pRImO pIANO Corriere del ticino Venerdì 17 ottobre 2014 Scienza Dimmi come perdi le staffe e ti dirò da dove provieni LA DOMANDA 4 DA DOve vIeNe LA CReAtIvItÀ? Parlando del pensiero rapido e lento (vedi articolo a destra) non poteva mancare nel libro di Lamberto Maffei una discussione sull’intuizione e la creatività. Gli chiediamo perché mai l’idea creativa viene ad alcuni e non ad altri e chi sono mai questi fortunati. «L’intuizione - risponde - può essere rapida, ma l’esecuzione dell’opera è lenta, talvolta occupa anni nell’arte come nella scienza. Io propongo come rilevante nel processo creativo il rumore pRImO pIANO Corriere del ticino Venerdì 17 ottobre 2014 cerebrale che ho studiato per diversi anni. L’attività elettrica del cervello a riposo, cioè in assenza di stimoli, ha le caratteristiche statistiche del rumore, cioè i suoi eventi non hanno correlazione tra loro. Lo stimolo sensoriale non fa che correlare gli eventi e così diventa messaggio. I messaggi cerebrali si incontrano e generano immagini, pensiero come nei sogni. L’intuizione che spesso viene nel dormiveglia, a riposo, può ragionevolmente trovare ispirazione in questi messaggi. I cervelli per così dire rumorosi hanno più probabilità di creare. Il cervello della persona estremamente metodica e routinaria ha presumibilmente meno rumore forse meno probabilità di avere una nuova idea, originale. In sostanza ho cercato di ragionare su certe caratteristiche della società in generale e del pensiero in termini di funzioni cerebrali, facendo notare che alcune proprietà del sistema nervoso non sembrano essere, o non sembrano per ora essere, congrue con le richieste di una società che corre e che sposta il lavoro cerebrale più sull’azione che sulla preparazione di essa, come è tipico di mammiferi non umani». S.C. CARLO SILINI zxy Professore, partiamo dalle sue scoperte, che qualche anno fa hanno fatto il giro del mondo. «Sì, nel 2009, quando lavoravo nel Regno Unito (all’Università di Glasgow, n.d.r.) abbiamo realizzato una serie di studi che dimostrano che le espressioni delle emozioni attraverso il volto non sono universali». Che cosa significa, concretamente? «Significa, per esempio, che il modo in cui gli asiatici – cinesi, giapponesi, coreani – esprimono le emozioni è diverso dal nostro». Anche nel caso dell’espressione del dolore? «No, non in quel caso. L’espressione del dolore è effettivamente universale. Ma per esprimere le altre emozioni tipiche, cioè rabbia, gioia, paura, tristezza, sorpresa e disgusto gli asiatici utilizzano molto di più la parte alta del volto. E guardano molto meno la bocca. È talmente evidente che si riflette anche negli emoticon (le faccine realizzate con caratteri tipografici)». Qual è la differenza? «Nei nostri emoticon quando vogliamo esprimere la gioia cambiamo solo la bocca: all’insù se si è felici e all’ingiù se si è tristi. Nei loro emoticon, invece, la bocca è neutra, ma cambiano gli occhi». (Ad esempio (^_^) indica gioia, vedi grafico). Che cosa significa? «Significa, e lo dimostrano anche altri due studi che abbiamo fatto, che le emozioni non sono universali. Secondo l’evoluzionismo biologico non ci dovrebbe essere nessuna ragione per cui gli asiatici esprimano le emozioni in modo diverso dal nostro. È una scoperta importante che adesso sta facendo crollare l’idea fino ad oggi molto diffusa che invece siano universali». Che cosa ci dice tutto questo sul cervello e sulle emozioni? «Ci dice una cosa che emerge anche da un altro studio che abbiamo appena completato, ma di cui non abbiamo ancora pubblicato i risultati. Lo studio mostra una paziente che soffre di prosopagnosia, un deficit percettivo acquisito o congenito del sistema nervoso centrale che impedisce ai soggetti che ne vengono colpiti di riconoscere correttamente i volti delle persone». Cosa è successo? «Si tratta di una signora che ha avuto un incidente a Londra. Ha guardato dal lato sbagliato della strada. È arrivato un bus che l’ha colpita alla testa con lo specchietto retrovisore e lei è