Capitolo 3 Sovrapposizione di onde, interferenza e diffrazione. In questo capitolo passeremo in rassegna una serie di fenomeni ed introdurremo un certo numero di concetti fisici facendo riferimento a campi elettromagnetici, e in particolare a fenomeni ottici. Quanto diremo non è in genere specifico dei campi e.m. , né tantomeno di una certa regione di frequenze, ma è piuttosto caratteristico di tutti i fenomeni ondosi e pertanto si applicherà poi alle “onde di materia” che descrivono il comportamento quantistico di particelle materiali. principio Il “ di sovrapposizione” che sta alla base di tutta la trattazione dei fenomeni di interferenza e diffrazione non è nemmeno specifico dei fenomeni ondulatori: esso vale in qualsiasi contesto ogni qual volta si abbia a che fare con fenomeni “lineari” ossia in cui un determinato “effetto” risulta direttamente proporzionale alla grandezza fisica che lo determina. dà luogo ai fenomeni in studio. La linearità dei fenomeni in studio è un risultato dell’esperienza ed implica necessariamente la linearità delle equazioni matematiche che li descrivono, e viceversa. Questo comporta che date due soluzioni di una determinata equazione sia una soluzione anche qualsiasi loro combinazione lineare (detta anche “sovrapposizione”). Il risultato di questa sovrapposizione, a seconda di ciò che noi effettivamente misuriamo, può essere sensibilmente diverso da ciò che risulta immediatamente dalle singole soluzioni e in questo consiste genericamente “l’interferenza”. Normalmente si parla di fenomeni di “interferenza” limitatamente a quelli derivanti dalla somma di campi alla stessa frequenza, mentre si parla semplicemente di “sovrapposizione” se le frequenze in gioco sono diverse; anche se spesso le differenze sono più di terminologia che di sostanza ci atterremo all’uso corrente. Tutti i fenomeni ondulatori sono influenzati in misura maggiore o minore, a seconda delle condizioni, da fenomeni di interferenza e questa diventa in qualche modo caratteristica di un fenomeno ondulatorio. Così pure sono caratteristici di un comportamento ondulatorio i fenomeni di “diffrazione” che fondamentalmente risultano dall’interferenza di onde emesse da “sorgenti” estese. Interferenza e diffrazione sono strettamente legate fra di loro e in definitiva non esiste un netto discrimine fra l’una e l’altra; è sostanzialmente una pura convenzione attibuire un fenomeno all’una o all’altra categoria e deriva spesso solo da ragioni di ordine “storico”. In generale quindi ci troviamo di fronte a due descrizioni fisiche ben distinte una puramente particellare , nella quale i fenomeni di interferenza sono assenti ( es. la quantità si moto di un fascio di particelle è la somma delle quantità di moto delle singole particelle e così pure la sua intensità o energia) l’altra di tipo ondulatorio per la quale i fenomeni di interferenza sono determinanti (in generale l’impulso e l’intensità di un campo e.m. in un punto non è semplicemente la somma degli impulsi e delle energie dei “componenti”). In realtà, come vedremo trattando i fenomeni quantistici, queste due descrizioni o “comportamenti” di un’entità fisica corrispondono a “casi limite” e ed essa non è così chiaramente attibuibile una natura di tipo particellare oppure di tipo ondulatorio; dipende piuttosto dalle condizioni di misura osservare un comportamento di un tipo piuttosto che di un’altro. Come per i precedenti capitoli molte delle definizioni e dei concetti qui esposti vengono richiamati da un lato perchè saranno estensivamente usati nella descrizione quantistica di molti fenomeni dall’altro per completezza di discorso in relazione a determinate esperienze fondamentali nell’affermazione e nella conferma della meccanica quantistica. Nel seguito faremo riferimento esplicito ai campi ed alle onde e.m. per i quali esiste una ampia trattazione dei fenomeni di interferenza e diffrazione i quali poi risultano abbastanza facilmente osservabili anche nella vita quotidiana. Per dimostrazioni e discussioni più dettagliate rimandiamo ai testi di elettromagnetismo ed ottica già citati nel capitolo 2. 3.1 - Sovrapposizione di onde. Come detto poco sopra nella premessa, in virtù della linearità delle Equazioni di Maxwell possiamo applicare il principio di sovrapposizione: quindi date due loro soluzioni qualsiasi E1 ed E2 anche una qualsiasi combinazione lineare E = aE1 + bE2 , con a e b costanti complesse, risulterà essere una soluzione. L’intensità risultante del campo, che è ciò che in effetti si misura, è però proporzionale a |E|2 = | aE1 + bE2 |2 e di conseguenza essa risulta fortemente dipendente dalla fase relativa dei due campi (di cui si tiene conto considerando appunto costanti complesse). Le relazioni di fase fra i vari componenti del campo totale sono determinanti in tutti i fenomeni di interferenza (e quindi di diffrazione) e da esse, ancor più che dalle intensità, deriva il risultato finale. In ciò che abbiamo detto finora si è implicitamente supposto di riferirsi ad un campo “scalare” ossia ad una stessa componente o componente di polarizzazione del campo e.m. perchè i fenomeni di interferenza avvengono solo fra campi e.m. aventi la stessa polarizzazione. In altri termini si è per esempio visto che una qualsiasi onda piana può essere descritta come somma di due onde polarizzate linearmente ( o circolarmente) lungo due direzioni fra loro perpendicolari; l’intensità corrispondente è però sempre e comunque la somma delle intensità delle due componenti di polarizzazione dato che corrispondono appunto a campi elettrici perpendicolari fra di loro. Esamineremo adesso brevemente alcuni casi di interferenza, ovviamente in uno stesso punto dello spazio, di campi elettrici oscillanti aventi le stessa direzione , ossia la stessa polarizzazione. a) – Due campi. Il caso in oggetto è particolarmente semplice e si può comunque trovare una soluzione analitica per il campo risultante. Supponiamo di avere due campi di ampiezza E1 e E2 oscillanti rispettivamente a frequenza ω1 e ω2 con una differenza di fase ϕ ; il campo risultante E è quindi: E = E1e−iω1t + E2 e−iω 2 t +iϕ = e ω= ω 2 + ω1 2 −iω t +i ϕ 2 (E1e i ϕ ∆ω t −i 2 2 + E2 e −i ϕ ∆ω t +i 2 2 ) ∆ω = ω 2 − ω 1 (3.1) dove le ampiezze dei campi possono essere scelte reali considerando ϕ come differenza di fase complessiva. Dato che ciò che misuriamo, l’intensità o l’energia, è proporzionale al modulo quadro del campo elettrico si ha poi: E = E12 + E22 + 2E1E2 cos(∆ω t − ϕ ) 2 (3.2) Questa equazione mostra che in generale l’intensità è modulata nel corso del tempo alla frequenza ∆ω , ossia alla frequenza differenza fra le due date. Se le due frequenze sono vicine fre di loro ha luogo il ben noto fenomeno dei “battimenti” , e la frequenza ∆ω prende il nome di “frequenza di battimento”, in cui l’intensità subisce una modulazione sinusoidale con un periodo T* = T/2 = π/∆ω , lungo rispetto a quello proprio delle oscillazioni dei campi. Se le ampiezze dei campi sono uguali la modulazione è completa e si ha in questo caso per l’ampiezza e il suo modulo quadro: E == e −iω t +i ϕ 2 (E0 e i ϕ ∆ω t −i 2 2 + E0 e −i ϕ ∆ω t +i 2 2 )= E =e −iω t +i ϕ 2 2E0 cos( ∆ω ϕ E = 2E + 2E cos(∆ω t − ϕ ) = 4E cos ( t− ) 2 2 2 2 0 2 0 2 0 ∆ω ϕ t− ) 2 2 (3.3) 2 In questo caso l’intensità istantanea del campo oscilla con frequenza pari a ∆ω/2 fra 0 e un massimo pari a 4 volte l’intensità del singolo campo E02, ma l’intensità media rimane uguale alla somma delle singole intensità. Se le ampiezze dei campi la modulazione non è completa e la banda di oscillazione è ridotta rispetto alla precedente. In questo caso la differenza di fase ϕ non gioca un ruolo particolarmente rilevante ed ha come unico effetto quello di traslare avanti o indietro temporalmente la modulazione. La situazione è differente se i campi hanno la stessa frequenza,ω1 = ω2 = ω nel qual caso si ha un fenomeno di interferenza in senso stretto; si ha per l’ampiezza e l’intensità del campo risultante: E = E1e−iω t + E2 e−iω t +iϕ = e−iω t [(E1 + E2 cos ϕ ) + iE2 sin ϕ )] E = E12 + E22 + 2E1E2 cos ϕ 2 (3.4) In questo caso come si vede l’intensità non risulta dipendente dal tempo, ossia si ha un fenomeno di “interferenza stazionaria”, se la differenza di fase ϕ è costante nel tempo; in questo caso si dice inoltre che i due campi sono “coerenti” o più precisamente “temporalmente coerenti”. Come casi notevoli di interferenza si possono considerare i seguenti casi particolari: ϕ = 0, 2π ,....2nπ → E = E12 + E22 + 2E1E2 = (E1 + E2 )2 2 π 3π (2n + 1)π 2 , ,.... → E = E12 + E22 2 2 2 2 ϕ = π , 3π ,....(2n + 1)π → E = E12 + E22 − 2E1E2 = (E1 − E2 )2 ϕ= (3.5) Nel primo caso si ha un rinforzo di intensità dato che essa è superiore alla somma delle intensità dei singoli campi e si dice che l’interferenza è “costruttiva”: nel caso di campi di uguale ampiezza essa diviene 4 volte l’intensità dei singoli campi e quindi è doppia di quella che ci attenderemmo in assenza di fenomeni di interferenza. Nel secondo caso si dice che i campi sono in “quadratura” (di fase) e l’intensità è la somma delle intensità dei dei singoli campi. Infine nell’ultimo caso si ha una diminuzione di intensità rispetto a quella dei singoli campi e si dice che l’interferenza è “distruttiva”: se le ampiezze sono uguali il risultato è un’intensità nulla. E’ interessante considerare che cosa succede se la differenza di fase fra i due campi non rimane costante nel tempo ma varia in modo casuale (random); in questo caso, assai frequente nelle situazioni comuni, si dice che i campi sono “incoerenti”. Le espressioni (3.4) rimangono valide, se i tempi di variazione della fase sono lunghi rispetto al periodo di oscillazione dei campi, pur di pensare la fase come funzione, random, del tempo. In questo caso esse forniscono il valore istantaneo dell’ampiezza e dell’intensità del campo; se si vanno invece a considerare i valori medi di queste grandezze su tempi lunghi rispetto a quelli di variazione della fase (che si suppone vari senza limitazioni di sorta fra 0 e 2π) i termini oscillanti risultano a media nulla ed in particolare l’intensità risulta essere la somma delle intensità dei singoli campi. Nel caso quindi di campi incoerenti si ha di fatto una cancellazione degli effetti di interferenza e si può considerare l’ intensità risultante come la somma delle intensità. b) - 2 onde piane. Come caso un po’ più generale possiamo considerare quello di due onde e.m. piane aventi la stessa polarizzazione e propagantesi nella stessa direzione , per es. lungo l’asse x, con velocità v. In questo caso il campo elettrico è dato da: E(x,t) = E1e ω + ω1 ω= 2 2 ik1 x −iω1t + E2 e ik2 x −iω 2 t +iϕ =e ikx −iω t +i ∆ω = ω 2 − ω 1 ϕ 2 −i ϕ ∆k ∆ω x +i t −i 2 2 2 (E1e k +k k= 2 1 2 + E2 e i ϕ ∆k ∆ω x −i t +i 2 2 2 ∆k = k2 − k1 ) ω ki = i v (3.6) mentre per il modulo quadro di E si ha: E(x,t) = E12 + E22 + 2E1E2 cos(∆kx − ∆ω t + ϕ ) 2 (3.7) Le espressioni ora ricavate sono analoghe a quelle delle Eq. (3.1-3.2) ( che si riottengono per es per x = 0 ) salvo che adesso si ha un campo che si propaga con vettore d’onda k e una modulazione ( il battimento) che pure si propaga con vettore d’onda ∆k. In altri termini in questo caso la velocità di spostamento dei piani di fase costante ( kx − ω t + ϕ / 2 = Cost ), che chiamiamo “velocità di fase” , è data da v f = ω / k mentre la velocità con cui si spostano i piani di uguale ampiezza ( ∆kx − ∆ω t + ϕ / 2 = Cost ) , che chiameremo “velocità di gruppo”, è data da vg = ∆ω / ∆k . Se gli indici di rifrazione alle due frequenze sono fra loro differenti velocità di fase e velocità di gruppo risultano anch’esse differenti. Sostituendo le espressioni esplicite dei campi nelle Eq. (2. ) si può calcolare la velocità di propagazione dell’energia definita dalla relazione (2..) e si trova che in questo caso coincide con la velocità di gruppo. Nel caso degenere, in cui le frequenze sono ugualiω1( = ω 2 = ω) e quindi sono uguali in modulo i due vettori d’onda, si deve distinguere il caso in cui questi ultimi sono equiversi da quello in cui sono opposti. Supponendo per semplicità E1 = E2 = E0 , nel primo caso k1 = k2 = k si ottiene: E(x,t) = E0 eikx −iω t + E0 eikx −iω t +iϕ = e ikx −iω t +i ϕ 2 2E0 cos ϕ 2 (3.8) ossia un’onda piana che si propaga lungo l’asse x di ampiezza variabile fra 0 e 2E0 a seconda del valore dello sfasamento. Il secondo caso, in cui k1 = -k2 = k , è più interessante: si ha per il campo elettrico e il suo modulo quadro: E(x,t) = E0 eikx −iω t + E0 e−ikx −iω t +iϕ = e ϕ E(x,t) =4E cos (kx - ) 2 2 2 0 −iω t +i ϕ 2 ϕ 2E0 cos(kx - ) 2 (3.9) 2 L’Eq. (3.9) mostra che in questo caso si forma un’onda, non propagantesi, che prende il nome di “onda stazionaria”. In ogni punto dell’asse il campo elettrico oscilla a frequenza ω con un’ampiezza, che dipende unicamente dal punto considerato, il cui valore varia fra 0 ( nei punti detti “nodi”) e 2E0 (nei punti detti “ventri” ). Dato che la densità di energia, proporzionale al modulo quadro di E, risulta in ogni punto costante nel tempo non vi è nel corso del tempo flusso di energia, ossia l’onda stazionaria a differenza di quanto succede ordinariamente non trasporta energia. Questo è conseguenza del fatto che il corrispondente vettore di Poynting è nullo: infatti il campo è la risultante di un’onda di ampiezza E0 che si propaga nel verso delle x positive, e di un’onda di uguale ampiezza che si propaga nel verso opposto e quindi i corrispondenti vettori di Poynting di uguale ampiezza e diretti in verso opposto si compensano reciprocamente. Distribuzioni di campo corrispondenti ad onde stazionarie si producono frequentemente in varie situazioni fisiche: per esempio si realizzano all’interno di una cavità ottica che nella sua forma più semplice possiamo considerare come una regione di spazio limitata da due superfici piane e parallele, totalmente riflettenti. Considerando che queste siano costituite da un materiale perfettamente conduttore (di conducibilità infinita) le condizioni al contorno sul campo elettrico impongono che il campo risultante sia nullo sulle due superfici, ossia che l’onda incidente e l’onda riflessa abbiano uguale ampiezza e siano in opposizione di fase. Limitandoci a considerare la configurazione in cui il vettore d’onda è perpendicolare alle superfici, ne risulta che all’interno della cavità possono sussistere solo quei campi che danno luoga ad un’onda stazionaria per cui si hanno due nodi in corrispondenza delle due superfici ossia per cui la distanza L fra i due specchi risulta uguale ad un numero intero di mezze lunghezze d’onda: L=m λ π πv =m =m 2 k ω ω = kv = m → πv L (3.10) Come si vede la relazione (3.10) pone dei vincoli ben precisi sulle caratteristiche dei campi elettrici esistenti all’interno della cavità ed in particolare impone che le frequenze consentite, che prendono il nome di “modi della cavità” siano multipli interi di πv/L. Nel caso in cui la cavità sia costituita da specchi diversi da quelli ora considerati le condizioni al contorno potranno risultare diverse ma, se sono totalmente riflettenti, si ha comunque la formazione di una distribuzione di campo stazionaria al suo interno. con considerazioni analoghe a quello adesso fatte. Anche nel caso in cui il vettore d’onda non risulti perpendicolare alle superfici potranno sussistere all’interno della cavità solo campi e.m. corrispondenti a ben precise frequenze, determinate dalle dimensioni della cavità e dall’angolo di incidenza, che danno luogo a distribuzioni di campo stazionarie. c) - N onde piane. Le considerazioni precedentemente fatte possono essere generalizzate al caso della sovrapposizione di N onde piane, che si propagano tutte con velocità v nella stessa direzione x, di ampiezza Ei , frequenza ωi e fase ϕi. Il campo elettrico risultante E(x,t) nel 2 punto di coodinata x al tempo t e il suo modulo quadro E(x,t) sono dati da: N E(x,t) = ∑ Ei eiki x −iω i t +iϕi i =1 N N N E(x,t) = ∑ Ei2 + ∑ ∑ Ei E j e 2 i =1 ki = ωi v i(ki − k j )x −i(ω i − ω j )+i(ϕ i − ϕ j ) (3.11) i =1 j =1 j≠i Le espressioni (3.11) sono abbastanza complesse ma si può capire che cosa predicono considerando due casi limite. Il primo che consideriamo è quello di una sovrapposizione incoerente di onde piane in cui le fasi variano nel tempo in modo casuale e completamente scorrelato fra di loro. Se andiamo a considerare in un punto , per es. x = 0 , il modulo quadro del campo e 2 la sua media temporale E(0,t) fatta su tempi lunghi rispetto al tempo caratteristico di fluttuazione delle fasi si ha : N N N E(0,t) = ∑ E + 2∑ ∑ Ei E j cos[(ω i − ω j )t − (ϕ i − ϕ j )] 2 2 i i =1 E(0,t) 2 N i =1 j >i N N N = ∑ Ei2 + 2∑ ∑ Ei E j cos[(ω i − ω j )t − (ϕ i − ϕ j )] = ∑ Ei2 i =1 i =1 j >i (3.12) i =1 In un punto dello spazio si ha quindi , nel corso del tempo, una variazione casuale della densità d’energia, o dell’intensità, il cui valor medio è uguale in tutti i punti e pari alla somma delle densità d’energia, o delle intensità, associate con ciascuna componente della sovrapposizione. Questo per es. è ciò che si osserva illuminando una regione dello spazio con una sorgente incoerente, come una comune lampadina: il campo è il risultato della somma di molte onde piane le cui fasi variano molto rapidamente nel corso del tempo e l’intesità percepita dal nostro occhio, o misurata con un rivelatore, risulta costante e pari alla somma delle intensità delle singole onde. Come secondo caso limite, opposto al precedente, possiamo considerare invece una sovrapposizione completamente coerente di onde piane in cui le fasi relative delle onde sono costanti nel tempo. Supponendo per semplicità che le onde abbiano tutte uguale ampiezza, Ei = E0 , ed uguale fase , ϕi = ϕ , e che le frequenze siano equispaziate, cioè varino secondo la legge ωn = ω +nΩ con n = (i – 1) intero si ha: 1 − eiN (Kx −Ωt ) = 1 − ei(Kx −Ωt ) n=0 n=0 N N sin[ (Kx − Ωt)] sin[ (Kx − Ωt)] N −1 i (Kx −Ωt ) 2 2 = E0 eikx −iω t e 2 = E0 eikx −iω t 1 1 sin[ (Kx − Ωt)] sin[ (Kx − Ωt)] 2 2 ω ω Ω ω Ω (3.13) kn = n = + n = k + nK k= K= v v v v v N −1 ω N −1 ω =ω + Ω k = =k+ K 2 v 2 N −1 N −1 E(x,t) = ∑ E0 eikn x −iω n t = E0 eikx −iω t ∑ einKx −inΩt =E0 eikx −iω t N sin[ (Kx − Ωt)] 2 2 E(x,t) = E02 1 sin[ (Kx − Ωt)] 2 2 La sovrapposizione coerente di onde piane produce in questo caso una distribuzione di campo sostanzialmente diversa da quella della singola onda piana, soprattutto se il numero N è abbastanza elevato. Risulta dalla prima delle Eq. (3.13) che il campo è quello di un’onda piana di frequenza ω , corrispondente alla frequenza media della distribuzione, modulato dalla funzione alla destra dell’esponenziale; equivalentemente si può dire che il campo è espresso come il prodotto di un termine di fase, dato dal fattore esponenziale, per una ampiezza. Questa presenta una serie di massimi principali in corrispondenza dei valori di t ed x per cui: Kx − Ωt = mπ 2 → x= Ω 2mπ 2mπ v t+ = vt + = vt + mvT K K Ω (3.14) Il valore assunto dalla funzione sul massimo, per es. quello corrispondente ad m = 0 , è pari a N ed i sui primi zeri rispetto corrispondono ai valori di x e t per cui: N (Kx − Ωt) = ±π 2 → x± = Ω 2π 1 vT t± = vt ± K N K N (3.15) Considerazioni analoghe valgono per gli altri massimi corrispondenti ai diversi valori di m , e quindi in definitiva si ha la formazione di un treno di impulsi principali (seguiti da impulsi secondari di modesta ampiezza) che si propagano con velocità v = Ω/K , distanti temporalmente di una quantità T = 2π/Ω (spazialmente di vT) , con una durata alla base pari a T/N; l’intensità sul massimo risulta in questo caso N2 volte quella della singola onda come mostra l’ultima delle Eq. (3.13). Chiaramente più elevato è il numero di onde che si sovrappongono più stetti e più alti risultano gli impulsi. Nel caso considerato, in cui non vi è dispersione ossia la velocità v è la stessa per tutte le frequenze, la velocità di fase e la velocità di spostamento dei massimi degli impulsi ( la veocità di gruppo) coincidono, ma in generale, come vedremo al paragrafo successivo sono diverse. L’esempio ora considerato evidenzia il fatto che ogni qual volta sovrappongono in modo coerente onde piane, con frequenze non troppo dissimili fra di loro, si ha la generazione di impulsi. Ampiezze diverse e fasi non identiche (purchè costanti) per le varie onde alterano la forma degli impulsi ma non alterano la sostanza di quanto sopra detto. I fenomeni fisici che abbiamo appena considerato stanno per es. alla base delle tecniche di produzione di impulsi laser corti , con durate che possono variare a seconda dei casi dai 100 ps a pochi fs nel visibile. Queste tecniche dette di “modelocking”, ossia di agganciamento di fase dei modi del campo e.m. all’interno della cavità ottica del laser, prevedono con opportuni elementi la costituzione fra i modi di una relazione di fase costante nel tempo e di conseguenza la creazione di una sovrapposizione coerente di onde piane che dà origine agli impulsi. 