Testi letti e commentati durante le lezioni dell’anno accademico 2010–2011 (VII)
“In hoc quod dicit: “non absconse sed ante liberos homines”, queritur, si postea servus apparuerit,
quid inde debeat esse? Unde lex Longobarda nichil diffinit; eundum igitur per legem Romanam
generalem, ut legitur in secundo libro Institutionum que est: “Testamentum ex eo appellatur quod
sit testatio mentis”, in hoc quod inferius dicit: si testis liber existimabatur, quando testamentum
traderetur, et postea servus apparuerit, sic valet testamentum, velut si liber esset” (Expositio ad
librum papiensem, ad Roth. 172).
“Quia incerti sumus de iudicio Dei et multos audivimus per pugnam sine iustitia causam suam
perdere, sed propter consuetudinem gentis nostrae Longobardorum legem ipsam vetare non
possumus” (Liutprando, 118).
“De scribis hoc prospeximus, ut qui cartolas scribent –sive ad legem Longobardorum, quoniam
apertissima et paene omnibus manifesta est–, sive ad Romanorum, non aliter faciant, nisi quomodo
ipsis legibus continetur: nam contra legem Langobardorum aut Romanorum non scribant. Quod si
non sciunt, interrogent alteros ; et si non potuerint ipsas leges pleniter scire, non scribant ipsas
cartulas. Et qui aliter facere presumpserit, componat widrigild suum, excepto si aliquid inter
conlibertûs convenerit. Et si quiscumque de lege sua subdescendere voluerit et pacciones aut
conventiones inter se fecerint, et ambae partes consenserint, istud non imputetur contra legem, quia
ambae partes voluntarie faciunt ; et illi qui tales cartulas scribent, culpabiles non inveniantur esse.
Nam quod ad hereditandum pertinet, per legem scribant. Et quod de cartula falsa in anteriore
aedicto adfixum est, sic permaneat” (Liutprando, 91).
Traduzione del testo liutprandeo
“Riguardo agli scrivani stabiliamo questo, che coloro che scrivono documenti lo facciano o secondo
la legge dei Longobardi, che è chiarissima e nota pressoché a tutti, o secondo [quella] dei Romani e
non facciano altrimenti, ma solo come è contenuto in queste leggi; e non scrivano contro la legge
dei Longobardi o dei romani. Se non sanno, chiedano ad altri e se non possono conoscere
pienamente tali leggi, non scrivano i documenti. Chi osa fare diversamente, paghi come
composizione il proprio guidrigildo, a meno che non ci si accordi su qualcosa tra colliberti; perché
se alcuni vogliono allontanarsi dalla loro legge e fanno degli accordi o delle convenzioni tra di loro
ed entrambe le parti sono d’accordo, ciò non sia considerato contro la legge, poiché entrambe le
parti lo fanno volontariamente. E coloro che scrivono questi documenti non siano riconosciuti
colpevoli. Invece, scrivano secondo la legge per quanto riguarda le eredità. Quanto è inserito nel
precedente editto circa i documenti falsi, rimanga così” (Liutprando, 91).
“Ecce corpus dominicum quod sumpturus ero in experimentum mihi hodie fiat innocentiae meae, ut
me hodie absolvat si innocens, vel condemnet subitanea mors si reus” (Gregorio VII a Canossa).
Un capitolare del 786 incarica i missi dominici affinché nei singoli luoghi “per singulos inquirant
qualem legem habeant ex nomine”.
“Nam plerunque contingit ut simul eant aut sedeant quinque homines et nullus eorum communem
legem cum altero habeat exterius in rebus transitoriis, cum interius in rebus perhennibus una Christi
lege teneantur”. Rivolgendosi all’ imperatore lo sollecita ad instaurare un sistema in cui “sub uno
piissimo rege una omnes regerentur lege” (Agobardo a Ludovico il Pio, 817).
La lex romana è intesa come “omnium humanarum legum mater” (Benedetto Levita, metà sec. IX).
Le leggi romane sono configurate come “Venerandae leges romanae” (Nicolò I ai Bulgari, 866),
valide “in orbe terrarum” (Cartolario di Cluny, 903). “Auctoritas valet ecclesiastica et lex praecepit
romana ut […]” (Gaeta, 1028).