caduta per terra ottenendo una lesione al cervello. Da quel giorno non riconosce più neanche i volti familiari, come quello del marito o della figlia. Per il resto tutto funziona normalmente: non c’è un problema di memoria o di linguaggio». Che cosa cambia «Dolore e gioia si esprimono dappertutto allo stesso modo. Gli altri sentimenti no» L’APPUNTAMENTO COSA La fondazione Sir John eccles, nata per stimolare il dialogo tra neuroscienze e scienze umane organizza un simposio sul tema «emozioni e cervello. fra libertà e controllo». L’entrata è libera. DOve al Centro congressuale e culturale monte Verità, Via Collina 84 ad ascona. QuANDO tra le 9.00 e le 13.45 di sabato 18 ottobre. IL pROgRAmmA 9.00 Saluto e introduzione del prof.Claudio bassetti (berna) e del dott. Silvio Leoni (Locarno). moderazione del prof. roberto radice. 9.15 - 9.45 daniele bui (Lugano), «il punto di vista filosofico». 9.45 - 10.15 roberto Caldara (friborgo), «il punto di vista psicologico». 10.15 - 10.45 Werner Strik (berna), «il punto di vista psichiatrico». 11.15 - 11.45 marco r. Celio (friburgo), «anatomia dei circuiti emozionali». 11.45 - 12.15 Claudio L. bassetti (berna), «ridere e piangere dal punto di vista neurologico». 12.15 - 12.45 Carlo Calanchini (Lugano), «emozioni e responsabilità. il punto di vista dello psichiatra forense». L’INteRvIStA zxy Lamberto maffei* «Nell’era della velocità io sto col pensiero lento» Alcuni buoni motivi per ragionare con più calma Il ricercatore Roberto Caldara spiega quali aree del cervello attivano le emozioni Un convegno al Monte Verità esamina i processi nervosi legati ai moti interiori Che il cuore sia la sede delle emozioni e il cervello delle idee è una visione popolare oggi messa a dura prova dalle neuroscienze. Rabbia, gioia, paura e sentimenti in genere – ci dicono gli scienziati – sono correlati a determinati processi nervosi. Anche se l’immagine non suona poetica, si direbbe che amiamo molto di più con la testa che con il cuore. All’intrigante tema «Emozioni e cervello. Fra libertà e controllo» è dedicato domani, sabato 18 ottobre, un simposio organizzato al Monte Verità di Ascona dalla Fondazione Sir John Eccles (vedi box a lato). Vi interverranno esperti di varie discipline scientifiche e umanistiche per animare insieme un dialogo sul mistero dei sentimenti visto dal cervello. Ne abbiamo approfittato per intervistare uno dei relatori, il professore di neuroscienze cognitive all’Università di Friburgo Roberto Caldara, protagonista negli scorsi anni di alcune scoperte sorprendenti che ci siamo fatti raccontare. Abbiamo visto, nel contributo di Roberto Caldara, in che modo il cervello produce reazioni emotive a determinati stimoli esterni (vedi articolo principale). Un altro scienziato, Lamberto Maffei, presidente dell’Accademia dei Lincei ed ex direttore dell’Istituto di Neuroscienza del CNR, ci racconta in che modo la frenesia dei nostri tempi agisce sui circuiti neuronali. In un mondo dominato dalla velocità e da una frenesia visiva e cognitiva che assume aspetti quasi patologici, il tempo sembra via via contrarsi: continuamente connessi, siamo chiamati a rispondere in tempi brevi a e-mail, tweet e SMS, ipersollecitati dalle immagini. Maffei è autore del saggio «Elogio della lentezza», che esplora i meccanismi cerebrali che inducono all’eccessiva velocità (Il Mulino, pp. 146, euro 12). «Il vecchio – vi si legge – non corre, la frenesia dei consumi si attenua o sparisce, e il pensiero vecchio sano si trasforma in quella saggezza che la società dei consumi spesso considera decadimento cerebrale». Siamo a colloquio con lo scienziato. E voi cosa avete fatto? «L’abbiamo testata nell’ambito delle espressioni facciali e abbiamo notato un risultato veramente interessante: quando le mostriamo delle immagini di espressioni facciali che sono statiche, come nelle fotografie sul giornale, lei non riesce a categorizzarle. Ma se le mostriamo dei film, quando le espressioni sono dinamiche, ce la fa». Cosa significa? «Significa che nel nostro