3.2 - Pacchetti d’onda. L’immediata generalizzazione di quanto detto nel precedente paragrafo al punto c) la si ha andando a considerare i cosidetti “pacchetti d’onda” che sostanzialmente corrispondono ad una sovrapposizione di onde piane con frequenze e vettori d’onda distribuiti con continuità attorno ad una frequenza centrale, o portante, ω0 e ad un vettore d’onda centrale k0. Perchè il concetto di pacchetto d’onda, e la trattazione usuale, abbia senso la larghezza della funzione che caratterizza la distribuzione di frequenze e vettori d’onda dovrà essere “ragionevolmente piccola” in relazione a frequenza e vettore d’onda centrale. Per il campo elettrico del pacchetto d’onda E(r,t) nel punto individuato dal vettore posizione r al tempo t si ha: E(r,t) = 1 (2π ) ∫∫∫ d k A(k)e 3 3 2 ik⋅r −iω t ω = ω (k) (3.16) Nella relazione (3.16), che definisce il “pacchetto d’onda” , A(k) è la funzione di distribuzione che caratterizza in termini di frequenza e vettore d’onda la sovrapposizione di onde piane e la frequenza ω è legata a k dalla relazione di dispersione; l’integrale triplo è esteso a tutto lo spazio dei vettori d’onda. In un mezzo isotropo ed omogeneo, che ci limitiamo a considerare, ω dipende solo dal modulo del vettore d’onda e possiamo scrivere la relazione di dispersione come k =n(ω)ω/c dove n è l’indice di rifrazione che dipende in generale dalla frequenza ω. Se, come sopra detto, la funzione di distribuzione A(k) è centrata attorno ad un vettore d’onda k0 , k0 = n(ω 0) ω0/c inoltre potremo convenientemente riscrivere l’espressione (3.16) come: E(r,t) = 1 (2π ) 3 2 n(ω )ω = k (3.17) c eik0 ⋅r −iω 0 t ∫∫∫ d 3 k A(k − k 0 )ei(k − k0 )⋅r −i(ω − ω 0 )t in cui si ha un’onda piana portante ed un termine di modulazione dell’ampiezza e della fase. Ci limitiamo adesso a considerare, per semplicità, il caso unidimensionale ossia un pacchetto d’onda formato dalla sovrapposizione di onde piane che abbiano tutte la stessa direzione di propagazione coincidente con l’asse x. In questo caso l’integrale triplo si riduce ad un integrale sulla componente lungo l’asse delle x del vettore d’onda e quindi si ha: +∞ E(x,t) = 1 ik0 x −iω 0 t i(k − k )x −i(ω − ω 0 )t e = ∫− ∞ dkA(k − k0 )e 0 2π +∞ = 1 ik0 x −iω 0 t e dζ A(ζ )eiζ x −i(ω (ζ )− ω 0 )t ∫ 2π −∞ (3.18) ζ = k − k0 L’espressione (3.18) può essere messa in una forma piu semplice da trattare, anche se non esatta, se come abbiamo più volte detto la funzione di distribuzione A è sensibilmente diversa da zero in un’intorno limitato di k0 e in esso la deviazione della relazione di dispersione da una relazione lineare è sufficientemente piccola ( nel caso in oggetto deve risultare sufficientemente piccola la variazione dell’indice di rifrazione con la frequenza ). In questo caso possiamo considerare uno sviluppo in serie della relazione di dispersione limitato al secondo ordine, ossia possiamo scrivere: ω (k) = ω 0 + vg = dω dk dω dk (k − k0 ) + k0 α= k0 1 d 2ω 2 dk 2 dvg dk = k0 1 ω (ζ ) − ω 0 = vgζ + αζ 2 + ..... 2 (k − k0 )2 + ..... k0 d 2ω dk 2 (3.19) k0 αζ 1 dvg = vg vg dk ζ =1 k0 dove vg prende il nome di “velocità di gruppo” e α di “parametro di dispersione” (della velocità di gruppo) e tiene conto della variazione di vg con la frequenza. Sostituendo nell’Eq. (3.18) si ha allora: +∞ E(x,t) ≈ α iζ x −i(vgζ + ζ 2 )t 1 ik0 x −iω 0 t 2 e d ζ A( ζ )e = ∫ 2π −∞ +∞ αt −i ζ 2 i( x − v t )ζ 1 ik0 x −iω 0 t 2 e d ζ A( ζ )e e g = ∫ 2π (3.20) −∞ = eik0 x −iω 0 t f (t, x − vgt) Si vede che in questocaso il pacchetto d’onda dà luogo ad un termine di onda piana armonica (di fase) moltiplicato per un fattore di ampiezza, dato dalla funzione f, che ha la forma di una perturbazione che si propaga con velocità vg , ossia con la velocità di gruppo, ma la cui forma cambia nel tempo a causa della presenza del termine di dispersione legato ad α. Solo nel caso in cui si trascuri , o sia nullo, α risulta f = f(x-vgt) e quindi si ha un pacchetto d’onda che conserva la sua forma nel tempo. In questo caso esso corrisponde ad un’onda piana che si propaga con la velocità di gruppo e la funzione f è la trasformata di Fourier della funzione di distribuzione A(z). Si noti che solo se la relazione di dispersione è lineare in k ( ω = ω(k) = vk , α = 0 ) la velocità di gruppo risulta coincidente con la velocità di fase vg = vf = v = ω/k. In generale altrimenti si ha: dk d ω d ω n(ω ) n(ω ) ω dn(ω ) = = = + dω dω v(ω ) dω c c c dω vf c vg = = dn ω dn n +ω 1+ dω n dω (3.21) La dispersione della velocità di gruppo, deriva dalla variazione con la frequenza della velocità di propagazione delle onde, e in ultima analisi dell’indice di rifrazione n. Le differenti velocità fanno sì che la fase relativa con cui si sommano i campi elettrici varino nel corso della propagazione e di conseguenza vari la forma del pacchetto d’onde. In base al Teorema di Poynting ( Eq. (2.)) se α è trascurabile si ha: ∂Φ(x − vgt) ∂x 2 ∂Φ(ς ) ∂ ∂ 2 = − (ε 0ε r E(x,t) ) = − (ε 0ε r f (x − vgt) ) = ∂ς ∂t ∂t ∂ ∂W 2 = vg (ε 0ε r f (ς ) ) = vg ς = x − vg t ∂ς ∂ς = (3.22) quindi in questo caso la velocità di gruppo coincide con la velocità di trasporto dell’energia; ovviamente nei casi in cui la dispersione della velocità di gruppo sia consistente queste due velocità differiscono e si dovrà fare un’analisi più accurata della propagazione del pacchetto d’onda. Vogliamo infine rilevare, facendo riferimento all’Eq. (3.20) che una funzione di distribuzione A(k) = δ (k − k0 ) = δ (ω / v − ω 0 / v) dà luogo ad un’onda piana armonica e viceversa. Quindi un’onda monocromatica è estesa nel tempo e nello spazio fra + ∞ e ∞ , mentre qualsiasi campo che abbia una durata od un’estensione finita, in assenza di confinamento, deve avere necessariamente una funzione di distribuzione non nulla su un intervallo finito di vettori d’onda , ossia non può essere monocromatico. Come esempio concreto di propagazione di un pacch considereremo il caso, particolarmente importante e significativo, di un “pacchetto d’onda gaussiano” la cui funzione di distribuzione A, che caratterizza la composizione spettrale del pacchetto, è una gaussiana: ζ2 − 2 1 e 2σ 2πσ A(ζ ) = (3.23) Sostituendo nell’Eq. (3.20) si ha: +∞ ζ2 αt − 2 −i ζ 2 1 ik0 x −iω 0 t i( x − v t )ζ 2σ E(x,t) = e dζ e e 2 e g = ∫ 2πσ −∞ +∞ ζ2 − 2 (1+iα t σ 2 ) 1 ik0 x −iω 0 t i( x − v t )ζ 2σ = e d ζ e e g = ∫ 2πσ −∞ = 1 2π (1 + iα tσ 2 ) eik0 x −iω 0 t e − ( x − vg t )2 2(1+iα t σ 2 ) (3.24) σ2 Il modulo quadro di E , la cui radice quadrata fornisce l’inviluppo del pacchetto d’onda, risulta infine dato da: E(x,t) = 2 1 2π 1 + α 2t 2σ 4 e − ( x − vg t )2 1+ α 2 t 2 σ 4 σ2 (3.25) E’ immediate verificare che l’integrale dell’Eq. (3.25), proporzionale all’energia associata col pacchetto d’onda W , risulta costante nel tempo: +∞ W∝ ∫ dx E(x,t) 2 −∞ = 1 2 2πσ (3.26) Le relazioni ora trovate mostrano che un pacchetto d’onda gaussiano dà luogo ad un impulso il cui inviluppo ha ancora la forma di una gaussiana e il cui massimo si sposta con velocità pari alla velocià di gruppo vg. Considerando per semplicità il α caso = 0 si vede che la larghezza spaziale o temporale dell’impulso è proporzionale all’inverso della larghezza σ della funzione di distribuzione A ossia alla sua larghezza spettrale: tanto più è ampio lo spettro di frequenze del pacchetto tanto più breve risulterà l’impulso. E’ anche opportuno rilevare che nel caso considerato le onde piane che costituiscono il pacchetto sono tutte in fase fra di loro ( A è reale) e che considerando anche una modulazione di fase (A complesso) si otterrebbe un pacchetto d’onda con una durata temporale più lunga rispetto a quella data dalla (3.25). L’evoluzione nel tempo del pacchetto dipende dalle caratteristiche del mezzo in cui si propaga: in un mezzo non dispersivo in cui α = 0 (il vuoto) la larghezza della gaussiana è indipendente dal tempo (uguale a quella iniziale σ ) e quindi la forma del pacchetto si mantiene inalterata nel tempo. Se α ≠ 0 la larghezza della gaussiana aumenta nel tempo, mantenendo comunque costante la sua area, e pertanto diminuisce l’altezza del suo massimo: il pacchetto d’onda si “disperde”. Come tempo caratteristico dello sparpagliamento si può considerare il tempo τ necessario a moltiplicare per un fattore 2 la larghezza del pacchetto e come distanza caratteristica la distanza l percorsa nel tempo τ che risultano dati da: 1 + α 2τ 2σ 4 = 2 l = vgτ = vg → τ= 1 ασ 2 (3.27) ασ 2 Come si vede lo sparpagliamento è tanto più rapido quanto risulta grande la costante α , ed è un fenomeno ineliminabile in ogni mezzo reale in cui l’indice di rifrazione è inevitabilmente dipendente dalla frequenza; la sua rilevanza è da mettere in relazione con i tempi e le distanze su cui si opera come evidenziato dalle precedenti relazioni. Ovviamente, non avendo considerato nessun meccanismo dissipativo, l’energia dell’impulso si conserva come mostrato dall’Eq. (3.26); in presensa di fenomeni dissipativi quest’ultima relazione non è più valida e si avrà durante la sua propagazione un attenuazione dell’energia dell’impulso con una conseguente sua degradazione su tempi e distanze più brevi rispetto a quelle date dall’Eq. (3.27). Vogliamo concludere questo paragrafo notando che quanto ora detto, circa l’inevitabilità della degradazione di un pacchetto d’onda ad opera della dispersione e delle perdite, ammette in alcuni casi un’eccezione se il mezzo in cui si propaga presenta delle nonlinearità (per questo mezzo quindi non vale più il principio di sovrapposizione). Se queste hanno caratteristiche opportune possono in alcuni casi dare luogo a processi che compensano le perdite e lo sparpagliamento dell’impulso. In altri termini l’equazione delle onde che tenga conto oltre che della dispersione anche dei fenomeni dissipativi e delle non-linearità del mezzo ammette delle soluzioni particolari che corrispondono a pacchetti d’onda che si propagano mantenendo sostanzialmente inalterata forma ed energia: tali soluzioni vengono chiamate “solitoni”. Mezzi con non-linearità adatte a produrre onde di questo tipo, e quindi la loro occorrenza, sono in realtà più frequenti di quanto si possa pensare: per esempio onde solitoniche si producono abbastanza frequentemente nei liquidi; gli “tsunami” e le onde di marea sono esempi di questo tipo di propagazione. Nel campo dell’ottica da lungo tempo è stata osservata la propagazioni di solitoni in fibra ottica che consentono di trasmettere su distanze di 15.000 Km ed oltre impulsi ottici senza degradazione rilevante della loro qualità. Le potenzialità offerte da questo tipo di propagazione nel campo delle telecomunicazioni, soprattutto in termini di copertura di lunghe distanze e di velocità di trasmissione, sono molto rilevanti: con sistemi che sono ormai a livello di utilizzazione commerciale sono state raggiunte velocità di tramissione di 40 Gbit/s su distanze di 10.000 Km e fino a 2.5 Tbit/s su distanze di 1.000 Km. Per un approfondimento di questo argomento rimandiamo a……. 