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“Omnes populi, qui legibus et moribus reguntur, partim suo proprio partim communi omnium
hominum iure utuntur. Nam quod quisque populus ipse sibi ius constituit, id ipsius proprium
civitatis est vocaturque ius civile, quasi ius proprium ipsius civitatis: quod vero naturalis ratio inter
inter omnes homines constituit, id apud omnes peraeque custoditur vocaturque ius gentium, quasi
quo iure omnes gentes utuntur” (D. 1.1.9 Gaio).
“Horum igitur alterum concedi necesse est: aut unum esse ius, cum unum sit imperium, aut si multa
diversaque iura sunt, multa superesse regna”; “[…] quod quisque populus ipse sibi ius constituit ius
proprium est ipsius civitatis […] hinc evenit ut multi populi […] constituant constituant sibi iura
legibus contraria” (Quaestiones de iuris subtilitatibus).
Sub appellatione iuris communis non solum venit ius romanorum, sive leges existentes in corpore
iuris civilis, sed omnes limitationes, ampliationes, declarationes quas recipit ius commune in eadem
materia” (Giuseppe Maria Casaregis, IV decennio XVIII sec.).
“Regnum nostrum consuetudine moribusque praecipue, non iure scripto, regitur” (Filippo il Bello,
1312).
“Nam sicut ius civile Romanorum dicitur ius commune omnibus civitatibus, eo quod omnes
subiacebant Romano Imperio, ita etiam ius civile Florentinum, et sic earum statuta debent dici ius
commune omnibus populis sibi subditis” (Mariano Socini, con riferimento allo statuto di Barga).
“Che se taluno chiedesse, come io, che medico non sono di professione […] abbia preso un tale
assunto con fidanza di potervi completamente soddisfare: risponderò che se non posso parlare io di
vista, ho ben potuto parlarne con tanti morti, che furon spettatori delle pestilenze, e che le hanno in
tanti libri descritte. E se non son’ io medico, studiarono ben medicina per me, e la praticarono in
tempi di contagio quegli scrittori, ch’ io citerò, di maniera che non l’ autorità mia, ma quella de’
professori di quest’ arte potrà dar credito al mio trattato, il quale inoltre non uscirà alla luce senza l’
approvazione de’ migliori filosofi e medici che s’ abbia la nostra città” (L.A. Muratori, Del
governo della peste e delle massime di guardarsene, 1743).
“Recherebbe a mio credere maggior beneficio al pubblico chi sapesse insegnargli la maniera di
liberare i campi da tanti assassini o sotteranei o visibili, congiurati per mandare a male le fatiche dei
poveri agricoltori, che chi recasse qualche nuovo esperimento, fatto nella macchina boiliana, nella
chimica etc. […] Non pochi io conosco i quali resterebbero più obbligati ad un filosofo, se lor
sapesse insegnare la maniera d’estirpare da i prati ed orti le talpe sotterranee, o il tarlo dagli alveari,
che se li trattenesse più ore ad udire una pomposa dissertazione sopra le cagioni del flusso e riflusso
del mare […]. Anche nelle minute cose, purché giovevoli alla sanità, al comodo, al bisogno della
vita o al commercio de gli uomini degno è d’encomi chi sa filosofare e scoprire il bene o il meglio.
Gran filosofo dovette essere colui che inventò l’ordigno per fabbricare calze al telaio” (L.A.
Muratori, Della pubblica felicità, 1749).
