MOTIVAZIONE DELLA GIURIA per il testo vincitore della I edizione del Premio CO_scienze Il testo di Francesco Feola ha intensi contenuti drammaturgici e una qualità di scrittura fluida, capace di stemperare la serietà dell’argomento trattato - i problemi della contaminazione da radioattività e del rischio incidenti in centrali nucleari poco sicure come Cernobyl - in un’ironia lieve e corrosiva, cifra dei dialoghi e del monologo interiore del protagonista: un ingegnere nucleare italiano, scapolo incallito e un po’ cinico, che subirà un’inattesa “metanoia” dopo una missione che gli cambierà per sempre la vita. Il collegamento alla scienza diventa così un basso continuo ma anche un pretesto per andare oltre, al cuore della sostenibilità non solo dell’ambiente, quanto delle relazioni umane, con un finale spiazzante che merita una messa in scena con un protagonista di calibro ed una regia adeguata. Lotteria nucleare, di Francesco Feola Personaggi: un uomo sulla cinquantina Un sottoscala, arredato spartanamente con una branda, un tavolo, un fornello da campeggio. Sul tavolo un pentolino e delle verdure - Vedi, le dico, puoi stare anche tutta la vita seduta su una sedia di uranio impoverito e non ti succederà niente. Lei mi guarda e mi dice: - secondo me tu sei pazzo. 1 Stiamo da un’ora seduti al tavolo e il cameriere non ci degna di uno sguardo. Allora decido di bruciarmi anche l’ultimo argomento di conversazione, quello che mi riservo sempre nel caso che la tipa mi invita a salire da lei. È il mio asso nella manica. Quando funziona. Alle donne fa sempre un’ottima impressione sapere che fai un mestiere pericoloso. In realtà io passo la mia giornata ad una scrivania. Il rischio più grande è che la sedia si ribalti mentre mi dondolo. Ma a loro faccio credere che gli ingegneri nucleari sono esseri capaci di domare le forze della natura. Questa qui però è una che non ci casca tanto facilmente. Insisto. - Vedi l’uranio impoverito non è pericoloso, sono i giornali che terrorizzano le persone con notizie esagerate. - E allora i soldati italiani che sono morti al ritorno dal Kosovo? chiede lei. - Beh, che c’entra, quelli se lo sono respirato. È diverso. - Fammi capire, puoi stare seduto tutta una vita su una sedia d’uranio ma non lo puoi respirare? Per fortuna appare il cameriere che ci chiede che cosa vogliamo. Io ordino spaghetti al pomodoro, lei con le vongole. Anche stasera partirà un cinquantone, penso. Mi sale la rabbia e decido di passare all’attacco. - Non sarai mica una di quelli che appena sentono la parola nucleare se ne scappano con le mani nei capelli gridando o mio dio o mio dio. Le faccio. - E tu non sarai mica un fanatico convinto che gli scienziati sono infallibili. Sì. Lo penso. Ma se glielo dico questa si alza e se ne va. Cinquanta euro buttati al vento. In quel momento squilla il telefono. Dall’altra parte c’è l’ingegner Pravettoni in lacrime. Non piange, è la sua voce normale. Dice che c’è un’emergenza a Cernobyl. La Repubblica ucraina si è rivolta al governo italiano. Hanno paura che il sarcofago che racchiude i resti del reattore numero 4, quello dell’incidente del 1986, possa cedere da un momento all’altro. Sarebbe una catastrofe che supera ogni immaginazione. Mezza Europa ridotta a un deserto. Ripete come un ossesso la parola task force e vuole che ci vada anch’io. 2 - Ma non è pericoloso? Chiedo. E vedo che la stronza sorride con la testa nel piatto. La mattina dopo sono sull’aereo che mi porterà verso il sarcofago. Un nome più sfigato non lo potevano trovare. Potevano chiamarlo scrigno, cassaforte, corazza. Ma non sarcofago. Che cos’è un sarcofago? Una