3.3 - Interferenza. Come abbiamo detto in precedenza si hanno fenomeni di “iterferenza” quando in un punto dello spazio vengono a sovrapporsi i campi elettrici di due o più onde della stessa frequenza aventi , almeno parzialmente, la stessa polarizzazione e coerenti fra di loro. Un grado parziale di monocromaticità o coerenza o polarizzazione riduce gli effetti di interferenza, o come si dice la visibilità, ma non li elimina; in questi casi la trattazione dei fenomeni si complica formalmente ma rimane immutata la sostanza. Noi ci limiteremo a considerare in quello che segue campi e monocromatici, di fase univocamente definita (ossia con un grado di coerenza elevato) e polarizzati nella stessa direzione. In queste condizioni ad opera dell’interferenza si produce nello spazio una ridistribuzione dell’energia del campo e.m.: dove l’interferenza è costruttiva si avrà un rinforzo di intensità mentre dove l’interferenza è distruttiva si avrà una diminuzione dell’intensità. E opportuno ribadire che l’energia totale rimane comunque costante quindi l’incremento della densità di energia di un punto avviene necessariamente a discapito di un’altro punto. I fenomeni di interferenza sono abbastanza comuni e trovano numerose applicazioni; in questo paragrafo discuteremo due esempi semplici ed allo stesso tempo significativi che ci saranno utili anche nell’ambito dei fenomeni quantistici. a) – Esperienza di Young. L’esperienza realizzata da Young nel 1801, e poi molte volte ripetuta in forme, configurazioni e contesti, ha avuto un’importanza fondamentale nello sviluppo prima della teoria ondulatoria dei fenomeni ottici e poi nello sviluppo della Meccanica quantistica soprattutto per quanto riguarda il loro sviluppo concettuale ed interpretativo. Lo schema dell’esperienza è semplice: un’onda piana monocromatica investe uno schermo opaco su cui si trovano due fenditure sottili e parallele; le onde che si propagano al di là delle due fenditure interferiscono fra di loro dando origine, quando si osservi l’intensità in corrispondenza di un piano, ad una serie di massimi e minimi di intensità, ossia a quelle che si chiamano delle “frange di interferenza”. Per semplificare al massimo la descrizione formale dell’ supponiamo di considerare sullo schermo due piccoli fori ( invece di due fenditure), a distanza 2a fra di loro, e di osservare ciò che accade in un piano perpendicolare allo schermo e contenente i due fori. Quello che si misura in questo caso non differisce in modo sostanziale da quello che si osserva con due fenditure e per distanze grandi si ha la stessa figura di interferenza. Come vedremo meglio trattando i problemi di diffrazione, se le dimensioni dei fori sono confrontabili con la lunghezza d’onda del campo e.m. incidente si possono considerare i due forellini come due sorgenti puntiformi che producono delle onde sferiche alla frequenza ω dell’onda incidente. Se le superfici d’onda (superfici di ugual fase) di quest’ultima sono parallele allo schermo opaco le due sorgenti risultano in fase fra di loro. Supponiamo inoltre che la polarizzazione dei campi risulti perpendicolare al piano di osservazione ed individuiamo la posizione di un punto P dello spazio, rispetto al punto mediano O del segmento che unisce i due fori, mediante il vettore r ≡ (P – O). Il campo elettrico nel punto P è allora dato da: E(r,t) = E0 eikr1 −iω t eikr2 −iω t + E0 r1 r2 k= ω c (3.28) dove r1 ed r2 sono i vettori che vanno rispettivamente dai fori S1 e S2 al punto P. r1 S1 a r θ P r2 D -a S2 Le due onde interferiranno in modo costruttivo o distruttivo a seconda del valore assunto dalla differenza di fase data da ϕ = k(r2 − r1 ) che dipende unicamente dal cammino effettuato dalle due. La densità di energia in un punto risulta quindi proprzionale a: eikr1 eikr2 E(r,t) = E + r1 r2 2 2 0 2 1 eik (r2 − r1 ) =E + r1 r2 2 0 2 (3.29) e la distribuzione spaziale che ne risulta è stazionaria, cioè indipendente dal tempo. Su uno schermo parallelo a quello dei due fori a distanza D da esso osserveremo delle frange di interferenza quando entrambi i fori sono aperti; chiudendo uno qualsiasi dei due fori si osserveremo invece una distribuzione di intensità che decresce monotonamente da un centro, in corrispondenza del foro, verso la periferia. Se, come accade normalmente si osserva la figura di interferenza in campo lontano, ossia all’infinito ( D >> a ), la posizione delle frange è calcolata in modo semplice. Infatti in questo caso le onde sferiche possono essere approssimate con onde piane (Cap. 2 ) e, indicando con a e –a i vettori posizione dei fori S1 ed S2 rispetto ad O, si ha: r1 = r + a r1 = r 2 + a 2 − 2ra sin θ ≈ r − a sin θ r?a r2 = r − a r2 = r 2 + a 2 + 2ra sin θ ≈ r + a sin θ E 2E0 −iω t +ikr E(r,t) ≈ 0 e−iω t (eikr −ia sin θ + eikr +ia sin θ ) = e cos(ka sin θ ) r r (3.30) Sul piano a distanza D dalle fenditure avremo quindi un’intensità proporzionale a: 4E02 cos 2 θ I(r,t) ∝ E(r,t) ≈ cos 2 (ka sin θ ) 2 D 2 r= D cosθ (3.31) e di conseguenza la formazione di una serie di frange i cui massimi e minimi si trovano in corrispondenza dei valori dell’argomento del coseno per cui esso è uguale a ±1 o a 0, ossia: I Max I min → ka sin θ = mπ → π ka sin θ = (2m + 1) 2 → sin θ = → mπ mλ = m = 0, ±1, ±2,... ka 2a (2m + 1)π (2m + 1)λ sin θ = = 2ka 4a (3.32) Essendo tipicamente λ/2a ≈10-3 si possono approssimare i seni con gli argomenti, per valori di m non troppo elevati, e quindi si ha una serie di frange all’incirca equispaziate; sullo schermo a distanza D dalle fenditure la distanza ∆ fra due massimi, o minimi, consecutivi risulta: ∆ = D(tgθ m +1 − tgθ m ) ; D(θ m +1 − θ m ) = D∆θ = D λ 2a (3.33) Quindi per esempio col rapporto considerato λ/2a ≈10-3 avremo con D = 1m una distanza ∆ = 1mm e una distanza angolare ∆θ =10-3. Variando, fissata la lunghezza d’onda, la distanza 2a fra i fori le frange si infittiscono o si diradano, ma la figura di inteferenza non cambia. b) – Riflessioni multiple. Abbiamo visto nel par. 2 che quando un’onda e.m. incide su una superficie di separazione di due mezzi dielettrici con indice di rifrazione diverso si producono un’onda rilessa ed un’onda rifratta. Nel caso in cui si abbiano due superfici di separazione fra mezzi con indice di rifrazione diverso, come succede per es. con una lastra di vetro, si producono ad ogni superficie delle onde riflesse e rifratte che interferiscono fra di loro modificando l’intensità riflessa e trasmessa. Consideriamo il caso più semplice: quello di una lastra a facce piane e parallele, di indice di rifrazione n2 immersa in un mezzo di indice di rifrazione n1 su cui incide un’onda piana monocromatica con un certo angolo. Si può determinare l’intensità trasmessa e riflessa andando a considerare effettivamente le riflessioni multiple che si producono alle due superfici: il raggio che incide sulla superficie della lastra proveniendo dall’esterno genera un’onda riflessa R1 ed un’onda trasmessa t1, questa incidendo sulla seconda superficie produce un’onda trasmessa nel mezzo 1 T1 ed un’onda rilessa nel mezzo 2 r2, che a sua volta incidendo sulla prima superficie produce un’onda rtrasmessa ne mezzo 1 R2 ed un’onda riflessa t2 , e così via all’infinito. E’ possible in questo modo, sommando le ampiezze di tutte le varie onde riflesse o trasmesse con i loro fattori di fase, arrivare al risultato corretto ma non è in generale il modo più rapido e conveniente per pervenire ad esso. Questo consiste invece nello scrivere le soluzioni delle E.M nelle varie regioni dello spazio e nel raccordare le soluzioni alle superfici di separazione utilizzando le condizioni date dalle Eq. (2. ). Limitiamoci per semplicità a considerare il caso di incidenza normale; indicata con x la direzione di propagazione dell’onda e con a lo spessore della lastra, posta l’origine del sistema di riferimento sulla superfice di incidenza, le soluzioni nelle varie regioni dello spazio, che constano di un’onda progressiva ed una regressiva, sono: x≤0 E1 (x,t) = E0 eik1 x −iω t + E1r e−ik1 x −iω t 0≤x≤a E2 (x,t) = E2t eik2 x −iω t + E2r e−ik2 x −iω t a≤x E3 (x,t) = E3t e iωµ0 H i = ik3 x −iω t + E3r e −ik3 x −iω t ∂Ei ∂x n1ω c nω k2 = 2 c k1 = nω k3 = k1 = 1 c (3.34) dove E0 è l’ampiezza dell’onda incidente e nella regione 3 l’onda regressiva ha ampiezza nulla non essendoci sorgenti o rmezzi riflettenti all’infinito. Imponendo la continuità delle componenti tangenziali di E ed H alle superfici di separazione dei vari mezzi si ha: x=0 x=a E0 + E1r = E2t + E2r n1 (E0 − E1r ) = n2 (E2t − E2r ) E2t eik2 a + E2r e−ik2 a = E3t eik1a (3.35) n2 (E2t eik2 a − E2r e−ik2 a ) = n1E3t eik1a Il sistema delle quattro Eq. (3.35) determina le ampiezze delle varie onde in funzione di E0, risolvendo per le ampiezze delle onde trasmessa E3t e riflessa E1r si ha: 1 − e i 2 k2 a 1 − r 2 e i 2 k2 a n t 2 ei(k1 + k2 )a (1 − r 2 )ei(k1 + k2 )a E3t = E0 2 = E 0 n1 1 − r 2 ei 2 k2 a 1 − r 2 e i 2 k2 a n − n2 2n1 n r= 1 t= r2 + 2 t 2 = 1 n1 + n2 n1 + n2 n1 E1r = E0 r (3.36) dove r e t sono i coefficienti di riflessione e trasmissione dell’interfaccia 1-2. Con le ampiezze dei campi (3.36) risulta infine per la riflettività R e la trasmissività T della lastra: 2 E1r I1r 2r 2 (1 − cos 2k2 a) 4r 2 sin 2 k2 a R= = = = I0 E02 1 + r 4 − 2r 2 cos 2k2 a (1 − r 2 )2 + 4r 2 sin 2 k2 a 2 E3t I 3t n22 t4 (1 − r 2 )2 T= = = 2 = I0 E02 n1 1 + r 4 − 2r 2 cos 2k2 a (1 − r 2 )2 + 4r 2 sin 2 k2 a R+T =1 (3.37) Le espressioni (3.37) mostrano che l’intensità riflessa e trasmessa variano con lo spessore a della lastra, fissata la frequenza, oppure con la frequenza stessa fissata a; questa variazione deriva proprio dall’interferenza delle riflessioni multiple. In particolare risulta: k2 a = mπ mπ λ =m → Rmin = 0 TMax = 1 k2 2 (2m + 1)π λ → a= = (2m + 1) → k2 4 → a= k2 a = (2m + 1) π 2 → RMax 2r = 1 + r 2 2 Tmin 1 − r2 = 1 + r 2 (3.38) 2 E’ opportuno rilevare che il “contrasto” fra massimi e minimi, contrariamente a quanto si potrebbe essere indotti a pensare, è tanto più elevato quanto piu è grande il coefficiente di riflessione r. I fenomeni di interferenza che abbiamo ora visto e che modulano le intensità trasmesse e riflesse stanno alla base di tutta una serie di dispositivi e di trattamenti delle superfici. Gli effetti sopra detti possono essere riforzati e manipolati in modo vario realizzando delle opportune strutture periodiche mediante deposizione di film sottili di materiale dielettrico con spessore controllato. Le riflessioni multiple che hanno luogo a tutte le varie interface interferendo costruttivamente o distruttivamente determinano per esempio una maggiore o minore riflettività in un determinato intervallo di frequenze. A seconda delle caratteristiche del multi-strato si può