L’ALTRO BENESSERE. MULTISCAPES NARRATIVI E CONTAMINAZIONI INTERCULTURALI Rossella Rubino; Giuseppe Mininni Università degli Studi di Bari, Dipartimento di Psicologia [email protected] Introduzione La complessa produzione delle soggettività nell’”epoca delle passioni tristi” (Benasayag e Schmit, 2003) sollecita una speciale attenzione alla valenza situata e alle condizioni materiali dell’esperienza che ogni persona nella sua singolarità e ogni comunità nella sua specificità storica fa del mondo. Il costrutto di “benessere” è un rilevante banco di prova per verificare se l’articolazione psico-sociale ha nella “soggettività” una forma costitutiva epistemologicamente più solida e politicamente più efficace del discutibile ancoraggio all’”identità”. La complessità psico-sociale del vissuto di “benessere” può essere indagata facendo riferimento alle pratiche discorsive che, mediante procedure convenzionali riconoscibili, danno consistenza alla trama di credenze ed intenzioni, motivi ed emozioni propria di ogni persona (Wetherell, 2008). La ricerca psicologica sul benessere registra, negli ultimi decenni, una crescente consapevolezza della indisponibilità di criteri universali e dell’insufficienza di indicatori oggettivi per la valutazione della “vita di qualità”. Un tema così promettente per la psicologia per averne spostato il fuoco dall’elaborazione di “teorie del fallimento” verso la costruzione di “teorie del successo” (Bandura, 1998), in qualche modo ne segna anche il limite, perché spinge l’assetto tradizionale dello “psychological complex” a “ridistribuire” i suoi confini (Blackman et al., 2008). Le pretese di oggettività mutuate dal naturalismo male si adattano ad una ricerca, qual è quella sulla “buona vita”, che fa perno su valutazioni soggettive, essendo il benessere intrinsecamente connesso ai significati attribuiti agli eventi. 1. Intercultura e benessere La diffusa e operosa attenzione al tema del benessere cela sullo sfondo un problema epistemologico frettolosamente accantonato in un’epoca come la nostra in cui prevalgono i valori dell’adattamento funzionale, dell’efficacia, della produttività: come è possibile delineare una “scienza del benessere”? In che modo le culture di riferimento delle persone e delle comunità modellano ciò che “noi” possiamo sapere di quel che “esse” intendono quando dicono di “star bene”? Quali pratiche psico-discorsive contribuiscono a trasformare il “benessere" da possibile terreno di scontro in un luogo di incontro tra “noi” (ricercatori, occidentali) e “loro” (ricercati, altri)? 1.1. Un’apertura discorsiva alla psicologia positiva La ricerca psicologica sul tema del benessere può essere distribuita in due filoni principali, che fanno riferimento rispettivamente alla prospettiva edonica (Kahneman, Diener e Schwartz, 1999) e a quella eudemonica (Ryan e Deci, 2001). Se nella prospettiva edonica il benessere coincide con il piacere e la soddisfazione di vita, nella prospettiva eudemonica il benessere è associato a pieno funzionamento, crescita psicologica, integrità ed esperienza di vitalità (Ryan e Frederick, 1997), coerenza con sé stessi (Sheldon e Elliot, 1999), autorealizzazione (Ryff e Keys, 1995), ego development (Bauer et al., 2005; King e Raspin, 2004). L’approccio eudemonico valuta la personal expressiveness (Waterman, 1993), non trascura il concetto di esperienza ottimale o flow (Csikszentmihalyi, 1990), “operazionalizza” l’human flourishing misurando sei dimensioni (Ryff e Singer, 1998) o postulando tre fondamentali bisogni psicologici secondo la self-determination theory (Ryan e Deci, 2000). Per gli eudemonisti lo stare bene implica dunque attribuzione di significato all’esistenza e raggiungimento di livelli più alti di complessità e integrazione di quel significato nel perseguire obiettivi rilevanti per il singolo e per la società (Bauer e McAdams, 2004; King, 2001). E’ in questo moltiplicarsi di contributi e riallacciandosi ai filoni umanistico ed esistenziale e alla psicologia transpersonale, che la “psicologia positiva” si propone di valorizzare risorse e punti di forza degli individui (Seligman e Csitksentmihalyi, 2000), promuovere lo sviluppo individuale (Seligman, 2002), favorire l’empowerment sociale (Peterson e Seligman, 2004), addestrare all’ottimismo (Delle Fave, 2007). Ma la sensazione del benessere è necessariamente esposta alle turbolenze del confronto sociale tra gli interessi e le passioni che dominano la vita comunitaria, in quello spazio relazionale in cui “gli uomini agiscono e parlano direttamente gli uni agli altri” (Arendt, 1958: 133), “mostrano chi sono” (ivi, 130), prendono iniziative secondo un “principio del cominciamento” che è un altro modo di dire “il principio della libertà” (ivi, 129), dal quale le persone attingono una suprema sensazione di “ben-essere”. Le “forme di vita” (Mininni 203) dell’azione e del discorso assegnano alla “ricerca della felicità” una chiara dimensione politica, chiamando in causa, “in maniera del tutto nuova rispetto al passato, la responsabilità dei ricercatori e i loro criteri etici” (Armezzani, 1999: 28). Poiché una psicologia sociale discorsiva (De Grada e Bonaiuto, 2002) adotta pratiche di comprensione che hanno come presupposto la costruzione dialogica e contestuale del senso, ne deriva l’adesione a un orientamento idiografico che la impegni a cogliere i fenomeni nella loro singolarità (Mininni, 2008). Si tratta di una singolarità complessa, composta da chi li produce discorsivamente e, insieme, dal ricercatore che concorre nel farli emergere come oggetto di ricerca e li interpreta alla luce della sua peculiare sensibilità, in un regime di molteplice contestualità. 1.2. La dimensione culturale del benessere L’interpretazione del benessere soggettivo è saldamente ancorata all’insieme di pratiche, di credenze e di valori, con cui una determinata comunità umana è portata a identificarsi. Di solito, nella ricerca psicologica, la cultura quale cornice di riferimento viene evocata come supporto capace di legittimare una visione differenzialista. Il costrutto del “benessere” (soggettivo e personale) ha attratto prevalentemente lo sguardo della psicologia interculturale (Antonelli, 2007), che mira a individuare le variazioni (modulate come somiglianze e differenze) nel sistema dei significati attribuiti dalle persone all’esperienza della vita quotidiana etichettabile come “star bene”. Nel complesso, tale prospettiva cross-culturale tende a validare l’ipotesi secondo cui le culture individualistiche dell’Occidente hanno una concezione del benessere (e del malessere) psicologico differente dalle culture collettivistiche dell’Oriente (Anolli, 2004). Diverso è l’interesse riconoscibile nello sguardo di una psicologia culturale del benessere mirante a verificare, caso per caso, la specifica derivazione di una particolare costellazione di significati da una serie continua di processi di mediazione che le persone realizzano all’interno di varie “comunità di pratiche”. Gli interrogativi che hanno guidato la nostra indagine sul “benessere” non si inscrivono nella tradizione teorico-metodologica della ricerca cross-culturale, bensì in un orizzonte di comprensione volto a evidenziare la costruzione discorsiva del benessere, ricavabile nel quadro della proposta teorica finemente argomentata da Mantovani (2004) e tesa a superare la visione “reificata” della cultura come categoria “id-entitaria” a favore di una concezione “discorsiva” e “narrativa”, che ha il non marginale vantaggio di contrastare l’etnocentrismo inerente a ogni automatica contrapposizione “noi” vs ”loro”. Se si assume piena consapevolezza del fatto che l’attuale condizione umana è caratterizzata da “intercultura”, cioè dall’elaborazione locale di flussi globali in una dinamica inarrestabile di attraversamenti di confini, allora anche il senso del benessere è proiettato in una più intensa dinamica di negoziazione. 