cervello abbiamo delle regioni che trattano le emozioni in modo indipendente dall’identità. Quando riconosciamo qualcuno questo è il riconoscimento dell’identità. Bene, nel nostro cervello abbiamo un’area che riconosce l’identità, ma ci sono anche dei neuroni che lavorano sulle espressioni. Riassumendo: c’è un’area del cervello che riconosce l’identità delle persone note, e c’è un’area che riconosce i sentimenti e decodifica le espressioni quando vede qualcuno che è felice o triste o prova altre emozioni. C’è infine un’area che cerca di decodificare le emozioni quando sono statiche ed è molto legata all’area che riconosce l’identità. La signora in questione è stata danneggiata in quest’area». Dal suo osservatorio, come funzionano le emozioni? «C’è una parte biologica e c’è una parte che si apprende e si impara con l’esperienza. È per questa ragione che abbiamo trovato delle differenze culturali nell’espressione delle emozioni. Il fatto di riconoscere le emozioni è una cosa che si sviluppa attraverso gli anni. Per alcune emozioni non è così». Per esempio? «La gioia è molto facile da riconoscere. Anche a cinque anni i bambini hanno un riconoscimento di questa emozione che è paragonabile a quello degli adulti. La paura, invece, è molto più difficile da decodificare, anche se ci sono poche differenze di competenza tra un bambino di cinque anni e un adulto. L’emozione del volto neutro, invece, la si riconosce lentamente attraverso l’età. I bambini non ci riescono. Lo stesso vale per il disgusto. Insomma, qualcosa che noi facciamo nella vita di tutti i giorni in modo automatico e apparentemente facile, per il nostro cervello è un sistema complesso che necessita di tante regioni diverse che lavorano». SeRgIO CAROLI zxy Professor Maffei, può sintetizzarci i risultati delle recenti ricerche sul ruolo delle reti dei neuroni nella costruzione delle funzioni cerebrali? «Le funzioni cerebrali sono molte e tutte essenziali, a partire da quelle che regolano il movimento, le sensoriali, le cognitive, la memoria etc e quelle che regolano il metabolismo. Mi soffermerò solo su quelle delle quali mi sono occupato personalmente e cioè sui circuiti nervosi che regolano la plasticità. La plasticità è la proprietà del sistema nervoso di cambiare funzione e struttura, cioè le connessioni nervose e la densità delle sinapsi in risposta all’esperienza, in generale si potrebbe dire all’ambiente; lo studio dell’influenza dell’ambiente sul cervello diventa basilare. Le ricerche nel mio laboratorio hanno dimostrato sia negli animali che nell’uomo che stimoli opportuni come il massaggio nei neonati possono cambiare molte funzioni cerebrali accelerando la maturazione del sistema nervoso». Come si sviluppa la plasticità negli individui? «La plasticità è particolarmente sviluppata nel bambino. Diminuisce drasticamente nell’adulto e, ancora di più, nell’anziano. È stato dimostrato che stimoli fisiologici opportuni possono ripristinare parzialmente la plasticità sia nell’adulto che nell’anziano con ricadute importanti dal punto di vista clinico. Particolarmente, nelle malattie degenerative della vecchiaia. Ci si può domandare perché mai lo stimolo (leggi: ambiente) possa diventare terapia. La risposta che le ricerche hanno dato è semplice. L’organismo sotto opportune stimolazioni produce sostanze che agiscono da farmaci; è quella che chiamo farmacologia endogena». Lei scrive che il mondo moderno della fretta, degli spostamenti, dei consumi, della tecnologia, è portato «NON SI può ReStARe IN uN SOLO StAtO emOtIvO tuttO IL gIORNO» zxy Professor Caldara, se si danneggiano certe aree del cervello, non è possibile provare determinate emozioni? «Ci sono alcuni casi in cui le persone non provano più emozioni. In altri casi sparisce un’emozione specifica, come ad esempio la paura. Quindi sì, è possibile. Il nostro cervello è una macchina complessa ed è effettivamente vero che se subisce delle lesioni anche la nostra esperienza affettiva resta compromessa». Spesso si sente dire che avere un certo