“Da che in Bologna nel secolo XI e senza paragone più nel secolo XII si cominciò lo studio delle
leggi civili, eccoti saltar fuori Irnerio e poscia altri legisti, che si diedero a far chiose alle leggi, ecco
letture pubbliche di tal professione e poscia lettori veramente di gran grido, perché di gran sapere,
formare commenti alle leggi. E dappoiché la stampa rendé facili le copie de' libri, eccoti i consulenti
uscir fuori con un nuvolo di allegazioni e consigli; e finalmente eccoti una sterminata abbondanza
di trattati di particolari argomenti e di decisioni emanate da varie Ruote e Senati. Sicché ormai i
libri legali formano una prodigiosa libreria e una gran giunta può farsi alla Biblioteca legale del
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Fontana, che pur indica tanti libri, di maniera che niuna delle professioni di lettere si è, sieno
scienze od arti, che non sia superata dal catalogo delle fatiche legali già date alle stampe, e peggio
ne verrà, se continuerà l'influsso che s'è provato nei due prossimi passati secoli. […] Chiedete ora
qual sia il frutto di tanti libri, qual giovamento sì sterminata mole di volumi abbia recato alla
giurisprudenza. Sarà pur divenuta facile l'intelligenza delle leggi, spianato il cammino a giudicar
rettamente. Tutto l'opposto. Ad altro non ha servito né serve questo diluvio d'opere legali, se vi si
farà ben mente, che a rendere la giurisprudenza più difficile, imbrogliata e spinosa e più incerti e
dubbiosi i giudizi di chi deve amministrar la giustizia. Volgete e rivolgete questi libri, troverete
un'infinità di sentenze e conclusioni tutte in guerra fra loro, cioè contrarie o contraddittorie.
Allorché avrete osservato in dieci autori come s'ha a stabilire una massima, a decidere una
controversia, passate innanzi, e venti o trenta altri ne incontrerete, che spacciano e assodano, con
ragioni diverse, un differente parere. In quel vasto emporio de' libri legali tanto l'attore quanto il reo
scuoprono quell'armi, con cui, nel medesimo tempo, si ha da difendere la stessa pretensione e causa.
Né io condurrò qui il lettore in un lungo viaggio. A me basta ch'egli meco venga per dare
un'occhiata all'opera di un famoso scrittore spagnuolo, intendo io dello Speculum aureum di
Girolamo Zevallos o sia Caevallos o Zevaglios, come dicono gli Spagnuoli, il quale coll'aver
solamente raunato le opinioni comuni contro le comuni, ne formò quattro tomi in folio. Né già
contrasto io a lui l'aver chiamata aurea quella sua opera, quantunque in fine poco o niun profitto se
ne ricavi, ma dico bene che niuna più d'essa è bastevole a sommamente discreditar la
giurisprudenza d'oggidì, da che egli ce la fa veder così discorde ed inesatta nelle sue sentenze e ce la
rappresenta come un campo di battaglia di chi sempre combatte, senza che mai apparisca chi abbia
da esser vincitore o vinto. Se tu comparisci in aringo con una sentenza comune a te favorevole,
eccoti l'avversario, che ti viene contro con una opposta sentenza ed anch'essa comune. A chi sarà
allora dovuta la palma? Sicché gran tempo ha che siam giunti a riaver que' mali a' quali pure tentò
Giustiniano di rimediar col corpo delle sue leggi, e a provar quegli altri ch'egli paventava, qualor si
mettessero i giuristi a voler farla da dottori sopra i legislatori, con interpretar la lor mente in tanti
casi, ora stendendola, ora ristringendola, senza risparmiar sottigliezze per far servire i decreti
augusti o alle lor private opinioni o al bisogno de' lor clienti. Anche papa Pio IV proibì il far chiose
e commenti all'incomparabil Concilio di Trento, perché ben conosceva le brutte conseguenze che ne
poteano venire a cagion degli scrittori o ignoranti e poco giudiziosi e molto temerari, capaci di
alterare, accrescendo o sminuendo, le fondate e chiare decisioni di quella sacra e tanto venerabil
assemblea de' pastori cattolici. Fu egli ubbidito, poiché, per conto del Barbosa, egli non entra ne'
dogmi di fede. Non ebbe così buon mercato l'Augusto Giustiniano: ognun sa se manchino interpreti
del gius civile. E però s'è in tal guisa riemputa la scuola della giurisprudenza d'incertezza, e in vece
di renderla atta a terminar le vecchie liti, s'è renduta un seminario di liti nuove e più propria per
oscurare che per illustrar le menti de' giudici, qualora essi si truovano colti in mezzo a tante diverse
e contrarie opinioni. Il peggio è che con ciò s'è aperto un bel campo a' giudici, qualor ne venga loro
talento, e l'amicizia o l'odio o altre passioni vogliano essere esaudite, di decidere le cause in favore
di chi è più loro in grado. Perciocché, qualunque sentenza ch'essi vogliano profferire, la truovano
assistita dall'autorità di molti giurisconsulti, e in libri stampata, e questa dichiarata da essi con titolo
