NELL’INVERNO 1946-1947 LA CITTA’ ISTRIANA SI SVUOTA Pola, addio! P IL TRATTATO DI PACE LA ASSEGNA ALLA JUGOSLAVIA DI TITO. BEN 30 MILA POLESANI SU 32 MILA ABITANTI SCELGONO LA VIA DELL’ESILIO. IL 20 MARZO 1947 IL PIROSCAFO TOSCANA COMPIE L’ULTIMO VIAGGIO CON IL SUO CARICO DI «UMANITÀ DOLENTE» ola è oggi, con i suoi oltre 60 mila abitanti, la maggiore città dell’Istria. Situata nella parte più interna dell’omonima insenatura (che ne fa uno dei porti più sicuri dell’Adriatico), fu colonia illirica intorno al V sec. a.C., passò ai Romani nel 177 a.C. e divenne colonia per volontà di Augusto con il nome di Pietas Julia. Col disgregarsi dell’Impero romano passò ai Bizantini (sec. VI), sotto il cui dominio conobbe un nuovo periodo di prosperità, accresciuta dall’autonomia che le venne concessa nell’ambito dell’esarcato di Ravenna e che nel 1177 si tradusse nella costituzione di un Municipio. Annessa nel 1334 ai domini di Venezia, partecipò alle lotte che opposero la Serenissima a Genova nel 1351 e nel 1378. In seguito al Trattato di Campoformido, nel 1797 passò all’Austria. Occupata dai Francesi nel 1805, e quindi posta sotto il governo di Trieste, Napoleone la inglobò nel Regno Italico. Dopo la sconfitta napoleonica nel 1813 tornò all’Impero austriaco, che la trasformò in una possente base della sua Marina militare. Nell’Istria asburgica Pola fu un attivo centro irredentista, e nel 1918 festeggiò l’inserimento dell’Istria nel Regno d’Italia. Alla fine della Prima guerra mondiale fu occupata da forze italiane e nel 1920, con l’accordo di Rapallo, passò all’Italia. Il censimento del 1921 rilevò la presenza di 49.323 abitanti, di cui 41.125 italiani e 5.420 slavi. La città sotto il Regno d’Italia conobbe un periodo fiorente e tranquillo fino alla Seconda guerra mondiale. Inizia il calvario Il calvario più recente di Pola iniza l’1 ottobre del 1943, con la proclamazione dell’Adriatisches Küstenland (Litorale Adriatico) che comprende le province di Udine, Gorizia, Trieste, Fiume, Pola e Lubiana. All’interno di questo territorio nascono le prime formazioni partigiane, che combattono contro l’occupazione nazista ma devono guardarsi anche dai partigiani slavo-comunisti, sempre più numerosi e sanguinari, ostili indistintamente a tutti gli 178 PAGINE DI STORIA italiani secondo il binomio costruito ad arte “italiani=fascisti”. Si inizia a parlare di violenze, di terrore, di deportazioni, di foibe. Nasce anche un movimento di liberazione comunista e filo-slavo, che sostiene il progetto di una “Settima repubblica federativa autonoma” italiana all’interno della Jugoslavia. Il 3 maggio 1945 gli jugoslavi occupano Pola, ad eccezione di un piccolo triangolo che va dalla penisola Stoja al forte Musil e alla Fabbrica Cementi. Questa prima occupazione dura poco più di un mese. Il 6 giugno 1945, l’accordo AlexanderTito definisce Pola come enclave raggiungibile solo via mare all’interno della Zona A di occupazione alleata, comprendente anche Gorizia, Trieste e Monfalcone. Il resto dell’Istria e Fiume sono invece assegnati all’occupazione militare jugoslava. Il 12 giugno gli jugoslavi lasciano Pola alle truppe alleate anglo-americane. La città attira rifugiati italiani dal resto dell’Istria, rimasta sotto occupazione jugoslava, ed in questo clima di ritrovata fiducia rinascono partiti, associazioni e sindacati italiani, già soffocati dal fascismo e poi repressi da nazisti e titini. In agosto nasce la sezione della Democrazia cristiana di Pola, con Attilio Craglietto (preside del liceo Carducci e fondatore del Comitato cittadino polese per difendere l’italianità della città) e con don Edoardo Marzari (presidente del CLN di Trieste). Vengono fondate anche sezioni del Partito socialista, del Partito d’azione, del Partito liberale. Il Comitato cittadino polese si trasforma in Comitato di liberazione nazionale (CLN) e prende contatti con il CLN di Trieste ed i giuliani residenti a Roma. Nei due anni di occupazione alleata Mario Mirabelli Roberti, direttore del Museo dell’Istria, fa ricostruire il tempio di Augusto e il duomo, appena prima che la città passi nuovamente agli jugoslavi. La presenza della componente italiana, assolutamente maggioritaria sul totale complessivo della popolazione cittadina, lascia sperare gli italiani, alimentando la loro fiducia sulle decisioni che si devo- A sinistra: lo stemma della città di Pola. In alto: l’area della Venezia Giulia fotografata dal satellite, con la penisola istriana e le isole del Quarnero. Qui sopra: l’arena, uno dei massimi simboli di Pola, l’antica “Pietas Julia”, colonia romana voluta da Augusto. A sinistra: francobollo emesso da Poste Italiane nel 1997 dedicato all’esodo degli italiani dall’Istria, Fiume e Dalmazia. Vi è rappresentata la poppa del piroscafo “Toscana” che il 20 marzo 1947 lascia il porto di Pola per il suo dodicesimo e ultimo viaggio. www.storiadetrieste.it www.ilmercatino.it A sinistra: la sede del comando alleato a Pola, in