che permettano una reale integrazione culturale e sociale e che sostengano e accompagnino i percorsi di formazione professionale per facilitare l’inserimento o il reinserimento nel mondo del lavoro, in relazione alle dimensioni: comunicazione; progettualità, operatività. Pertanto gli assi culturali di riferimento dovranno essere: i linguaggi e le culture; l’alfabetizzazione e la multimedialità; la formazione relazionale come conoscenza del sistema sociale, ambientale, economico, geografico” Dal 2008 si attende ancora la trasformazione dei CTP in CPIA (Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti): questa riforma presenta un dato positivo (l’assegnazione di un organico ad hoc) ed uno negativo (un’offerta pensata sull’”invarianza” della domanda) A questo proposito, i rilievi da segnalare, nella prospettiva della Scienza dell’educazione sono essenzialmente due: 1) Il primo (# problema di Scienza dell’educazione #). Fino a quando il linguaggio dell’universo educativo non sarà chiarito e disambiguato, ovvero fino a quando non si potrà contare su un linguaggio scientifico e tecnico per designare, in primis, le entità educazione e scuola, permarranno confusioni e scorrettezze teoriche dalle ampie ricadute sulla prassi. Ne è un significativo esempio il fatto che quando, a vari livelli, si parla di CTP, si usano pressoché indifferentemente i termini educazione, formazione, istruzione, alfabetizzazione, integrazione, ecc. La stessa etichetta “Educazione degli adulti” ufficialmente assunta a perno dei CTP, contrassegna, di fatto, attività formative, compensative, di aggiornamento, ecc. 2) Il secondo (# problema della Politica #). Il CTP come servizio pensato soprattutto, in ultima analisi, per la promozione economica di un territorio e, nonostante questo, presentato come una emanazione della scuola, riflette, purtroppo, in maniera coerente e le derive della gestione Berlinguer (19962000; Prodi/D’Alema)-De Mauro (2000-2011; Amato) prima, e della gestione Moratti (2001-2006; Berlusconi), poi che hanno, infatti, disegnato una nonscuola, volta a soddisfare le diversificate esigenze del territorio, votata alla personalizzazione e al precoce inserimento nel mondo del lavoro, del tutto sorda ai princìpi di una Scienza dell’educazione degna di tale nome. Per concludere: una brevissima annotazione Ben vengano le attività di aggiornamento professionale, i corsi mirati per acquisire abilità strumentali, le opportunità formative per gli immigrati, ecc. Non è certamente a un tale fermento politico, economico e culturale che si rivolge il commento critico, a meno che tale fermento non agisca prevaricando la scuola e contribuendo a snaturare ulteriormente il significato dell’espressione “Educazione degli adulti”, come, invece, è sempre più frequente riscontrare. Se vogliamo, infatti, che di educazione e, quindi, di scuola si tratti, dobbiamo abbandonare la logica del servizio e perseguire, appunto, quella della scuolità, andando ben oltre al mero sforzo di adeguamento alle istanze imposteci dalla realtà contingente e dalle schiaccianti forze economico-politiche. Potenziare – qualitativamente non meno che quantitativamente – sia la ricerca nel campo della Scienza dell’educazione sia il raccordo tra ricerca e didattica e armonizzarne il rapporto con la politica, mi sembra, a monte, l’unica chance su cui valga veramente la pena investire, affinché si possa pensare di organizzare il vivere civile guardando all’ideale di una comunità permanentemente educante Linguaggio e Scienza dell’educazione In ambito scientifico, il problema del linguaggio rappresenta, in stretta interazione con quello del metodo e dell’oggetto di ricerca, una delle questioni più complesse ed ardue da affrontare, per via delle innegabili “responsabilità epistemologiche” di cui è portatore. In effetti, il linguaggio entra in gioco a tutti i livelli di fondazione scientifica di un sapere, qualificandolo dal punto di vista euristico (di individuazione e percorribilità di piste di ricerca), ermeneutico (di interpretazione e re-interpretazione continua della realtà) e, non ultimo, divulgativo, cioè di partecipazione pubblica ai suoi processi e prodotti, in un’ottica di circolarità che rende questi tre momenti necessari l’uno all’altro. Non è certo questa la sede per ripercorrere il contraddittorio dibattito intitolato al linguaggio delle scienze cosiddette “umane” in generale (e della pedagogia in particolare), definite spesso ambigue e incerte, in altre parole “meno scientifiche”, proprio a causa di un registro più incline alla suggestione e al senso comune che non all’argomentazione logica e alla chiarezza di significato. Tuttavia, tale dibattito è da tenere sempre presente sullo sfondo delle riflessioni qui proposte, se non altro come ideale termine di confronto. Scienza e linguaggio Scienza è linguaggio “ogni linguaggio si può considerare come un sistema di ‘modelli’ isomorfi basati su ripetute duplicazioni. Anzitutto esso ‘duplica’ le cose, permettendo di sostituirle fino a un certo punto con degli equivalenti maneggevoli sui quali vengono esperite operazioni ‘vicarie’. La scienza muove dai fenomeni, ma ragiona su ‘enunciati’ che ne fanno le veci… per la natura combinatoria del linguaggio, questo viene a costituirsi con elementi variamente connessi. Oltre al criterio di verificabilità empirica (che include anche il controllo di falsificabilità delle ipotesi) ossia di ‘referenza’ significativa, il linguaggio deve rispettare nelle sue connessioni regole di coerenza, a cominciare dalla non-contraddizione; altrimenti si autodistruggerebbe. Ciò induce a un livello più basilare di quello linguistico, che è quello logico; dalle strutture superficiali del linguaggio manifesto siamo rinviati alle sottostanti intenzioni comunicative, e da queste alle strutture basilari del pensiero (logica delle proposizioni e logica dei predicati, giudizi e inferenze induttive, deduttive, abduttive)” M. Laeng, Termini e testi. Dizionari ed enciclopedie, in “CADMO”, n. 8, 1995, pp. 7, 8, passim Educando Giovanni Vidari, voce Educando: “L’educazione si riferisce soltanto… al momento iniziale, così che possa definirsi la pedagogia come la scienza dell’educazione dell’uomo nel periodo di suo sviluppo, oppure essa si riferisce all’uomo in qualunque momento e fase di sua vita?… Se l’educazione si rivolge all’uomo in quanto soggetto cosciente e autocosciente, essa avrà ragione di essere sempre là dove la vita spirituale appaia, pur in gradi e forme diverse, in processo di continua elaborazione e di svolgimento; epperò nell’infante come nel fanciullo, nell’adolescente e nel giovine, nell’uomo e nella donna, nel normale e nel deficiente, purché un qualche barlume di spiritualità vera, cioè attiva e non mecanizzata (sic), vi brilli. E l’educazione d’altra parte non ha più ragione né possibilità di essere là dove la vita dello spirito sia spenta o vada spegnendosi nella ripetizione meccanica di atti, nella incoscienza, nella insensibilità: se essa si rivolge essenzialmente all’uomo, l’uomo che si educa non può essere in largo senso che il giovine: quando l’uomo invecchia (e si può invecchiare a venti anni), cessa di essere soggetto di educazione” (in Dizionario delle Scienze pedagogiche, diretto da G. Marchesini, Milano, Società Editrice Libraria, 1929, vol. I, p. 443) Il concetto di ADULTO Chi è l’adulto? Sulla base di quali parametri si costruisce la sua identità concettuale? L’etimologia del termine così come la pluralità di canoni solitamente utilizzati per definirlo – di natura fisica, psicologica, giuridica, sociale, culturale, ecc. – fanno capo ad una significazione che, evidentemente, rimanda alla conclusione di un percorso di crescita e all’acquisizione e stabilizzazione di determinate capacità e ruoli sociali. Dal latino adultum, participio passato di adolescere, cresciuto, sviluppato. Il concetto di ADULTO Non è possibile rilevare una congruenza tra i criteri comunemente adottati per sancire lo status di adulto né una loro affidabile continuità nel tempo e nello spazio: basti pensare alle possibili sfasature, in prospettiva sia diacronica che sincronica, tra il raggiungimento della maggiore età, l’ingresso nel mondo del lavoro, la maturità sessuale, la conclusione degli studi, il godimento dei diritti politici, l’autosufficienza, ecc. Tuttavia, il principio sostanziale comune è quello di decretare il compimento della fase evolutiva per eccellenza – quella dell’infanzia e dell’adolescenza, appunto – e l’ingresso in una fase della vita contraddistinta, fondamentalmente, dalla responsabilità sociale, dalla partecipazione al ciclo produttivo e da un sempre più accentuato decadimento fisico e mentale Poco importa se, presi ad uno ad uno ed a seconda dei contesti e dei periodi storici, tali criteri anticiperanno o posticiperanno, da un punto di vista meramente cronologico, questa tappa esistenziale. Di fatto, in questa prospettiva, essa segna il passaggio da un periodo di crescita e trasformazione – e quindi, di educazione – ad un periodo di stabilità che precede una presunta involuzione senile e la morte. Il concetto di ADULTO Per