Prof. Raffaele Perrone Capano (direttore)
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INNOVAZIONE E DIRITTO – rivista on line
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ISSN 1825-9871
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Avv. Maurizio Migiarra
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI
NAPOLI FEDERICO II
FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA
Innovazione
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Diritto
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Internazionalistiche e Studi sul Sistema Politico ed Istituzionale Europeo
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Scienze
Numero finito di stampare il 23 aprile 2008
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
INDICE
I l falso m i to del contrasto all'evasione come obiettivo di politica tributaria,
tra vincoli strutturali dell’ordinamento, riflessi economici delle imposte ed
affievolimento dei principi giuridici
di Raffaele Perrone Capano...................................................................................... 1
Los derechos fundamentales de los extranjeros a la luz de la jurisprudencia del
Tribunal Constitucional
di Nicolás Pérez Sola .............................................................................................45
La sussidiarietà a livello orizzontale nell’esperienza italiana di decentramento
fiscale
di Chiara Fontana .................................................................................................76
Il processo civile telematico
di Wanda D’Avanzo...............................................................................................98
Fiscalità e finanza pubblica a confronto nei programmi elettorali: in particolare
l’attuazione del federalismo fiscale e la misura del quoziente familiare
di Maria Debora Cioffi..........................................................................................112
GIURISPRUDENZA - CASI PRATICI - DOCUMENTAZIONE
L’Italia ancora nel mirino della Corte di Giustizia Europea: la distinzione tra
rifiuto e sottoprodotto si fonda sul riutilizzo «certo, senza trasformazione
preliminare e nello stesso processo di produzione» (Nota alla sentenza della
Corte di Giustizia Europea, Sez. III, 18 dicembre 2007, Causa C-194/05)
di Filomena Daniela Piccolo..................................................................................131
P.JANNI, L’Occidente plurale. Gli Stati Uniti e l’Europa nel XXI secolo
di Leonardo Saviano............................................................................................153
Una possibile soluzione per agevolare il passaggio generazionale nelle società
di Antonio Visconti ..............................................................................................157
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
I l falso m i t o del contrasto all'evasione come obiettivo di politica tributaria,
tra vincoli strutturali dell’ordinamento, riflessi economici delle imposte ed
affievolimento dei principi giuridici
di Raffaele Perrone Capano
Sommario: 1) Le politiche di contrasto all’evasione come alibi per aumentare la
pressione tributaria. 2) L’anomalia fiscale italiana e gli effetti della riforma degli studi di
settore. 3) Alcuni caratteri distintivi dell’evasione italiana, loro riflessi sul ciclo economico,
e limiti delle analisi previsionali; in particolare la riforma dell’IRE/IRPEF del 2007. 4) Il
ruolo dei sostituti d’imposta per contenere l’evasione nelle imprese minori: funzione e
limiti della cosiddetta tracciabilità. 5) Ricerca di un equilibrio tra contenimento
dell’evasione e rilancio della competitività del sistema tributario: in particolare il regime
delle imprese minori e quello dei redditi familiari.
1) Le politiche di contrasto all’evasione come alibi per aumentare la pressione
tributaria
Il tema della lotta all'evasione fiscale riemerge in Italia periodicamente, come un
fiume carsico, nel dibattito di politica tributaria, in genere quale elemento di coesione
sociale e di accompagnamento diversivo di interventi sul sistema fiscale finalizzati ad
aumentarne il gettito; ottenuto il risultato, il tema ritorna tra quelli di cui non è opportuno
occuparsi, risucchiato in un impenetrabile cono d'ombra.
Probabilmente questa è una delle ragioni della scarsa attenzione dedicata al tema
dai giuristi, che, per altro, in prevalenza sembrano più attenti ai profili interpretativi delle
singole disposizioni tributarie, con particolare riferimento al contenzioso, che interessati ai
problemi di struttura del sistema tributario; l’analisi giuridica dei tributi appare infatti
orientata in prevalenza ad approfondirne i meccanismi di funzionamento piuttosto che ad
omologare i rapporti tra le diverse manifestazioni di capacità economica e la
individuazione degli strumenti normativi idonei a regolarne i profili tributari.
Naturalmente non mancano eccezioni autorevoli, per tutte i puntuali e stimolanti
interventi di Enrico De Mita sul "Il Sole 24 ORE", il cui carattere di attualità non fa premio
sull'approfondimento ed il rigore metodologico.
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Una disattenzione probabilmente motivata dal fatto che il sistema vigente si è un
po' assestato, lungo l'arco di un ventennio, in un quadro di pressione fiscale moderata,
che ne ha mascherato gli aspetti distributivi insoddisfacenti, le inefficienze sotto il profilo
economico e le carenze normative e sistematiche; nodi strutturali che sono
inevitabilmente venuti al pettine con la svolta della seconda metà degli anni novanta,
caratterizzata da condizioni di stress fiscale, che hanno caratterizzato un processo
riformatore non privo di elementi innovativi condivisi. Criticità di bilancio che ha
contribuito ad accentuare le divaricazioni tra i principi anche di rilievo costituzionale
caratterizzanti l’ordinamento tributario e la sua gestione quotidiana.
Sotto questo profilo quindi l’approccio al tema dell’evasione offerto dal Governo
Prodi cosituisce una novità di qualche rilievo, perché ha rappresentato un elemento di
continuità dell’azione di governo che non può essere ignorata.
L’analisi della produzione normativa in campo tributario della più breve legislatura
della storia repubblicana può rappresentare per il giurista l'occasione di una svolta,
innanzitutto metodologica, sia perché il tema della lotta all'evasione sembra essere stato
se non l'unico, certo il più caratterizzante ed insistito, elemento distintivo della politica
tributaria del governo Prodi, sia perché l'elusione dei principi, che ne ha caratterizzato
tanto gli aspetti contenutistici, quanto quelli applicativi, è stata per alcuni aspetti così
insistita, da imporsi all'attenzione degli osservatori, per le ricadute che essa è destinata a
determinare sulla società italiana, ben oltre i confini tributari.
Il problema, si badi bene, è, prima ancora che politico, culturale e deriva
dall'idea, richiamata più volte in varie interviste dal Ministro dell'Economia PadoaSchioppa, secondo cui, a parte la spesa per vitto, abbigliamento ed alloggio, in tutti gli
altri settori le scelte del decisore pubblico sarebbero da preferirsi a quelle dei singoli.
Pensiero debole, cui si contrappone talvolta la tesi che le imposte non rappresentino un
dovere civico oneroso ma necessario, ed un elemento insostituibile di coesione sociale,
ma solo uno strumento di inefficienza, vessazione e spreco, che legittimerebbe forme di
protesta e resistenza anche estreme.
Tesi quest'ultima non solo indifendibile in via di principio, ma assai poco aderente
alla realtà italiana: in un sistema tributario caratterizzato da una diffusa autoriduzione dei
tributi, che differenzia tipologicamente l'evasione italiana rispetto ai principali paesi
industrializzati, forme di protesta eclatanti contro gli eccessi della fiscalità, appaiono poco
realistiche, quando non velleitarie.
D'altra parte, l'analisi del tema dell'evasione fiscale e dei possibili strumenti di
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
contrasto non può prescindere da questi limiti culturali, che hanno accompagnato nel
tempo lo sviluppo ed il consolidamento di un ordinamento tributario poco attento ai
principi e caratterizzato da forti venature corporative; ordinamento funzionale ad un
sistema economico caratterizzato da scarsa mobilità sociale, ed assistenzialismo, da
rigidità diffuse e da vincoli pressoché in ogni settore produttivo ed in cui la concertazione
ha rappresentato, attraverso le protezioni assicurate agli interessi più forti, ed i
condizionamenti imposti dai poteri auto organizzati, l'adattamento in chiave contemporanea
del modello protezionistico, sviluppatosi nel contesto istituzionale autoritario ed autarchico
degli anni '30. Un complesso di equilibri entrato in crisi con le strette fiscali degli anni '90
che contrasta con le esigenze di competitività anche di ordine fiscale, imposte dal processo
di mondializzazione dell'economia.