largo Oberdan, nel 1946. Sui muri, le scritte ed i simboli del comunismo tracciati dai partigiani di Tito nel maggio 1945. Qui accanto: la prima pagina del quotidiano “L’Arena di Pola” del 4 luglio 1946 con un titolo drammaticamente premonitore. no prendere al tavolo della Conferenza di pace di Parigi, chiamato a decidere sui confini orientali dell’Italia e sulla futura assegnazione della città. Si tratta però di speranze fragili, destinate a svanire non appena al tavolo delle trattative si prospetta la cessione alla Jugoslavia della città, il cui destino appare dunque irrimediabilmente segnato. Una decisione accolta come un trauma collettivo dall’intera popolazione italiana che, pervasa da incredulità, rabbia e sgomento, si prepara ad abbandonare in massa la città. Un segnale forte, dal grande valore simbolico, attraverso il quale traspare chiaramente la volontà dei polesani di escludere “ogni permanenza nell’ambito dello stato jugoslavo”. Il 22 marzo 1946 giunge in città la Commissione per lo studio dei confini della Venezia Giulia (esponenti di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica), emanazione della Conferenza alleata dei ministri degli Esteri. Per l’occasione in piazza Foro si confrontano una imponente manifestazione spontanea della popolazione polesana favorevole all’Italia, alla quale partecipano non meno di 20 mila persone, e una manifestazione filo-slava, composta principalmente di persone fatte confluire dai paesi dell’interno della Jugoslavia con autocorriere organizzate dai comunisti titini. La polizia del Governo militare alleato tiene separate le due fazioni evitando lo scontro. La Commissione non conosce ovviamente i territori che sta visitando, non la loro storia, non le tradizioni, e finisce quindi inevitabilmente in zone che non sono in contestazione. Tutte le aree da visitare sono già sotto lo stretto controllo dell’amministrazione jugoslava, che organizza una campagna martellante e capillare per dimostrare che tutta la regione era slava fino all’Isonzo, cosa ovviamente non vera. E mentre a Pola la gente accoglie la Commissione al suo passaggio nelle strade con entusiasmo, nei vari comuni vengono asportate le effigi del leone di San Marco, antichissimo simbolo della Repubblica di Venezia che dimostrava l’italianità di quelle terre. Vengono anche modificati i cognomi, riducendoli in forma slava, alterandoli perfino sulle lapidi nei cimiteri; viene introdotta una nuova moneta (la jugo-lira), vengono distribuite nuove carte d’identità e asportati registri anagrafici e parrocchiali (la cui mancanza ancora oggi impedisce, laddove non è del tutto impossibile, una corretta ricerca genealogico-familiare). Insomma, pulizia etnica ad ogni livello, studiata, pianificata e attuata in ogni dettaglio e con ogni mezzo. Il 9 maggio si riunisce per la prima volta il Comitato cittadino polese presieduto dal prof. Craglietto che riafferma “i princìpi dell’au- preda al panico, cerca rifugio ovunque possibile, in particolare a Pola. I polesani restano increduli e divisi tra pessimisti, per i quali ormai tutto è perduto, e ottimisti, che non vedono come, dopo due anni di tutela anglo-americana, la città possa essere di nuovo abbandonata agli slavi. Il 26 luglio 1946 il CLN di Pola raccoglie 9.496 dichiarazioni familiari scritte, per conto di complessivi 28.058 abitanti su un totale di circa 32.000, di voler abbandonare Pola qualora venga assegnata alla Jugo- alleato afferma che “l’esplosione non poté essere accidentale”. E documenti emersi successivamente dagli archivi inglesi documentano come la strage sia stata un atto premeditato del terrorismo slavo contro gli italiani compiuto dall’OZNA, la polizia segreta di Tito (su Vergarolla vedi anche le “Pagine di Storia” su www.storiadetrieste.it). La decisione collettiva dell’esodo era già stata chiaramente manifestata ben prima di questo attentato terroristico, tuttavia la realtà della strage sicuramente provoca nei polesani la sensazione che, qualora fossero restati in città, in caso di passaggio alla Jugoslavia, avrebbero certamente corso un gravissimo pericolo. Nel 1946 Carlo Schiffer pubblica una Carta dei limiti nazionali italo-jugoslavi, in cui riporta, per la popolazione del vasto distretto di Pola, un totale di 87.787 abitanti, di cui 54.074 italiani (64%), 27.102 serbo-croati (32%), 771 sloveni, 1.110 di altre nazionaltà. Nell’area urbana di Pola, quella occupata dagli angloamericani, la popolazione è italiana per quasi il 90%. L’organizzazione del grande esodo todeterminazione dei popoli”. Il 26 e 27 giugno viene indetto un grande sciopero per protestare contro la ventilata annessione della città alla Jugoslavia, cui partecipa praticamente l’intera città. Il destino di Pola si decide a Parigi Alla conferenza di Parigi nel frattempo, già nell’estate 1946 era apparso chiaro che alla fine il compromesso avrebbe consegnato l’Istria e Pola alla Jugoslavia, Gorizia e Monfalcone all’Italia, mentre