quindi avere una pellicola che elimina le riflessioni della superficie di un elemento ottico (trattamento anti-riflesso, r = 0.00 ) oppure di elevato coefficiente di riflettività ( si hanno specchi dielettrici con r = 0.999 ), o ancora si possono realizzare “filtri interferenziali” che consentono la trasmissione solo in una ben determinate banda. E’ opportuno rilevare che una struttura periodica del tipo considerato ha sempre l’effetto di creare delle bande (di frequenza) “permesse” , per cui un’onda la cui frequenza cade in questo intervallo si può propagare attraverso la struttura e quindi essere trasmessa, e delle bande “proibite” in cui questo non avviene. Queste ultime determinano quello che prende il nome di “gap” di frequenze. Vogliamo mettere in evidenza che la formazione di bande e di gap fra di esse è tipico della propagazione ondosa in un “mezzo periodico” e si realizza in vari contesti fisici ( ad esempio nei semiconduttori e nei metalli) e che la loro origine è in definitiva da ricondurre a fenomeni di interferenza. Non dissimili da quelli ora considerati sono gli effetti che si producono nei “cristalli fotonici” e nei “band-gap fotonici”: questi sono materiali prodotti artificialmente (per la prima volta da Yablonovitch nel 1990 per µ-onde ) nei quali viene realizzata una modulazione periodica dell’indice di rifrazione in 1,2 o 3 dimensioni a seconda dei casi. Come dice il nome si producono, per i motivi che abbiamo sopra visto, dei gap di frequenza che risultano utili per controllare la propagazione delle onde e.m. e l’interazione con la material, e quindi per realizzare dispositivi fotonici e fotoelettronici. Per ulteriori dettagli e approfondimenti possiamo rimandare ai testi : …… 3.4 – Diffrazione da reticoli. Come detto inizialmente si diffrazione” usa parlareconsiderando di “ l’interferenza delle onde emanate da parte di oggetti e sorgenti estesi che coinvolgono quindi la sovrapposizione di molte onde. Come esempio iniziale considereremo quello semplice di unreticolo” “ lineare di sorgenti puntiformi equispaziate. Indichiamo con a il “passo” del reticolo, ossia la distanza fra due sorgenti adiacenti delle N+1 che costituiscono il sistema. Si suppone che che ciascuna sorgente l emetta un’onda sferica, alla stessa frequenza ω, con una fase ϕl e di ampiezza E0l . Il campo irraggiato in un punto P dello spazio risulta dalla interferenza delle N+1 onde sferiche emesse dalle sorgenti e la sua ampiezza dipende dalla relazione di fase delle sorgenti e dai fattori di fase spaziali legati alla loro propagazione. Volendo determinare il campo irradiato all’infinito, ossia a grande distanza rispetto alle dimensione A = (N+1)a del reticolo, potremo approssimare cisacuna onda sferica con un’onda piana secondo quanto gia visto nel par. 2. e nell’esperienza di Young. Individuata la posizione di P tramite il vettore r ≡ (P-O) , dove O è l’origine del sistema di riferimento posta nel punto mediano del reticolo, e la posizione di ciascuna sorgente l tramite il vettore la , si ha per l’ampiezza totale del campo: N /2 eiϕl ikrl −iω t eiϕl ikr −il k⋅a −iω t E(r,t) = ∑ E0l e ; ∑ E0l e rl r l = − N /2 l = − N /2 r (N + 1)a rl = r + la rl ; r − l ⋅ a =1 r r N /2 k=k r ωr = r c r (3.39) Per l’intensità nel punto P si ha quindi: εc εc 2 I(r) = 0 E(r,t) = 0 2 2 eiϕl −il k⋅a E ∑ 0l r e l = − N /2 N /2 2 (3.40) dove le parentesi 〈 〉 indicano una media temporale. Il risultato di questa media dipende innanzitutto dai termini di fase. Se le fasi delle sorgenti sono costanti e scorrelate si avrà una distribuzione di campo stazionaria con una intensità che fluttua fortemente da punto a punto. Se le fasi fluttuano nel tempo rapidamente, anche l’ intensità in un punto fluttua nel tempo ed in media si misurerà un valore dato da: ε 0 c 1 N /2 I(r) = ∑ E0l 2 r 2 l = − N /2 2 (3.41) ossia dalla somma delle intensità dovute alle singole sorgenti dato che, nalogamente a quanto trovato nell’esempio … , i termini di interferenza fra sorgenti diverse risultano a media nulla. E’ questo il caso incoerente in cui si ha una distribuzione di intensità uniforme in tutte le direzioni, ossia isotropa. Nel caso opposto, in cui il grado di coerenza sia elevato, le fasi relative fra le sorgenti sono costanti nel tempo e non scorrelate, ossia non variano in modo casuale dall’una all’altra. Supponiamo come caso semplice, ma significativo, che le ampiezze delle sorgenti siano tutte uguali, E0l = E0 , e che le fasi varino linearmente dall’una all’altra, ossia che ϕl = ϕ0 + lϕ, dalla (3.40) si ha: εc I(r) = 0 2 = eiϕ 0 +ilϕ −il k⋅a E ∑ 0 r e l = − N /2 N /2 ε 0 c E0 2 r2 2 2 ε c E0 = 0 2 r2 (N + 1) (k ⋅ a − ϕ )] 2 1 sin[ (k ⋅ a − ϕ )] 2 sin[ 2 2 2 N /2 ∑ e −il k⋅a +ilϕ = l = − N /2 (3.42) L’Eq. (3.42) , analogamente all’Eq. (3. ) , prevede che l’intensità sia sensibilmente diversa da zero solo in una o più direzioni che determinano dei “picchi di diffrazione”; le caratteristiche della figura di diffrazione dipendono essenzialmente dal rapporto fra la lunghezza d’onda λ della radiazione ed a e le dimensioni totali del reticolo. Infatti si hanno dei massimi in corrispondenza delle direzioni del vettore d’onda k per cui il denominatore dell’Eq.(3.42) si annulla, ossia per i valori dell’angolo θ , che k forma con la normale al reticolo, dati da: k ⋅ a − ϕ = ka sin θ − ϕ = 2 pπ sin θ = → −π ≤ϕ ≤π p = 0, ±1, ±2...... λ ϕ (p + ) ≤1 a 2π (3.43) A seconda del valore del rapporto λ/a , ed in minor misura di ϕ, si hanno uno o più massimi: p = 0 è sempre e comunque una soluzione accettabile della (3.43) e sarà la sola se λ ≥ a; se ϕ = 0 il massimo lo si ha per θ = 0, ossia lungo l’asse del reticolo, se ϕ ≠ 0 lo si ha in corrispondenza di due direzioni simmetriche rispetto all’asse del sistema; lo sfasamento ϕ controlla quindi la direzione del picco di diffrazione. Potendo assumere come asse qualunque retta passante per O e perpendicolare al reticolo, quanto abbiamo ora detto vale in ogni piano passante per quest’ultimo e quindi il massimo di diffrazione lo si ha in corrispondenza dei vettori d’onda che stanno sulla superficie di un cono di vertice O ed apertura pari a θ . Se invece λ < a , e magari λ << a , esisteranno anche soluzioni corrispondenti a valori di p > 0 e quindi si ha una molteplicità di direzioni in cui le onde diffratte interferiscono positivamente. In ogni caso, come risulta dall’Eq. (3.42), l’intensità in corrispondenza di ciascun massimo è data da: 2 IMax ε c E0 = 0 (N + 1)2 2 r2 (3.44) L’altro parametro che caratterizza la diffrazione è l’apertura angolare ∆θ (in un piano) di ciascun lobo principale di diffrazione. Poichè questa è indipendente dall’angolo ϕ , e sostanzialmente anche da m, possiamo considerare il caso ϕ = 0 , p = 0. Prendendo come riferimento per la definizione dell’apertura l’angolo corrispondente al piede del lobo ossia l’angolo più piccolo per cui si annulla l’intensità si ha: (N + 1)ka sin θ = ±2π → sin θ ± ; θ ± = ±∆θ = ± λ λ =± a(N + 1) A I(θ ± ) = 0 (3.45) L’apertura angolare risulta quindi determinata dalla lunghezza complessiva A del reticolo, tanto più esso è lungo tanto più risulta stetto il lobo di diffrazione e viceversa. La relazione (3.45) può anche essere posta in una forma che risulterà più comoda in seguito: indicando con x la direzione del reticolo, la componente del vettore d’onda nella direzione di quest’ultimo è kx = ksinθ e quindi si ha: ∆k x = k sin θ + ; kθ + = 2π A ⇔ A∆k x = 2π (3.46) Quanto abbiamo ora visto non cambia nella sostanza se il reticolo invece di essere lineare è bidimensionale, per esempio è costituito da una serie di sorgenti , che per semplicità supponiamo abbiano tutte la stessa ampiezza e la stessa fase (caso completamente coerente), distribuite su un rettangolo di dimensioni A x B con passo reticolare a e b [ A = (N+1)a , B = (M+1)b ]. Ripetendo gli stessi passaggi e con le stesse approssimazioni utilizzate per giungere all’Eq. (3.42) si ha adesso: ε c E0 I(r) == 0 2 r2 2 N /2 2 M /2 ∑ ∑ e −i k⋅(la + mb ) = l = − N /2 m = − M /2 (N + 1) (M + 1) kx a] sin[ kyb] 2 2 1 1 sin[ kx a] sin[ kyb] 2 2 2 ε c E0 = 0 2 r2 2 2 sin[ (3.47) avendo posto l’origine O nel centro del rettangolo, presi gli assi x ed y paralleli ai lati del rettangolo ed avendo individuato la posizione di ciascuna sorgente col vettore rlm = la+mb. In corrispondenza dei vettori d’onda per cui si annullano entrambi i denominatori dell’Eq. (3.47) si hanno i massimi di intensità diffratta e la divergenza dei relativi lobi risulta inversamente proporzionale alle dimensioni lineari del reticolo. Precisamente si ha: k x a = 2π p k yb = 2π q p, q = 0, ±1, m2..... 2 ε c E0 I Max = 0 (N + 1)2 (M + 1)2 2 r2 ∆k x A = 2π ∆k y B = 2π (3.48) Essendo completamente fissate due componenti del vettore d’onda (la terza è completamente fissata da queste due dalla relazione di dispersione k = ω/c) la diffrazione avviene adesso non più su un cono ma in direzioni ben precise Nel caso infine in cui le sorgenti si possano considerare uniformemente distribuite sulla superficie ( a << λ ) si possono sostituire le sommatorie con degli integrali e si ha: A /2 N /2 ∑ eikx la 1 2 kA dxeikx x = sin x ∫ A − A /2 Akx 2 → l = − N /2 (3.49) ed analogamente per la sommatoria su m per cui risulta: ε c E0 I(r) = 0 2 r2 2 kA sin x 2 kx A 2 2 kB sin y 2 ky B 2 2 (3.50) L’andamento spaziale della diffrazione è analogo a quello dato dalla relazione (3.42) salvo che adesso è presente un unico lobo di emissione, in direzione perpendicolare alla superficie delle sorgenti, e di divergenza inversamente proporzionale alle sue dimensioni lineari. Per concludere questo paragrafo vogliamo adesso considerare cosa accade nel caso di diffrazione da reticoli discreti tridimensionali. Premesso che il modo di operare è identico a quello considerato per il caso 1-D e 2-D , si perviene ad un’espressione per l’intensità diffratta analoga alle precedenti Eq. (3.42) e (3.50) con il risultato però che il numero di direzioni per cui si hanno picchi di diffrazione aumenta considerevolmente ed anche che la corrispondente intensità varia dall’uno all’altro. Senza entrare in dettagli basti dire che il numero di massimi aumenta perchè aumenta il numero di modi con cui si può realizzare una sovrapposizione di onde piane in fase. Con riferimento alla figura 3.. , indicata con z la direzione perpendicolare all superficie del reticolo bidimensionale γ prima considerato e lungo cui si sviluppa la terza dimensione, si vede che adesso possono dar luogo ad interferenza costruttiva anche le onde emanate dalle sorgenti che si trovano lungo i piani di giacitura σ , oppure π e via dicendo. Le intensità dei picchi corrispondenti saranno