maestoso "comune". Stimava il suddetto Zevallos che non potrebbero i dottori in leggendo la sua
opera risparmiar lo stupore al vedere "in quanta caligine et obscuritate totum ius versetur, quum
nulla sit opinio certa et verissima, quae non possit pluribus contrariis opinionibus et fundamentis
contrariari. Et sic omnia negotia magis ex iudicum arbitrio, quam ex certa iuris dispositione
terminantur; et modo in uno eodemque negotio nunc pro actore, nunc pro reo, sententia fertur, sine
varietate iuris neque facti, sed solum ex eo, quia his iudicibus placet haec opinio et aliis displicet et
contraria directe satisfacit, quum sine certa lege omnino in tot opinionum varietate respublica
gubernetur". Sicché non è più vero che s'abbia a ricorrer solamente al codice e ai Digesti per
mettere fine alle controversie forensi. Quello è divenuto un picciolo, picciolissimo paese. Un altro
senza alcun paragone più vasto è quello dalla giurisprudenza maneggiata dalle feconde e sottili
menti de' giureconsulti degli ultimi secoli, i quali hanno anch'essi formato un altro sterminato corpo
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di leggi, secondoché è sembrato al loro intendimento. E chiamo leggi le loro opinioni, perché a
tenore di queste opinioni si regola il foro e si danno le sentenze, nella stessa guisa che si fa in vigore
d'una vera legge di Giustiniano. Così decise la Rota romana, così il senato di Torino, così dice il
Menochio, il de Luca ecc. Tal piede anzi ha preso questa dottorale giurisprudenza che si troveran
talvolta dei laureati difensori di cause, che non hanno mai letto il corpo delle leggi di Giustiniano,
siccome talora si truovano dei teologi che mai non hanno letto le Divine Scritture, fuorché nel loro
breviario. Tutto lo studio d'essi è intorno ai trattatisti, consulenti e decisioni: giacché i ripetenti, cioè
gli antichi interpreti delle leggi, Bartolo, Baldo, Odofredo e simili, si lasciano riposar pieni di
polvere in fondo alle librerie, e talvolta in vece di trovarli nelle librerie si truovano nelle botteghe di
chi vende sardelle. […] Il male maggiore della profession legale è proceduto dall'eccesso
dell'ingegno e massimamente de' consulenti. Allorché si presenta ad un avvocato da patrocinar
qualche causa, purché la medesima non sia evidentemente o assai probabilmente decisa dalle leggi e
resti alquanto dubbiosa, e molto più se assai dubbiosa, Giove quel dì gli ha mandata la buona
fortuna per far pruova del suo felice ingegno o ha almeno inviata qualche rugiada per la sua borsa.
Allora tutto ardore si mette a pescar nella vasta sua libreria, e più nel mare del suo sapere e del suo
ingegno, ragioni e autorità per far toccare con mano ai giudici che quel suo cliente ha ragion da
vendere in quella controversia. Altrettanto farà l'avversario avvocato per l'altro cliente. L'uno dirà:
qui è il giorno. Anzi che no, dirà l'altro: vi è chiaramente la notte e il mezzo dì è dalla parte mia. Né
altro sovente vi sarà di certo se non che il giudice, senza veder giorno né notte da questa o da quella
parte, resterà egli stesso immerso in un profondo buio. Ora non si può dire di che cosa sia capace
l'umano ingegno e massimamente se acuto, se penetrante, se assai versato nelle battaglie del foro e
in quelle maggiori che s'incontrano ne' libri. Truova mirabili sottigliezze, disotterra o inventa cento
ragioni, distinzioni, riflessioni, presunzioni, eccezioni, che tutte possano dar buon'aria all'assistito
suo; e questo vel dipigne con tal garbo di frasi e di parole, che vi par tutta giustizia la di lui
pretensione. Ed affinché non si creda a lui solo, conduce una vanguardia e un battaglione d'altri
autori che sentono con lui. L'ho già detto né torno a dirlo: innumerabili sono i casi particolari ne'
quali ci manca un'idea certa del giusto e dell'ingiusto. Si riducano questi alla categoria del dubbioso,
dell'opinabile, e però si tratta allora di far comparire più o men probabile e verisimile una cosa, nel
che l'ingegno può lavorare come in campo larghissimo. Allora non è più il legislatore che decide la
lite: è l'ingegno di chi la protegge, è l'ingegno del giudice, che conforme l'intende butta là una
sentenza. Avvertì già Epitteto che le cose ed azioni umane hanno due manichi: noi diciamo il lor
diritto e il loro rovescio. Vien l'ingegno dell'uomo e ve ne dice tante che le fa confessar utili, oneste,
giuste: quel medesimo ingegno poi, se si metterà a volervele far comparire tutto l'opposto, arriverà
anche ad ottenere il suo intento. Carneade è famoso perché si vantava di saper provare giusto quello
che comunemente veniva creduto ingiusto e, voltata faccia, di saper provare ingiusto il giusto.