2. Il benessere di chi? La nostra indagine sul benessere si colloca in una prospettiva fenomenologica (Armezzani, 1999) specificata da alcuni assunti costruzionistici inerenti alla psicologia discorsiva e culturale (Mininni, 2007): non ci interessa misurare il costrutto di “benessere personale”, ma comprenderne la matrice di intenzionalità, rintracciandone le pratiche di costruzione di senso. Intanto, perché interpellare i migranti? Anzitutto, per dare spazio a una voce negata. Invero la rappresentazione sociale che di essi circola nel parlare comune tende a rinchiuderli in un vissuto di disagio personale e collettivo. Inoltre i discorsi dei migranti sono una testimonianza viva della natura aspirazionale del benessere, come condizione di sfondo su cui si staglia la figura sempre un po’ mossa del vissuto quotidiano. In sintesi, i migranti incarnano la condizione di “exotopia” (Bachtin, 1988), in cui tutti siamo come “costretti” a disancorarci e a “navigare a vista” nei rapporti con gli altri, annusando il soffiare dei venti degli stereotipi e l’ingolfarsi dei marosi dei pregiudizi, anche quando cerchiamo di dire quel “benessere” che “noi” stentiamo a condividere con le “loro” aspirazioni. 2.1. L’interazione di ricerca Nell’invitare alcuni lavoratori immigrati a “raccontare” il loro benessere, il nostro scopo era quello di aggiungere voci alla pluralità di contributi raccolti sulla “qualità della vita”. Non avevamo una precisa ipotesi di partenza ma, facendo riferimento all’”etnografia del caso singolo” (Abu Lughod, 1991), eravamo spinti dalla curiosità verso la speciale abilità con cui ogni soggetto nella pratica comunicativa si posiziona attingendo in modo flessibile alla propria enciclopedia del mondo e alla storia delle proprie esperienze. Il gruppo dei collaboratori alla ricerca è composto da 8 maschi e 5 donne immigrati a Bari, in grado di esprimersi in italiano. L’età li colloca nella fascia dell’arco di vita dei giovani e degli adulti, cioè tra 24 e 50 anni. Essi sono stati scelti in base al criterio (di convenienza) di essere in una qualche relazione di conoscenza con l’intervistatrice (Rossella Rubino), criterio che ha attenuato il rischio di ridurre le persone alla loro funzione di “informatori”, quasi che le “informazioni” fossero estraibili indipendentemente dalla situazione di ricerca e dalla qualità dell’interazione. Avendo ottenuto l’assenso a riportare i loro nomi, ce ne serviamo soprattutto per richiamare il loro Paese d’origine: Svetlana (Ucraina), Luminiza e Roxana (Romania), Ien (Cina), Karim (Algeria), Taysir (Palestina), Salvatore, Stefanos e Milash (Eritrea), Giraud (Camerun), Orge (Cuba), Lucy (Canada), Paul (Inghilterra). La loro occupazione li descrive, nell’ordine, come tre badanti, una proprietaria di un negozio di abbigliamento, un addetto alla cucina in un pub, un operatore culturale, un tappezziere, un barista, uno studente/lavoratore di architettura, uno studente-lavoratore di agraria, un massaggiatore, due insegnanti di inglese. In genere l’ampiezza temporale della loro condizione “interculturale” - da tre settimane (Roxana) a 27 anni (Taysir) - correla con il grado di padronanza della lingua italiana, che è servita da veicolo di realizzazione dell’intervista. Chi è in Italia da meno tempo fa più fatica ad esprimersi, anche se mostra chiaramente di aver compreso il significato delle singole domande e il senso complessivo dell’evento linguistico in corso. Chi è ormai radicato nella comunità barese si prende perfino il lusso di un dire allusivo. Come procedura di indagine abbiamo utilizzato l’intervista narrativa perché riteniamo che essa consenta di valorizzare la formulazione personale del benessere soggettivo (cfr. anche Bauer et al., 2006). L’intervista è stata condotta in modalità “semistrutturata”, in quanto le fasi iniziali e finali sono state lasciate libere di autorganizzarsi in base alle mutevoli circostanze del contesto situazionale, avendo però cura di porre, in una fase ritenuta centrale, la domanda essenziale, più o meno negli stessi termini: “Allora che cosa è il benessere secondo te?” o “Quello che mi interessa sapere è cosa vuol dire per te stare bene”. Le interviste in genere cominciavano con uno scambio rivolto ad acquisire indicazioni circa l’età, il luogo di provenienza, le ragioni del trasferimento in Italia. Dopo l’invito a definire il concetto di benessere e a descrivere un’immagine o un’esperienza di benessere, le domande specificavano di volta in volta ambiti diversi (famiglia, amici, lavoro, media) cui riferire la propria idea di buona vita. Nonostante la ricorrenza delle sollecitazioni da parte dell’intervistatrice, i dati discorsivi esibiscono andamenti differenti, ora raggrumandosi attorno a imprevisti nuclei tematici, ora disperdendosi lungo il fluire dei ricordi personali. In alcune interviste ha trovato ampio spazio la narrazione della storia della propria migrazione, il richiamo alle ragioni di questa e alle modalità con cui è avvenuta, in altre tale riferimento è quasi assente. Nella fase preliminare alla realizzazione delle interviste abbiamo incontrato alcuni significativi rifiuti. La ricercatrice che con imbarazzo ha raccolto le risposte infastidite vi ha letto talvolta uno sguardo sospettoso verso l’innocente presupposto della ricerca, che, definendo una condizione “oggettiva”, inesorabilmente marcava una differenza. Così pure chi ha accettato di collaborare pareva accomodarsi nella definizione di “immigrato” che gli era ritagliata addosso: la definizione veniva accolta e confermata, rilanciata, ad esempio proprio attraverso l’uso del pronome “noi” riferito alla dimensione “etnica”, senza avvertire la necessità di specificare (cfr. estratti 1 e 2). 