contro, introducendo il criterio della Scienza dell’educazione per la definizione concettuale dell’individuo adulto si pongono le premesse per ribaltare quelle radicate concezioni che per lungo tempo hanno pesantemente influenzato sia l’affermazione scientifica del sapere sull’educazione sia l’organizzazione del sistema formativo (“oltre” la Pedagogia) Introdurre il criterio della Scienza dell’educazione, infatti, significa introdurre la prospettiva della permanenza dell’educazione in qualsiasi fase della vita dell’individuo. Prospettiva che si dà come necessaria da un punto di vista logico – e, quindi, a prescindere da un’ideologia politica, da una spinta filantropica, da un’emergenza contingente, ecc. – nel momento in cui si avverte l’esistenza di una SCIENZA DELL’EDUCAZIONE che, in quanto tale, mette a punto un oggetto, l’educazione, che non cambia o non svanisce a seconda dei soggetti cui via via si rivolge. In altre parole, nell’ottica della Scienza dell’educazione, l’adulto non può essere considerato come colui che ha terminato la sua crescita, il suo sviluppo. Portando alle estreme conseguenze un simile discorso, potremmo affermare che, nell’ottica della Scienza dell’educazione, tutti gli individui sono adolescenti, ovvero soggetti in crescita Scienza dell’educazione e riconoscimento dell’educabilità continua dell’individuo vanno di pari passo. Il concetto di ADULTO Vale a dire che, laddove il sapere sull’educazione perdesse la sua connotazione scientifica, non vi sarebbe alcuna garanzia logica di perseguimento continuo dell’educazione. E viceversa: laddove venisse meno l’idea dell’individuo come entità passibile di educazione – ossia di trasformazione migliorativa – da una certa età o situazione in poi, e su questo venisse organizzato il vivere sociale in generale e il sistema formativo in particolare, il sapere sull’educazione subirebbe un duro colpo a livello di legittimità scientifica, poiché si troverebbe a mettere a punto un oggetto di studio che non solo non può sperimentare a pieno, ma non può neppure pensare in ottica universalistica. Adulto e “adultità” Tutta la saggistica più recente tende a definire l’adulto in modo tale da avvalorare l’idea di educazione come continuum esperienziale; tuttavia molto spesso ci si concentra su questo aspetto più per le ricadute tecniche del “fare educazione” che non per rinsaldare l’impianto scientifico del sapere sull’educazione Adultità volontà di concettualizzare l’insieme delle caratteristiche che definiscono l’essere adulto Adultità e Maturità Il concetto di ADULTO è da intendersi come strettamente intrecciato a quello di Maturità, la cui definizione per non pochi aspetti si sovrappone e/o integra quelle di Adultità e di Adulto. È il caso, ad esempio, della trattazione di Wanda Visconti, che identifica la maturità con l’età adulta, ovvero con il “periodo della vita umana compreso tra l’adolescenza e la vecchiaia”[1]. Tra i vari criteri in base ai quali una persona può essere definita matura – e, quindi, adulta – l’Autrice indicava una serie di doveri da perseguire attraverso i rapporti che l’individuo intrattiene con l’ambiente circostante: ampliamento delle proprie conoscenze; assunzione di responsabilità; miglioramento delle proprie capacità di comunicazione verbale; maturazione verso una specifica e creativa relazione sessuale; passaggio da uno stato egocentrico ad uno in cui la persona sia capace di porsi in relazione con gli altri [1] W. Visconti, voce Maturità, in Enciclopedia pedagogica, diretta da M. Laeng, Brescia, La Scuola, 1978, Vol. IV, p. 7449. Il concetto di ADULTO… e la Pedagogia (un ossimoro superabile!) Il problema centrale è quello di sciogliere, con un’argomentazione solida e, quindi, andando oltre ad una dichiarazione di fatto, l’apparente paradosso tra quanto suggerisce sia l’etimo del termine sia la funzione sociale dell’adulto, da un lato, e l’inarrestabile divenire educativo postulato dalla pedagogia (laddove voglia condurre ad una Scienza dell’educazione), dall’altro. In proposito, Giovanni Genovesi sostiene che “in ottica educativa, il concetto di adulto… può avere il suo significato più pieno allorché lo si intende come ‘cresciuto per poter cominciare ad assumersi le responsabilità derivanti dalla vita associata’ e, in prima istanza, quelle del lavoro, cioè di una professione che, nel momento stesso in cui gli permette di offrire prodotti comunitariamente attesi e fruibili, gli permette anche di esercitare al meglio il suo impegno etico-politico, ossia la sua dimensione morale” (G. Genovesi, Le parole dell’educazione. Guida lessicale al discorso educativo, Ferrara, Corso, 1998, p. 16, passim) Adulti maggiori = coloro che sono divenuti capaci di auto-istruirsi Adulti minori = coloro che, pur avendo percorso l’intero itinerario della scuola obbligatoria, sono ancora bisognosi di aiuto e di assistenza per diventare “spiritualmente maggiorenni” (S. Valitutti, Definizione dell’adulto, in La Pedagogia, diretta da L. Volpicelli, Milano, Vallardi, 1972. Vol. III, p. 248) Valitutti, rifacendosi alla tripartizione di Sergej Hessen (1887-1950), secondo la quale la vita dell’individuo, dal punto di vista educativo, attraversa le fasi dell’anomia, dell’eteronomia e dell’autonomia, sostiene che l’uomo adulto è l’uomo “spiritualmente autonomo, non colui che, secondo il significato fisico della parola adulto, non cresce più essendo già cresciuto, ma colui che è diventato capace di crescere spiritualmente nella pienezza e nella libertà delle sue forze” ( Ibidem) Infine, il ritratto dell’adulto può essere significativamente tracciato ricorrendo a cinque “discorsi simbologici”: 1) l’immagine dell’adulto come eroe mitico 2) l’immagine alchemica medioevalistica dell’adulto sfidante 3) l’immagine dell’adulto come mandala della mente 4) l’immagine ebraico-cristiana del compito decisionale adulto 5) l’immagine liberatoria dell’adulto ludens Cfr. D. Demetrio, Paradigmi istituenti e prospettive epistemologiche, in D. Demetrio, A. Alberici, Istituzioni di Educazione degli adulti, Milano, Guerini, 2002, pp. 121-126. 1) L’immagine dell’adulto come eroe mitico L’eroe-mitologico è un eroe-adulto che: riesce a evocare desideri di rigenerazione delle forze spente interpreta le istanze intrapsichiche umane desiderose di metamorfosi e di cambiamenti magici esprime la necessità di fuga, ludico-dionisiaca, dal mondo quotidiano Si tratta, cioè, di una figura trasgressiva che educa alla discontinuità, alla rottura attraverso: lo svincolarsi dalla madre (perché sia possibile la conquista dell’identità maschile o femminile) il superamento delle fissazioni infantili, perché l’eroe, sottoponendosi alle prove per perseguire la meta (l’elisir), dimostra la sua disponibilità all’avventura, al rischio e, soprattutto, sa accettarne le conseguenze; e questo senza sapere in anticipo che sul suo cammino irromperanno figure soccorritrici la dimostrazione che è possibile controllare la morte, perché l’adulto sa, attraverso la sperimentazione diretta, che la vita è metamorfosi 2) L’immagine alchemica medioevalistica dell’adulto sfidante L’adulto simboleggia il miscuglio alchemico degli elementi fra loro contrapposti, in conflitto eterno, negatori l’uno dell’altro (acqua-aria; cieloterra, ecc.) ma indispensabili alla identità paradossale, perché ouroborica, di ogni individuo. L’adulto è chi: accetta e riesce a raffigurarsi non solo oniricamente l’ignoto degli eterni conflitti sa utilizzare le procedure alchemiche per stabilire distanze o prossimità tra i vari elementi sa, a proprio rischio, ciò che va fatto e ciò che non va introdotto nel sistema “uomo” ha imparato a esplorare il mondo inconscio e a convivere con gli archetipi 3) L’immagine dell’adulto come mandala della mente Il mandala (lett. sanscr. cerchio) è una complessa rappresentazione simbolica (grafico-pittorica) dell’evoluzione e dell’involuzione cosmica ma, al contempo, delle forze dinamiche della psiche umana adulta. Nella gnosi indo-tibetana buddistica e indù tale rappresentazione è densa di significati formativi, primo fra tutti quello di orientarsi nel labirinto della ricerca di sé, del proprio centro, di dominarsi più che di dominare. 4) L’immagine ebraico-cristiana del compito decisionale adulto Il peccato originale e la cacciata dal paradiso terrestre rappresenterebbero il passaggio dall’infanzia alle durezze dell’età adulta. È la donna, futura adulta, che trasgredisce e invita il maschio a uscire dall’infanzia paradisiaca: è la scelta di entrare nella storia, e nell’eterno conflitto tra bene e male. L’adulto è colui che non può non decidere. 