bara. Solo un po’ più elegante. Una bara di lusso nella quale sono sepolti i resti della centrale Lenin. Era il 1986. L’esperimento cominciò la mattina del 26 aprile. I tecnici della centrale volevano fare una prova. Vedere se in caso di blackout totale riuscivano lo stesso a produrre la corrente elettrica che serve ad azionare i sistemi di controllo. Quelli che impediscono che salti tutto in aria. La mia vicina di posto mi guarda con gli occhi sbarrati. Capisco che è sensibile al fascino dello scienziato che affronta il fuoco a mani nude. - Ma lei lo sa che una centrale nucleare è come una pentola a pressione? La sua aria si fa sempre più perplessa a mano a mano che l’aereo accelera. Insisto. - Vede, la centrale nucleare si basa su un meccanismo molto semplice. Dico sul serio. Lei sa cos’è la radioattività? Noo? Bene. Facciamo che questo panino è un atomo di uranio. Dove l’ho preso? Che domande. Sottoterra. In una miniera. Un pezzo di uranio, formato da miliardi e miliardi di atomi uno attaccato all’altro. Pensi che in una briciola ci sono dieci miliardi di atomi. L’atomo di uranio, come tutti gli atomi, è fatto così: c’è un nucleo attorno al quale si muovono gli elettroni e il nucleo a sua volta è formato da protoni e neutroni, più un’altra serie di particelle. Vede, le faccio, i nuclei sono come le famiglie. Ci sono quelle più unite e quelle meno. In quelle meno unite basta una cavolata perché le particelle, cioè le persone, si separino. È così anche per i nuclei. Quelli che tendono a dividersi sono chiamati radioattivi. L’uranio è uno di questi. Dunque, se contro un nucleo di uranio viene sparato un neutrone, il nucleo si divide in due parti. E quando si divide in due parti, che succede? Che si formano due nuovi nuclei. Più le briciole. Nel caso del nucleo familiare le briciole sono i cocci dei piatti che si rompono. Nel caso del nucleo di uranio sono raggi vari, altri neutroni e calore. Il calore prodotto da queste particelle in 3 movimento. A questo punto scoppia la reazione a catena. Perché i neutroni che si sono liberati vanno a colpire i due nuclei appena formati, che si dividono in due liberando altri neutroni, ognuno dei quali va a colpire i due nuovi nuclei appena formati che si dividono andando a liberare altri neutroni, ecc. ecc. Mi segue? Mi guarda e sorride. Ce l’ho in pugno. Prendo coraggio e vado avanti. - In tutto questo casino, siccome ogni divisione - i fisici la chiamano fissione - si libera calore, alla fine si produce una quantità enorme di calore. Allora i fisici, che sono persone intelligenti, hanno pensato: ma se io faccio avvenire questa reazione nucleare dentro un’enorme pentola d’acqua che succede? Che l’acqua si riscalda, bolle, diventa vapore acqueo. E se io incanalo questo vapore ottengo un getto caldo potentissimo, un phon gigante con il quale far girare una turbina. E la turbina quando gira che fa? Produce energia elettrica, né più né meno di una dinamo di bicicletta. Tutto qua. A lei sembra normale aver paura di una pentola? Mi guarda con l’aria spaventata mentre l’aereo si alza da terra e la pressione ci incolla ai sedili. Avrà una trentina d’anni. Forse qualcuno di più. La pelle chiara. Un viso d’angelo incorniciato dai capelli biondi. Molto carina. Quando l’aereo smette di salire e comincia a viaggiare in quota le chiedo: - Le interesserebbe visitare una centrale nucleare? Ma mi accorgo che ha chiuso gli occhi e si è addormentata. Insomma, per farla breve resto per tutto il viaggio in silenzio. Ogni tanto mi giro per vedere se ha aperto gli occhi, ma niente. Mi agito un po’. Apro e chiudo il tavolinetto davanti a me. Faccio