È questo il quadro di riferimento entro cui va collocato ed analizzato il tema
dell'evasione fiscale, in correlazione con un sistema di controlli poco efficace, anche per le
caratteristiche strutturali delle principali imposte; in presenza di un ordinamento tributario,
caratterizzato dalla sovrapposizione di interventi, spesso disorganici, disattento ai valori
della persona, e della famiglia, che discrimina i redditi e le posizioni soggettive dei
contribuenti in base a criteri spesso erratici e privi il più delle volte di elementi di
ragionevolezza nel quale emergono le disparità di trattamento, diffuse praticamente in ogni
tributo, spesso introdotte per correggere altre distorsioni, ovvero finalizzate a farne lievitare
il gettito.
All'interno di questo orizzonte ed in un arco temporale di pochi mesi, la grandine di
provvedimenti non solo legislativi, abbattutasi sui contribuenti e sull'Amministrazione
Finanziaria, che non ha risparmiato praticamente nessun ramo dell'ordinamento tributario,
avrebbe dovuto determinare, almeno nelle intenzioni del Governo Prodi, un salutare shock
nei contribuenti, e diffondere di conseguenza una maggiore fedeltà fiscale; premessa,
sempre secondo il Governo, per una graduale riduzione della pressione fiscale.
Ora, nonostante il supporto dei principali quotidiani, capofila "Il Sole 24 ore", che
hanno sostenuto nei primi mesi in modo generalmente acritico la politica fiscale del viceministro Visco, i primi risultati non solo in tema di recupero dell'evasione, appaiono
contraddittori e complessivamente deludenti, in un quadro di ulteriore incremento della
pressione fiscale, dissimulato come recupero di evasione.
Intendiamoci, alcune misure di contrasto all'evasione nell'IVA, si pensi al reverse
charge nei subappalti nel settore dell'edilizia e al nuovo regime dei trasferimenti
immobiliari, attratti in larga maggioranza, all'imposta di registro, hanno chiuso alcune falle e
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
ridotto per conseguenza, in quei settori, elusione ed evasione.
Ma
l'assenza
di
qualsiasi
analisi
approfondita
sulle
cause
ordinamentali
dell'evasione, sulla sua distribuzione, limitata il più delle volte ad affermazioni generiche o
di tipo moralistico e sui suoi collegamenti con l’economia, regolare e non, e le modalità non
di rado propagandistiche con cui sono state accompagnate una serie di misure in qualche
caso inutilmente onerose e vessatorie a carico dei lavoratori autonomi e delle imprese
minori, hanno determinato reazioni ed effetti opposti rispetto a quelli attesi.
Anche perché, come vedremo, la diffusione dei comportamenti che determinano
l'autoriduzione delle imposte da parte dei contribuenti è tale da non consentire al fisco di
rinunciare agli strumenti premiali deflativi del contenzioso, quali l'accertamento con
adesione, che abbattendo le sanzioni ne riduce parallelamente la deterrenza.
Con la conseguenza che, se si pone attenzione esclusivamente ai controlli e non si
interviene contemporaneamente sulla normazione abbassando decisamente la soglia della
convenienza ad evadere le imposte sul reddito, con interventi strutturali, sulla progressività
marginale, sulle deduzioni e sul regime dei redditi familiari, e la riforma dell'IRE-IRPEF del
2007 è andata in direzione opposta, i risultati in termini di contrasto all'evasione appaiono
destinati a rimanere limitati quando non effimeri.