5) L’immagine liberatoria dell’adulto ludens L’adulto è colui che ha il potere di concedere e di concedersi il gioco, la simulazione, il puro esercizio dell’immaginario, perché è colui che consapevolmente e intenzionalmente può acconsentire o negare che tutto ciò si compia. Lo spazio adulto di cui l’adulto può essere garante si trasforma quindi in una zona franca in cui tutto è possibile e in cui l’apprendimento delle regole è un gioco. Adultità e Adolescenza Il concetto di adolescenza (adolescere = crescere, rafforzarsi), in buona sostanza, è il più significativo dal punto di vista della Scienza dell’educazione per fare riferimento alla continua perfettibilità, e quindi crescita e trasformazione, dell'individuo. Uno studioso francese, Guy Avanzini, aveva, in proposito, colto nel segno laddove, parlando di educazione permanente, aveva coniato un nuovo termine: "antropolescente". Tuttavia, tale termine è inficiato da un riduttivismo: quello di contemplare una parola greca, quale radice etimologica, che si riferisce all'uomo cioè all'individuo maschio - senza alcuna sottolineatura di perfettibilità. Adolescente (che sta crescendo, che è in crescita), per contro, etimologicamente parlando, è una vox media, che vale sia per il genere maschile sia per il genere femminile e che è carica di valenze intitolate alla trasformazione, al divenire, alla processualità, al possibile continuo perfezionamento e, parallelamente, alla sua insanabile incompiutezza. Adultità e Educazione Coerentemente a quanto affermato sino ad ora, una considerazione dell’Educazione degli adulti come attività di recupero o di compensazione o di mero aggiornamento del già acquisito è scorretta, oltre che riduttiva. L’adulto è un soggetto educabile perché è suscettibile di trasformazione, ovvero perché può essere diverso, e migliore, di quanto già non sia. In ottica educativa… - non si diventa adulti per via del semplice e ineluttabile trascorrere del tempo… ma nella misura in cui il trascorrere del tempo testimonia un percorso di acquisizione di conoscenze e competenze - definire l’adulto significa alludere ad uno status, ambire ad una situazione esistenziale ideale che, pertanto può compiersi solo in parte… ma ciò è quanto muove all’impegno, alla progettualità, allo sforzo di continuare ad educarsi - si colgono e si rispettano le molteplici ed eterogenee manifestazioni individuali e soggettive dell’essere adulto reale… ma si guarda sempre ad un adulto ideale, ad un adulto “sognato” Adultità: PAROLE CHIAVE Le “parole chiave” dell’adultità rimandano ai concetti di responsabilità, di autonomia, di consapevolezza, di intenzionalità… di maturità; Sono concetti tra loro circolarmente interrelati al punto da costituire l’uno il presupposto e l’esito degli altri. Nel loro insieme, essi sottolineano con forza crescente l’evidenza degli effetti dell’educazione sull’individuo, vale a dire la realizzazione, pur sempre parziale, dello sviluppo delle potenzialità dell’individuo in direzione di una più piena appropriazione dello svolgersi della propria esistenza e partecipazione sociale. Autonomia - progressivo esercizio di autonomia - non è svincolo assoluto - è assunzione consapevole di vincoli, nel perenne tentativo di armonizzare la dimensione individuale con quella collettiva Consapevolezza - progressivo esercizio di consapevolezza - scandagliata riflessione su se stessi e sul mondo - partecipazione voluta e motivata Intenzionalità - progressivo esercizio di intenzionalità - interrogarsi e rispondersi continuamente sui propri desideri di cambiamento - impegno etico-morale nelle proprie scelte di vita Responsabilità - progressivo esercizio di responsabilità - dispositivo che regola l’intersecarsi dei comportamenti individuali con quelli collettivi - banchi di prova: il proprio e l’altrui giudizio Maturità - attesta la compresenza di autonomia, responsabilità, intenzionalità, consapevolezza - si esprime, paradossalmente, nell’avvertimento della propria immaturità e in quest’ultima avverte il bisogno, e il piacere, di educarsi Lo status di adulto Un individuo può dirsi in situazione adulta quando cominciano a svilupparsi e a consolidarsi in lui quelle caratteristiche che consentono di farne un educatore, oltre che un educando, e un educatore e per se stesso e per gli altri. È, questo, un meccanismo il cui innescarsi dipende in maniera decisiva dal fatto di aver potuto contare, a monte, negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, sull’opera della scuola, come occasione intensa e sistematica di educazione, e solo secondariamente e relativamente da tutti qui fattori comunemente adottati per parametrare la condizione adulta: età, capacità riproduttiva, ruolo sociale, ecc. Le “sfide” dell’EdA Coerentemente a quanto sostenuto fin qui, la prima sfida da affrontare e da “vincere” per l’EdA è, sul piano concettuale e su quello storico, quella della qualità della scuola Alcuni assunti di fondo: alfabeto, scuola, educazione permanente Se per educazione permanente intendiamo la durata dell’educazione lungo tutto l’arco di vita dell’individuo, di tutti gli individui, e la sua estensione in tutti i luoghi in cui si svolge la sua esistenza, diventa fondamentale concentrarci sulle basi che possono garantire questo infinito dispiegarsi del processo educativo. La principale tra queste è l’alfabetizzazione, e con essa la scuola, intesa come luogo sistematico di educazione, di raffinamento di capacità razionali che trovano nel possesso sempre più sicuro dell’alfabeto – nei suoi vari livelli – lo strumento cardine. La prima sfida che si pone all’educazione permanente e, in particolar modo all’educazione degli adulti, è quella che si intreccia al ruolo e alla funzionalità della scuola come situazione in cui – per mezzo del lavoro dell’insegnante – tutti gli individui devono essere avviati al cammino della conoscenza. Ne deriva che la qualità della professionalità docente, unitamente alla qualità dell’impianto istituzionale e organizzativo del sistema scolastico, si aggancia quindi alle reali possibilità di pensare all’educazione degli adulti come al necessario permanere dell’ideale educativo ben oltre la situazione scolastica, in cui ha preso avvio ed è stato accuratamente coltivato. Dalla scuola all’educazione degli adulti La scuola rappresenta per l’educazione degli adulti la base più solida e il presupposto (logico e teorico di fondo, in primis, così come anche a livello di sostanziale efficacia) degli apprendimenti di cui l’adulto potrà fare esperienza in molteplici ed eterogenei contesti. E questo perché nel continuum dell’educazione permanente, la scuola rappresenta un momento estremamente significativo, cruciale: essa è (e dovrebbe sempre essere) una «officina di metodo», ove si costruiscono «conoscenze generative» e «conoscenze euristiche»[1]. [1]. Cfr. F. Frabboni, Sognando una scuola normale, Palermo, Sellerio, 2009, p. 90. Scuola Educazione permanente e degli adulti: una propedeuticità necessaria Non ci può essere vera educazione degli adulti, dunque, se non c’è stata, prima, una vera scuola. E questa affermazione solo apparentemente collide con una lunga storia di educazione degli adulti, per larga parte tuttora in corso (e necessaria), intesa come recupero e compensazione di una scuola che non c’è stata o c’è stata a intermittenza o, ancora, di una scuola dall’identità debole sul piano cognitivo e metacognitivo. Infatti, a ben vedere, non si può non rilevare quanto ciò testimoni il fatto, al fondo, che la scuola non può mai essere bypassata e che, in nome di questa necessità, si sia disposti a dar luogo a situazioni faticose e forzate nel loro anacronismo ma che sono ineludibili, come “tornare sui banchi di scuola” o, magari, sedervisi per la prima volta, anche se anagraficamente adulti È evidente che non si sta andando in questa direzione: la politica ministeriale italiana degli ultimi tempi – pur prendendo atto di come la qualità o non qualità della scuola, e quindi degli insegnanti, sia gravida di ripercussioni sullo stato di più o meno “piena adultità” della vita del nostro Paese – agisce, in questo settore, al pari di altri, puntando “al ribasso”: alcune “spie”… sospensione e, di fatto, chiusura della SSIS (Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario) [1]. scarso ruolo riconosciuto all’aggiornamento in servizio degli insegnanti più in generale, continua e progressiva riduzione delle risorse [1]. Cfr. la Legge n. 133 del 6 agosto 2008, comma 4 ter. Paradosso: Proprio quando, da più parti, si invocano l’educazione e la formazione permanente, enfatizzate più che mai, lamentando al contempo le gravi lacune degli adulti di oggi, si vanno ad intaccare le fondamenta su cui quell’educazione e formazione permanente debbono innestarsi, attecchire e svilupparsi. È chiaro che ciò che più interessa è una funzionale e RAPIDA conformazione alle esigenze politiche ed economiche del momento, ed è altrettanto chiaro che, di là di quanto proclamato, tanto la scuola militante quanto il settore dell’educazione degli adulti (laddove rifiutano questi intenti e toccano con mano la necessità di promuovere conoscenze e competenze forti e durature) operano “controcorrente”, per non dire in una situazione di “resistenza” Alcuni dati sull’analfabetismo degli adulti oggi… e domani Come è noto, e come si a più riprese già visto, una delle funzioni storiche dell’educazione degli adulti, in senso moderno – non l’unica, ma sicuramente la più massiccia – è quella della lotta all’analfabetismo, una funzione, cioè, che dovrebbe spettare alla scuola. E si tratta di una lotta che non solo non può dirsi conclusa, tutt’altro, ma che addirittura, nella nostra