tuttavia minori dato che minore è il numero totale di sorgenti in fase che contribuiscono al processo di inteferenza. Le considerazioni effettuate e le relazioni ricavate, per quanto riferentisi a casi particolari e schematici, coprono in realtà una vasto numero di casi reali. I reticoli considerati possono per esempio essere costituiti da antenne e in questo caso si vede come con un opportuno sfasamento si possa realizzare una emissione fortemente direzionale. Dato poi che vale un principio di reciprocità, utilizzando le antenne come ricevitori e misurando gli sfasamenti relativi si potrà individuare la direzione da cui provengono i segnali. La direzionalità dell’emissione o la risoluzione in direzionalità del nostro ricevitore risulta determinata dalle dimensioni totali del reticolo di antenne. Per esempio sono stati costruiti con questi criteri radiotelescopi che consento una elevata precisione nella individuazione dei punti dello spazio da cui provengono i segnali rivelati. Sempre su questo schema funzionano ireticoli “ di diffrazione” ottici: questi in sintesi sono costituiti da un supporto opaco sul quale con regolarità vengono o tracciate delle fenditure sottili oppure equivalentemente depositate delle stisce sottili di materiale riflettente. In entrambi i casi quando esso viene investito da un fascio di luce collimato, ma non monocromatico, le fenditure o i riflettori si comportano come un reticolo di sorgenti coerenti equispaziate. Poichè le direzioni dei massimi di diffrazione, dati dall’Eq. (3.43), dipendono dalla lunghezza d’onda ne risulta che le varie componenti spettrali saranno diffratte sotto angoli diversi, e quindi si possono separare angolarmente e spazialmente le varie lunghezze d’onda di cui si compone il fascio. Un altro caso rilevante a cui si applica quanto detto è quello della diffrazione dei raggi X da parte di un cristallo. Gli atomi di un cristallo sono disposti ai nodi di una maglia regolare che formano il “reticolo cristallino”; il passo reticolare è dell’ordine di qualche Å (0.1 nm). Un atomo investito da un fascio di raggi X si comporta in prima approssimazione come un diffusore isotropo, come può accadere ad un granello di polvere che diffonde la luce in tutte le direzioni. In questo caso quindi gli atomi del reticolo diventano sorgenti coerenti di onde sferiche che interferiscono fra di loro. Inviando su un cristallo un fascio di raggi X , con lunghezze d’onda di 1Å o più piccole, si osservano a grande distanza tutta una serie di picchi di diffrazione. Dalla posizione di questi picchi è possibile determinare la struttura e le caratteristiche del reticolo cristallino ottenendo tutta una serie di importanti informazioni strutturali; questa tecnica di indagine sviluppata agli inizi del ventesimo secolo da Von Laue e Bragg è tuttora largamente utilizzata. Il caso di una distribuzione continua di emettitori si applica invece bene ad una sorgente coerente e , come gia detto, la divergenza del fascio emesso risulta strettamente correlata alle sue dimensioni lineari. La forma della sorgente , un quadrato oppure un disco etc., influenza marginalmente la divergenza angolare il cui ordine di grandezza è dato da ∆θ = λ/A (Eq. (3.45)), mentre invece influiscono in modo rilevante le caratteristiche di coerenza della sorgente estesa considera: un grado di coerenza minore implica necessariamente un aumento della divergenza del fascio. Il precedente ordine di grandezza deve quindi essere considerato come un limite ottimale nel senso che per avere un fascio con una collimazione migliore di un tot, specificata dalla divergenza ∆ θ, dovremo necessariamente avere una sorgente con dimensioni lineari A > λ/∆θ . Ad esempio con λ = 0.85 µm e ∆θ = 0.5 mrad dovremo avere A > 1.7 mm, viceversa la stessa radiazione uscente da una fibra ottica, o da un laser, di dimensioni (piccole) A = 3.4 µm avrà inevitabilmente una divergenza (elevata) ∆θ > λ/A = 0.4 rad ( 23°). 3.5 – Teoria della diffrazione. Esempi del tipo considerato nel precedente paragrafo, nell’ambito della propagazione ondosa nei liquidi, portarono Huygens nel 1690 a formulare una teoria di questi fenomeni indubbiamente audace ma che si è rivelata sostanzialmente corretta e fruttuosa. Nella formulazione di quello che va sotto il nome di “Principio di Huygens” si suppone che ogni punto dello spazio investito da un fronte d’onda diventi a sua volta sorgente di onde sferiche e che il fronte d’onda ad un istante successivo sia dato dall’inviluppo di queste onde sferiche. Il principio così formulato produce in molti casi risultati corretti ma è incompleto: una versione del medesimo più corrretta fu formulata da Frenel nel 1818 partendo dall’assunto di Huyghens ma dicendo che il campo che descrive l’onda ad un determinato istante risulta dall’interferenza di tutte le onde sferiche. Considerando semplicemente l’inviluppo non si tiene conto della diversa fase ed ampiezza delle onde che giungono in uno stesso punto. Detto principio per quanto “funzionante” mancava comunque di una base teorica consistente e partiva comunque da considerazioni di tipo intuitivo e di plausibilità che nel caso di propagazione in un mezzo materiale potevano anche essere convincenti ma difficilmente potevano esserlo per un’onda che si propaga nel vuoto. Si può anche pensare che una particella del mezzo, sollecitata dall’onda incidente, divenga sorgente di onde sferiche ma risulta più difficile ragionare in questi termini nel vuoto. Una giustificazione teorica del Principio di Huygens per i campi e.m., basata sulle E.M. , fu infine data da Kirchhoff nel 1882 formulando quello che va sotto il nome di “ Teorema di Kirchhoff”. La formulazione originaria fa riferimento ad un campo scalare (quindi in sostanza ad una componente del campo e.m.) ma perquanto limitata è in grado di rendere conto in modo più che soddisfacente di tutta una serie di fenomeni; successivamente essa è stata generalizzata ad un campo vettoriale con un ovvio aggravio di complessità formale. Per una trattazione completa di entrambi i casi si rimanda al testo già citato di Born e Wolf. Consideriamo quindi il caso, per i nostri scopi più che adeguato, di un campo scalare monocromatico E(r,t) a frequanza ω ; l’equazione delle onde si riduce in questo caso all’equazione di Helmholtz per la parte spaziale del campo U(r) : 2 1 ∂2 ∇ − v 2 ∂t 2 E(r,t) = 0 E(r,t) = U(r)e−iω t → 2 ω2 ∇ − v 2 U(r) = 0 (3.51) A partire dall’equazione di Helmholtz e nell’ipotesi che le derivate prime e seconde di U siano continue (omettiamo i passaggi, abbastanza semplici, che possono essere trovati nei testi citati) si arriva a dimostrare il teorema in oggetto; esso stabilisce che il campo U in un punto P , individuato dal vettore posizione r , di una regione dispazio limitata da una superficie chiusa Σ è dato da: U(r) = 1 4π eiks eiks U( r ) n ⋅ ∇ − ′ ( n ⋅ ∇U(r′))dS ∫∫Σ s s s = r − r′ U(r) = − (3.52) 1 4π s 1 eiks eiks U( r ) n ⋅ (ik − ) + ′ ( n ⋅ ∇U(r′))dS ∫∫Σ s s s s dove n è la normale all’elemento di superficie dS rivolta verso l’interno, s è il vettore che va dal punto sorgente sulla superficie Σ al punto P e si deve tener conto che il gradiente di s è calcolato rispetto alle coordinate del punto sorgente in r’. Il campo all’interno del volume considerato risulta quindi espresso in termini dei valori che esso assume sulla superficie che lo delimita e della sua derivata normale; anche se in una forma più complessa di quanto previsto dalla formulazione originaria del principio di Huygens-Fresnel il campo risulta dall’interferenza di onde sferiche generate dai punti della superficie. Σ dS r’ n s P O r L’Eq. (3.52), che costituisce un risultato esatto, viene applicata ai problemi di diffrazione, in cui compaiono schermi ed ostacoli sul cammino della radiazione, introducendo alcune ipotesi semplificatrici. Innanzitutto si suppone che il campo sia generato da una sorgente puntiforme posta nell’origine O che dà quindi luogo ad un’onda sferica che emana da essa. Le ulteriori ipotesi, molto più pesanti perchè non giustificate, concernono il valore del campo e della sua derivata alla superficie S. Per maggiore chiarezza e concretezza consideriamo il caso di un piano opaco in cui è praticata un’apertura A. Il piano divide lo spazio in due regioni quella di sinistra dove supponiamo si trovi in O la sorgente puntiforme e quello di destra dove vogliamo determinare il campo. Possiamo pensare di applicare il teorema di Kirchhoff considerando in quest’ultima regione il volume delimitato dalla superficie chiusa formata dell’apertura A da una porzione dello schermo che la comprenda e da una semisfera di raggio R centrata in un punto dell’apertura e contenente il punto P. Il campo in ogni punto di questo volume è determinato dalla Eq. (3.52) una volta che si conosca il valore di U su questa superficie: qui sta tutta la difficoltà del problema ed è qui che viene introdotta l’ipotesi anzidetta: Precisamente si assume che il campo U e la sua derivata in direzione perpendicolare alla superficie: i) siano nulli in tutti i punti della supeficie opaca, ii) siano quelli che si avrebbero in assenza dello schermo nei punti dell’apertura A, iii) tendano a 0 sulla superficie della semisfera quando R tende all’infinito. Delle tre ipotesi considerate le prime due sono quelle meno giustificate perchè inevitabilmente, soprattutto ai bordi dell’apertura, saranno presenti distribuzioni di carica e correnti che rendono non valide le relative condizioni al contorno. In ogni caso prese per valide queste specifiche del campo sulla superficie Σ considerata, supponendo che O e P si trovino a distanza dallo schermo grandi rispetto alla lunghezza d’onda della radiazione si ha dall’Eq. (3.52): eikr ′ ω 2π U(r ′ ) = E0 r ′ ∈A k= = r′ v λ ik (s + r ′ ) iE e s r′ U(r) ; − 0 ∫∫ [(n ⋅ ) + (n ⋅ )]dS = 2 λ A sr ′ s r′ iE =− 0 2λ eik (s + r ′ ) ∫∫A sr ′ (cosθ + cosθ ′)dS (3.53) s, r ′ ? λ dove θ e θ’ sono gli angoli s che e r’ fanno rispetto alla normale n. Σ θ' r’ A O r n s P θ Se poi la sorgente puntiforme viene allontanata a - ∞ l’onda sferica incidente sulla superficie di A può essere approssimata con un’onda piana di ampiezza E0’ e cosθ’ ≈ 1 per cui l’espressione del campo (3.53) diviene: U(r) = − iE0′ 2λ eiks ∫∫A s (1 + cosθ )dS (3.54) Le Eq. (3.53-54) hanno esattamente la forma prevista dal principio di Huygens-Fresnel con in più, oltre un fattore di fase, un “fattore di inclinazione” [ (1+cosθ) nella Eq. (3.54)] che tiene conto della direzione di propagazione in relazione a quella dell’onda incidente: tale fattore risulta massimo in avanti ( θ = 0) e decresce progressivamente fino ad annullare il campo diffratto