2.2. Il benessere tra “noi” e “loro” L’interazione di ricerca induce già un’operazione non neutrale di categorizzazione, un implicito riferimento ad una asimmetria e ad una diversità culturale, un invito a selezionare un abito del paese di origine, cooperativamente messo a fuoco durante lo svolgersi dell’incontro. Invero il nocciolo della questione della cultura sta nella distinzione tra sé e gli altri: "Culture is the essential tool for making other" (Abu-Lughod, 1991, 143). E’ per questa ragione, e per gli aspetti di potere di cui le relazioni sono permeate, che sarebbe giusto battersi “contro la cultura” nelle sue connotazioni più problematiche, quali “homogeneity, coherence, and timelessness" (ivi, 154), mettendo piuttosto a fuoco “connessioni e interconnessioni” che riguardano la situazione particolare, incluso lo stesso ricercatore. Durante le nostre interviste, la definizione iniziale delle identità in gioco e dei reciproci ruoli, veniva in qualche modo alleggerita durante lo svolgersi della conversazione e nei “passaggi” di attività: nel “prima” e nel “dopo”, nell’impaccio della ricercatrice, negli aspetti enunciativi meno controllati da parte dell’intervistato, negli accordi presi a microfono spento (“…allora una mattina andiamo a correre insieme”). Qui la distanza si accorciava, i riferimenti si complicavano di nuovo e altri abiti, abitudini e definizioni erano, forse, per fortuna, rimessi in gioco. Nelle voci dei migranti è possibile cogliere quel lavoro di integrazione tra ancoraggio culturale e flusso esperienziale che richiede un incessante adattamento delle molteplici e variabili risorse della testualità sociale alle esigenze di strutturazione dell’identità personale. Tale lavoro di costruzione, manutenzione, mutamento continuo e mai definitivo di equilibri che configura il sé come struttura plurale e disunivoca coinvolge oggi sia i migranti che le comunità di accoglienza. Nell’era della circolazione globale, delle relazioni virtuali e dell’esperienza transidiomatica, i processi di ibridazione e sincretizzazione (Gillespie, 1995) tra cultura di origine e cultura ospite non sono nella sostanza dissimili dai processi di integrazione di risorse e di costruzione di comunità mediate e despazializzate, in cui gli individui sono diffusamente coinvolti. 3. Dar conto della storia di sé L’incontro con i migranti ha confermato l’assunto dell’estrema variabilità delle interpretazioni soggettive del benessere. In sintonia con “la confutazione della misura universale della felicità” operata dalla psicoanalisi (Recalcati, 2007: 88), i testi delle interviste ai migranti espongono forme molto differenziate di costruzione del loro vissuto di benessere – benessere che viene definito talora per viam negationis, (sottolineando la distanza tra l’asprezza delle condizioni di vita reale), altre volte individuando momenti e dimensioni presenti nella vita quotidiana. I racconti si dipanano diversamente, a cominciare dai motivi della migrazione e dalla prospettiva adottata per parlarne. Le storie possono essere collocate lungo un continuum che va dalla passività di chi ha “subìto” la migrazione da bambino alla scelta personale, maturata nel tempo e a seguito di vicende dolorose. Spesso la storia è finalizzata all’emergente definizione dell’idea di “buona vita” (cfr. estratti 3-5). 3. 1. Distendere l’asse temporale e spaziale Nel caso specifico della loro esistenza qua “migranti”, il benessere viene enunciato come un profilo della memoria e/o della speranza in un futuro riconciliato con le proprie radici: i legami famigliari, le relazioni di appartenenza, i sentimenti di mutuo riconoscimento. Lo si intuisce chiaramente, ad esempio, dal modo anche contorto con cui Svetlana (Ucraina) tenta di identificare un momento in cui ha provato sicuramente benessere (cfr. estratto 6). Ella rievoca il giorno in cui ha annunciato ai suoi compagni di lavoro la volontà di partire: la scoperta del loro disappunto di allora, così come l’attuale richiesta circa il suo eventuale ritorno la fanno “sentire bene”, perché le danno l’opportunità di percepirsi valorizzata da una comunità. Il ben-essere di sé che Svetlana dice è tessuto di incertezze enunciative (e non solo a causa della scarsa padronanza della lingua italiana): lei si specchia nell’immagine sdoppiata degli altri “scioccati che io voglio andare da altra parte” e “contenti che io… qualcosa cambia della mia vita” e trova motivi di benessere nella sua capacità di fronteggiare tale situazione paradossale. Nel racconto di Ien (Cina) l’esperienza del benessere si ramifica tra il ricordo di un passato pieno di speranze, la “nostalgia di un presente” che non si è potuto realizzare ma che sembra attuale (“vedo un bel futuro”), e la tensione verso il futuro, espressa mediante una successione di desideri, espressi curiosamente al passato (“volevo”). Il presente reale ha luogo in un tempo troppo veloce per poter soddisfare i desideri di socialità e di riposo che compongono la sua idea di buona vita. E’ veloce in confronto al tempo biologico, perché Ien invecchia senza trovare un marito cinese e senza riuscire a creare un rapporto di intimità con un fidanzato italiano. E’ veloce in relazione alla dimensione temporale in cui i suoi genitori continuano a vivere simbolicamente. Il concetto di benessere non solo è rapportato a diverse dimensioni temporali, ma si dispiega nello spazio. Nelle parole di Ien (Cina) la presenza della coppia oppositiva “in mio paese” / “di fuori” e alcune ricorrenze lessicali tradiscono il senso di perdita rispetto ad una condizione ideale efficacemente sintetizzata in “esco diverti spende lavori” - che è collocata in un luogo fisico, “una città moderna” della Cina dove “adesso si sta benissimo”, contesto immaginario della piena realizzazione di sé (cfr. estratto 7). Anche nel racconto di Paul, insegnante di inglese di 48 anni e in Italia ormai da 17 anni, le ragioni del trasferimento, così come sono ricostruite nella narrazione, si sovrappongono in qualche misura alla sua idea di benessere. E’ un nucleo tematico che, sorprendentemente, consiste in un dato fisico, ambientale, in condizioni atmosferiche: “Sì il caldo che per me è una cosa molto importante”. A fine intervista emerge improvvisamente un ricordo limpido ricostruito non solo con vividezza di immagini, ma persino nei dettagli sonori. Il racconto fatto tutto d’un fiato appare ad entrambi, intervistatrice e intervistato, un momento quasi liberatorio (“eccola qua, is it ok?”) . La locuzione “da quel momento” si ripete tre volte, a segnalare un vero punto di svolta: le emozioni provate devono essere state così intense da orientare il corso di tutta una vita (cfr. estratto 8). In un'altra narrazione l’idea di benessere è collocata in un luogo fisico con tanta acqua: un fiume e due mari. Svetlana, la badante ucraina che aveva tanto pianto prima dell’intervista e si scioglie in lacrime anche durante il suo svolgimento, alla fine racconta con sorrisi, piccole risate e un tono di voce che diventa acutissimo e melodioso, che “E’ come qui vicino Bari mare c’è mare anche vicino nostra città fiume grande fiume Dnepr chiama Dnepr…eh…questo come una bella cosa …dove è possibile andare con familia per riposare” (cfr. estratto 9). In questa intervista sono gli aspetti non verbali che accompagnano la descrizione, più che le scelte linguistiche, a trasmettere una emozione forte. I luoghi richiamati, le attività che vi si svolgono (svolgevano) sembrano far parte di una geografia interiore della felicità. 