Del resto proprio la recente esperienza delle riduzioni fiscali introdotte con la
Finanziaria 2005, i cui effetti positivi sul gettito erano stati sottostimati anche da chi le
aveva adottate, avrebbe dovuto indurre il Governo Prodi a maggiore misura ed equilibrio,
nella scelta anche temporale degli interventi; senza perdere di vista che il primo
destinatario delle novità fiscali è l'Amministrazione Finanziaria, la cui azione di contrasto
all'evasione per essere efficace richiede stabilità normativa e tempi ragionevoli.
L'aspetto sorprendente della questione è che anche il responsabile delle Finanze
del Governo Prodi, on. Visco, sembrava convinto che il problema dell’evasione in Italia
fosse rappresentato dal carattere anomalo dell'evasione italiana e dalla necessità quindi
di riportare anche in Italia l'evasione entro gli standard dei principali Paesi europei.
Tuttavia le misure adottate, quali la moltiplicazione degli oneri documentali ed
amministrativi, l'inasprimento delle sanzioni e l'aumento dei controlli, se si prescinde
dall'abuso della retroattività, comunque ingiustificabile e come vedremo in seguito in
qualche circostanza causa di effetti indesiderabili dal punto di vista economico,
sottostimati del Governo, rappresentano strumenti ‘normali’, certo non inutili, ma
sicuramente non decisivi, per ricondurre l'evasione italiana entro limiti di normalità.
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Al contrario gli interventi sulle principali imposte, motivati con la necessità di
contrastare l’evasione, appaiono piuttosto finalizzati a recuperare gettito; le misure
adottate non soltanto ignorano il problema della evasione strutturale, ma tendono
talvolta ad alimentarla ulteriormente. Si pensi alla riforma dell’IRE/IRPEF del 2007, che ha
sostituito le deduzioni con le detrazioni, soluzione solo apparentemente neutrale, ha
dimezzato il primo scaglione e ha rivisto al rialzo le aliquote intermedie; mentre infatti il
carattere decrescente delle deduzioni non influisce sulla progressività marginale, le
detrazioni decrescenti introducono una ulteriore aliquota implicita che si somma a quella
nominale, pari alla percentuale di decrescenza delle detrazioni al crescere dell’imponibile.
Una riforma che nel 2007 ha determinato da sola un incremento del gettito di
oltre 3 punti percentuali nelle ritenute sui redditi da lavoro dipendente del settore privato,
compreso l’aumento delle addizionali locali e al netto degli elementi (aumento della
retribuzione e del numero degli occupati) che hanno ampliato gli imponibili. Questo dato
deve fare riflettere, perché il settore del lavoro dipendente privato è stato poco
influenzato nel 2007 da aumenti straordinari delle retribuzioni, quali i rinnovi contrattuali;
mentre non vi è alcuna evidenza empirica di una riduzione della propensione a
corrispondere quote di salario al nero da parte delle realtà minori.
Nel 2007 quindi l’aumento del prelievo a carico dei redditi da lavoro (dipendente
ed autonomo) è stato non solo molto più elevato di quanto indicato in Finanziaria (5,4%
al lordo delle addizionali locali - +7,2% complessivo) ma anche superiore alle stime della
banca d’Italia (+2,7%).
Una parte d’aumento del gettito è quindi espressione diretta della nuova struttura
dell’IRE/IRPEF, e conferma ampliandole le stime da noi formulate nel dicembre 2007.
L’effetto combinato dell’aumento degli imponibili, legato agli interventi correttivi
sugli studi di settore e dalle aliquote dell’IRE/IRPEF è particolarmente evidente nel
settore dei redditi di lavoro autonomo e di impresa; qui le ritenute a titolo di acconto
crescono del 6,6% mentre il totale dell’IRE/IRPEF in autoliquidazione cresce nel 2007 del
14%. Un risultato questo che evidenzia, ben più del contraso all’evasione, l’intento di
perseguire una redistribuzione tra le diverse categorie di percettori di redditi del carico
dell’IRPEF, motivata con il contrasto all’evasione.