all’indietro ( θ = π). Queste espressioni per quanto non rappresentino una soluzione esatta del problema e siano affette da inconsistenze rilevanti ( per esempio in genere non riproducono sulla superficie Σ il valore del campo che si è assunto nelle condizioni al contorno ) sono in grado di produrre risultati quantitativi sufficientemente accurati in gran parte dei problemi di ottica. L’espressione (3.54) è poi suscettibile di generalizzazione considerando su una superficie A qualsiasi non più un campo di ampiezza costante ma piuttosto un campo U(r) la cui ampiezza complessa varia da punto a punto e in termini del quale si ha: U(r) = − i eiks U( r ) (1 + cosθ )dS ′ 2 λ ∫∫ s A (3.55) Le espressioni (3.54-55) per quanto formalmente semplici possono essere ancora abbastanza complicate da calcolare esplicitamente per cui si ricorre a vari tipi di approssimazione a seconda delle regioni dello spazio in cui si vuole determinare la soluzione. Normalmente si usa distinguere la regione di “campo vicino” detta anche di “diffrazione alla Fresnel” dalla regione di “campo lontano” o di “diffrazione alla Fraunhofer”. Quest’ultima, che ci limitiamo a considerare, corrisponde alla regione dello spazio a distanze grandi rispetto alle dimensioni lineari della sorgente o come si dice all’infinito. Questa è la zona che abbiamo già considerato nei paragrafi precedenti: l’approssimazione corrispondente ( introdotta da Fraunhofer e che già abbiamo visto), consiste nel considerare costanti nell’integrale il termine a denominatore , ed il fattore di inclinazione (cos θ = 1), e nello sviluppare in serie nell’esponenziale il termine di fase spaziale; in questo modo si ha dall’Eq. (3.55): U(r) ; − ieiks0 λ s0 ieiks0 =− λ s0 ∫∫ U(r′ − r )e −ik⋅( r ′ − r0 ) 0 dS = A +∞+∞ ∫ ∫T A (ρ)U(ρ)e−ik⋅ρ d 2 ρ −∞−∞ s = r − r ' = (r − r0 ) − (r '− r0 ) = s 0 − ρ s 0 = r − r0 r0 ∈A ρ = r ′ − r0 TA = TA (ρ) r ′ ∈A , TA = 0 s ; s0 − ρ ⋅ s0 s0 (3.56) ω s0 v s0 r ′ ∉A k= Nei limiti ora considerati il campo nel punto P, a parte i fattori di fase, viene quindi ad essere la trasformata di Fourier spaziale del prodotto della distribuzione di campo sulla superficie A per la funzione di trasferimento TA che la caratterizza. Proseguendo su questa strada, con gli opportuni raffinamenti, si pu pervenire ad una formulazione dell’ottica che va sotto il nome di “ottica di Fourier” che risulta particolarmente utile nello studio di sistemi ottici complessi e nelle problematiche di formazione e trattamento delle immagini. 3.5 – Applicazioni della teoria della diffrazione. Considereremo in questo paragrafo alcune semplici applicazioni della teoria della diffrazione di Kirchhoff, sviluppata nel precedente paragrafo, nel limite di Fraunhofer, o di campo lontano. Questa peraltro fornisce una base teorica all’approccio di tipo intuitivo con cui si sono studiati alcuni casi nel par. 3.3 ; i risultati trovati in quella sede vengono confermati quindi da quanto detto a proposito della diffrazione nel par 3.4 e possono essere utilizzati direttamente. Come primo esempio classico di applicazione del Principio di Huygens-Fresnel possiamo considerare da questo punto di vista la riflessione e la rifrazione di un’onda piana che incide sulla superficie di separazione fra due mezzi 1 e 2 aventi rispettivamente indici di rifrazione n1 = 1 ed n2 (n1 < n2). k kr 1 θ0 θr x 2 θt kt Per determinare il campo riflesso e rifratto possiamo utilizzare direttamente l’Eq. (3.56). Se l’angolo di incidenza dell’onda piana, di ampiezza E0, è θ0 ne segue immediatamente che il campo riflesso Er è dato da: U(ρ) = E0 eik⋅ρ Er (r) ∝ E0 ∫∫ ei(k − kr )⋅ρ dS = E0 A +∞ = E0 ∫e −∞ ω c k = kr = +∞ i(kx − krx )⋅ ρ x d ρx +∞+∞ ∫ ∫e i(k − k r )⋅ρ d2ρ = (3.57) −∞−∞ ∫e i(ky − kry )⋅ ρ y d ρ y =E0 δ (kx − krx )δ (ky − kry ) → −∞ krx = k sin θ r = k sin θ 0 = kx e analogamente il campo trasmeso risulta: kry = ky = 0 Et (r) ∝ E0 ∫∫ ei(k − kt )⋅ρ dS = E0 δ (kx − ktx )δ (ky − kty ) → A ktx = k2 sin θ t = k sin θ 0 = kx nω k2 = 2 c kty = ky = 0 (3.58) Nell’ottica diffrattiva quindi le onde sferiche emesse dai punti della superficie, interferendo fra di loro, danno luogo nei due mezzi a fronti d’onda piani, con diversa inclinazione a causa della diversa velocità di propagazione; i corrispondenti vettori d’onda, determinati dalle Eq. (3.57-58) determinano le direzioni di propagazione dell’onda riflessa e trasmessa che corrispondono a quelle determinate a suo tempo nel par. 2… Vogliamo rilevare che la direzione del fascio riflesso, o trasmesso, è definita esattamente solo se le dimensioni della superficie di separazione fra i due mezzi è infinitamente estesa nelle due direzioni x ed y , come si è implicitamente supposto nelle espressioni (3.57 – 58) in cui i limiti di integrazione sono stati posti all’infinito. Nel caso in cui la superficie A sia finita ne risulta immediatamente che l’integrale di superficie è limitato alla regione di spazio da essa occupata o equivalentemente che la funzione di trasferimento TA, introdotta nella Eq. (3.56), vale 1 per i punti del piano appartenenti alla superficie A e 0 altrimenti. La limitazione degli integrali nell’espressioni del campo riflesso comporta necessariamente che le due delta di Dirac siano rimpiazzate da due funzioni di distribuzione con un supporto finito per le due componenti dei vettori d’onda e pertanto che il fascio riflesso abbia una divergenza; essa risulta tanto più grande quanto più è piccola l’area di A analogamente a quanto si è visto nel § 3.3. Come secondo esempio possiamo considerare la diffrazione da parte di un’apertura rettangolare, di lati A e B, praticata in uno schermo piano opaco su cui incida in direzione normale un’onda piana monocromatica. In questo caso l’ampiezza e la fase del campo sulla fenditura sono costanti e quindi, considerando l’Eq. (3.56), il campo diffratto è uguale a quello prodotto da una sorgente rettangolare coerente considerato al § 3.3. Si ha così A /2 B /2 E(r) = − iE0 eikr (1 + cosθ ) ∫ ∫ e−ik⋅ρ d ρ x d ρ y = 2λr − A /2 − B /2 ky B kx A sin sin iE e 2 2 = − 0 (1 + cosθ )AB kA kB 2λr x y 2 2 r r k=k cosθ = n ⋅ r r ikr kx A 2 sin ε c AB 2 θ 2 I(r) = 0 E0 cos 4 8 λr 2 kx A 2 2 kB sin y 2 ky B 2 2 (3.59) L’ espressione dell’intensità è analoga a quella precedentemente calcolata nell’Eq. (3.50), ma contiene un fattore correttivo legato all’inclinazione, mentre l’espressione del campo elettrico è modificata dal termine di fase. Le espressioni ora ricavate consentono di calcolare il campo diffratto di uno schermo, o da un’apertura, complementare a quello considerato: in questo caso l’apertura è rettangolare e lo schermo è costituito dal piano entro cui essa si trova; il caso complementare lo si ottiene scambiando fra di loro i due per cui lo schermo è un rettangolo opaco di lati A e B e l’apertura AC ciò che rimane del piano. In generale noto il campo diffratto E di una delle due aperture si può determinare quello EC del complemento utilizzando il “principio di Babinet” : esso stabilisce che in ogni punto dello spazio la somma dei due campi diffratti deve essere uguale al campo E0 che si avrebbe in assenza di qualsiasi apertura, ossia E + EC = E0 . La giustificazione di detto principio è semplice e se si vuole intuitiva: infatti la somma delle due aperture corrisponde ad un piano indefinito privo di ostacoli e l’onda piana che lo investe si propaga liberamente nella regione di spazio considerata. In base al principio di sovrapposizione le soluzioni corrispondenti alla diffrazione delle singole aperture deve necessariamente riprodurre il campo prodotto dell’intera superficie, priva di ostacoli, ossia l’onda piana sopra considerata. Il campo diffratto, prodotto dallo schermo rettangolare, EC è quindi dato da: EC (r) = E0 − E(r) (3.60) con E(r) dato dalla (3.59); l’intensità è ottenuta di conseguenza ma, essendo proporzionale al modulo quadro di EC e comparendo quindi termini di interferenza, non è banalmente il complemento a I0 dell’intensità calcolata nella (3.59). In entrambi i casi comunque si vede come la zona illuminata , o di ombra, non abbia un margine netto, come si avrebbe in ambito classico, inviando un fascio di particelle collimate (ovvero con la stessa direzione della velocità) ed in cui quelle che hanno oltrepassato l’ostacolo la conservano inalterata. In questo caso le onde diffratte vengono ad avere anche una componente del vettore d’onda diversa da quella del fascio incidente ( k0x = k0y = 0 ) la cui rilevanza dipende dalle dimensioni A e B ( ∆k x ∝1/A e ∆ky ∝1/B). Quindi tanto piu grandi sono A e B tanto più risulta definito in direzione il vettore d’onda del campo diffratto e più netta (meno sfumato) il passaggio dalla zona di buio (di ombra) a quella di luce. Il comportamento sopra considerato, riscontrabile in molte situazioni fisiche al di fuori del campo dell’ottica, è spiegabile solo nell’ambito di una teoria ondulatoria dei fenomeni considerati. Il suo manifestarsi, e in generale di tutti i fenomeni di tipo diffrattivo, costituisce una prova della natura ondulatoria della perturbazione o del campo che lo produce. Vogliamo concludere questo esempio rilevando che la precedente soluzione (3.59) nel limite B → ∞ fornisce immediatamente il campo diffratto da una fenditura indefinita di larghezza A a cui si fa più volte riferimento: in questo caso risulta ky = k0y = 0 per cui si ha diffrazione solo nel piano di incidenza. Il precedente approccio e le considerazioni relative non sono specifiche del caso considerato: cambiando la forma dell’apertura, dello schermo etc. vi saranno dei cambiamenti nelle espressioni dei campi e delle intensità diffratte derivanti dalla diversa geometria ma l’inquadramento generale del problema resta inalterato. Ad esempio se l’apertura è circolare la figura di diffrazione dovrà rispettare la simmetria cilindrica del sistema fisico e quindi si avrà una distribuzione di campo che dipende unicamente dal raggio con formazione di anelli di “luce e buio”. Infine, senza entrare in dettagli per i quali rimandiamo alle ref. , possiamo considerare cosa accade quando nell’esperienza di Young (§ 3… )si hanno due fenditure indefinite di larghezza A poste a distanza 2a fra di loro. In questo caso gli effetti della diffrazione da parte della singola fenditura e dell’interferenza delle due si sommano (ovviamente ricordando sempre che sono i campi con le rispettive fasi che si sommano in un punto). Quindi per esempio su uno schermo piano a distanza D >> a, A da quello delle due fenditure avremo, tappando alternativamente una delle due fenditure, una figura diffrazione con frange laterali spaziate di una quantità ∆ = λD/A ; con entrambe le fenditure aperte