Trieste con una fascia di territorio limitrofo sarebbe divenuta uno Stato indipendente posto sotto amministrazione alleata. Il 4 giugno il ministro degli Esteri britannico lord Bevin annuncia l’intenzione degli Alleati di adottare la linea di demarcazione francese e la popolazione italiana della Zona B, in slavia. Le firme sono citate da De Gasperi nel suo discorso al Palazzo di Lussemburgo a Parigi. Inutilmente. Il 15 agosto 1946, divenuta definitiva la proposta della cosiddetta “linea francese” che sancisce per l’Italia la perdita di quasi tutta l’Istria, gli italiani danno l’addio ufficiale a Pola. La sera riempiono l’arena illuminata. Il pubblico piangendo esplode nel canto “Va pensiero” in un tripudio di tricolori. Il 18 agosto 1946 a Vergarolla, durante una manifestazione della società sportiva remiera “Pietas Julia” che aveva richiamato moltissimi polesani, una trentina di mine accatastate sulla spiaggia, già disattivate, esplodono improvvisamente dilaniando i presenti: circa un centinaio le vittime i cui corpi smembrati vengono disseminati in mare e nella vicina pineta dalla violenza del devastante scoppio. Il Tribunale Intanto, fin dall’agosto 1946 si era costituito a Venezia l’Ufficio per la Venezia Giulia, dipendente dal ministero degli Interni e retto dal prefetto Mario Micali, con il compito di organizzare e attuare l’esodo della popolazione da Pola e dai territori italiani della Zona B che sarebbero passati all’amministrazione jugoslava. Anche se le diplomazie non si sono espresse ufficialmente e si era ancora lontani dalla conclusione del trattato di pace, è chiaro che si va in quell’unica direzione. Sul piano organizzativo c’erano dei precedenti riguardanti gli italiani residenti a Rodi ed i coloni inviati a suo tempo in Tunisia e nei possedimenti dell’Africa Orientale, evacuati già nel 1940 e poi nel corso del conflitto, ma erano nuclei familiari costretti a partire con poco bagaglio al seguito. Qui invece si tratta di svuotare un’intera città, Pola, che, per quanto molto lontana dalla popolosità del 1921 ha comunque quasi 32 mila abitanti. Ed è assai presumibile che PAGINE DI STORIA 179 Sopra a sinistra: a Pola (conquistata nel maggio 1945), gli slavi organizzano cerimonie e parate militari. Fra bandiere jugoslave e tricolori italiani con la stella rossa, anche nell’arena campeggia il ritratto di Tito. Nelle foto piccole di questa pagina, alcuni drammatici momenti del grande esodo degli italiani da Pola. Qui a sinistra: i carri carichi di masserizie passano sotto l’antico arco dei Sergi per recarsi al porto. – viene incaricata di svolgere tutta la parte pratica. Le masserizie vengono assicurate con una polizza con un gruppo di assicurazioni italiane guidate dalle Assicurazioni Generali e lo Stato italiano garantisce la copertura finanziaria all’intera operazione, compresi i sussidi da destinare ai capifamiglia per ovviare a quella fase di inevitabile e lungo disagio. erano iniziate già nel gennaio del 1947, segnate dall’incedere lento e costante dei piroscafi a vapore Grado e Pola che giornalmente, colmi di esuli e di masserizie, solcavano le acque dell’Adriatico collegando il porto di Pola con quelli di Trieste e Venezia. Nel freddo e nevoso febbraio del 1947 il governo italiano, su pressione del CLN di Pola, mette finalmente in moto il proprio apparato organizzativo e, dopo aver stipulato un accordo con il comando alleato, avvia la fase operativa che prevede il trasporto in massa degli esuli e delle loro cose nei porti di Venezia e di Ancona dove erano stati organizzati i centri di transito. Da qui i profughi saranno smistati nei centri di raccolta sparsi nelle altre province d’Italia. Ad incaricarsi di tale servizio saranno i piroscafi Toscana, Montecucco, Messina, Pola e Grado. Altri venti vagoni ferroviari al giorno partiranno da Pola per l’Italia, attraversando tutto il territorio istriano già sotto occupazione jugoslava. Il CLN di Pola tratta con il governo di De Gasperi anche a proposito della necessità di chiedere l’autodeterminazione per i territori giuliani, al fine di conservare Pola e l’Istria all’Italia. Ma lo Stato italiano non si sente forse in grado di controllare le condizioni specifiche di eventuali plebisciti, che in Istria, dove è ancora vivo il terrore delle foibe, si sarebbero svolti sotto le minacce e le intimidazioni degli jugoslavi che la occupavano militarmente. Con ogni probabilità inoltre, giocando la carta del plebiscito, teme di poter perdere l’Alto Adige (abitato in maggioranza da tedeschi). Anche il CLN di Trieste è piuttosto cauto, e così gli stessi giuliani stabilitisi a Roma. Il cuore di Pola sta cessando di battere: resta soltanto uno scenario che si fa ogni giorno più desolante, dove le finestre chiuse della case, le serrande abbassate e gli scaffali vuoti dei negozi, convivono con il passo pesante dei carri che carichi di mobili, valigie e fagotti vanno La scelta di Pola la quasi totalità dei polesani sceglierà