contemporaneità e anche laddove l’analfabetismo di base sembrerebbe pressoché del tutto debellato – dalla scuola, appunto – va urgentemente rinvigorita, a fronte di “nuovi” e dilaganti analfabetismi, paradossalmente “generati” anche dalla stessa scuola. a) analfabetismo strumentale (nel mondo) Si tratta di una situazione che, ancora per lungo tempo, ipotecherà l’educazione degli adulti come recupero, compensazione e, di fatto, come forma, sia pure adattata, di educazione scolastica: le ricerche elaborate dall’Istituto di Statistica dell’UNESCO, in particolare il Global Age Specific Literacy Projections Model (GALP), ci consegnano, a livello mondiale, un numero totale di analfabeti adulti di 677.857.600 per l’anno 2010 e di 657.259.300 per l’anno 2015[1]. Proiezioni, queste, che non possono non essere lette senza il riferimento ai dati più recenti relativi al tasso di scolarizzazione, secondo i quali, nell’anno 2007 e sempre su scala mondiale, 71.791.000 bambini e 71.033.000 adolescenti risultano non scolarizzati rispettivamente per la scuola primaria e per il primo ciclo di scuola secondaria[2]. [1]. Cfr. Statistiques Internationales sur l’alphabétisme: exsamen des concepts, de la méthodologie et des données actuelles, Institut de Statistique de l’UNESCO, Montréal, 2008, p. 46. Occorre inoltre precisare sia che tali dati si riferiscono alla popolazione dai 15 anni d’età in poi, sia che il significato di alfabetizzazione assunto in tali ricerche è quello relativo alla capacità “de lire et d’écrire, en le comprenant, un exposé simple et bref de faits en rapport avec la vie quotidienne” (UNESCO, Liens entre les initiatives globales en matière d’éducation. L’éducation pour le développement durable en action, Dossier technique no. 1, Paris, UNESCO, 2005, p. 64). [2]. Cfr. Adolescents non scolarisés, Institut de Statistique de l’UNESCO, Montréal, 2010, p. 11. b) analfabetismo strumentale (in Italia) Dalle stime dell’UNESCO per l’anno 2008 emerge un tasso di alfabetizzazione degli adulti del 98,8% e di alfabetizzazione dei giovani del 99,9% che, in numeri assoluti, corrispondono alla presenza, rispettivamente per le due categorie anagrafiche, di 619.460 e di 5.921 analfabeti[1]. [1]. Istituto di Statistica dell’UNESCO in http://stats.uis.unesco.org. Già l’Istat, in occasione del censimento del 2001, aveva evidenziato, relativamente alla popolazione residente in Italia a partire dai 6 anni di età, 782.342 analfabeti e 5.199.237 alfabeti ma privi di alcun titolo di studio (cfr. ISTAT, Annuario statistico italiano 2008, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2008, p. 669). b) analfabetismo funzionale In prospettiva educativa, il senso dell’alfabetizzazione travalica il semplice e pedissequo esercizio di traduzione in/da un codice e, pure, la già più raffinata abilità di comprensione dei significati del messaggio, giacché comporta altresì: la capacità di analizzare e di riflettere sui vari livelli di significato del messaggio, cioè di utilizzare l’alfabeto come strumento non solo di acquisizione di conoscenze (intese come semplici asserzioniprodotto) ma anche e soprattutto come strategia per lo sviluppo e l’invenzione di meta-conoscenze (intese come conoscenzeprocesso); la capacità di capire le conseguenze delle conoscenze e delle metaconoscenze acquisite sui comportamenti, ovvero la loro incidenza e, talvolta, la loro prescrittività performativa; la capacità di decidere se considerare o meno tali conseguenze come fattibili, perseguibili e, non ultimo, auspicabili c) 6 categorie a rischio 1) alfabetizzati (ma comunque a rischio alfabetico); 2) analfabeti di fatto (coloro che non posseggono alcun titolo di studio e non sanno né leggere né scrivere); 3) illetterati (che pur possedendo un minimo repertorio di lettura e scrittura non sono in grado di utilizzare il linguaggio scritto per ricevere o formulare messaggi); 4) analfabeti di ritorno (esposti al rischio di regresso, laddove tali capacità non siano state esercitate); 5) semianalfabeti (possessori del solo titolo di licenza elementare, che nella nostra società corrisponde a minime possibilità di inclusione sociale e culturale); 6) analfabeti funzionali (che non sanno esercitare le abilità di base per poter esprimere il loro diritto di cittadinanza)[1]. [1] Cfr. B. Schettini, Tanti analfabetismi anche oggi. La situazione italiana e le risposte a un problema che non si risolve ancora, in http://www.bdp.it, 19 luglio 2005. d) analfabetismo funzionale: alcuni dati Secondo la ricerca Ials-Sials (Second International Adult Literacy Survey), sviluppata dall’Oecd-Ocde in due successive tornate tra il 1994 e il 2000, il 34,6% della popolazione italiana nella fascia d’età 16-65 anni, non supera il primo livello di competenza alfabetica funzionale (“soggetti che possiedono una competenza estremamente debole, ai limiti dell’analfabetismo”). Se a questo dato, poi, sommiamo quello relativo a coloro che si arrestano al secondo livello individuato (“soggetti che possono leggere testi molto semplici, ma hanno difficoltà nell’affrontare nuovi compiti e nell’apprendere nuove competenze professionali”) la percentuale supera addirittura il 60%[1] [1]. Cfr. V. Gallina, L’analfabeta globalizzato, in “Italiano e oltre”, n. 1/2001, pp. 38-43. In questo stato di cose, un duplice fraintendimento – costringe l’educazione degli adulti, impedendole di decollare per quello che essa veramente è e dovrebbe essere: - prosecuzione dell’educazione oltre la scuola; - ulteriore fase nel cammino di perfezionamento dell’individuo; - esercizio di un’adultità in divenire al banco di prova della responsabilità sociale, politica, lavorativa; - esperienza piena di svariate e flessibili occasioni di: crescita personale trasformazione degli orientamenti esistenziali scoperta e coltivazione di interessi e motivazioni affermazione e gratificazione conoscenza e informazione scelta e azione effettiva partecipazione alle sorti del vivere collettivo. 1° fraintendimento dell’EdA Logica dello “scaricabarile”: possibilità, teorica e pratica, di continuare ad apprendere al di fuori e oltre la scuola, nell’ambito del lavoro e nel tempo libero, anche grazie alla “celerità” e alle “scorciatoie” oggi facilmente rese disponibili dalle sempre più onnipresenti ed evolute tecnologie informatiche (in particolare i cosiddetti self-media) Questo spinge a rimandare, a rinviare ad un indefinito tempo futuro il conseguimento di quelle conoscenze e di quelle competenze la cui mancanza, a ben vedere, è all’origine di ricorrenti, e sempre più difficili da sanare, ritardi. Si tratta di un perverso effetto del discorso sull’educazione permanente, così finalizzata ad «alleviare la tensione che si produce nella scuola man mano che diventa sempre più evidente che questa istituzione non fa ciò per cui afferma di esistere»[1]. [1]. G. Rossetti, L’educazione permanente tra innovazione e ripetizione, in M. Gattullo, A. Visalberghi (a cura di), La scuola italiana dal 1945 al 1983, Firenze, La Nuova Italia, 1986, p. 224. 2° fraintendimento dell’EdA Intendere il lifelong learning pressoché totalmente assorbito dalle esigenze del mercato del lavoro. Quello della professionalizzazione precoce è diventato anche il criterio regolativo delle riforme scolastiche che, negli ultimi anni, hanno interessato la scuola secondaria superiore (cfr. alcuni indirizzi del canale liceale e, soprattutto, il canale degli istituti tecnici e professionali) Progressiva erosione del segmento finale della scuola da parte dell’oltrescuola: precorrendo ciò che verrà dopo e che deve venire dopo la scuola, si trasforma quest’ultima nell’anticamera diretta di determinati mestieri e professioni. In linea di massima, i tentativi profusi negli ultimi tempi mettono in ombra le istanze formative proprie della scuola, sbilanciandosi prematuramente sull’acquisizione di competenze particolaristiche a scapito del maturo conseguimento di competenze generali – trasferibili, declinabili, contestualizzabili, modificabili – che devono, appunto, connotare la scuola. È un quadro, questo, ulteriormente aggravato dalla conferma dell’obbligo formativo dal quindicesimo al diciottesimo anno di età (che, potendo essere assolto al di fuori dell’istituzione scolastica, ha fatto “tornare indietro”, dai 16 ai 14 anni d’età, l’obbligo scolastico)[1], in cui i problemi principali, allora, sono sostanzialmente due: - il fatto che la scuola secondaria di secondo grado non rientri necessariamente nell’assolvimento dell’obbligo formativo - e il fatto che essa, comunque, sia sempre più chiamata a svolgere compiti professionalizzanti in senso stretto. [1]. Cfr. la Legge 6 agosto 2008, n. 133, art. 64, comma 4 bis. Al riguardo, è infine interessare ricordare e riprendere una “supposizione futurologica” riguardante il rapporto tra educazione, scuola e mondo del lavoro elaborata da Torsten Husén: L’educazione generale e la formazione professionale saranno sempre più interconnesse, soprattutto perché non sarà più possibile prevedere quali specifiche conoscenze professionali saranno necessarie nel futuro. Paradossalmente, l’educazione generale (intesa come