Anche il regime forfetario, introdotto anch’esso con la Finanziaria 2007, in
alternativa agli studi di settore, per i contribuenti minimi, una misura apprezzabile specie
per i riflessi sull’evasione nell’IVA, è stato messo in piedi con una tale improvvisazione, da
renderlo da un lato poco attraente (l’aliquota omnicomprensiva del 20%, accompagnata
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
dall’indeducibilità dell’IVA appare vantaggiosa solo per quei contribuenti che si collocano
in prossimità della soglia dei 30.000 euro, ovvero svolgono un’attività caratterizzata da
molto “nero”), dall’altro, in particolari ipotesi, eccessivamente privilegiato; in ogni caso la
determinazione dei ricavi è caratterizzata dall’assenza di riscontri, per cui è di fatto
rimessa al buon volere dei contribuenti. Un risultato questo contraddittorio dal punto di
vista del contrasto all’evasione e quanto meno dubbio dal punto di vista della
semplificazione che, per essere legittima, richiede proporzionalità tra strumenti derogatori
e risultati.
2) L’anomalia fiscale italiana e gli effetti della riforma degli studi di settore
Se si analizza il rapporto tra le diverse tipologie di contribuenti e le principali
imposte, appare evidente che l'anomalia fiscale italiana sia indotta da un numero di
lavoratori autonomi, di imprese individuali o familiari o minori multiplo rispetto a Paesi
con livello di sviluppo comparabile al nostro ed i cui redditi vengono determinati dagli
stessi contibuenti in base a dichiarazione, senza alcuna intermediazione o confronto
preventivo con l’Amministrazione finanziaria.
Questi soggetti sono sottoposti mediamente ad un livello più elevato di
imposizione rispetto a quello dei redditi di pari importo da lavoro dipendente, con la
motivazione sottintesa che dispongono di una maggiore possibilità di occultarne una
parte. Quindi per difendersi in qualche misura da quelli che considerano gli eccessi
dell'imposizione sul reddito, personale e d'impresa, attuano una programmazione fiscale,
compatibile con gli studi di settore, basata sul contenimento del volume d'affari,
bilanciato dalla rinuncia a dedurre una parte dei costi, con effetti di trascinamento, sia
sull’IVA sia sull’IRAP.
La vera anomalia quindi è rappresentata da una struttura ordinamentale delle
imposte e degli studi di settore, che favorisce questo tipo di comportamenti, ed anzi li
istituzionalizza, senza porsi il problema degli effetti distributivi perversi in termini di
gettito tra le principali imposte di un sistema tributario, in cui il prelievo non tiene conto
delle interdipendenze tra tributi a carico del medesimo contribuente. In particolare, la
convinzione diffusa che nei rapporti economici con soggetti minori, l'IVA sia un'imposta
semiopzionale, da assolvere solo se è possibile scaricarla a valle, evidenzia il carattere
irrealistico di politiche di contrasto dell'evasione che non incidano sulle cause strutturali,
ma vanno in senso opposto, aumentando la convenienza ad evadere, e si affidano
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
esclusivamente all'aumento degli adempimenti amministrativi e dei controlli.
D’altra parte, anche l’analisi economica del fenomeno evasione, se si limita a
definirne i confini e ad evidenziarne le motivazioni economiche ma non è affiancata da
uno studio delle conseguenze ordinamentali dell’evasione che consenta di intervenire sui
tributi con modifiche normative che incidano positivamente sulla convenienza ad evadere,
non è in grado di assicurare risultati eclatanti e soprattutto stabili nel tempo, nonostante
l’aumento dei controlli.