la via dell’esodo, con le loro masserizie, laboratori artigianali, attrezzature commerciali, un volume di oggetti valutato in circa 170 mila metri cubi di mobili e arredi e 6 mila tonnellate di materiali provenienti dai vari impianti che dovranno essere portati via e sistemati in attesa della destinazione definitiva. Ci sono poi gli uffici amministrativi, i degenti negli ospedali, i ricoverati negli ospizi e nell’ospedale psichiatrico, perfino i detenuti nelle carceri, che non possono lasciare la città prima della popolazione. E c’è soprattutto il grande problema di cercare e trovare una sistemazione (vitto, alloggi e lavoro) per non meno di 30 mila persone. Tutto ciò avviene in un’Italia ancora segnata dalla guerra, con decine di migliaia di sfollati, infrastrutture danneggiate, edifici e fabbriche inagibili a causa dei bombardamenti alleati, in un clima di incertezza e di violenze. Si decide che l’esodo degli italiani da Pola segua una precisa dinamica, disegnata nel cosiddetto ”Piano per l’esodo”. Prima sarebbero partite le masserizie e poco dopo la popolazione; entrambe destinate a quattro località di grande raccolta: Trieste, Venezia, Ancona e Brindisi. Vengono reperiti magazzini e depositi nel porto di Ravenna, mentre la ditta Acomin di Roma – che aveva già organizzato l’esodo italiano da Rodi 180 PAGINE DI STORIA Il grande esodo non è più soltanto una possibilità ventilata, ma si appresta a diventare un fatto imminente e reale con il quale Pola inizia quotidianamente a convivere. Sul versante cronologico le partenze degli italiani, che conservano ancora vivo il ricordo della durissima occupazione jugoslava del maggio 1945, si registrano in un arco di tempo compreso tra il dicembre 1946 e il marzo 1947, dopo l’entrata in vigore del Trattato di pace di Parigi e prima del definitivo passaggio della città alla Jugoslavia previsto per il 15 settembre del 1947. Si può dunque parlare di un esodo preventivo, che porta, nel mezzo di un inverno particolarmente rigido e prima ancora che il governo italiano abbia messo a punto le necessarie operazioni di accoglienza degli esuli, una città intera a svuotarsi quasi del tutto. In un pesante clima di ansia e paura, e di trepidante attesa, intriso di innumerevoli atti di violenza contro gli italiani, con una disposizione del 23 dicembre 1946 riguardante i polesani in grado di “reperire un punto di deposito per le loro masserizie” e quelli disposti a trasferirsi nelle province di Trento e Bolzano, il CLN di Pola dichiara ufficialmente aperto l’esodo: «Non è certo il caso di restare a Pola – si legge nel verbale del 27 dicembre 1946 – per fare da cavie, sacrificandosi per fare opera di italianità, come qualcuno ha detto a Roma. Nella Capitale non si ha un’idea di cosa succede in Istria. Il pericolo è grande di fronte all’inerzia del governo. La popolazione di Pola è angosciata e domanda se potrà salvarsi.» Improvvisamente l’Istria, Fiume e la Dalmazia sono oscurate dall’ombra livida di un destino incerto e rosso di sangue innocente. Quella dell’esodo è una decisione collettiva che si consuma in pochi mesi e trova la sua massima espressione nell’ultimo veglione di San Silvestro del ’46, folle e tragicamente spensierato, per costringersi a non pensare, appunto. Ricorda Livio Dorigo: «La gente non sapeva neanche dove andare e come andare via. L’ultimo dell’anno abbiamo fatto una grande festa al Cescutti. Una festa d’addio alla città, con spumante; un’orchestra ha suonato fino alle tre del mattino la canzone che accompagnò i polesani quando sono andati via.» Il 10 febbraio 1947, data della firma del trattato di pace di Parigi, trova Pola in lutto: sugli edifici e sulle finestre sventola la bandiera italiana a mezz’asta. Lo stesso giorno la maestra fiorentina Maria Pasquinelli uccide a colpi di pistola il generale inglese Robin De Winton, comandante della guarnigione britannica. Si lascia arrestare e motiva il suo gesto come protesta nei confronti dei Quattro Grandi per la cessione di Pola e dell’Istria alla Jugoslavia (condannata a morte il 9 aprile 1947, pena poi commutata in ergastolo, la Pasquinelli sarà graziata nel 1964). Le partenze dalla città istriana www.storiadetrieste.it www.ilmercatino.it Nella foto grande sulle due pagine: i carri degli esuli passano davanti all’arena, muta testimone del loro dramma. Ben 30mila polesani su 32mila decidono di abbandonare la città che, in base al trattato di pace, verrà assegnata alla nuova Jugoslavia di Tito. A sinistra: gli esuli si imbarcano sul “Toscana”, portandosi via anche la statua di Augusto che si trovava davanti all’arena. DA BREMA A NAPOLI, DA POLA A TRIESTE Il Toscana, silenzioso testimone di un’epoca Q verso il porto dall’alba fino a notte, senza sosta. Ad affollare le banchine del molo Carbon, da dove salpano le navi che devono trasportare gli esuli polesani in Italia, ci sono anche circa 5mila italiani provenienti dalla Zona B, decisi anch’essi ad intraprendere la