Siccome uomo di massime pericolose, per parere di Catone fu cacciato da Roma. Ma non finì già in
lui quest'arte perché restò in Grecia ed anche in Roma la scuola degli accademici; ed è questa
passata in assaissimi legisti degli ultimi secoli, dedicati allo stesso mestier di Carneade, col fare
avvocati delle cause e valersi anche, in vece ragioni, di sofismi e sofisticherie, che talvolta non si
possono avvertire e sciogliere, se non da chi ha maggior forza di mente e sa ben raziocinare, e non
già dalle piccole teste. […] Ora è accaduto che questi avvocati, o sia consulenti, han pubblicato le
loro meravigliose fatiche sotto nome di consigli, di consultazioni ed allegazioni, e quei che son
venuti dopo di loro han cominciato a citar le loro dottrine ed opinioni qualora ne è venuto loro il
bisogno, e i trattatisti anch'essi le hanno infilzate ne' libri loro, il che ha sempre più renduta incerta e
piena di dubbi, d'opinioni, ed opinioni opposte, la giurisprudenza, senza badare che l'ufficio di
costoro può esser stato talora quello di ricercare il vero e il giusto, ma più sovente quello di cercare
che vincesse il suo cliente, ragione o torto ch'egli avesse. Le più di tante opinioni contrarie e
contradittorie nella facoltà legale vengono dai molti e vari consulenti, che secondo l'esigenza delle
lor cause tenevano e sostenevano un'opinione, mentre altri per tutto diverso bisogno ne insegnavano
e fomentavano un'altra. E a misura poi che altri posteriori consulenti ed avvocati abbisognavano di
quella prima opinione, attaccavansi ad essa, mentre altri, bisognosi della contraria, si faceano forti
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della contraria d'un altro autore antecedente. Né si dica: questo l'ha detto Bartolo, Baldo, i Socini, il
Berò, il Cumano, il Fulgosio ecc. Sono grandi uomini, ingegni grandi; ma anch'essi vendevano una
volta il loro ingegno a chiunque li pagava, perché con la loro acutezza vincessero la lite presente e
non già per dare al pubblico una regola sicura del giusto e del vero nelle tali e tali cause. […] In
somma, l'eccesso dell'ingegno ha servito ad accrescere l'incertezza di quel che per se stesso era
anche incerto, e siam giunti a tale che le tante sottigliezze de' giurisprudenti hanno più che mai
imbrogliata questa professione, senza che si sappia, in infiniti casi, dove posare il piè con sicurezza.
Se voi volete per un'opinione dieci e più autori, date tosto di mano al cardinal Tosco, al Castejon, al
Sabello: gli avrete in pugno. Se vi occorre la contraria opinione, ed altre dieci e più che la
fiancheggiano, voltate carta e felicemente ve li troverete. Quella è una bottega di rigattiere dove
ognun truova quella veste ch'ei cerca fatta al suo dosso. Tant'oltre poi sono iti i lambicchi della
repubblica legale, che (per tacere de' contratti e di tant'altri atti) beato quel testamento dove l'umana
pazzia vuole stendere la sua giurisdizione sopra i secoli avvenire, con formare eterni fideicommessi,
che non sia soggetto un dì o al pericolo o alla disavventura di vedersi sfregiato e guasto da questi
fieri esaminatori delle menti altrui, i quali vogliono, a tutte le maniere, che un testatore abbia
pensato come pensano essi” (L.A. Muratori, Dei difetti della giurisprudenza 1742-1743).