3.2. La risorsa religiosa Una peripezia casuale nella fase di avvio dell’intervista con Ien ci ha convinto dell’opportunità di chiedere se i nostri collaboratori fossero “credenti” o meno. Da quel momento in poi a tutti è stata posta una domanda concernente l’appartenenza a una comunità religiosa, nell’ipotesi che una professione di fede possa costituire una risorsa di senso capace di orientare il vissuto personale verso la percezione di un’armonia (col) trascendente e di legittimare i legami socio-culturali fra le persone. Anche sotto questo profilo le reazioni sono state molto variegate: dal rifiuto esplicito -“sono atheist cento per cento” (Paul)-- all’adesione più convinta --“sì sì sono molto credente” (Luminiza). Tuttavia, la strategia più ricorrente consiste nel personalizzare il senso della propria esperienza religiosa: “sì diciamo cioè si chiama un credente moderato (Karim) / “ un po’ sì non sono praticante un po’ credente (Taysir) / “ma sinceramente non mi credevo un gran che per me Dio esiste e mi aiuta ma è dentro cioè” (Ien). Un esempio particolarmente illuminante di tale tendenza alla personalizzazione della professione di fede è dato dall’adesione solo auspicata alla fede bahai (Stefanos) [cfr. 23]. Il benessere è ancorato a precetti: alcuni non sono seguiti in modo rigoroso (come la preghiera), altri sono rispettati adattandoli al contesto, ad esempio non facendo riferimento alla moschea per effettuare le donazioni. Karim (Algeria) mette in pratica rigorosamente il digiuno nel Ramadan, attribuendogli un profondo significato esistenziale. Da altre narrazioni emergono singolari modalità di riconoscimento dell’appartenenza religiosa, in cui è presente una importante dimensione di scelta e rielaborazione personale. In generale, il rapporto con la tradizione nelle parole degli intervistati prende la forma di un processo di risignificazione delle cose etniche secondo percorsi sorprendenti. Karim, nel riferire l’importanza che la musica ha nella sua vita in Italia, dà conto della sua attività creativa nel recupero di radici poetiche e musicali (cfr. 24). 3.3. L’appaesamento dei legami Migrare vuol dire abbandonare non solo luoghi, ma soprattutto persone. Spesso il ricordo delle persone care apre l’intervista (cfr. estratti 10 e 11) o ricorre ripetutamente come sostanza dello stare bene e dello stare male, al punto da prevalere sullo sforzo di astrazione richiesto dall’intervistatrice. Invitata a definire il benessere, Svetlana (Ucraina) replica in modo inatteso rispetto alla prevedibile meccanica interlocutoria, quasi che il peso della mancanza irrompesse fino a deformare la conversazione: ”Io voglio stare coi miei fili questo io voglio prima di tutto che qualcosa cambiare in Ucraina” (cfr. estratto 12). Stefanos, in Italia da ventisei anni, solo a fine intervista si abbandona a descrivere una mancanza che egli vive come una “menomazione” (cfr. estratto 13). In quel regime speciale che è conferito loro dalla lontananza nel tempo, apparentemente innocui, i ricordi dell’infanzia sono generalmente rievocati richiamando particolari minuscoli e sono espressi con una intensa partecipazione emotiva, rivelata non solo dalla frequenza dei sorrisi, ma anche dal minore controllo esercitato sull’accuratezza della produzione linguistica o sul ritmo dell’eloquio. Carichi di una forte dimensione valoriale, spesso descrivono modelli di relazione familiare (cfr. estratto 14). Riguardo al multiforme costrutto del benessere, le informazioni più interessanti ci vengono consegnate in forma di piccoli frammenti: descrizioni di attività ordinarie, di progetti perseguiti con testardaggine, di interessi “locali”. Lo stare bene sembra essere questione di dettagli (cfr. estratti 1519), capaci però di ricomporsi in una tensione all’”appaesamento”, che può essere resa dalla strategia retorica della contrapposizione. Ad es., Milash, studente eritreo di architettura che lavora saltuariamente come interprete di lingua tigrina, fa fatica a “sentirsi a casa”, non riesce a raccontare uno stare bene locale. Definisce in chiave politica la sua condizione di migrante per spiegare/si il senso di disagio che prova. Il principale nucleo tematico dell’intervista sta nell’opposizione tra l’integrazione e la non integrazione (come status giuridico diverso da quello dagli italiani che comporta la compressione di diritti e di possibilità) che caratterizza la sua condizione attuale. La passata (e, prevedibilmente, idealizzata) condizione di integrazione, in Eritrea, è un “film bellissimo” (cfr. estratto 20). Orge (Cuba) è in Italia da otto anni, ma solo da uno a Bari. Del benessere parla usando la prima persona plurale nel confrontare due diverse concezioni: quella dei cubani in cui egli si riconosce, per i quali ”questa felicità è poca è la famiglia o ballare la salsa” e quella degli italiani. Orge ha vissuto sette anni in Sardegna, per sopravvivere ha “dovuto fare il gigolò” e attualmente lavora come massaggiatore in un elegante centro benessere della città: un luogo architettonicamente interessante, con un una luminosa piscina sotterranea, frequentato da clienti che, come si dice a Bari, appunto “stanno bene”. Ma, nonostante le differenze rinvenute tra italiani e cubani, Orge, rispondendo ad una domanda rivoltagli circa l’eventualità di ritornare a Cuba, esprime attraverso l’idea di un duplice ritorno il sentimento di una appartenenza plurima (cfr. estratto 21). Significativamente, nelle interviste effettuate il tema dello sfruttamento e/o della precarietà del lavoro è completamente assente. Compaiono altri aspetti, ad esempio l’autonomia, la qualità delle relazioni umane e la soddisfazione che il lavoro procura quando è “amato” e ben fatto (cfr. 22). 