tortuosa strada dell’esilio. Occorre tuttavia ricordare che l’esodo dall’Istria era iniziato prima dell’entrata in vigore del trattato di pace. In un primo momento, gli abitanti delle campagne avevano trovato rifugio nelle città per scampare ai rastrellamenti ed ai reclutamenti dei tedeschi, ed al pericolo di infoibamenti e ritorsioni da parte dei partigiani slavi. Inoltre, è necessario anche tenere presente che, in seguito all’accordo Tito-Alexander del 6 giugno 1945, vi fu un’ondata di profughi che dalla Zona B, occupata dagli slavi, si riversò nella Zona A. Subito dopo la firma del trattato di pace di Parigi la lunga ondata degli esodi intrapresi dalla popolazione italiana coinvolge anche gli altri territori dell’Istria passati sotto la sovranità jugoslava, con la sola eccezione dell’area destinata, insieme a una porzione di Zona A posta sotto il controllo anglo-americano, a convergere nel Territorio Libero di Trieste. Pola, addio! Quella del piroscafo Toscana, fermo sotto la neve al molo Carbon mentre imbarca gli esuli, è entrata nell’im- ueste le caratteristiche del piroscafo “Saarbrucken”, costruito nel 1923 nei cantieri Weser di Brema (Germania) per la Norddeutscher Lloyd: stazza lorda 9.442 t (netta 5.490 t); lunghezza 146,2 m; larghezza 17,6 m; velocità 12,5 nodi (grazie a due macchine a triplice espansione capaci di sviluppare 4.400 c.v.); progettato per ospitare 200 passeggeri (più altri eventuali 140), con equipaggio di 176 uomini. Nell’agosto del 1935 la nave venne acquistata dal governo italiano per il trasporto truppe durante la Guerra d’Etiopia, e cambiò il nome in “Toscana”. Con base nel porto di Napoli, venne affidato alla Italia Flotte Riunite (poi Società di Navigazione Italia). Terminate le operazioni militari in Africa Orientale, nel 1937 passò al Lloyd Triestino e venne utilizzato per il trasporto di uomini e automezzi del “Corpo truppe volontarie” nel teatro della guerra civile in Spagna. Nel 1938 venne affidato alla Flotta Lauro per il trasporto di 20.000 coloni italiani in Libia. Sorpreso dalla dichiarazione di guerra il 10 giugno 1940 a Lero, nel Dodecaneso italiano, per essere convertito in nave-ospedale il Toscana venne inviato dapprima a Trieste all’Arsenale Triestino, dove arrivò il 12 marzo, e poi a Venezia, dove si provvide all’assetto sanitario e ospedaliero (portando la capacità a 700 posti letto). Riprese il mare il 16 dicembre 1941 con la livrea bianca, la banda verde e le croci rosse, destinato a incrociare il mare nel teatro di guerra del Mediterraneo in numerose missioni umanitarie. L’armistizio dell’8 settembre 1943 la sorprese a Gaeta ma, eludendo la sorveglianza dei nazisti, riuscì a raggiungere Palermo, da dove venne trasferita dagli Alleati a Malta. Requisita dagli inglesi, dopo alcuni lavori di ammodernamento eseguiti ad Haifa e ad Alessandria d’Egitto, venne usata fino alla fine della Seconda guerra mondiale nelle operazioni in Mediterraneo, sempre con i colori della Croce Rossa. Il 4 dicembre 1945 rientrò a Napoli, riprese la bandiera italiana e venne utilizzata per le urgenze dell’immediato dopoguerra tra Palermo, Cagliari e Napoli. Nell’ottobre del 1946 venne restituita infine al Lloyd Triestino. Intanto si andava acuendo la crisi Sopra: il piroscafo Toscana attraccato al molo Bersaglieri, a Trieste. A destra: il Toscana, trasformato in motonave passeggeri dopo la ristrutturazione al Cantiere San Marco di Trieste, in una cartolina dell’epoca. alla frontiera orientale d’Italia con la Jugoslavia del maresciallo Tito. Il governo italiano, dapprima restìo ad intervenire, dovette arrendersi all’evidenza dei fatti e alla gravità della situazione predisponendo una serie di interventi, tra i quali l’assegnazione delle navi per il trasporto delle persone che avrebbero scelto di abbandonare le loro case e le loro terre per trovare rifugio nel resto d’Italia dopo la firma del trattato di pace. Il “Toscana” fu così destinato all’evacuazione da Pola, affiancato in questo triste compito dalla nave trasporto “Montecucco”. La mattina del 2 febbraio 1947 il “Toscana” lasciò il molo Carbon della città istriana con i primi profughi diretti a Venezia. Fece in tutto dodici viaggi, anche per Ancona, trasportando oltre 13.000 polesani. Sul piroscafo vennero trasportate anche le ceneri dell’eroe di Capodistria Nazario Sauro, di Giovanni Grion (volontario istriano caduto nella Prima guerra mondiale) e della madre, di due caduti del sottomarino F14 (speronato accidentalmente nelle acque di Pola nel 1928 e inabissatosi con tutto l’equipaggio). Il 20 marzo 1947 il “Toscana” compì il suo ultimo viaggio. Conclusesi le operazioni legate alla tragedia dell’esodo degli italiani da Pola, nell’estate del ’47 il piroscafo Toscana venne inviato al Cantiere San Marco di Trieste per interventi di revisione e riclassificazione, tornando così ad essere una normale nave passeggeri (la caldaia a carbone lasciò il posto alla motorizzazione diesel, venne aumentata