“Si devono ancora fuggire le opinioni singolari, abbracciando quelle, le quali siano più adattate
all’uso comune. Non intendendo questo uso più comune, perché in un articolo disputabile, sia più
numero di Dottori per una opinione, che per l’altra, mentre conforme si è già di sopra accennato,
particolarmente ne Tribunali grandi, non si deve il numero aritmetico considerare , ma la qualità de’
Dottori, e quella de’ loro fondamenti, e ragioni appoggiate nei veri principj, e termini legali. Ma per
un’altra specie d’uso comune, cioè che, o tutti, o la maggior parte de’ Tribunali del nostro civile
mondo comunicabile, il qual viva con l’uso delle leggi, seguiti un’opinione, e che questa ancora sia
più adattata alli costumi de’ paesi, e de popoli, ed al comun discorso naturale, sicché l’altra
opinione sia contraria a tutto ciò, ed abbia qualche ripugnanza alla ragion naturale, overo al comun
sentimento. Dovendosi seguire quelle opinioni, le quali verisimilmente siano per esser seguitate, ed
abbracciate da tutti gli altri Magistrati, e Ttribunali, ed in tutti i paesi, e non fermare quelle opinioni,
le quali restino singolari nel proprio paese” (Io. Baptista De Luca, Dello stile legale, in Theatrum
veritatis ac justitiae, liber decimus quintus, Venetiis 1734, cap. XVII n. 25).
“Credis tu quod glossa non ita viderit illum textum sicut tu et non ita bene intellexerit sicut tu?” (R.
Fulgosio, XV sec.).
Conviene stare attaccati alla glossa “sicut Bononienses inhaerent carocio et sicut ducens navem
temoni inhaeret” (Baldo degli Ubaldi, XIV sec.).
“Adhaerens glossae in aeternum non potest errare”. “Somniare dicuntur doctores volentes infringere
opiniones glossarum” (A.Barbazza, XV sec.).
“Qui recedit a glossis dicitur capere uselletos” (Signorolo degli Omodei, XIV sec.).
“Glossa debet intelligi secundum legem quam allegat” (Bartolo da Sassoferrato, XIV sec.).
“Tam conditor quam interpres legum solus imperator iuste existimabitur” (Giustiniano, 529).
“Si quid ambiguum fuerit visum, hoc ad imperiale culmen per iudices referatur et ex auctoritate
Augusta manifestetur, cui soli concessum est leges condere et interpretare” (Giustiniano, 533).
I consiliarii erano tenuti a “dicere et exprimere causas propter quas consulunt, et etiam expressare
certam absolutionem vel condemnationem et […] dictus consultor teneatur consulere secundum
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formam Statuti primi huius libri videlicet: primum secundum statuta et consuetudines civitatis
Veronae, et eis deficientibus secundum jura romana et glossas ordinarias Accursii per ipsum
approbatas, et in quantum sibi ad invicem contradicerent, consulatur secundum illam glossam quam
Dinus approbat […]” (Verona, statuta 1393).