rumore ma non serve a niente. Immobile come una statua. Dorme profondamente. Si sveglia soltanto quando il pilota annuncia che stiamo atterrando. - È andato bene il viaggio? le chiedo. Mi guarda e sorride imbarazzata. - Parla poco poco italiano. Chi se ne frega, oramai siamo scesi dall’aereo e devo cercare chi è venuto a prendermi in aeroporto. Ci sarà senz’altro una macchina del governo penso e in quell’istante vedo due soldati con un cartello in mano. C’è il mio nome scritto sopra. In macchina nessuno mi rivolge la parola. Siamo io, i due soldati e un tipo vestito in 4 giacca e cravatta ma dall’aria militare. Provo a sorridere ma nessuno ci fa caso. Chiedo: - Dov’è l’hotel?, al che uno dei soldati si gira e ridendo ripete all’altro hotel, hotel. Nel frattempo la macchina inizia a sussultare. Sussulta sussulta finché il motore si spegne. Il soldato alla guida bestemmia e accosta al ciglio della strada. Ogni due bestemmie pronuncia la parola Cernobil. - Sta dicendo che è colpa di Cernobil. Come tutti. Si rompe il trattore? Colpa di Cernobil. Si ammala un bambino? È stata Cernobil. Tua moglie ti tradisce? Ringrazia Cernobil. Sorpresa: il finto civile parla italiano. - In realtà, la colpa è dei soldati. Si fregano la benzina. Oggi ne devono aver presa troppa. Ci tocca proseguire a piedi. Siamo su una strada di campagna. Le Tod’s da duecento euro affondano nel fango. Cerco di camminare sui talloni ma è peggio, affondo di più e il fango finisce sul risvolto dei pantaloni. Maledico questi stronzi di soldati e cerco in tasca un fazzoletto per pulirmi. Il finto civile me ne porge uno. - Perché non fa una telefonata? chiedo al finto civile. - Non c’è campo, mi dice. Ma se anche ci fosse lui non ha il telefonino, tagliato via insieme agli stipendi. Vorrà dire che ci vado a piedi all’aeroporto, penso. E in quel momento i cespugli si aprono e dai rovi spunta il testone di Giovanni Calvizzano. Insegniamo nella stessa università. Abbiamo studiato insieme. Ci abbracciamo e ci baciamo. Abbiamo le lacrime agli occhi. Noi italiani siamo fatti così. Mezza giornata all’estero e ci viene la nostalgia della terra natia. - Calvizzano, anche tu qui? Lo seguo e mi ritrovo in una base lunare piantata in mezzo al bosco. Un villaggio di casette quadrate di alluminio e vetri specchiati. Sul tetto antenne paraboliche grandi come una piazza. Le costruisce un’azienda giapponese. È incredibile. Prova in un qualunque angolo della terra a pronunciare la parola radiazione. Un istante dopo spunta una squadra di giapponesi con il loro 5 equipaggiamento. Prendono la persona colpita, la fanno sdraiare dentro un macchinario, la analizzano e la fotografano. Poi mandano i dati in Giappone, per confrontarli con quelli degli hibakushi - hibakusha o come cazzo si chiamano loro... I sopravvissuti alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Il collega Calvizzano mi fa vedere il laboratorio. Dobbiamo studiare la gravità delle fughe radioattive che escono dalla bara, cioè dal sarcofago. All’epoca dell’incidente non fu possibile spegnere la reazione nucleare all’interno del nocciolo del reattore. Nessuno sapeva come si faceva. Del resto non lo sa nessuno nemmeno oggi. Si decise allora di costruire tutt’attorno al reattore distrutto una struttura di acciaio e cemento armato. Per imprigionare la radiazione. Il sarcofago appunto. Il problema è che il reattore era pericoloso. Molto pericoloso. Non ti potevi avvicinare per più di un minuto senza rimanerci secco. Ve l’immaginate un cantiere in cui gli operai arrivano, piantano un chiodo e poi devono correre via per non rimanere stecchiti? Lì l’hanno