possesso di una serie fondamentale di capacità e conoscenze) costituirà la forma migliore di addestramento professionale. La scuola di base starà a fondamento della rieducabilità[2]. Quel futuro è arrivato, dispiegandosi nei termini prefigurati… ma lo stesso non può dirsi per l’assetto della scuola, ridimensionata tanto nel segmento di base e dell’obbligo, quanto a quel livello “superiore” che, proprio in virtù dell’articolarsi proteiforme del concetto di alfabetizzazione nella nostra società, non può che essere anch’esso considerato “di base”. [2]. T. Husén, Le nuove direzioni, in K. W. Richmond (a cura di), Educazione permanente nella società aperta. Fondamenti teorici e pratici, Roma, Armando, 1974, p. 87. Non si può attingere per abbrivio, sic et simpliciter, al dominio del metacognitivo, della strategia concettuale, della flessibilità, senza passare attraverso un processo consapevolmente e competentemente guidato di costruzione della conoscenza, di graduale padronanza dei suoi meccanismi e, non ultimo, di progressiva maturazione, in senso etico-civile, del suo valore e delle sue direzioni d’uso. Insomma, il rafforzamento della scuola e, in prospettiva dell’educazione degli adulti, degli influssi di questa a largo raggio, richiede una decisa inversione di rotta, giacché non si può certo pensare di continuare a lungo in quella prospettiva di “controtendenza” e di “resistenza” cui si è accennato. La cittadinanza attiva non si improvvisa, dunque, si impara, si acquisisce prima di tutto come abito mentale. Ma perché il concetto che incarna non si riduca ad un simulacro svuotato di senso e di effettività, occorre che ogni individuo sia in grado di padroneggiare con competenza gli strumenti del comprendere, del comunicare, del riflettere, dell’elaborare e del restituire. L’uomo, nella prospettiva dell’educazione permanente, «è un uomo incompiuto che ha coscienza della propria incompiutezza. Sapendo che non gli è lecito ritirarsi sulla montagna, non cessa di operare nel mondo affinché il mondo sia opera sua»[1]. [1]. R. De Montvalon, Un millard d’analphabètes. Le savoir et la culture, Paris, Éditions du Centurion, 1965 ; tr. it. Un miliardo di analfabeti. Il sapere e la cultura, Roma, Armando, 1966, p. 170 Le “sfide” dell’EdA Coerentemente a quanto sostenuto fin qui, la seconda sfida da affrontare e da “vincere” per l’EdA è, sul piano concettuale e su quello storico, quella della qualità del lavoro Etimologia della parola LAVORO: dal verbo lavorare, dal lat. laborare: faticare LAVORO - questione complessa, gravida di implicazioni, “scottante” Costituzione Italiana: PRINCIPI FONDAMENTALI Art. 1 L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro Art. 4 La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società Parte prima – DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI – TITOLO III – RAPPORTI ECONOMICI Art. 35 La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero. Art. 36 Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi. Art. 37 La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato [dal 1 settembre 2007 l'età minima per l'ammissione al lavoro salariato passa da 15 a 16 anni ] La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione. «Non è che io ami il mio lavoro: preferisco starmene attorno in ozio e fantasticare di tante belle cose che si potrebbero fare. Non amo il lavoro, nessuno lo ama; ma mi piace quel che avviene di trovare nel lavoro, l’occasione di scoprire se stessi» (J. Conrad, Heart of Darkness, W. Blackwood and Sons, London, 1902; tr. it. Cuore di tenebra, Torino, Einaudi, 1976, p. 162) L’EdA, nei fatti, quando non è “recupero” della scuola, perlopiù è formazione professionale dell’adulto… “Tradizione storica” dell’EdA che si è diffusa e va diffondendosi sempre più in un aggancio così stretto con la formazione e l’aggiornamento professionale da rischiare di identificarsi pressoché completamente con essi. 3 esempi “storici”: - Platone e la “formazione professionale” degli uomini d’oro, d’argento, di rame, di ferro - Rivoluzione industriale e “formazione professionale” degli operai - Società della conoscenza e “formazione professionale” continua Si è progressivamente profilata una situazione di potenziale/effettivo contrasto: Valore educativo del lavoro e necessità di una formazione al lavoro vs Visione utilitaristica dell’educazione degli adulti Dimensione educativa (autonoma; prescritta, per tutti, come necessaria da una Scienza dell’educazione; incentrata, mediante i contenuti i più svariati, sull’acquisizione di strumenti metacognitivi trasferibili; “gratuita”) vs Dimensione formativa (eteronoma; negoziata su committenza; incentrata sulle conoscenze che, volta volta, sono immediatamente spendibili in una determinata funzione lavorativa; “utile”) Educazione vs Formazione EDUCAZIONE/FORMAZIONE Educazione Formazione Finalità: universalistiche, oltre i contenuti specifici miglioristiche, a livello individuale e collettivo Finalità: direttamente correlate ai contenuti specifici non necessariamente miglioristiche Intenzionalità (e, quindi, consapevolezza) educativa, da parte dell’educatore e, via via, dell’educando che si fa adulto L’accento è posto sulla TRASFORMAZIONE L’accento è posto sulla TRASMISSIONE Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente (Commissione Europea, Bruxelles, 30 ottobre 2000) Definisce le nuove competenze di base menzionate nelle Conclusioni del Consiglio Europeo di Lisbona del 23-24 marzo 2000 (competenze in materia di tecnologie dell'informazione, lingue straniere, cultura tecnologica, imprenditorialità e competenze sociali) come «le competenze indispensabili alla partecipazione attiva nella società e nell’economia della conoscenza – sul mercato del lavoro e sul luogo di lavoro stesso, in seno a comunità “reali” e virtuali, nonché in una democrazia». In particolare, «imparare ad apprendere, sapersi adattare al cambiamento e gestire i grandi flussi d’informazione sono le competenze generali di cui ciascuno di noi oggigiorno dovrebbe disporre. I datori di lavoro esigono sempre più dalla manodopera la capacità di apprendere, di assimilare rapidamente le nuove competenze e di adattarsi alle nuove sfide e situazioni» (ivi, p. 12, passim). “imparare ad apprendere”??? Come criterio di per sé non è sufficiente a garantire l’educazione permanente e degli adulti nel lavoro, non garantisce affatto l’inverarsi progressivo di quel miglioramento universale che l’educazione, in quanto tale, persegue. Occorre, innanzitutto e seriamente, domandarsi: “Imparare ad imparare per continuare la catena in maniera più “produttiva”, “prestante”, “adeguata” o, in primo luogo, imparare a “disimparare” modelli fondati sulla competitività, l’individualismo, l’esclusione, il primato di una razza e di un popolo? Forse, dopo questo disimparare, appariranno all’orizzonte nuovi apprendimenti che riposano sul sapere collettivo, il piacere della cultura, il pensiero critico e il senso della vita. Allora, nuove forme di insegnamento, a distanza o residenziali, con tutta la panoplia della tecnologia educativa, avranno un’altra giustificazione. Si imparerà a creare posti di lavoro sotto tutte le diverse forme e non a distruggerli. Si imparerà a vivere la cultura e a non trasformare quest’espressione dell’uomo in puro mercato.[1] [1]. E. Gelpi, Educazione degli adulti. Inclusione ed esclusione, Milano, Guerini e Associati, 2000, p. 111. Una postilla… Nel Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente il termine “educazione” è utilizzato solo 31 volte (soprattutto in locuzioni quali “Ministri dell’educazione” e simili, quindi non certo per scelta concettuale), a fronte delle 97 occorrenze della parola “apprendimento”, delle 229 occorrenze della parola “istruzione” e delle 320 occorrenze della parola “formazione”. “Europa 2020” “Un’agenda per nuove competenze e nuovi posti di lavoro”: “modernizzare i mercati occupazionali agevolando la mobilità della manodopera e l’acquisizione di competenze lungo tutto l’arco della vita al fine di aumentare la partecipazione al mercato del lavoro e di conciliare meglio l’offerta e la domanda di manodopera”[1] [1]. Commissione Europea, Europa 2020. Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, Bruxelles, 3 marzo 2010, p. 32. Il Consiglio Europeo ha adottato la proposta della Commissione il 17 giugno 2010. Lifelong learning Training … Lifelong education… processo permanente che coinvolge sì l’apprendimento e la formazione, ma imprimendo loro un orientamento, una finalizzazione, una direzione di senso che, pur soddisfando le contingenze che, inevitabilmente, lo connotano (la storicità dei contenuti, dei tempi, degli strumenti, degli attori, delle situazioni eccetera), intende travalicarle, mantenendo saldo il senso di giustizia sociale e di responsabilità politica Il fine, discriminante, dell’educazione è dunque quello non di «adattare le capacità umane al ritmo sfrenato dei cambiamenti del mondo» quanto, piuttosto «di rendere il mondo, in continuo e rapido cambiamento, più ospitale per l’umanità» [1] [1]. A. Porcheddu (a cura di), Zygmunt Bauman. Intervista sull’educazione. Sfide pedagogiche e modernità liquida, Roma, Anicia, 2005, pp. 89-93, passim. Come integrare formazione professionale ed educazione degli adulti? La formazione professionale, prima e durante il lavoro, si può inscrivere nell’educazione degli adulti se, e solo se, investe su e mira a quei dispositivi mentali superiori che connotano il cosiddetto pensiero divergente: “il pensiero divergente, in cui si esprime la creatività, entra in gioco quando i processi convergenti si sono sviluppati al punto da permettere un’adeguata padronanza del settore di applicazione, per cui, fino a una determinata soglia intellettiva, tra i due tipi di pensiero esiste una stretta interdipendenza che tende a diminuire a livelli molto alti di intelligenza. Per essere creativi dunque bisogna avere organizzato bene le basi da cui spiccare il volo, altrimenti il destino è quello di Icaro” [1] [1]. U. Galimberti, Parole nomadi, Milano, Feltrinelli, 1994, p. 42, corsivo nel testo. La formazione professionale dell’adulto, per avere una valenza ANCHE educativa… …non può rendere il soggetto schiavo delle nuove acquisizioni sulle quali va aggiornandosi, ma deve renderlo padrone di esse. Una padronanza che consenta all’individuo di programmare il suo divenire attraverso scelte che, nell’ambito professionale soprattutto, lo rendono responsabile di fronte a sé stesso e agli altri. Perché questo avvenga, tali scelte non possono essere casuali, ma si configurano necessariamente come la risultante di un processo logico: proprio quanto, in definitiva, rende il soggetto “padrone”, ovvero competente, consapevole, in grado di gestire autonomamente quanto va facendo. Da una simile riflessione, emergono, quindi, almeno due aspetti da tenere sempre presenti: - il primo è rappresentato dal fare come momento di conoscenza, conoscenza legata alla consapevolezza del processo operativocreativo; - il secondo aspetto, annette al fare come momento di conoscenza il quid della padronanza: il creatore è, difatti, colui che domina quello che fa CREATIVITÀ Etimologia del termine creatività: dal latino creare (far crescere, produrre, causare), la cui radice kar (fare, creare) è nel sanscrito kar-oti (fare) e si ritrova nel greco kraino (creo, produco, compio, comando), krantor e kreion (colui che crea, che fa e che quindi è dominatore), kronos (il creatore), fino a ceres (la divinità delle messi, propriamente colei che produce); di qui, è interessante, per le suggestioni che ne derivano, notare come nel greco risultino attinenti termini quali poieo (faccio), demiourgos (colui che plasma, che dà forma) e kronos (colui che crea) (cfr. L. Rocci, Vocabolario Greco Italiano, Roma, Società Editrice Dante Alighieri, 1995), che attestano quanto sia importante la dimensione della conoscenza. “pregiudizi” e “stereotipi” relativi alla creatività Una “nuova” dimensione della qualità lavoro… - dimensione economica - dimensione ergonomica - dimensione della complessità - dimensione dell’autonomia - dimensione del controllo -… la sfida è quella di dare concretezza ad una dimensione educativa della qualità del lavoro, che non si aggiunge a quelle indicate ma le organizza in vista più di una crescita reale e umanizzante dell’adulto-lavoratore che non di un sistema economicoproduttivo autoreferenziale. il tipo di formazione professionale “ci dice molto” sul tipo di lavoro cui si riferisce Se diviene questa la cartina di tornasole per valutare la qualità del lavoro, gli effetti non possono che essere dirompenti, tanto sul piano sociale che su quello politico, giacché il problema principale è, oltre a quello di riconoscere nel lavoro una dimensione formativa (di formazione al lavoro e di formazione nel lavoro, che sempre esiste, sia pure a livelli diversi), anche e soprattutto quello di riconoscere una dimensione educativa da contemperare a priori, e non solo da ricavarsi a posteriori. Ciò, infatti, porterebbe al rifiuto netto – progettuale ed esistenziale insieme – di tutto ciò che è fare e produrre ma non realizzazione di sé, e che si accetta per ovviare al solo rischio di indigenza materiale anche se lascia margini estremamente stretti (quando non inesistenti) di gratificazione e di slancio personale, di crescita e di miglioramento. Non si tratta quindi di incentivare un’interpretazione educativa solipsistica del lavoro così come è, addossando in toto al lavoratore lo sforzo di cogliere, di ricostruire e di dotare di significato il proprio percorso, quanto, piuttosto, di scardinare alla base le logiche di un modello ove l’educazione è solo un eventuale indotto e non un criterio strutturale del lavoro. In conclusione…. Questo significa mettere il dito nella piaga di una situazione lavorativa che presenta, sia pure a livelli diversificati per intensità e modalità, i caratteri dello sfruttamento, della mera esecutività, della fatica fine a sé stessa, del paradosso[1] e senza alcuna contropartita in termini di sviluppo delle capacità di fruizione/produzione degli individui. Il riferimento è a tutti quei lavori utili per la collettività, ma dannosi e alienanti per il singolo, strutturati in modo tale da tagliare fuori le possibilità educative del momento formativo e di aggiornamento, limitati, di fatto, ad un elementare addestramento. [1]. Mi riferisco a quei circoli viziosi, messi in luce da diversi studi sul job searching, che producono uno stallo del processo decisionale dell’individuo, nella misura in cui il sistema lavorativo richiede, per potervi accedere attingendo ai suoi livelli di qualità, prerequisiti che il sistema stesso non dà la possibilità di maturare (ad esempio, un giovane fresco di studi non ottiene un lavoro adeguato alle sue competenze se è privo di esperienza, ma non c’è modo di acquisire una reale adeguata esperienza senza lo svolgimento di tale lavoro). Di fronte a un simile stato delle cose, solo adeguate scelte di policy possono modificare le regole del gioco che generano tali paradossi, abbattendo le paratie stagne che riducono le situazioni a veri e propri vicoli ciechi (cfr. G. A. Micheli, Sempregiovani & maivecchi. Le nuove stagioni della dipendenza nelle trasformazioni demografiche in corso, Milano, FrancoAngeli, 2009, pp. 132-133). Le “sfide” dell’EdA Coerentemente a quanto sostenuto fin qui, la terza sfida da affrontare e da “vincere” per l’EdA è, sul piano concettuale e su quello storico, quella della qualità del tempo libero «Nessun dittatore ha mai amato gli ozi, e nessun ozioso ha mai preso una dittatura sul serio» (A. Torno, Le virtù dell’ozio, Milano, Mondadori, 2001, p. 21) Un primo problema: che cos’è il “tempo libero”? Fare coincidere il tempo libero con il tempo non impiegato in attività lavorativa (e scolastica) scatena immediatamente una serie di contraddizioni tali da fare cadere qualsiasi possibilità di sostenere logicamente una simile posizione. Se così fosse, infatti, dovremmo pensare che: - chi non lavora o non va a scuola non può avere tempo libero; - il tempo libero può essere definito solo al negativo, per sottrazione da un tempo avvertito come coercitivamente occupato; - la sua unica pregnanza educativa risiede nella occasione che offre di essere utilizzato per fruire delle svariate opportunità formative messe a disposizione dalla comunità nel contesto territoriale, assecondando, al tempo stesso, i propri interessi personali e il desiderio di svago e di divertimento. Il tempo libero, adottando questi criteri, risulta essere esclusivamente una nicchia, una parentesi, un intervallo, da considerarsi sempre in rigida separazione/contrapposizione con la magna pars del tempo esistenziale… testimoniando, non di rado, una certa schizofrenia ed incomunicabilità dello stesso individuo tra sé e sé. Un secondo problema: può esistere un tempo “libero”? Contraddizione più lampante: il tempo libero, inteso come tempo svuotato da impegni, da attività, responsabilità o regole, per essere vissuto deve riempirsi nuovamente di contenuti che, anche se differenti da quelli che vanno a rimpiazzare, comportano non meno impegni, attività, responsabilità e regole, e questo è tanto più evidente laddove si innescano situazioni educative presso centri culturali, parrocchie, partiti, associazioni di vario genere e così via. Il tempo libero, allora, sembrerebbe esistere solo nominalmente giacché, di fatto, esso si concretizza nel momento in cui lo si occupa. Paradossale è anche l’estremo soggettivismo che porta a scambiare, indifferentemente, ciò che è tempo libero e ciò che non lo è a seconda delle preferenze e delle situazioni individuali (esempio: il politico di professione potrebbe ravvisare nella lavorazione della ceramica il proprio tempo libero, mentre per un ceramista di professione, altrettanto verosimilmente, questo potrebbe consistere nell’attivismo politico) Quest’ultimo paradosso, a ben vedere, ci può suggerire un aspetto importante per avviare la definizione di “tempo libero” sui binari della rigorosa razionalità e per il chiarimento della sua valenza educativa. Infatti, non pare essere tanto e in assoluto il contenuto specifico a qualificare il tempo libero, bensì l’approccio ad esso e, parallelamente, il