“Se bene per facilitare l’ ispeditione delle liti sono state fatte da Noi molte provisioni e parendosi
quelle non ancora essere bastanti a dare sicuro rimedio a’ tante lunghezze, ci siamo risoluti di
provare anco questa che è di levare a’ giudici, e professori di legge l’ incertezza nella quale molte
volte si trovano per la varietà dell’ oppinioni di tamti, che hanno scritto in questa professione, e così
restringendo il numero di essi, ridurlo solo a quelli che vengono riputati più necessari per
apprendere la vera teoria, ed intelletto de’ testi, à quali principalmente si deve attendere: pertanto
vogliamo che per l’ avvenire, sin che a Noi piacerà, nelle cause tanto civili, che criminali, non si
possi da i Tribunali de nostri giudici valersi, nel sententiare, et alegare in iure, d’ altro, che del
semplice testo, Glosa, et letture de Bartolo, Baldo, Paolo de Castro, Alessandro, Iasone et Imola,
Statuti, et Decreti dello Stato; non prohibendo però che, oltre sodetti, non possino i giudici et
deffensori de Rei valersi nelle cause criminali della pratica del Gandino, dell’ Angelo, del Bossio et
Claro. Sotto pena il giudice, che contraverà della privatione dello Uffitio, agl’avocati, et procuratori
della privatione dell’ esercitio della professione loro, et alla parte della perdita della ragione da
applicarsi alla parte osservante” (Costituzione di Franceso Maria II della Rovere, Urbino 26
febbraio 1613).
“L’ on demande si, pour lever les confusions introduites par la quantité des Auteurs et les prejudices
qu’ elles ont causé a l’ état et au public, il serait utile, ou non, de limiter le nombre des docteurs, que
l’ on pourrait citer, et fixer cet nombre a certains auteurs, que l’ on designerait” (Quesito posto da
Vittorio Amedeo II a J.A. Schulting, G. van Noodt, Ph. Vitrarius).
“Proibiamo agli avvocati di citare nelle loro allegationi veruno dei dottori nelle materie legali, ed a’
giudici, tanto superiori, che inferiori, di deferire alle opinioni di essi, sotto pena, tanto contro delli
giudici che avvocati, della sospensione dai loro uffici” (Costituzioni Piemontesi, II redazione 1729).
“Quanto sono state le leggi in ogni tempo, e sono tuttavia l’ anima, la regola, e il fondamento della
società umana, e de’ governi, altrettanto la loro molteplicità ne difficulta l’ osservanza, e la oscurità
dà luogo ad arbitrarie interpretazioni; vizio e difetto l’ uno, e l’ altro perniciosissimo alla retta
amministrazione della giustizia, e il quale noi abbiamo sempre avuto in animo di togliere per il
bene, e la felicità de’ nostri sudditi. Sono già alcuni anni, che a conseguire il fine propostoci si era
da noi stabilita una Deputazione di soggetti idonei a compilare un codice […] che fissasse, e
stabilisse colle massime dell’ equità, e della ragione i veri, chiari, e sodi principi da osservarsi sopra
tanti articoli, e quistioni più ovvie, e frequenti a suscitarsi nelle controversie forensi, e le quali per la
diversa, e sofistica opinione de’ giureconsulti non servono che a dar fomento alle liti, a prolungare
le cause, e a rendere dubbie, e fluttuanti le risoluzioni. […] Le presenti costituzioni pertanto, […] si
dovranno attendere, osservare, ed eseguire in tutti i nostri domini […] e da qualunque persona, […]
ed in tutti indistantamente i tribunali esistenti nei detti nostri domini, niuno affatto eccettuato, come
unica sovrana legge fondamentale in ogni, e singolo di que’ casi, e di quelle materie, in cui è stato
provveduto, e fissata massima dalle predette costituzioni, alle quali vogliamo, ed ordiniamo, che si
dia ogni preferenza ed estensione, ove si oppongano al gius antico, al municipale, e a qualsivoglia
altra preesistente legge, prammatica, opinione, e consuetudine, per modo che non si possa loro dare
stretta interpretazione, e la meno lesiva del gius comune, siccome hanno finora preteso, ed
incautamente esagerato molti giureconsulti verso le stesse sanzioni de’ principi, da’ quali soltanto
emana, e dipende il vigore, e l’ attività della legislazione. E però accadendo mai nella molteplicità
de’ casi contingibili di eccitarsi qualche ragionevole dubbio su la vera intelligenza di alcune di
queste leggi, vogliamo, che il nostro Supremo Consiglio di Giustizia ne sia l’ interprete […]. Così
pure avvenendo alcuno caso relativo a quelle materie civili, criminali, o miste, delle quali si parlerà
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nelle presenti costituzioni, per cui non fosse stato provveduto, non si potrà avere ricorso a veruno
statuto, o a disposizione particolare, ma per servare l’ uniformità in tutta l’ estensione de’ nostri
domini si potrà unicamente per detto caso ommesso ricorrere alla disposizione del Gius comune”
(Costituzioni modenesi, patente di Francesco III, 26 aprile 1771).