carattere, essere più o meno violenti o gentili dipenda in gran parte dalla genetica. È vero? «Non penso che sia stato dimostrato fortemente che le cose funzionino così. Bisogna essere molto prudenti con la genetica. Sovente si leggono articoli nei quali si sostiene che a dipendenza del nostro corredo genetico siamo così o cosà. Ma in realtà la genetica spiega pochissimo. Se parliamo anche solo del 5% si tratta di un grande risultato. Esistono 5 tanti lavori sulla genetica e gli psicopatici. Sarebbe bello poter dire: facciamo un prelievo genetico e capiamo se uno è un serial killer. Ma non funziona così. Anche su una patologia su cui si legge spesso, come l’autismo, la genetica spiega molto poco». Insomma, la genetica va presa con le molle. Invece, da quanto ci dice, il cervello spiega molte cose. Fino a che punto possiamo dire di essere liberi nelle nostre emozioni, nel provarle e nel controllarle? «L’uomo cerca di controllare le emozioni perché le emozioni ci servono per realizzare un dialogo sociale: ci servono a comunicare, a lavorare insieme, a funzionare insieme come animali sociali. Le emozioni sono, quindi, un segnale fortissimo per cose semplici e meno semplici. Fino a che punto siamo liberi? La domanda è molto filosofica e non appartiene al mio campo di indagine. La domanda forse dovrebbe essere diversa: CHE VERGOGNA! Un orientale imbarazzato. Sopra: il sorriso (universale) di un bimbo. fino a che punto siamo liberi di essere adattati al nostro sistema sociale? Una cosa è certa, non è possibile per una persona mantenersi in uno stato emotivo per un intero giorno. Su questo nessuno è libero: come diceva Sartre ‘‘esistiamo attraverso gli altri’’. Non è possibile essere costantemente arrabbiati o felici tutto il giorno. Resta vero che l’emozione è un veicolo di comunicazione che usiamo in maniera flessibile per essere degli animali sociali adattabili, per emanare dei segnali forti e non ambigui alle altre persone. Per questo usiamo dei muscoli del volto specifici per ogni emozione». Che fine fa la teoria psicanalitica in questo quadro? «Lei parla con una persona che fa neuroscienze. Ma le nostre ricerche possono essere intese come un’altra lettura delle emozioni rispetto a quella psicanalitica. In altre parole noi cerchiamo solo di dare una spiegazione cerebrale. Certo, anche noi possiamo individuare alcuni fenome- ‘‘ Ci sono filosofi convinti che non ci sia bisogno di un agente esterno per provare imbarazzo. Io però non ci credo: la vergogna nasce proprio in rapporto alla presunta reazione degli altri al cinismo sociale. Può esemplificare questo concetto? «Io mi soffermo a notare che nella società attuale si osserva una bulimia di consumi ed un’anoressia di valori. La fame di possedere, accumulare ed anche mangiare è diventata meccanismo di successo individuale, di potere mettendo in secondo piano il rispetto dell’altro, la solidarietà, la sobrietà e anche l’onestà. L’anoressia investe anche la cultura, diventata cenerentola degli interessi. Gli idoli del denaro e del consumo godono di molto favore, mentre sono morte o ammalate le muse della gioia del sapere, della scienza, della ricerca (almeno in Italia)». Quando Proust scriveva che «Il tempo è pura soggettività, si dilata nella nostra memoria a seconda dell’intensità emotiva con cui lo viviamo», anticipava il concetto, da lei espresso, che l’orologio cerebrale risulta complesso e variabile, a seconda, che sperimentiamo, ad esempio, gioia o dolore? «L’emozione, l’attenzione diventano variabili importanti nell’influenzare la percezione della velocità del tempo, come la stanchezza e la malattia e anche l’età. Nel cervello non esistono meccanismi che misurano il tempo in senso assoluto, orologi che scandiscono la misura temporale della nostra partiamo dai bebé Massaggiare i neonati accelera la maturazione del loro sistema nervoso ni che possono far pensare all’esistenza del subconscio. Ma non possiamo andare oltre. Sono due ambiti diversi. Noi siamo più vicini ai nostri dati misurabili, ai