fatto. Ma non bastava. Per fortuna ci sono i robot. Li programmi e gli fai fare quello che vuoi. Saldare i pannelli d’acciaio. Versare il cemento nelle casseforme. Piantare i pali. Disgraziatamente anche i robot finivano stecchiti. Dopo un po’ cominciavano a muoversi come tanti soldati ubriachi e si spegnevano. Le radiazioni bruciavano i circuiti. Alla fine le giunzioni del sarcofago sono venute imprecise. Le varie parti non coincidono perfettamente. È come una bara chiusa male. Esce la puzza. Anche se sembra che la radiazione non puzza, anzi profuma. Ho sentito dire che a Cernobil dopo l’esplosione c’era un buon odore nell’aria, come nelle giornate di pioggia. Ma forse è una stronzata. - Senti Calvizzano dammi un paio di giorni e ti trovo qualcuno che questo lavoro di merda lo fa al posto nostro. Un robot giapponese, un giapponese giapponese, un russo-ucraino del cazzo. Insomma qualcuno all’infuori di noi. Calvizzano mi guarda: - Ma sei matto? La task force rientra nella cooperazione tra il nostro governo e quello ucraino. La mattina dopo Calvizzano mi mostra l’equipaggiamento. Ci viene a prendere lo stesso finto civile del giorno prima. I soldati sono diversi. Anche il finto civile indossa una tuta protettiva. È agitato come il mare in tempesta. Si accende una 6 sigaretta dopo l’altra. E ad ogni accensione rischia di darsi fuoco alla barba. Guarda fuori dal finestrino come se fosse l’ultima volta. - Coraggio amico sai quante ne ho visitate io di centrali nucleari? E sono ancora qui. Non è che se ti becchi un po’ di radiazioni muori. E che cavolo. Certo, aumentano le probabilità che un giorno ti verrà un tumore. Ma tanto ti verrà lo stesso con tutte le sigarette che fumi. Siamo arrivati al limite della zona rossa. Dobbiamo scendere. Ci guardiamo, ci infiliamo il casco protettivo e andiamo verso la centrale. Io vado avanti di corsa. Voglio arrivare per primo al sarcofago. Mi accorgo che il contatore di radiazioni che ho addosso ha cominciato a pulsare più velocemente. Siamo arrivati sotto al sarcofago. Nessuno ci ha fermato. A vederlo così non sembra pericoloso. - Ha proprio l’aria di una tomba. Una tomba alta trenta metri, dico ad alta voce. - Questa è una tomba, mi fa il finto civile, dentro c’è il cadavere di Valeri Kodemchuk. Si trovava nella sala comandi al momento dell’esplosione. Mi gira la testa. Anche perché questa tuta non lascia passare l’aria. Mi volto e vedo Calvizzano con i suoi centotrenta chili di scienza addosso che arranca. Non oso immaginare il caldo che fa dentro la sua tuta. Non gli dico niente perché sono una persona tranquilla, ma mi verrebbe voglia di dirgli: - Sei contento ora? Il nostro governo..., la task force..., gli aiuti. Loro parlano ma siamo noi due che ci ritroviamo a passeggiare sotto il mostro. Ha già tirato fuori la strumentazione dalla borsa e così ci mettiamo a fare rilevamenti. Una giornata ad annotare i numeri. La sera ce ne torniamo nel nostro cubo alla base lunare. Siamo distrutti. Durante la notte Calvizzano mi chiede in continuazione se per caso non ho freddo. Ci saranno quaranta gradi, altro che freddo. Quando ci svegliamo mi viene da ridere: Calvizzano è diventato nero. Sembra che il giorno prima abbia passato una giornata al mare. Si è fatto nero dalla testa ai piedi. Una bella abbronzatura uniforme. Intensa. Non ha nemmeno il segno del costume. All’improvviso capisco. È l’abbronzatura nucleare. La chiamano proprio così. Viene dopo che si è stati esposti a una dose di radiazione troppo elevata. A 7 differenza di una normale abbronzatura l’abbronzatura nucleare non se ne va. Anzi, scende in profondità. Dopo aver