grado di gratificazione che ne deriva. Al punto che laddove il tempo liberato dal lavoro dovesse essere, per le ragioni le più svariate, impiegato in attività avvertite come sgradevoli e opprimenti, la percezione di tempo libero finirebbe con lo spostarsi verso quello che sino ad ora è apparso come tempo non-libero. Nella prospettiva dell’educazione esiste un unico tempo, suddivisibile in diversi momenti ognuno con caratteristiche peculiari, certo, ma complessivamente coinvolto nel processo educativo. Questo testimonia, in prima istanza e ancora una volta, che l’educazione non si esaurisce nel solo contesto scolastico e, quindi, che non interessa solo gli individui in età scolare, anche se l’esserci della scuola, come occasione sistematica del suo perseguimento, è fondamentale per poter parlare di educazione, in prospettiva sia individuale sia comunitaria. Ma significa anche, in seconda istanza, considerare tutto il tempo del soggetto come tempo educativo: quindi anche quello lavorativo, quello in alternanza al lavoro (per l’individuo adulto) e, non ultimo, quello post-lavorativo (per l’individuo anziano). La riflessione sul tempo libero in termini educativi, pertanto, consente di andare al cuore del problema, proprio perché chiama in causa il senso della libertà e la responsabilità di significarla, a partire da una situazione, da uno spazio-tempo non preventivamente irreggimentato nelle opzioni e nelle scelte: vero e proprio banco di prova dell’educazione in termini di auto-organizzazione e, soprattutto, autodeterminazione e auto-affermazione. Questo, in definitiva, porta a domandarci se ci sia o meno permeabilità, se non coerenza e continuità, tra una condizione e l’altra in cui si esplica l’adultità o, al contrario, rigida separazione se non, addirittura, contrasto e opposizione. In questa prospettiva, allora, determinante diventa la percezione di una venatura di libertà del proprio tempo di vita, impegnato nel lavoro, nel divertimento, nella relazione interpersonale, nella coltivazione dei propri interessi, e considerando questi aspetti in termini di non necessaria ed automatica reciproca esclusione C. Volpi, Il tempo libero tra mito e progetto, Torino, ERI, 1976, p. 196, passim, corsivo mio): «La teoria dialettica del tempo unico dell’uomo riconosce, in esso, l’esistenza di diversi momenti e di diversi aspetti costitutivi, ma non identifica meccanicamente la libertà e la necessità con determinate forme di attività. Essa sottolinea il fatto che tutte le attività dell’uomo possono essere libere od obbligate a seconda della qualità della partecipazione umana, della capacità che ha l’uomo di progettarne e controllarne la direzione e il significato. Il divertimento non è intrinsecamente liberatore, ma può trasformarsi sia in evasione passiva che in approfondimento culturale, a seconda del ruolo che l’uomo può assumere di fronte alla struttura economica e culturale degli svaghi. Il lavoro non è intrinsecamente obbligante, ma può essere creativo (secondo la funzione che gli è propria) o alienante, tenendo conto della sua organizzazione e delle sue finalità in un determinato contesto politico ed economico […] Lo sviluppo educativo dell’uomo non può cristallizzarsi su una dicotomia intrinseca che contrappone rigidamente attività in sé obbligate ed attività in sé libere, ma deve ricercare, in tutte le attività umane, quel coefficiente di libertà e di significatività che dipende dalla consapevolezza e dalla partecipazione effettiva del singolo» G. M. Bertin, Educazione alla socialità e processo di formazione, Roma, Armando, 1972, p. 167, passim, corsivo mio: a) deve essere effettivamente tempo libero dal lavoro e da obbligazioni analoghe […]; b) in esso il soggetto deve avere effettiva possibilità di scelta tra attività varie, in modo da accogliere quelle che sono effettivamente corrispondenti alle esigenze di affermazione e di sviluppo della sua personalità e al tipo particolare di socializzazione che le è congeniale[…]; c) il soggetto deve poter dedicarsi a tali attività con una carica ancora intatta di energie, poiché se esse sono fiaccate da un eccessivo e per giunta sgradevole lavoro, il tempo libero non potrà essere dedicato che al rilassamento e allo “stordimento”; d) il soggetto deve essere educato ad un impiego razionale del tempo libero, e cioè a un impiego orientato al recupero del momento della “vitalità” personale, alla sua valorizzazione in direzione di disponibilità sociale, a un suo raffinamento e ad una sua elevazione in senso culturale Da ciò deriva, prosegue Bertin, «che non può essere considerato razionale quell’uso del tempo libero che costituisce uno sperpero per la vitalità personale (in quanto ottunde la sensibilità, involgarisce e standardizza il gusto, incoraggia l’inerzia, porta all’anonimo e, in definitiva, alla noia», «né può esserlo quell’uso del tempo libero che, pur esercitandosi in forme intellettuali ed estetiche, crea per il singolo un mondo di evasione che lo allontana dagli altri uomini nella ricerca di emozioni, più o meno preziose, fini a se stesse. Il tempo libero sarà tanto più valido pedagogicamente quanto più stimolerà le qualità creatrici del soggetto, ma anche quanto più queste saranno indotte ad aprirsi in direzione di disponibilità agli altri e a considerare tale disponibilità come la condizione stessa principale di vigore e di rafforzamento individuale» (ivi, pp. 167-168). In definitiva, «Occorre insegnare a scegliere – come scriveva Jean Laloup – ma soprattutto insegnare ad essere: l’essere superiore sa scegliere bene, mentre l’essere inferiore impiega malamente poveri criteri di scelta faticosamente appresi» (J. Laloup, Le temps du loisir, Tournai, Editions Casterman, 1962; tr. it., Il tempo dell’ozio, Torino, SEI, 1966, p. 227). elementi cruciali: - alternativa rispetto al lavoro e, quindi, necessità di integrazione tra i due momenti, anche alla luce della sperimentazione di una varietà (per contenuti, attività, approcci, stili comunicativi) di esperienze; - possibilità e responsabilità di operare una scelta, non limitandosi, quindi, a quanto offerto-imposto ma, anche e soprattutto, assumendosi un impegno di valutazione e di autovalutazione e, al contempo, esigendo un impegno politico-sociale di offerta estesa e capillare di tali attività; - esclusione, dal tempo libero, del tempo dedicato al riposo, affinché tale alternativa non sia solo fittizia (o estremamente marginalizzata o connotata in termini di reazione/ribellione), e quindi con evidenti ripercussioni sull’assetto qualitativo e quantitativo del tempo di lavoro; - recupero di una vitalità personale in vista del proprio perfezionamento come criterio educativo sulla base del quale individuare il proprio tempo libero. in questo senso, il tempo libero non può e non deve essere una “consolazione” delle frustrazioni lavorative o una “fuga” temporanea e ciclica, quanto, piuttosto, occasione di ridefinizione del proprio percorso di vita. in una prospettiva di educazione degli adulti, questo aspetto, solo apparentemente lontano dagli impegni e dalle responsabilità, convoglia su di sé ed esprime al meglio l’istanza partecipativa e costruttiva dell’identità adulta a livello comunitario, come soggetto che non solo utilizza quanto è a sua disposizione ma, avendone gli strumenti, reclama migliori condizioni e occasioni Sembrerebbe proprio la percezione educativa del tempo libero, quindi, il criterio fondamentale per una sua definizione, e non gli aspetti quantitativi di tale tempo, la relativa allocazione o i vari contenuti che inevitabilmente lo attivano Di più: allorché si instaura tale percezione, il tempo libero, proprio in virtù della sua qualità, evidenzia le cifre, positive e negative, del tempo di lavoro. Alla luce di questo, non solo si spiega ma, anche, si giustifica l’intrinseca ambiguità del tempo libero, il suo essere spaziotempo di frontiera tra il lavoro e altro-dal-lavoro, tra l’individualità e la collettività, tra l’attività e la passività, la creazione e la fruizione e, non ultimo, l’occasione educativa e l’inganno conformativo e consumistico. [1]. S. Pivato, A. Tonelli, Italia vagabonda. Il tempo libero degli italiani, Roma, Carocci, 2001, p. 183. “Inganni” del tempo libero Si sta facendo sempre più strada un’offerta di attività per il tempo libero che, facendo leva non solo su vuoti e relative paure ma, anche, su frustrazioni e ambizioni di riscatto e di affermazione, si impone in maniera generalizzata e pervasiva. «Intemperanza ludica» derivante sia da una insoddisfacente ed inadeguata esperienza lavorativa, sia dall’incapacità di dare una significazione originale e creativa al tempo libero) e commercializzazione (come business, ma anche come “distrattore” politico e civico), rappresentano le forme ingannevoli – illusoriamente emancipative – del tempo liberato dal lavoro e, stando così le cose, impedito nel suo farsi tempo di libertà (= mancanza di controllo e di moderazione; tempo liberato tempo libero tempo di libertà Una realtà, questa, che porta l’educazione degli adulti a confrontarsi con le trappole di una pseudo-libertà – oggi amplificata dal