la stazza, con la possibilità di ospitare a bordo 825 passeggeri). La motonave “Toscana” fece quindi servizio sulla linea Trieste-Durban, in Sud Africa, e poi Trieste-Perth e Trieste-Sydney, in Australia, trasportandovi la folla di emigranti (moltissimi dei quali erano esuli e profughi dalla Venezia Giulia, dall’Istria e dalla Dalmazia) in cerca di fortuna. Rimasto in servizio fino al 1961,superstite e testimone di un’epoca segnata da eventi sanguinosi e dolorosi, il vecchio piroscafo fermò definitivamente le macchine nel porto di Trieste, e nel 1962 venne avviato alla demolizione. PAGINE DI STORIA 181 A sinistra: il piroscafo “Toscana” ormeggiato al molo Carbon del porto di Pola imbarca gli esuli. IL FILM DIMENTICATO DEGLI ITALIANI SENZA PATRIA Nelle due pagine, ancora alcune crude immagini del biblico esodo degli italiani da Pola, insufficienti comunque a descrivere il loro immenso dramma. «La città dolente» A destra: la scritta “POLA, ADDIO!” tracciata sull’intonaco di una casa della città istriana nei giorni dell’esodo. N ell’immediato dopoguerra, quando gli accordi di pace spostarono i confini italiani verso Trieste obbligando 30mila persone circa a lasciare Pola, nella città istriana, ma non solo, la situazione era a dir poco drammatica. Tanto da diventare una storia degna di essere raccontata in un film, intitolato La città dolente diretto tra il 1947 e il 1948 da Mario Bonnard e scritto da un gruppo di sceneggiatori tra cui Federico Fellini e Anton Giulio Majano. Prodotto da Istria-Scalera Film, rimase bloccato un anno prima di uscire (la prima fu il 4 marzo 1949) e finì presto dimenticato (negli Stati Uniti venne distribuito nel 1951 con titolo City of Pain). Un film scomodo, che nel dopoguerra toccava temi scabrosi e difficili sui quali immediatamente calarono le censure di parte e i veti e le rimozioni politiche della sinistra. Solo e unico film che parla del drammatico epocale esodo degli italiani da Pola, girato immediatamente a ridosso dei fatti raccontati, La città dolente si inventa la storia del meccanico Berto (interpretato da Luigi Tosi) che decide, mentre tutti partono, di restare a Pola con moglie e figlio neonato sperando nel socialismo di Tito. Ma il paradiso socialista diventerà un inferno, moglie e figlio riusciranno a partire per Venezia grazie ad una ispettrice del Partito comunista jugoslavo (Constance Dowling) che ne diventa l’amante e cerca di fare di lui un propagandista del partito, e che poi lo manda in un campo di lavori forzati per “essere rieducato”. Dal quale Berto riuscirà ad evadere, per raggiungere la costa, remare verso l’Italia…, e morire, colpito da una raffica di mitragliatrice. Il merito maggiore del film, che nel 2009 l’Istituto Luce in collaborazione con la Cineteca Nazionale e la Cineteca del Friuli ha restaurato, è anche quello di aver «restituito» alla visione molte scene girate nei giorni reali dell’esodo da operatori di cinegiornali come Enrico Moretti ed il triestino Gianni Alberto Vitrotti. In particolare, brani dei documentari “Pola, una città che muore” e “Addio, mia cara Pola”, tra cui le immagini, diventate famose, dell’imbarco dei profughi con le loro masserizie sul piroscafo Toscana. Anche l’incipit è documentaristico. Dopo la scritta «Alla Madre che sempre conosce ed accetta lo spirito di sacrificio», un’ampia panoramica, partendo dall’arena, mostra il porto e il golfo di Pola, con la voce fuori campo che illustra: «Questa è Pola, adagiata su sette colli, a somiglianza di Roma... l’anfiteatro, costruito durante l’impero di Augusto… Tutto è tipicamente italiano... alle voci della latinità si uniscono i segni di Venezia...». Dopo le immagini del glorioso passato, il drammatico presente: «Alle 11 del 10 febbraio 1947 a Parigi la fine di Pola era suggellata... la tragedia è nell’aria... lo sgombero è già cominciato... è un’intera città che muore...». Nell’intreccio fra dramma privato e tragedia storica anche un riferimento all’attentato di Maria Pasquinelli al generale de Winton. Una delle sequenze indimenticabili è quella della dissepoltura delle bare dai cimiteri, per portarsi in Italia anche i resti dei propri cari; ma quasi altrettanto drammatiche sono le lunge file di profughi che spingono mobili e materassi ammassati su carretti di fortuna, o i volti senza gioia dei bambini che si imbarcano sul “Toscana”, che fa la spola tra l’Istria e Venezia. 