bruciato la pelle brucia gli organi interni. Non lascia scampo. Guardo Calvizzano e gli dico: - Mi sa che dobbiamo cercare un medico. Non mi risponde. Comincia a vomitare. Il giorno dopo lo viene a prendere un’ambulanza che lo porterà ad un aereo speciale. Gli dico: - Tranquillo, in Italia ti cureranno per bene. Ma lo sa anche lui che la cura non esiste. L’unico rimedio alle radiazioni è non prendersele. La sindrome acuta da irradiazione dura quattordici giorni. E non c’è niente da fare. - Si potrebbe tentare con un trapianto di midollo, mi fa il finto civile mentre guardiamo l’ambulanza che si allontana. È molto dispiaciuto per Calvizzano e vorrebbe che si salvasse. Poi ci pensa un po’ e dice – Mi ricordo che al tempo di Cernobil venne un professore americano, uno specialista dei trapianti. Non se ne salvò nemmeno uno. Lo ringrazio per l’incoraggiamento e me ne vado. La mattina sono di nuovo sotto al sarcofago. - Come sta? Mi giro. Un viso d’angelo mi sta fissando. La riconosco subito. Per queste cose ho una memoria da elefante. È la biondina dell’aereo. Resto per un po’ a guardarla. Giusto per essere sicuro che non sia un’allucinazione. Mi fa cenno di seguirla. E io vado. Come si dice, ogni lasciata è persa. Guida come una pazza. Non guida male per essere una donna. È la velocità che mi preoccupa. Spero solo di non star rischiando per niente. Lungo la strada non c’è anima viva. Per un istante penso che sono finito dentro una storia di fantasmi. Di zombie. La biondina non è altro che un vampiro che ha preso sembianze umane per trascinarmi nella sua tana, dove altri vampiri banchetteranno col mio sangue. Del resto la Transilvania non è poi così distante. Un brivido mi sale su per la schiena. Che scemo, guarda cosa vado a pensare. Mi sono messo paura da solo. 8 La guardo e anche lei mi guarda col suo sorriso dolce. È fatta. A questo punto l’ho in pugno. Serve giusto il tocco finale. Calare l’asso di briscola. La centrale nucleare. - Ma che è venuta a fare sotto la centrale? Lo sa quello che rischia? Alza le spalle e mi guarda come per dire: boh? Lo so che il governo non vi ha mica informati. Che vi hanno detto? Che si è trattato di un incidente? Ma quale incidente. Si ricorda come funziona una centrale nucleare? C’è una reazione a catena che manda in ebollizione l’acqua. Ecco, ma la reazione a catena dev’essere continuamente tenuta sotto controllo, imbrigliata. Si deve fare in modo che solo un certo numero di nuclei d’uranio partecipino al processo di fissione. Se partecipano tutti insieme avviene una crescita di calore così rapida da provocare un’esplosione. Serve che la reazione sia lenta e costante. Bisogna allora controllare il numero di neutroni coinvolti, fare in modo che non aumentino a dismisura. Più neutroni significa più fissioni e quindi più calore. Chiaro, no? Per questo sopra il nocciolo del reattore ci sono delle barre di controllo. Sono barre di boro o di cadmio. Sia il boro sia il cadmio hanno questa proprietà: assorbono i neutroni. Come fanno le patate con l’olio. Le barre di controllo funzionano elettricamente. Più le tiri fuori dal reattore più la potenza del reattore sale, più le fai scendere, più le fai immergere in mezzo alle barre di uranio, più ottieni lo spegnimento della reazione. Un sistema sicuro. Che consente di tenere il reattore in equilibrio. Metti però che arriva un blackout. Con cosa le alimenti le barre? Con un generatore, ovvio. Ma poniamo che anche il generatore si rompe. Ai tecnici della centrale di Cernobil venne una buona idea: colleghiamo le barre di controllo alle turbine. Come in questa macchina, le faccio, dove la batteria