virtuale, dal simultaneo e dall’onnipresenza ripetuta e ossessiva di un tempo libero modaiolo e trendy – in cui la mera esteriorità ed ostentazione (essere presenti e visibili in un luogo, mostrare un possesso) hanno il sopravvento. Al punto che scelte diverse da quelle pubblicizzate, da quelle di un’élite (economica e mediatica, soprattutto) che la massa cerca di imitare parzialmente come può, sono considerate nell’immaginario collettivo se non eccentriche, quantomeno di nicchia, in “controtendenza” e, comunque, avvertite e calcolatamente etichettate in contrapposizione con il divertimento e lo svago che devono connotare il vissuto del tempo libero. Ma più questo tempo libero stride al confronto con il tempo lavorativo, ovvero più si connota in termini di eccezionalità rispetto alla quotidianità, più la sfida educativa si fa seria ed impegnativa. La sproporzione tra sentimenti, comportamenti e, anche, consumi esperiti in un tempo e nell’altro testimonia uno squilibrio di dimensioni tali che non si può pensare di armonizzare, se non in modo fittizio, con una media matematica tra eccessi, dalla quale far scaturire una cifra accettabile di soddisfazione. In questi termini, la ricerca di una possibile compensazione non solo è destinata a fallire, ma ciò che più conta, sul piano educativo, è che non si avvia alcun processo di trasformazione: si oscilla, alternativamente, da un piano di lavoro a un piano di tempo libero lasciandone inalterati gli assetti, in entrambi i casi subiti. Si continua, sostanzialmente, a perdere qualcosa e ad illudersi di recuperala; si sopporta qualcosa procrastinando un piacere che svanisce in fretta per ricominciare tutto daccapo. Per queste ragioni, non è peregrino parlare di inganni relativamente a quel tempo libero che, in realtà, è imposto da un mercato del lavoro che, in un circolo vizioso, deve potersi reggere su un corrispondente e coerente mercato del tempo libero. Ha scritto Domenico De Masi che: “da parte mia, riesco ad individuare il seme della felicità solo nel lavoro creativo e nel tempo libero: perciò coltivo l’ipotesi che l’ozio, nella società postindustriale, possa diventare importante almeno quanto il lavoro e che via via finisca per fare tutt’uno con esso, entrambi assumendo le connotazioni del gioco”[1] Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione mentale che, da un lato, porterebbe vantaggi non meno preziosi di quelli che furono assicurati dalla rivoluzione industriale ma, anche, e moltiplicati, gli stessi ostacoli: resistenza culturale ai cambiamenti psicologici e sociali e, non ultimo, resistenza politica ad una inevitabile – in questo scenario – ridistribuzione del potere [1]. D. De Masi, Il futuro del lavoro. Fatica e ozio nella società postindustriale, Milano, Rizzoli, 1999, p. 49. “proverbio zen” MAESTRO DI VITA Chi è maestro nell'arte di vivere fa poca distinzione tra il proprio lavoro ed il proprio gioco, tra la propria fatica ed il proprio divertimento, tra la propria mente ed il proprio corpo, il proprio studio e il proprio svago, il proprio amore e la propria religione. Quasi non sa quale sia dei due. Persegue semplicemente il proprio ideale di eccellenza in tutto quello che fa, lasciando agli altri decidere se stia lavorando o stia giocando. Ai suoi occhi, infatti, lui sta sempre facendo entrambi. Il gioco… tra lavoro e tempo libero La dimensione del gioco diventa il perno di tutto il discorso: ma se, e solo se, considerato nella sua peculiare valenza educativa. L’orientamento ludico contraddistingue, quindi, la marca educativa tanto del tempo libero quanto del lavoro, disvelando le reali occasioni di crescita e di trasformazione individuale ad entrambi i livelli, in questa prospettiva solo metodologicamente distinti e distinguibili. Tracciandone le caratteristiche salienti, Johan Huizinga rilevava che: “Comunque sia, per l’uomo adulto e responsabile il gioco è una funzione che egli potrebbe anche tralasciare. Il gioco è superfluo. Il bisogno di esso è urgente solo in quanto il desiderio lo rende tale. Il gioco può in qualunque momento essere differito o non aver luogo. Non è imposto da una necessità fisica, e tanto meno da un dovere morale. Non è un compito. Si fa nell’ozio, nel momento del loisir dopo il lavoro. Solo in un secondo momento, facendosi il gioco funzione culturale, i concetti dovere, compito, impegno, vi si congiungono. Ecco dunque una prima caratteristica del gioco: esso è libero, è libertà” [1] [1]. J. Huizinga, Homo ludens. Versuch einer Bestimmung des Spielelmentes der Kultur, Amsterdam, Pantheon Akademische Verlagsanstalt, 1939; tr. it. Homo ludens, Torino, Einaudi, 1973, p. 11. L’orientamento ludico diventa così una strategia di vitale importanza per la permanenza dell’educazione, una “fuga” finalizzata sempre ad un consapevole ed arricchito “ritorno” in termini di apprendimento, capacità interpretativa e di intervento sul reale. In questo senso, in quanto esperienza educativa e forma mentis, il gioco è, solo apparentemente, un parentesi, un trastullo, un passatempo, un’attività circoscritta fine a se stessa, giacché si offre come esercizio di simulazione analogica e di potenziamento immaginativo-creativo. E, soprattutto, si offre altresì a sua volta come criterio di scelta e di gestione del tempo libero, imponendo ad ognuno di essere, in qualche modo, giocatore, protagonista attivo, attore del gioco stesso. Ciò comporta, ancora una volta, la considerazione del tempo libero come tempo dell’impegno e della cura di tutte le dimensioni del sé, come banco di prova e di valutazione cosciente di tutto il nostro tempo. Più che di consolazione e di recupero, dunque, il tempo libero si dimostra in primis opportunità di conoscenza di sé e della propria situazione esistenziale e, di qui, possibile molla di cambiamento e transizione ad un altro status, in cui il lavoro possa rispondere a quelle istanze di passione, coinvolgimento, gratificazione, creatività e di relazione appagante (con se stessi, con gli altri) sperimentate, appunto, come tali in un tempo libero ludicamente vissuto. E non è un caso che uno dei desideri più ricorrenti nell’adulto sia quello di conciliare, se non addirittura fare coincidere, le attività elette per il proprio tempo libero con quelle del lavoro Riconoscere, scegliere e, prima di tutto, desiderare di imprimere al proprio tempo libero la direzione verso “tempo di cura di sé” rappresenta una vera e propria sfida dell’educazione permanente e, in modo particolare, dell’educazione degli adulti, giacché è soprattutto l’adulto a vivere sulla propria pelle un costante rischio di dimidiazione spazio-temporale. La portata della questione coinvolge, come si vede, il piano del singolo non meno di quello della collettività, quello della domanda non meno di quello dell’offerta di attività specificatamente approntate per il tempo libero e, pertanto, si scontra con quelle logiche politico-economiche che spersonalizzano il mondo del lavoro e quello dello svago conducendo a forme fondamentalmente analoghe di alienazione Il tempo per sé e per la cura di sè… “È tempo per riposare, per orientarsi, per informarsi, per prendere decisioni; ancora: per ascoltarsi, per stare con se stessi; tempo per prendere distanza e per cercare di capire. Tempo per sé è condizione per l’apprendimento continuo, per l’autoconoscenza, per la costruzione della riflessività: processi che caratterizzano gli attori sociali nella vita quotidiana. Non è tempo libero e non è tempo di lavoro, anche se come il primo è caratterizzato dalla flessibilità e dall’autodirezionalità, e come il secondo è non rinunciabile e non occasionale” L. Balbo, Tempo di lavoro, tempo libero, tempo per sé, in “Storia in Lombardia”, n. 1-2/1995, p. 68 Due “livelli” nel modo di intendere il tempo libero: il primo, distaccandosi dal lavoro, per consentire all’individuo di mettere in atto, dopo il necessario recupero delle forze fisiche e psichiche, energie creativo-produttive e relazionali intitolate al perseguimento di una qualità della vita più piena e più partecipativamente pensata e goduta il secondo, riallacciandosi al tempo di lavoro per una appropriazione coerente (nei meccanismi, nelle finalità) di tutto il tempo esistenziale. Una duplice sfida educativa in relazione al tempo libero: Al primo livello, la sfida educativa più impegnativa risiede nel saper fruire e nel saper richiedere occasioni di tempo libero che – lungi dall’incrementare l’acquiescenza del lavoratore verso forme alienanti di lavoro e, parimenti, l’omologazione indotta dal mercato del tempo libero come tempo di remissivo consumismo – siano di reale gratificazione per l’individuo, mobilitandone e sollecitandone il divenire di sé Al secondo livello, poi, l’impegno educativo si colora oltremodo di idealità, laddove ravvisa nel tempo libero la chance per eccellenza in grado di scardinare un’impostazione del lavoro che non va oltre la mera sopravvivenza, guardando, utopicamente, non solo ad una integrazione tra otium e negotium, ma addirittura alla possibilità dell’otium nel negotium, condizione stessa dell’inverarsi dell’educazione permanente come processo diffuso.