182 PAGINE DI STORIA maginario collettivo come la foto icona del grande esodo che dai primi giorni di febbraio al 20 marzo 1947 porta via da Pola 30mila dei suoi 32mila abitanti. Resta del tutto ignoto il motivo di dover abbandonare la città in pieno inverno e in cattive condizioni atmosferiche – in molte immagini si vede la coltre di neve che copre il selciato del molo e i mobili accatastati e si percepisce la sofferenza tra i più anziani e i bambini – in una condizione di effettivo esodo ”biblico”. Il 20 marzo il Toscana effettua il dodicesimo ultimo viaggio, durante il quale trasporta a Venezia anche la salma di Nazario Sauro, impiccato dagli austriaci 31 anni prima proprio a Pola. Il 17 aprile una relazione indirizzata alla presidenza del Consiglio dei ministri esordisce in questi termini: «Ormai l’esodo della popolazione di Pola si può considerare ultimato: Pola non vive più, la sua attività è ora limitata ”alla giornata”, poiché attende trepida il compimento del suo destino: Pola può davvero considerarsi una città morta.» L’esodo dei polesani, che a partire dal dicembre del 1946 è andato avanti con ritmi incessanti, si conclude pochi giorni prima della ratifica del trattato di pace quando, insieme agli Alleati, sul piroscafo Pola diretto a Trieste si imbarcano anche i 1.000 “operatori indispensabili” (gli impiegati della pubblica amministrazione italiana). In poche settimane la città muta radicalmente il proprio volto: più di 30mila dei sui 32 mila abitanti se ne sono andati. Il 15 settembre, data dell’entrata in vigore del trattato, gli slavi, che bivaccavano nella periferia, irrompono nella città deserta e ne prendono possesso. Pola, ribattezzata Pula, sarà ripopola- ta da slavi provenienti da altre regioni e dai Balcani. Immediatamente dopo la firma del trattato di pace le autorità jugoslave avevano iniziato ad effettuare confische, espropri e nazionalizzazioni ai danni degli italiani, e fu subito chiaro che chiunque fosse partito avrebbe perso i beni rimasti nei territori ceduti. Essendo ormai palese che le autorità jugoslave stavano procedendo ad appropriarsi dei beni dei cittadini italiani, nel 1949 il governo di Roma si accordò con quello di Belgrado per la conversione dei “beni abbandonati” dagli esuli in una indennità forfetaria da versare agli stessi profughi. Nel 1950 la Jugoslavia si impegnò ad acquistare i beni per i quali i proprietari optanti avessero rilasciato dichiarazione di vendita. Con l’accordo di Belgrado (18 dicembre 1954) il governo italiano utilizzò il valore complessivo dei “beni abbandonati” (stimati all’epoca circa 72 milioni di dollari) per compensare il debito con la Jugoslavia per i danni di guerra sanciti dal trattato di pace (125 milioni di dollari). Anche in virtù di tale compensazione, l’Italia si impegnò a indennizzare gli esuli (sebbene in base ai prezzi di mercato del 1938 rivalutati solo in misura limitata). In realtà, nel corso dei decenni successivi vennero erogati solo modesti acconti. Ad oggi manca un indennizzo equo e soprattutto definitivo per una vicenda che si trascina da più di sessant’anni. Se vuoi, puoi mandarci i tuoi commenti, pareri, approfondimenti e contributi (notizie, informazioni, foto e documenti) inviando il tutto a www.storiadetrieste.it. Grazie per la tua partecipazione. www.storiadetrieste.it www.ilmercatino.it A sinistra: la bara di Nazario Sauro, avvolta nel tricolore, viene caricata sul “Toscana” per essere trasportata in Italia. Qui accanto: il 15 settembre 1947, come previsto dal trattato di pace di Parigi, il colonnello americano Baltzer, comandante alleato di Pola, consegna le chiavi del Forte San Giorgio al delegato jugoslavo Motika, che prende così possesso della città istriana. L’ATTENTATO A POLA Maria Pasquinelli, la maestra di Italiano È CONSERVATO A ROMA L’ultimo tricolore di Pola N el 1939 nella provincia di Pola fu costituito il 41mo Corpo dei vigili del fuoco che hanno finito per legare il loro nome al dramma delle foibe che per primi essi esplorarono guidati dal maresciallo Arnaldo Harzarich. Il 9 febbraio 1943 furono chiamati a soccorrere la popolazione della città colpita per la prima volta dalle bombe sganciate sulla città dai bombardieri anglo-americani. Venne poi il periodo più duro, apertosi nel settembre 1943 in seguito all’armistizio di Badoglio ed alla conseguente consegna della parte del nord-est nelle mani del Terzo Reich. Sorsero in quel periodo difficile varie formazioni partigiane, spesso anche in lotta tra loro, divise tra brigate di italiani e slavi. Fu però nella primavera del 1945, con il ripiegamento dei tedeschi, che per Pola si aprì un secondo tragico momento. I partigiani slavo-comunisti di Tito occuparono la città dichiarandola territorio jugoslavo ed iniziarono una feroce caccia agli italiani. Il 12 giugno 1945 l’arrivo degli Alleati sembrò segnare la salvezza della città, evento che attirò a Pola molti profughi da tutta l’Istria. Ma fu un’illusione che durò lo spazio di un attimo, perché in seguito agli accordi di pace e malgrado i tentativi del CLN di Pola di non far strappare la città all’Italia, nel 1947 essa venne assegnata alla Jugoslavia. La paura e il ricordo di violenze, deportazioni e infoibamenti spinsero decine di migliaia di polesani a lasciare la città per rifugiarsi in un’Italia che non seppe accoglierli come figli ma li espose spesso al pubblico disprezzo, protagonisti e complici in questo esecrabile atteggiamento i comunisti italiani che vedevano negli esuli dei traditori che non accettavano