4. In-conclusione Sensibili alle circostanze di produzione (co-produzione) dei testi, pur nella consapevolezza che il ruolo del ricercatore in generale nell’interazione di ricerca e in particolare nello stesso andamento delle narrazioni possa offrire ulteriori e nodali spunti di approfondimento, abbiamo preferito concentrare la nostra attenzione sulle retoriche dei racconti (Tedlock, 1983): dalle scelte relative agli ambiti esistenziali cui riferire la propria idea di benessere da parte del narratore, alle scelte lessicali, ai centri deittici, ai punti di riferimento che egli stabilisce nel tempo e nello spazio. Dell’esperienza dello stare bene abbiamo inteso cogliere, secondo la felice intuizione di Bachtin, “l’espressione che la organizza”, agganciando la plausibilità di certi vissuti di “ben-essere” all’attivazione di un qualche principio in grado di giustificarli. La precarietà della sensazione di benessere deriva forse anche dal suo inevitabile ancorarsi all’ordine del discorso, specialmente in condizioni di contiguità tra contrasti. Dalle interviste realizzate sembra emergere, anche quando vi siano ragioni di sofferenza e persino di disadattamento, l’espressione di uno sforzo di “appaesamento” come investimento, in termini di significato e di valore, degli spazi in cui si spende parte della vita (cfr. Signorelli, 2000: 292). I racconti non esprimono solo la lontananza da un dove, di sovente trasformato in stereotipo, che dava consistenza al fare “mente locale” (La Cecla, 1993). Appare esserci un attivo reinsediamento in un luogo astratto, sospeso, “della nostalgia e della presenza” allo stesso tempo. Qui lo stare bene prende forma nelle piccole attività quotidiane come sensibilità al contesto, come attraversamento e rielaborazione non solo dei luoghi fisici ma anche dei paesaggi simbolici di provenienza e di arrivo in forma di risignificazione della tradizione e delle pratiche di fede e di applicazione delle risorse immaginative alle “esperienze vissute localmente” (Appadurai, 1996). Sottoposti a una prima Analisi del Discorso, i testi delle interviste ai migranti esibiscono una raffigurazione mossa dello stare bene, che ne distribuisce il senso in una molteplicità di paesaggi interiori, così da far meglio capire a “noi” che per “loro” l’esperienza è tanto più complessa perché “la risata e il pianto insieme è quello il benessere" (Karim). Ogni traiettoria di vita definisce un proprio percorso singolare nell’intento non solo di cogliere una sensazione così sfuggente come quella del benessere, ma anche di rendere comprensibile e, magari, condivisibile, il “loro” desiderio di disseminare tra “noi” fragili attese di speranza di un mondo più giusto e di una vita più degna. Riferimenti bibliografici Abu-Lughod L. (1991), Writing Against Culture, in Fox R. G. (ed.), Recapturing Anthropology: Working in the Present. Santa Fe: School of American Research Press, pp.137-162. Anolli L. (2004), Psicologia della cultura, Bologna: Il Mulino. Antonelli E. (2007), "L'approccio interculturale allo studio del benessere soggettivo", Psicologia sociale, 3, pp. 451-484. Appadurai A. (1996), Modernity at large. Cultural dimensions of globalization, Minneapolis: University of Minnesota Press. Arendt H. (1958), The human condition, Chicago: University of Chicago Press. (tr. it. Vita activa, Milano 1975: Feltrinelli). Armezzani M. 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Estratti 1) …noi che siamo abituati a lavorare (Ien, Cina); 2) …il rispetto… come si dice da noi per chi ha visto la luce prima di te (Giraud, Cameroun) 3) Eh…non è stata decisione mia è stata di mio genitore perché voleva un’altra figli purtroppo in nostro paese c’è questa legge che non poteva fare più di uno e… (Ien, Cina) 4) Allora sì io sono arrivato in Italia nel ’93 praticamente era il periodo del terrorismo in Algeria ancora ho lasciato l’Algeria per diversi motivi per decisione di un amico mio che faceva chimica poi hanno ammazzato un altro che era giornalista dopodichè ho iniziato a pensare di lasciare tutto (Karim, Algeria) 5) Per me il benessere è…cioè soprattutto stare in pace con se stesso e con gli altri e poi il benessere è una… secondo me è una base che uno costruisce piano piano nel tempo durante la propria vita che dipende sia della tua cultura le sue tradizioni del suo vissuto e anche e pure per esempio prima non avevo questa immagine, non faceva parte del mio benessere parlo del materiale soprattutto…però piano piano ho imparato che anche il materiale aiuta…e... a trovare il benessere ma non soltanto cioè soprattutto la salute stare in buona salute quella è la cosa più immediata dopo la salute vengono le altre cose il lavoro impegnare il tempo nel senso giusto stare bene con gli altri stare in pace …..e quello è il benessere cioè la risata e il pianto insieme è quello il benessere e pure quando piange il bambino significa che sta in buona salute non è che deve sorridere sempre quella non è una cosa normale per me questo è cioè il benessere c’ha… è tutta una traiettoria che parte da meno infinito a più infinito non da zero a più infinito soltanto non è soltanto positivo ma ci sono dei momenti di dolore che ti formano nel futuro cioè riesci a…sviluppi…come se fosse come se fosse un sistema immunitario che… che sviluppi durante la formazione vitale penso che questo è il benessere soprattutto (Karim, Algeria). 6) Intervistatrice: Allora facciamo una cosa più semplice prova a ricordare una situazione in cui sei stata bene Svetlana (Ucraina): In Ucraina? Intervistatrice: Sì, prova a descrivermi… Svetlana (Ucraina): Ah ecco non lo so come un giorno…io penso che quando io già parlato quando io stavo ancora lavorando è già ultimo giorno che nessuno voleva che io lasciato lavoro che tutti scioccati che io voglio andare da altra parte proprio…però come adesso anche come chiamano quando tu torni Intervistatrice: E questa era una bella giornata…te la ricordi come bella? Svetlana (Ucraina): Perché sì… come contenti che io … qualcosa cambia della mia vita boh non lo so… questo come eh…come non va bene che io ho lasciato che… i miei fili come… 7) a. Ien (Cina): ….…perché quando ere piccole non ho mai immaginato di arrivare in punto di oggi cioè non ho mai pensato di andare in un altro paese non ho proprio in programma perché noi stavamo bene là cioè vedo un bel futuro perché comunque in Cina si stava sviluppando voglio fare grandi cose un grande successo sai…di essere intelligente di essere in gamba…poi siamo venuti qui è tutta un’altra cosa 7) b. Ien (Cina): Sì sì…per me stare bene innanzitutto avrà un lavoro tranquillamente in senso che…si lavora come si deve si prende un stipendio sufficiente e c’è un tempo di riposo perchè vedi per me la mia situazione sto sempre incasinata cioè troppo confusione troppo responsabilità troppo… 7) c. Ien (Cina):……quindi mi sono incastrata perché loro voglio che io per forza sposa il più presto possibile perché sono già troppo grande ho 25 anni in Cina diciamo è già una età abbastanza preoccuparti perchè loro sono rimasti ancora con una mentalità di venti anni fa qui invece ormai ognuno deve stare bene e poi…capito cioè loro stanno ancora con mentalità antiche 7) d. Intervistatrice: Allora questa…e se dovessi dirmi una immagine di benessere…la prima immagine che ti viene in mente… Ien (Cina): Momentaneamente volevo avere una famiglia e…volevo avere la casa e tranquilla che devo dire…non…cioè…amiche cioè volevo avere più amiche e fare volevo fare una vita una vita normale come fosse in mio paese Intervistatrice: In che senso? Ien (Cina): Cioè quando siamo venuto qui abbiamo cambiato il valore della vita…abbiamo perso….non siamo più un…umano siamo…come devo dire…abbiamo cambiati dobbiamo lavorare solamente per fare una vita normale ci siamo persi invece quan…infatti tutti immigrati diciamo non ritrova più