risultati, alla replicabilità dei nostri effetti, la psicanalisi è più una pratica, che può verificarsi efficace». Le emozioni dipendono dagli stimoli esterni o dalla propria struttura neuronale interna? «Anche questa è una domanda per filosofi. Io ho una mia personale idea. Recentemente ho assistito ad un dibattito filosofico sull’emozione della vergogna. Secondo il filosofo si tratta di un’emozione in cui non c’è bisogno di un agente esterno per sperimentarla. Io penso di no, perché la vergogna nasce proprio in rapporto alla presunta reazione della gente per quello che ho fatto. In generale mi sembra di poter dire che l’emozione nasca da uno stimolo esterno. Naturalmente dentro di me posso anche sentirmi in vergogna senza che nessuno vita se si escludono i ritmi circadiani (caratterizzati, cioè, da un periodo di circa 24 ore, n.d.r.) e altri meccanismi che regolano i ritmi metabolici. La misura del tempo è quindi soggetta al contesto dell’attività cerebrale dell’individuo. Non occorre soffermarsi su questo perché il tempo in certe situazioni emotive è diverso da certe altre». Perché ritiene che il mondo attuale abbia «un bisogno estremo del pensiero irriverente, diverso, originale, spesso creativo anche se non “crea” prodotti destinati al mercato»? «La globalizzazione ha portato a una globalizzazione del pensiero, per cui le persone tendono a pensare e anche a desiderare le stesse cose. Per i meccanismi prima discussi sulla plasticità ciò ha portato anche a cambiamenti simili nei circuiti cerebrali, essendo essi sottoposti a stimoli molto simili. Ho trattato altrove questo problema che ho indicato come ‘‘cervello collettivo’’, un cervello più simile negli individui della società globalizzata. Con cervelli e pensieri omologati si rischia di perdere il colloquio dialettico e democratico che è, io credo, la strategia della civiltà. Per questo il pensiero diverso, irriverente, diventa rilevante anzi prezioso, perché mette sul tavolo della discussione il diverso, quello che gli altri non pensavano o non osavano dire perché non facente parte del pensiero accettato, quello di tutti, il pensiero omologato. Il pensiero irriverente è necessario per tentare di creare il nuovo, sia nell’arte che nella scienza, che, oserei dire nell’etica». Pensiero rapido e «fast food» – lei scrive – sono uniti armonicamente perché il primo è generatore del secondo che, a sua volta, è servo fedele del primo. Può spiegare il nesso? «Non ho tempo, l’orologio corre, devo fare, incontrare colleghi: mangio un panino e scappo. Il nesso è evidentemente strumentale. L’offerta sul mercato del fast food diventa impresa economica redditizia per favorire la corsa che così può diventare più facile e anche più rapida con mete incerte come, dico io solo ironicamente ma non troppo, per affrettare il cammino verso la morte. Il pensiero lento differisce da quello rapido perché è sostanzialmente un pensiero statistico che raccoglie e considera le varie variabili di una certa situazione prima di prendere una decisione. La sua probabilità di sbagliare è certamente inferiore a quella del pensiero rapido». *presidente dell’Accademia dei Lincei già direttore dell’Istituto di Neuroscienza del CNR sia accanto a me. Ma resto convinto che l’emozione si crei da uno stimolo esterno». I suoi studi mostrano che le emozioni non sono universali. «No. Ci sono delle emozioni che non lo sono. La gioia quando si vince, per esempio, è uguale dappertutto. I bambini ciechi che non hanno mai visto un sorriso, sorridono. Ci sono quindi emozioni universali e che sono molto probabilmente di natura biologica. Ma non vale sempre e per tutto. Ci sono delle variazioni forti di cultura in cultura. E noi l’abbiamo dimostrato». Scusi l’impertinenza, ma quando un suo amico sorride, è triste oppure si arrabbia, lei pensa automaticamente che gli si è attivata una certa area del cervello? «Naturalmente no, la rassicuro. L’unica circostanza in cui ci penso è quando mi metto a fare degli emoticons, e tanto per cambiare uso quelli asiatici».