con esultanza l’idea del socialismo che si realizzava nelle terre occupate dai titini. Il 20 marzo 1947 il piroscafo “Toscana” fece l’ultimo dei suoi dodici viaggi. Anche “L’Arena di Pola”, ultimo quotidiano italiano, dovette chiudere e i giornalisti fuggire a Trieste. Destino non meno amaro ebbero i vigili del fuoco della città; mentre Harzarich si metteva in salvo perché minacciato di morte per la sua opera di recupero delle salme dalle foibe, gli altri colleghi lasciavano Pola rifugiandosi in parte a Roma e venendo in seguito destinati a vari comandi d’Italia per riprendere servizio. Tra i vigili che dovettero riparare nella capitale vi era anche Umberto Gherardi, che in quel drammatico 1947, prima di abbandonare la città all’arrivo dei partigiani e delle autorità jugoslave, giunte per prenderne possesso, per amor di patria tolse dall’asta di Palazzo Quinto (sede della Regia Marina militare) dove sventolava, l’ultimo tricolore di Pola italiana. Lo nascose, consapevole dei rischi che stava correndo, lo portò con sé a Roma e lo custodì gelosamente. Finché, dopo più di sessant’anni, la bandiera e la storia del suo salvataggio sono tornati alla memoria, grazie alle ricerche del Gruppo storico dei Vigili del fuoco di Roma, e grazie alla donazione che il figlio di Umberto, anch’egli vigile del fuoco, ha voluto fare nel 2009 al Museo storico “Roma città del Fuoco” dove l’ultimo tricolore di Pola è oggi conservato. L’ attentato di Pola del 10 febbraio 1947 è l’unico, terribile atto di violenza compiuto in nome dell’esodo e della perdita delle terre orientali italiane: è come se Maria Pasquinelli si fosse fatta carico da sola di tutto il dolore di un intero popolo. La mattina del 10 febbraio 1947 il brigadiere generale Robin W. De Winton, comandante della guarnigione britannica di Pola, lascia il suo alloggio per recarsi al comando. In quelle stesse ore a Parigi i rappresentanti del governo italiano stanno firmando il trattato di pace che consegna l’enclave di Pola alla Jugoslavia. Dalla folla presente in via Carducci si stacca una giovane donna che corre verso l’ufficiale. Senza che qualcuno riesca a fermarla, estrae una pistola dalla borsetta e spara quattro colpi verso l’ufficiale. De Winton, raggiunto da tre proiettili al cuore muore sul colpo; il quarto ferisce un soldato che aveva cercato di proteggerlo. La donna si fa arrestare senza opporre resistenza, spiegando in un biglietto trovatole addosso le ragioni del tragico gesto: Seguendo l’esempio dei 600.000 Caduti nella guerra di redenzione 191518, sensibile come Sauro all’appello di Oberdan, cui si aggiungono le invocazioni strazianti di migliaia di Giuliani infoibati dagli Jugoslavi, dal settembre 1943 a tutt’oggi, solo perché rei di italianità, a Pola irrorata dal sangue di Sauro, capitale dell’Istria martire, riconfermo l’indissolubilità del vincolo che lega la madre Patria alle italianissime terre di Zara, di Fiume, della Venezia Giulia, eroici nostri baluardi contro il panslavismo minacciante tutta la civiltà occidentale. Mi ribello, con il proposito fermo, di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli, ai Quattro Grandi, i quali, alla conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e saggezza politica, hanno deciso di strappare ancora una volta dal grembo materno le terre più sacre d’Italia, condannandole o agli esperimenti di una novella Danzica o, con la più fredda consapevolezza che è correità, al giogo jugoslavo, oggi sinonimo per le nostre genti, indomabilmente italiane, di morte in foiba, di deportazioni, di esilio. Maria Pasquinelli viene processata dalla Corte Militare Alleata di Trieste, e si dichiara colpevole. Una sola volta l’aula viene fatta sgombrare. Accade quando il difensore avv. Luigi Giannini, medaglia d’argento al valor militare, invitato dal presidente ad adeguarsi alla procedura seguita dalla Corte alleata, risponde: «Prima di ogni altra cosa, signor presidente, io mi considero un italiano che difende un’italiana.» Nell’aula il pubblico applaude e si odono grida “Viva l’Italia!”. Il 10 aprile la Corte pronuncia la sentenza che condanna Maria Pasquinelli a morte: l’imputata si raccoglie in silenzio, il pubblico rumoreggia e le donne scoppiano in singhiozzi. Maria reagisce con lo stesso coraggio che aveva contraddistinto la sua vita: «Ringrazio la Corte per le cortesie usatemi; ma sin da ora dichiaro che mai firmerò la domanda di grazia agli oppressori della mia terra». Il giorno seguente Trieste viene inondata da una pioggia di manifestini tricolori sui quali si legge: «Dal pantano d’Italia è nato un fiore: Maria Pasquinelli». A chiedere la grazia ci pensano le altre donne di Trieste. La rivolta degli studenti viene soffocata dalle truppe del Governo Militare Alleato, che destituisce anche il rettore dell’Università. Nel 1954 la pena di morte viene commutata in ergastolo, da scontare in Italia. Maria Pasquinelli torna libera nel settembre del 1964. PAGINE DI STORIA 183