lui stesso ha perso amici famiglia i gioia… Intervistatrice: Ma che cosa… Ien (Cina): Asp…come devo d…non ci riesco a spiegare queste frasi perché…vedi io che sto da tanti anni non usciva non ho amiche non ho possibilità economicamente dobbiamo stare sempre stressando per pagamento per vivere non è come sto in mio paese io in mio paese sto bene cioè capito? esco diverti spende lavori…invece quando siamo venuti qua abbiamo paura dobbiamo sempre lavorare stiamo sempre su un livello agitato perchè non sa domani cosa accaderà (accellera) eccetera eccetera A questo punto l’intervistatrice si avventura incautamente nell’uso di marcatori ipotetici del ragionamento controfattuale ai quali viene risposto con uno slittamento in un imprescrutabile futuro. Intervistatrice: Perché tu pensi che rimanendo in Cina la vostra vita quotidiana sarebbe stata diversa? Ien (Cina): Non posso risponderti queste domande perché il futuro nessuno sa cosa accadrà. Io è stato sempre per lamentare questa vita che ho fatto di fuori perché dovrebbe essere molto meglio di nel mio paese mi so spiegata questa frase? 8) a. Paul (Gran Bretagna): Io sono venuto Italia in ‘91. Per due anni odiavo Bari, odiavo italiani, odiavo questo posto, l’unico cosa che mi è piaciuto è la clima… era…. bellissimo… questi giorni qua adesso…(indica il cielo) blue skies eccetera eccetera 8) b. Paul (Gran Bretagna): Beh io ricordo l’estate del 76 c’era molto molto caldo, faceva caldo anche a Londra…a Londra che mi piace da morire. Io avevo 17 anni Intervistatrice: Ah Paul, ma tu sei di Londra? Paul: Eh Intervistatrice: E cosa era bello? Il caldo? Paul (Gran Bretagna): Sì il caldo, che per me è una cosa molto importante. No venticinque anni sono stato a Londra, con la pioggia, la nebbia, la mattina buio, la sera buio, però io ricordo nel ’76 c’era questa estate favolosa, non c’era ancora il cambiamento del…global warming, però…ok poi?” 8) c. L’intervistatrice aveva già spento il registratore. Lo riaccende: “Paul (Gran Bretagna): Forse ti ho già detto…in 1974 sono arrivato qua a Bari avevo 15 anni ho lavorato tre o quattro settimane in Inghilterra per fare queste vacanze sono venuto qua per stare con la mia zia ho passato una settimana a Viale Salandra al suo appartamento poi ho passato una settimana che secondo me è la settimana più bella della mia vita all’hotel Castellinaria vicino Monopoli e da quel momento a 15 anni con la sabbia il mare che non so… ha cambiato adesso però in ‘74 non c’era niente qui a Bari…. e da quel momento da quando mi sono messo sull’aereo che mi portava a casa mi ho detto devo tornare a vivere in questo posto il cibo…le donne…il sole…il jukebox…c’è un jukebox nel bar ho sentito tutta la settimana due canzoni una di Pink Floyd e una di Drupi è questo il mio ricordo da quel momento ho deciso che un giorno dovevo venire qua o a lavorare o almeno provare. Eccola qua. Is it ok? 9) Intervistatrice: Che si fa…si passeggia sulle rive? Svetlana (Ucraina): Sì sì certo… (sorride molto mentre parla) anche non molto lontano un’ora e mezza è possibile andare uno mare e da altra parte altro mare Intervistatrice: E si può fare il bagno? Svetlana (Ucraina): Sì certo… come qui vicino mare anche posso dire nostra città non lontano da mare Azov e mare Nero Intervistatrice: E nel fiume anche si poteva fare il bagno? Svetlana (Ucraina): Anche fiume si fiume proprio vicino a città proprio…proprio 15 minuti quando dove io abitata in città 15 minuti io già vicino fiume Intervistatrice: E tu facevi il bagno? Svetlana (Ucraina): Sì certo…(ride) però strano (il tono di voce diventa acuto) che qui a Bari tante persone stanno vicino mare e nessuno non può nuotare (il suo tono di voce diventa ancora più acuto. ride) questo davvero strano che tutta vita vive vicino mare e non possono nuotare come paura acqua…(ride con una voce sottilissima) 10) Intervistatrice: Chi hai lasciato in Romania? Roxana (Romania): Tutta mia famiglia. Mio genitori mio nonni mio fratelli sorelle mio bambino Intervistatrice: Il tuo bambino che età ha? Roxana (Romania): E’ piccolo ha tre anni e mezzo 11) Svetlana (Ucraina): In Ucraina ho lasciato due fili maschi uno di 19 anni e più piccolo 17 anni mama padre….fratello sorella… grande familia non piccola familia 12) a. Intervistatrice: Allora cosa è il benessere secondo te? Svetlana (Ucraina): (ride) Io voglio stare coi miei fili questo io voglio prima di tutto che qualcosa cambiare in Ucraina…un po’ meglio vita stanno in Ucraina…. però non lo so forse quando non cambia niente forse io dopo più tardi prendo miei fili in Italia boh non lo so, non lo so... 12) b. Intervistatrice: Allora a questo punto voglio chiederti le parole che usate in ucraino per dire “stare bene”, “io sto bene” S. (Ucraina): (una lunghissima frase non in italiano) R. Che cosa hai detto? S. (Ucraina): Io non sento felice perché io lontano da familia…(una frase ancora più lunga non in italiano) io non sento assai felice perché io lontano da mia familia e dai miei fili 13) Stefanos (Eritrea): … per quanto poi mi riguarda io mi sento anche menomato da una parte affettiva dei parenti genitori degli amici qua incontro molti miei connazionali che però li incontro e poi qualcuno se ne va cioè non c’è quel rapporto che può dare…io ho amici di venti trent’anni fa…ho sempre dei contatti e quando vedo torno là sono sempre appagato dal ritorno dall’incontro…con i miei zii cioè è questo che ti manca e questo che è chiaro influisce sul benessere psicologico… 14) a. Giraud (Camerun): Una situazione semplice me la ricordo ancora…è una…quando facevo…la terza elementare mio padre comunque era un dipendente statale chi …eh…era orgoglioso cioè non voleva che i suoi figli…eh….faccero? Intervistatrice: Facessero Giraud (Camerun): Facessero…sì certe cose e noi cioè da piccoli mio fratello…mio fratello e io….passavamo il tempo…. Intervistatrice: Fratello più grande o più piccolo? Giraud (Camerun): Più grande… passavamo il tempo a vendere delle caramelle….a scuola (lui ride in modo contagioso)…il giorno in cui i genitori lo hanno appreso cioè hanno saputo di questa attività….già loro non hanno detto niente ma sono i fratelli che ci hanno detto ma ragazzi queste cose non le potete fare così così così cioè siamo rimasti…un po’ male e il bello è che quelle caramelle sono state consumate dai più grandi alla fine (ride lui e io pure) una cosa un po’… ci arrabbiamo sì ma alla fine… Intervistatrice: E quindi i genitori prima si sono arrabbiati…. Giraud (Camerun): …Si sono arrabbiati e poi loro non hanno più detto niente…sono i fratelli grandi che hanno cercato di risolvere questo… Intervistatrice: E’ molto interessante questo racconto…e che cosa c’è…che cosa trovi di bello in questa storia? (ridiamo) Questa relazione con i fratelli o con i genitori o tutto l’insieme? Giraud (Camerun): Mhh…. questo…questa….come posso dire….mmhh…questa…questo rispetto….questi gradini della famiglia…che vengono rispettati…visto che i