Anche perché questi comportamenti diffusi, se da un lato sottraggono una parte
del reddito effettivo a tassazione, dall'altro sottopongono i contribuenti a una pressione
fiscale molto superiore alla media europea. Sotto questo profilo la tesi che il recupero di
evasione avrebbe effetti neutrali nei confronti dei contribuenti onesti, sostenuta dal
Ministro Padoa Schioppa nella RUEF del marzo 2008, appare semplicistica. Questa
opinione
avrebbe
un
fondamento
se
l’evasione
“anomala”
occultasse
risorse
successivamente disponibili, attraverso le politiche di contrasto all'evasione. La realtà è
invece che l’evasione anomala e l’economia irregolare operano redistribuzioni al loro
interno, la cui correzione comporta effetti sensibili anche per l’economia regolare.
Comunque, l'effetto indotto più grave di questa anomalia italiana, prodotto sia
dalle caratteristiche strutturali delle imposte sul reddito (progressività marginale elevata,
deducibilità parziali poco efficaci, scarsa attenzione alle condizioni personali e familiari,
disparità di trattamento nella tassazione del reddito di impresa a carico delle realtà
minori) sia dal carattere duale dell'economia italiana, caratterizzata da polverizzazione del
sistema di imprese e dalla diffusione di vaste aree di economia irregolare, è che tale
anomalia consente all'evasione "regolare" di prosperare quasi indisturbata.
A queste caratteristiche strutturali delle imposte sul reddito, che sembrano
ignorare le realtà economiche, chiamate ad assolvere il tributo, si affianca l’IRAP,
un’imposta a larga base imponibile, particolarmente onerosa per il lavoro autonomo,
almeno fino all’introduzione nel 2005 di una no-tax area pari a 7.500 euro per le imprese
minori (fino a 5 dipendenti).
La stretta fiscale, conseguente ai decreti Bersani - Visco e alla finanziaria 2007,
proprio per la filosofia che l’aveva ispirata, che evidenzia, dietro lo schermo della lotta
all’evasione, quella di fare cassa ad ogni costo, e di colpire nel mucchio con inasprimenti
generalizzati, ha dimostrato, come era facilmente prevedibile, tutti i suoi limiti,
puntualmente riflessi nell'andamento delle entrate tributarie nel 2007; la cui crescita, al
netto delle una tantum è stata del 6,8% ; ben superiore quindi alle previsioni formulate
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
dal Governo con la Legge finanziaria 2007. Questo dato non deve trarre in inganno:
l'incremento del gettito infatti, a parte l'imposta di registro che cresce per la sottrazione
della maggior parte dei trasferimenti immobiliari al previgente regime IVA, si concentra
essenzialmente sull’IVA trascinata dalla ripresa del 2006/07 e sulle imposte sul reddito,
la cui distribuzione evidenzia, ben più che un contenimento dell'evasione, i forti
inasprimenti introdotti dalla finanziaria 2007 con la riforma delle aliquote e delle
detrazioni, a carico della larga maggioranza dei contribuenti, specie con carichi familiari.
All’aumento del gettito contribuisce anche, come è ovvio, la revisione retroattiva
degli studi di settore, che ha comportato nel 2007 un incremento dell’autoliquidazione del
18,5%. Ma si tratta appunto di un dato fortemente condizionato da un comportamento
del legislatore che definire anomalo appare un eufemismo. L’applicazione del nuovo
regime degli studi, modificato per interventi successivi sino alla primavera 2007, ne ha
ritoccato profondamente la funzione, avvicinandola a quella di un catasto anomalo.
L’applicazione poi dei nuovi indici a redditi già prodotti (quelli del 2006), ha trasformato
l’aumento del prelievo in una sorta di quota capitaria, come del resto è stato sottolineato,
con qualche spregiudicatezza, dall’ex Direttore dell’Agenzia delle Entrate, Romano.
Una scelta questa esclusivamente politica, supportata da motivazioni economiche
fragili e comunque discutibili , che si è inserita nel contesto normativo non solo senza un
minimo di visione sistematica, ma stravolgendone sicuramente i principi.