“Continue essendo contro i tribunali le querele dei litiganti, […] ha finalmente risoluto il Re di
darvi il più efficace riparo, ed il più proprio per togliere alla maligniità e alla frode qualunque
pretesto, ed assicurare nell’ opinione del pubblico la esattezza e la religiosità de’ magistrati. Vuole
adunque il Re, anche sull’ esempio e sull’ uso de’ tribunali più rinomati, che in qualunque
decisione, che riguarda o la causa principale, o gli incidenti, fatta da qualunque tribunale di Napoli
o collegio o giunta, o altro giudice della stessa capitale, che abbia la facoltà di decidere, si spieghi la
ragion di decidere, o sieno i motivi su’ quali la decisione è appoggiata. Incaricando S.M. per
rimuovere quanto più si possa da’ giudizi l’ arbitrio, ed allontanare da’ giudici ogni sospetto di
parzialità, che le decisioni si fondino non già sulle nude autorità de’ dottori, che hanno, pur troppo,
colle loro opinioni, o alterato, o reso incerto ed arbitrario il diritto, ma sulle leggi espresse del
Regno, o comuni: e quando non vi sia legge espressa pel caso di cui si tratta, e si abbia da ricorrere
all’ interpretazione o estensione della legge, vuole il Re che questo si faccia dal giudice, in maniera
che le due premesse dell’ argomento sieno sempre fondate nelle leggi espresse e letterali; o quando
il caso sia in tutto nuovo o totalmente dubbio, che non possa decidersi né colla legge né coll’
argomento della legge, allora vuole il Re che si riferisca all M.S. per attendere il sovrano oracolo”
(Dispaccio tanucciano, Ferdinando IV, Napoli 1774).
Si deplora il fatto che “l’ ambiguità delle dottrine dipendenti dall’ interpretazione della ragion
comune” lasciava aperto “un novello campo a’ litigi” (Premessa a Le leggi civili e criminali del
Regno di Sardegna, Carlo Felice 1827).
Nella redazione delle sentenze non potrà invocarsi “l’ autorità dei dottori o scrittori legali” (art. 103
del Regolamento 24 dicembre 1854 per l’ esecuzione del c.p.c. sardo 1854). Similmente si legge
nell’ art. 98 cpv. del Regolamento 18 aprile 1860 per l’ esecuzione c.p.c. sardo 1859, nonché
nell’ art. 265 Del Regolamento generale giudiziario, approvato con R.D. 14 dicembre 1865, n.
2641.
“Non si accuserà di intemperanza il magistrato che in contesa difficile e grave sappia discretamente
rammentare le discussioni dottrinali e accennare anche al nome di qualche veramente illustre
espositore di una dottrina, di una interpretazione o di un sistema esegetico: tutta la questione è di
misura e di tatto” (Mortara).
“Il diritto tende essenzialmente alla uniformità. Il sistema delle norme giuridiche non realizza che in
piccola parte questa tendenza. Man mano che le norme si cimentano nella applicazione ai casi
pratici si presenta la sterminata sequela dei dubbi, i quali consentono varietà di soluzioni. Che
intorno a questi dubbi, che sono poi le questioni di diritto, si formi a poco a poco una opinione
comune comune giova grandemente allo scopo del diritto, e perché questa opinione guida i cittadini
a non litigare e perché comunque guida i giudici a decidere giustamente le liti” (Carnelutti 1926).
“Ogni progresso della giurisprudenza, che si trasformi sotto l’ influsso della critica giuridica della
dottrina scientifica e delle esigenze sociali è da accogliersi con vivo compiacimento” (D’ Amelio,
primo presidente della Cassazione unita).
“La Cassazione ha rivelato in questo decennio di sapere essere sensibile alla dottrina, anzi di saper
essere quasi l’ organo specifico della giornaliera fusione tra la teoria e la pratica giuridica”
(Calamandrei, 1933).
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Testi letti e commentati durante le lezioni dell`anno accademico