fratelli stavano cioè erano presenti… i genitori hanno espresso il loro….cioè il fatto che loro non erano contenti dell’attività che noi facevamo e poi i fratelli grandi hanno preso la responsabilità di risolverlo senza che i genitori alzassero la mano per….dirci che non era buono Intervistatrice: E questo rapporto gerarchico tra fratelli è una cosa che avviene… Giraud (Camerun): Sì sì in un modo spontaneo…cioè l’educazione è questo alla fine…ci sono tante situazioni molto molto ma molto belle che esprimono o che spiegano questo… Intervistatrice: Il senso di protezione reciproca? Giraud (Camerun):…il rispetto come si dice da noi per chi ha visto la luce prima di te…per chi è nato prima di te 14) b. Taysir (Palestina): Quello in cui mi sentivo diciamo più tranquillo a volte capitava che il giovedì sera che qui equivale al sabato sera si poteva fare tardi che il giorno dopo non si andava a scuola di inverno fuori non si può uscire piove pure la stufa quelle col carbone no? la legna quindi i fratelli più grandi di me con i miei genitori giocavano a carte e…io ero là a spiare, a divertirmi diciamo così a spiare le carte di ciascuno eh… Intervistatrice: Che gioco di carte facevano? Taysir (Palestina): No è un gioco nostro…è un gioco….è un po’ complicato 14) c. Lucy (Gran Bretagna): …il momento più bello era quello…era il weekend si usciva insieme sempre ogni sabato si dedicava…i miei si dedicavano a noi si doveva fare shopping ma così ti dico tutti questi malls tipo Auchan perché lì si comprava nella zona e passeggiare però li si usa più andare in questi centri commerciali e quella è la cosa più bella aspettare il sabato per uscire insieme stare tutti e quattro insieme… è bello. 14) d. Karim (Algeria):…di di benessere? Sì per esempio a casa quando mi ricordo a casa quando mangiavamo insieme nello stesso piatto c’erano…pure per esempio quando non c’erano giocattoli cercavamo di costruirli a mano con cose semplici e poi soprattutto… soprattutto c’è l’andare d’accordo con tutti quanti i membri della famiglia i fratelli la mamma le sorelle…da piccoli si è stabilito un rispetto verso gli altri per me questo è importante e poi la salute soprattutto cioè quando vedi che tutti gli altri stanno in buona salute ti senti anche…ci sono dei momenti di benessere e poi cioè dico sempre che pure il lato materiale se vedi che gli altri cioè tutti i membri della famiglia tutti quelli a cui vuoi bene stanno cioè lavorano, c’hanno uno stipendio e… questo mi fa stare bene sinceramente 15) a. Paul (Gran Bretagna) Well being per me, no… visto che well being …per me è questione di avere un lavoro, una casa fisso, e….stabilità… e poi basta e poi… uno deve avere un po’ di……… Intervistatrice: …moglie figlia…? P. (Gran Bretagna): Moglie figlia eccetera eccetera…. e poi avere anche una questione di …eh…di…le cose personali. Per esempio, cantare. Intervistatrice: Ah, cantare?! P.(Gran Bretagna): Eh sì. 15) b. Paul (Gran Bretagna): Gli ultimi vent’anni ho lavorato per la British School e mi sono scocciato mi sono scocciato del metodo di insegnamento e adesso vorrei fare qualcosa per me voglio fare qualcosa per i bimbi italiani di sei anni yes English for special purposes so… voglio fare una cosa, voglio fare una cosa alternativa non voglio fare la stessa come abbiamo fatto noi e per me in questo momento questo è il mio scopo io sono fissato con questa cosa non posso pensare ad altro 16) Intervistatrice: Che cosa fai quando tu cerchi di stare bene? Roxana (Romania): Voglio parlare con…miei amici…voglio…stare…un po’ anche sola per pensare cosa devo fare in questa vita…mi piace camminare (ride per un momento con un sospiro) tutto bene camminare con le piedi…divertire no…non mi piace 17) Luminiza (Romania): Sì sto lavorando all’uncinetto per esempio Intervistatrice: E questa è una cosa che ti piace? Luminiza (Romania): Sì sì sì, mi sono trovata qua questa… Intervistatrice: Perché prima non lavoravi? Luminiza (Romania): No qua ho trovato questo……… Intervistatrice: …passatempo Luminiza (Romania): Passatempo, questo… per esempio adesso ultimamente ho fatto una tovaglietta diciamo un centrino per la chiesa di san rosario qua la madonna…. Bello 18) Intervistatrice: Ma tu che attività fai nel tempo libero? Ien (Cina): Allora prima non faceva niente adesso invece…tempo libero? A parte tempo libero non c’è la sera andiamo io sto andando a scuola di ballo eh così conosco più gente è anche un’attività fisc…fiscale? Fisicare…fisica …. Intervistatrice: E ti diverti a fare il corso di ballo? I. (Cina): Sì sì sì sì sì…mò da morire anche se vedi i miei genitori non vogliono tanto perché dice che già ti stanchi più che vai là fai sera tardi loro non avevano capito proprio la vita non ha costruito solo lavoro bisogna anche rilassare .... Intervistatrice: No aspetta ancora una domanda… che tipo di balli fai la sera? Ien (Cina): Balli caràibici balli nel gruppo…diciamo 19) Salvatore (Eritrea): Corro. Vado a correre a Parco 2 giugno. Vado la sera alle otto e mezza…Sì correre mi piace 20) Milash (Eritrea): Io sono nato in Eritrea e sono venuto qui quando ero ragazzino quindi mi consola almeno che stanno questo perché io in Eritrea sono stato benissimo. Lì è una società che comunque ero… integratissimo cioè è vero è normale perché è il mio paese però ho vissuto bene ho vissuto fino a 12 anni non so ho un bel ricordo proprio che non vorrei mai…se potessi…se potessi…ci fosse…diciamo un film…se potessi…se fosse registrato …lo rivedrei mille volte 21) Orge (Cuba): Bè…noi…il benessere per noi….è un’altra cosa è un’altra cosa completamente diversa da questa di qua perchè qua come vedi il benessere è un’altra cosa può essere che ne so prendere sole andare in palestra tutte queste cose per noi il benessere è un’altra cosa di là del sole oppure della felicità….è una cosa che c’è dentro…vuol dire che siamo abituati a sognare forse invece abbiamo l’opportunità di guardare dentro no? per noi questa felicità è poca è la famiglia o ballare la salsa… Orge (Cuba): …ritornare? magari sì se c’è l’opportunità caspita chi dice no…però…mi piacerebbe ritornare per tornare perché ormai… sono anche cittadino di qua di Italia così sì…mi piacerebbe…no per sempre però…eh! 22) a. Intervistatrice: Se parliamo del lavoro, cosa ti fa stare bene nel lavoro? Salvatore (Eritrea): Nel lavoro? Completare il lavoro, migliorare una cosa, trasformare….che dalla struttura di legno realizzo un divano o una sedia…questo mi fa stare proprio bene 22) b. Intervistatrice: Nel lavoro, oppure nello studio, cosa vuol dire stare bene? Giraud (Camerun): Vuol dire stare bene secondo me è non trovarsi nelle condizioni in cui cioè non trovarsi si dice…. oppresso?...dal datore di lavoro parlo del caso del lavoro non dello studio di essere libero di portare il compito che ti è stato affidato in un modo libero cioè avere…guadagnato almeno questa questa fiducia da chi…dal datore di lavoro che ti permette di esprimerti meglio perché essendo sempre controlato magari aspettando sempre che la gente ti dica cosa fare non è una situazione abbastanza piacevole anzi…regressiva secondo me per soprattutto le attività commerciali nelle quali sto lavorando 22) c. Paul (Gran Bretagna): Fare esattamente Io voglio fare solo un lavoro che mi piace e non voglio essere comandato: devi fare così, devi fare così devi fare esattamente quello che… 22) d. Intervistatrice: Tu qua che lavoro fai? Orge (Cuba): Sono massaggiatore…però va bè ogni massaggiatore ha una cultura diversa…questa cultura spirituale capisci che se parla attraverso le mani c’è gente che parla con la bocca noi parliamo con le mani ma…bisogna avere cuore no?