a causa dell’interferenza si vengono a formare ulteriori frange con spaziatura ∆∗ = λD/2a < ∆ e quindi un doppio sistema di frange. Come ultimo esempio di applicazione della teoria della diffrazione vogliamo discutere il caso della focalizzazione di un fascio collimato da parte di una lente piano convessa. Per quanto semplice esso sia questo caso dà un’idea di come il trattamento del problema della formazione dell’immagine a partire dalle relazioni di Kirkhhoff consenta di andare ben oltre i risultati dell’ottica geometrica e di determinare il potere risolutivo degli strumenti ottici, primi fra tutti i microscopi. Con riferimento alla Fig. 3… consideriamo un fascio di luce collimato e monocromatico, che possiamo considerare come un’onda piana, che incide su una lente piano convessa (in questo caso dal lato conveso). Possiamo considerare i vari “raggi” ossia le linee perpendicolari punto per punto ai fronti d’onda ( superfici di uguale fase): nel caso di mezzi omogenei e isotropi i raggi hanno la direzione del vettore di Poynting quindi coincidono con le direzioni di propagazione dell’energia. Prima di incidere sulla lente i fronti d’onda sono piani che supponiamo paralleli alla superficie piana della lente e di conseguenza i vari raggi sono perpendicolari ad essa. Quando uno di essi incontra la superficie concave della lente viene deflesso secondo quanto previsto dalle leggi di Snell ( 2. .): il raggio centrale a perpendicolare alla superficie mantiene la sua direzione mentre gli altri si piegano leggermente verso l’asse del sistema formando angoli via via crescenti dal centro verso il bordo. Ogni punto della superficie piana della lente su cui incide un raggio può essere considerato come sorgente di un’onda sferica secondo quanto previsto dalla teoria della diffrazione. L’interferenza di tutte le onde sferiche emesse dai punti della superficie, tenendo conto dell’ampiezza e soprattutto della fase delle varie sorgenti, determina il nuovo fronte d’onda dopo l’attraversamento della lente. La fase relativa delle sorgenti può essere specificata in termini del “cammino ottico” l* : esso, per un raggio che attraversa N mezzi per ognuno dei quali l’indice di rifrazione è ni e l i la lunghezza del tratto percorso, è definito come: N l* = ∑ ni li (3.61) i =1 A causa della curvatura della lente, di indice di rifrazione n, il cammino ottico piu lungo lo si ha per il raggio centrale ed esso decresce gradualmente dall’asse verso il bordo; in modo analogo si comporta la fase ϕ = kl*. Come conseguenza di tutto ciò il punto B della superficie piana, intercettato dal raggio β, genera rispetto al punto A, intercettato dal raggio centrale a , l’onda sferica con un’anticipo dato da τ = l* α - l* β che cresce progressivamente verso il bordo. Ad un determinato istante quindi il fronte d’onda, determinato dall’inteferenza delle varie onde sferiche di raggio r = cτ , risulta non più piano ma incurvato verso l’asse ed i raggi non sono più paralleli ma convergenti verso di esso: la lente quindi si comporta da elemento convergente e se essa è opportunamente progettata farà sì che tutti i raggi convergano in uno stesso punto dell’asse detto “fuoco” della lente. La sua distanza f dal vertice della lente viene detta “distanza focale” o semplicemente “focale” della lente. Nel caso di una lente pianoconvessa come quella considerata, se la superficie curva è una calotta sferica di raggio R, risulta f = R/(n-1) nel limite “parassiale” in cui tutti gli angoli in gioco risultano piccoli (<< 1) ( il caso di figura in cui il raggio di curvatura del fronte d’onda è maggiore di R si può per esempio riferire ad una lente di ZnSe che nel visibile ha un’indice di rifrazione n ≅ 2.65). Da quanto ora dett risulta immediatamente che l’effetto della lente, ossia il suo comportamento, è lo stesso se il fascio di luce incide sul lato piano nel qual caso ovviamente sarà focalizzato dalla parte della superficie convessa: non essendo però il cammino ottico lo stesso che nel caso precedente ci si devono aspettare delle differenze rispetto ad esso. Queste risultano piccole, e in prima approssimazione trascurabili, nel limite parassiale, ma divengono apprezzabili quando il raggio della lente diviene comparabile con la sua focale. Analogamente a quanto ora visto possono essere trattate le lenti biconvesse o menisco-convesse: in tutti questi casi i raggi periferici percorrono all’interno della lente un cammino ottico più breve rispetto a quelli lungo l’asse e di conseguenza si ha comunque una curvatura del fronte d’onda tale da far convergere i raggi verso l’asse. Per lenti piano-concave, biconcave e menisco-concave s comportamento esattamente opposto a quello sopra visto. In questo tipo di lenti il cammino ottico dei raggi in prossimità dell’asse è più corto di quello dei raggi periferici e di conseguenza ad un dato istante il raggio delle onde sferiche emesse dai punti centrali è maggiore di quello dei punti periferici: il fronte donda che risulta dalla loro interferenza è in questo caso curvato verso l’esterno ed i raggi divergono rispetto all’asse. Le lenti “tradizionali” , sopra considerate, realizzano la loro funzione grazie alla curvatura delle sue superfici, ma in linea di principio non è l’unico modo con cui si può modificare la curvatura di un fronte d’onda: infatti sono adesso disponibili delle “lenti” in cui entrambe le facce sono piane (si ha quindi una lastra a facce piane e parallele) ma nelle quali l’indice di rifrazione varia in direzione radiale rispetto all’ asse. Dato che quello che conta è la variazione di cammino ottico è indifferente ottenere questa variando lo spessore del materiale di cui è fatta la lente ( a indice di rifrazione costante) oppure variando il suo indice di rifrazione (a spessore costante). Da quanto si è finora detto si potrebbe pensare che a patto di progettare correttamente una lente si possa focalizzare un fascio in un punto, ossia produrre un fuoco di dimensioni puntiformi, almeno ad una determinate lunghezza d’onda (l’indice di rifrazione varia con la lunghezza d’onda e di conseguenza variano con essa le caratteristiche della lente) . La teoria della diffrazione chiarisce che ogni sistema ottico reale con un’apertura necessariamente finita (l’apertura A è il rapporto fra il diametro d e la focale f di una lente, A = d/f ) produce un fuoco ( un’immagine) di dimensioni finite che non possono essere ridotte oltre quello che viene spesso chiamato il “limite di diffrazione”. Questa limitazione è una limitazione di principio, che è connessa con la natura ondulatoria della luce, e niente ha a che vedere con una non “adeguata” realizzazione del sistema ottico. Essa costituisce il limite ultimo della risoluzione di un sistema ottico, ossia della sua capacità di fornire un’immagine distinta di due oggetti vicini fra loro; le ulteriori “imperfezioni” e “aberrazioni” del sistema ottico vanno ad aggiungersi ad essa producendo effetti che degradano ulteriormente la qualità dell’immagine. Vogliamo soffermarci brevemente su quest’ultimo punto data la rilevanza in relazione a quanto sarà detto in ambito quantistico: il “limite di diffrazione” costituisce infatti l’analogo classico del “principio di indeterminazione” quantistico ed è in ultima analisi connesso con le proprietà della trasformata di Fourier come risulta dalla relazione (B. ). In precedenza si sono incontrate più volte delle situazioni in cui interveniva il “limite di diffrazione”. Per esempio considerando il campo emesso da una sorgente lineare, omogenea e coerente, di dimensione A ( 3. ) si è visto che lo spettro di vettori d’onda è dato dalla funzione (3…) e la sua larghezza è inversamente proporzionale ad a (Eq. (3..- )). Nel limite a → 0 , ossia di una sorgente puntiforme δ(x) , lo spettro di vettori d’onda diviene piatto in conseguenza del fatto che l’emissione è isotropa su tutto l’angolo solido. Come risulta dalle espressioni (3.. ) nell’approssimazione di Fraunhofer la funzione di distribuzione nello spazio kx è la trasformata di Fourier della campo sorgente. Se adesso interponiamo sul cammino dei raggi emessi dalla sorgente uno specchio ideale che riflette all’indietro ognuno di essi, con uguale ampiezza ed uguale sfasamento relativo, essi confluiranno nella regione di partenza fornendo una distribuzione di campo uguale ( a parte un eventuale sfasamento) a quella della sorgente, realizzando all’atto pratico la trasformata di Fourier inversa della funzione di distribuzione nello spazio dei vettori d’onda. Quest’ultima funzione e la funzione di distribuzione del campo elettrico della sorgente costituiscono una coppia di funzioni coniugate e la relazione fra le due è biunivoca. Questo significa che per realizzare una distribuzione di campo omogenea e coerente in una certa regione dello spazio dovrò necessariamente realizzare un sistema ottico che mi produca una distribuzione di campo , nello spazio dei vettori d’onda, uguale a quella sopra considerate. A rigore questo implica un sistema ottico di apertura infinita dato che il supporto della distribuzione si estende da + a – infinito, all’atto pratico dovrà risultare sufficientemente maggiore di 1/a. Infatti consideriamo l’effetto dell’apertura finita del nostro dispositivo , che indichiamo con D , supponendo per esempio di interporre sul nostro fascio di estensione infinita e con distribuzione spettrale data dalla funzione un diaframma variabile. La distribuzione nel piano di formazione dell’immagine è dato da: Ossia come risulta dal teorema (B ..) dalla convoluzione dell’antitrasformata di con l’antitrasformata della funzione di trasferimento del diaframma che limita l’apertura. E’ immediato verificare che quest’ultima modifica trascurabilmente la distribuzione di campo dell’immagine solo se . Nel caso contrario si ha un allargamento, rispetto a quello corrispondente alla funzione di distribuzione , tanto più rilevante quanto più è piccola l’apertura del diaframma e del sistema. Quest’ultima determina quindi in modo univoco le dimensioni ultime dell’immagine che un sistema può formare e la sua risoluzione spaziale: grossolanamente con uno strumento due oggetti, o sorgenti, non potranno essere riconosciuti come distinti se la loro distanza è inferiore alle dimensioni dell’immagine più piccola che esso può creare. Quindi sia nell’emissione che nella formazione dell’immagine apertura angolare Dq e dimensioni del fuoco, o imagine, Dx sono indissolubilmente legate dalla relazione di complementarità stabilita dal limite di diffrazione ∆kx∆x = k∆q∆x = C2π dove C è una costante dell’ordine dell’unità che dipende dalla forma delle funzioni di distribuzione.