si ricarica grazie al rotolamento delle ruote. E allora quel giorno hanno fatto una prova. Hanno portato il reattore in uno stato critico, e hanno staccato la corrente. Volevano vedere se la loro idea funzionava. Quando si sono accorti che non aveva funzionato era ormai troppo tardi per tornare indietro. Perché mi guarda così? No, non erano pazzi. Questi esperimenti si fanno. Senza esperimenti la scienza non andrebbe avanti. Da quanto sto parlando? Non mi sono nemmeno accorto che abbiamo lasciato la strada principale e abbiamo preso una strada di terra battuta. Dopo dieci minuti 9 siamo nella piazza di un paesino. Le case sono tutte disabitate. Ci infiliamo dentro una di queste. Forse sarebbe stato meglio andare in albergo. Entriamo in un salotto. C’è pochissima luce. Un brivido mi sale lungo la schiena. C’è qualcuno sul divano. Eccolo il vampiro. Lei accende la candela e mi rendo conto che il vampiro è davanti a me. Ha l’aspetto di un bambino di nove dieci anni. Un bambino biondo magro magro e con gli zigomi sporgenti. Mi guarda con l’aria spenta. È chiaro che aspetta il mio sangue per riprendersi. Ho letto da qualche parte che il morso dei vampiri piccoli non è mortale. La vampira mi fa cenno di sedermi su una poltrona. Obbedisco senza fiatare. Tira fuori una cartellina dalla borsa e me la porge. E’ una cartella medica. Proviene da un ospedale italiano. Da Pavia. Leggo ad alta voce, per darmi un contegno: - Yurii Ignatenko ... - Yurii Ighnatenko, mi corregge subito - ... anni 13, però... se li porta bene. Mi strappa via la cartella e mi dice: - lo devi portare in Italia. Solo così può salvarsi. - Ma come faccio. Non è per cattiveria, le dico, ma io non ho tempo. Figurati che non voglio manco un figlio mio... Lei allora prende il bambino, lo porta in un’altra stanza, torna, mi guarda con degli occhi da vampiro e mi salta addosso. Quello che è successo su quel divano ve lo potete anche immaginare. Il problema è che mi fa giurare che mi sarei preso cura del bambino. In quel momento avrei detto sì a tutto. Ma a dire il vero non mi sono pentito. In fondo è bello prendersi cura di qualcuno, anche se non lo conosci. Lui sta al piano di sopra. Ora dorme. Se non gli cucino io non mangia. All’inizio resistevo. Mica posso stare tutto il giorno qui, gli dicevo. Ho un lavoro. Ma niente. Si stava lasciando morire di fame. Hanno iniziato ad alimentarlo con le flebo. E allora mi sono messo in aspettativa e mi sono trasferito qui. Il primario è stato gentile. - Però si deve accontentare di un sottoscala, mi ha detto, l’ospedale è affollatissimo. E ora vivo qua sotto. Non appena aprono i reparti corro su. Lo metto su una sedia a rotelle e lo porto nel cortile a prendere aria. Glielo dico sempre: - sei il mio vampiro. 10 Lui sorride. Gli preparo da mangiare. Ogni giorno lo stesso: passato di verdure. Non può ingerire altro. Mentre mangia gli parlo di sua madre. Come se fosse un’eroina dei cartoni animati. M’invento ogni giorno un’avventura diversa. Lui mi guarda e sorride. Chissà se capisce qualcosa. Mangia molto molto lentamente. Non appena ha finito chiude gli occhi e si addormenta. E io allora me ne torno qui sotto. Metto a posto. Lavo le pentole. Faccio qualche telefonata. Per non perdere i contatti col mondo esterno. I miei amici mi chiedono: Non è che te la sei presa un po’ troppo a cuore? O pensi ancora alla madre? Ma io non dico niente. Mi sdraio sulla brandina e cerco di prender sonno. Mi addormento sempre con questa domanda. Ce la farà ad arrivare a domani? Ogni riproduzione anche parziale dei testi è vietata se priva di autorizzazione da parte dell'autore stesso. 11