…io lo definisco così…amare non te dico neanche lavoro amare questo che fai va bè se ti ricompensano per quello che fai è una cosa bella però per essere più felice bisogna amare…il lavoro amare…il lavoro se non lo ami eh allora non va bene 22) e. Karim (Algeria): Sì sì sì lavoro sempre in cucina penso che il fatto di stare bene o male nell’ambiente di lavoro c’entra molto con il personale e pure con il datore di lavoro se se nell’ambiente si crea un’amicizia penso che qualsiasi lavoro pesante diventa più più sopportabile questo è quello che mi è capitato a me nel posto di lavoro il posto dove sto adesso cioè non è che si trova dappertutto è una fortuna che ho avuto che sia i datori di lavoro che gli altri colleghi cioè siamo amici 23) a. Intervistatrice: Come ti chiami…e se vuoi dare delle informazioni… Ien (Cina) Ma il nome veri? Intervistatrice: Il nome di battesimo… Ien (Cina) …sinceramente noi non abbiamo battesimo, quindi… Intervistatrice: Ah già… Ien (Cina): Giustamente… e va bè il nome vero è Ien Intervistatrice: Perché tu non sei credente Ien (Cina): Non è che non sono credente siamo un popolazione molto religiosi quindi non abbiamo nato con quei religioni fissi che tu lo puoi anche scegliere tra 10 anni e quindi no…se sei cristiano sei buddista molto più buddista perché siamo comunque paese orientali però il fatto che quando c’avevamo guerra poi guerra no? è entrato queste religioni nuove cristiano (.?.) e si sono sviluppati infatti io sono cristiana evangelica Intervistatrice: Ah sì? Ien (Cina): Ma sinceramente non mi credevo un gran che per me Dio esiste e mi aiuta ma è dentro cioè. 23) b. Karim (Algeria): …per questo dicevo per esempio il mese di digiuno è importante perché alcune volte siccome lavoro in cucina si perde il senso del sapore delle cose cioè assaporire le cose penso che il mese di digiuno mi fa recuperare il sapore delle cose anche cose semplici perché quando uno poi digiuna dalla mattina alla sera…quella sensazione di fame ti fa sviluppare il senso del…del…di come si dice di gusto è per questo dicevo io ci tenevo ci tengo ancora perché ho imparato molto dal digiuno anche cose semplici anche l’acqua che per molte persone non ha significato è una bevanda e basta per me ha un senso vitale… Intervistatrice: Perché durante il Ramadan non si beve neanche? Karim (Algeria): No no cioè dall’alba al tramonto no…nessun legame con lo stomaco nessun legame esteriore con lo stomaco… e questo per me ha un messaggio profondo il senso del digiuno e pure dicevo prima il digiuno insegna alla persona che ci sono dei momenti di bisogno che tu hai bisogno di qualcosa anche se c’è l’hai in mano però non devi avere subito pronto cioè devi un po’ come si dice stancarti…questo. 23) c. Karim (Algeria): ….25 per mille su mille che devi donare ai poveri di solito li danno in moschea però per esempio io vedo cioè conosco delle persone che stanno senza lavoro e hanno bisogno alcuni pure con la famiglia tipo un amico mio iracheno con moglie e la figlia lui abita qui cioè fa dei lavoretti la moglie lo stesso e quindi cioè conosco persone che hanno bisogno e dò direttamente a queste persone queste sono le cose che rispetto però per esempio la preghiera no cioè non prego sempre… 23) d. Stefanos (Eritrea): Io sono credente sì ma sono credente a modo mio. Non è che sono cristiano. Sono cristiano di nascita. Non pratico…non mi sento cristiano mi sento invece di un’altra fede anche se non faccio parte di quella fede…non appartengo a quella fede però mi sento…condivido le idee di quella fede…che è la fede baha’i. Intervistatrice: Ah…e questo che ruolo svolge nella sua vita? St. (Eritrea): Nessuna…nessuna…perché è una mia condizione personale e me la gestisco da me leggo i libri baha’i…qualche volta ho avuto anche degli incontri però…per diventare baha’i ci sono certe condizioni che tu…le condizioni di vita devono andare in parallelo con la fede…ma io sono escluso già in partenza…se non aderisco alla fede baha’i è per questo motivo…cioè uno come me non può aderire alla fede perché c’ha dei comportamenti diversi. Nel momento in cui io diventerò al cento per cento anche nella vita reale nel modo di comportarmi al modo baha’i allora apparterrò alla fede baha’i 23) e. Orge (Cuba): No … sono cattolico… però sono cattolico…mi hanno battezzato ma l’ho fatto obbligatoriamente perché mi mettevano uno due giorni in galera a Cuba ogni volta che veniva un italiano amico mio e niente abbiamo deciso di questo che è sempre un (.?.) a Dio lo stesso alla fine uno dice Dio Allah che me son salvado come si dice è sempre lo stesso…è un albero che Dio è le foglie e le radici sono le religioni e la terra cos’è? E’ l‘amore…… 24) Intervistatrice: Tu canti musica tradizionale…popolare? Karim (Algeria): Allora sì sono canzoni tradizionali che canto solo che due o tre pezzi ho cambiato il testo cioè l’ho cambiato totalmente anche perché due testi tradizionali non me li ricordavo bene mi ricordavo solo l’inizio ho deciso di cambiare tutto il testo l’ho fatto ascoltare agli altri membri del gruppo e loro sono stati contenti li abbiamo provati e adesso li stiamo suonando Intervistatrice: Cambiato il testo…ma in un testo arabo o un testo italiano? Karim (Algeria): Non no è arabo sempre però è piaciuto al gruppo e pure c’è gente araba che l’ha ascoltato e gli è piaciuto alcuni è capitato che tre o quattro arabi vivono a Bari sanno il testo originale tradizionale però è piaciuto pure il testo che abbiamo fatto noi totalmente cambiato anche il tema è cambiato però la musica è rimasta… Intervistatrice: Per esempio il tema originale di queste come era e come è cambiato? Karim (Algeria): Allora per esempio c’è un pezzo che facciamo noi che in realtà quando… quando il testo originale era un testo di innamoramento di un ragazzo verso una ragazza e…e diceva il testo era tutto romantico diceva oh stella mia del giorno a che ora a che ora appari a che ora scompari aspetto sempre il tuo…la tua tramonto e tutto un discorso però si tratta di innamoramento tra un ragazzo e una ragazza io l’ho fatto cambiare in un testo un po’ religioso nel senso di chiedere perdono alla mamma e pure chiedere perdono a chi con chi ho sbagliato e a Dio questo è praticamente un è diventato più un come si dice un testo spirituale.