In definitiva, l’incremento di gettito, proveniente da aree ad evasione diffusa,
sembra il frutto di interventi estemporanei piuttosto che il risultato di un contenimento
strutturale dell’evasione. Mentre appaiono purtroppo evidenti gli effetti recessivi di una
politica tributaria poco meditata, che avendo sottratto in soli 5 mesi, da luglio a
novembre, 21 miliardi di maggiori imposte tra i redditi ed IRAP a famiglie e imprese ha
anticipato, aggravandolo, il forte rallentamento dell’economia mondiale. A conferma della
nostra opinione che l’evasione rappresenti un fenomeno assai più complesso e delicato di
quanto sembravano credere Visco e Bersani, che incide sulla struttura dell’economia,
alimentando quella irregolare, ma, almeno per la parte che Visco definisce anomala,
redistribuisce risorse più che nascondere tesori.
Ma l'aspetto meno convincente dell'azione di contrasto all'evasione degli ultimi mesi
è rappresentato dal fatto che questa, da un lato ha comportato un consistente aggravio
degli adempimenti amministrativi e burocratici, che ha inciso quanto meno indirettamente
su tutta la platea dei contribuenti. Dall'altro è stata inserita in un contesto di interventi
modificativi dell'imposta personale caratterizzati dalla riduzione dell’ampiezza degli
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
scaglioni, dall'incremento delle aliquote e quindi dall’aumento della progressività marginale
per l'intera platea dei contribuenti, che non incoraggiano certo la fedeltà fiscale.
Ovviamente non sottovaluto né la gravità del fenomeno evasione, né la difficoltà di
adottare adeguate politiche di contrasto, se l'obiettivo è quello di ottenere effetti immediati
dal lato del gettito. Ma pensare di aggredire l’evasione attraverso l’abuso di disposizioni a
carattere retroattivo, prima ancora di essere illusorio è semplicemente errato.
Credo che alla base del sostanziale insuccesso della politica tributaria avviata dal
Governo Prodi e di cui rappresenta un'evidente spia l'invito del Presidente del Consiglio ai
parroci, la scorsa estate, di associarsi alla lotta all'evasione fiscale nelle omelie domenicali,
vi sia l'illusione che l'evasione fiscale "anomala" nasconda un "tesoro" che, ove recuperato,
consentirebbe miracolosamente non solo di riequilibrare i conti pubblici, ma di finanziare
ulteriore spesa pubblica. Il filo conduttore sotto traccia che ha ispirato l'azione del Governo
in campo tributario, è stato quindi quello di recuperare base imponibile, senza preoccuparsi
né dei principi né degli effetti. Una linea politica tributaria dai profili distributivi assai
discutibili, che evidenzia anche una pericolosa sottovalutazione dei riflessi depressivi della
propria azione sulla crescita economica.
Certo sarebbe ingeneroso attribuire tutte le responsabilità al solo Governo Prodi. I
grandi quotidiani di proprietà industriale, La Confindustria e i sindacati, ciascuno per ragioni
sue proprie ha tenuto bordone ad una politica tributaria ai limiti dell’irresponsabilità, per l’
effetto combinato della riforma sull’ IRE/IRPEF e della rivalutazione retroattiva degli studi di
settore, i cui effetti redistributivi e di gettito si sono fatti sentire sui conti degli italiani a
partire da luglio. Effetti puntualmente registrati dal carattere tendenzialmente piatto della
domanda interna, la cui dinamica è sostanzialmente pari a quella del tasso di immigrazione,
regolare e non, e dal rallentamento del PIL nel secondo semestre 2007, che ha cominciato
a scontare "l'effetto fisco", particolarmente evidente nel calo degli investimenti, ben prima
che si manifestassero in Europa gli effetti della crisi dei mutui sub-prime negli Stati Uniti.
Come non collegare questo dato alla stretta fiscale sulle imprese, specie le minori
che operano in regime di studi di settore, che ha prosciugato risorse altrimenti destinate a
rimanere nelle imprese, e che ha accompagnato queste misure di aggravio con una
ulteriore stretta alla deducibilità degli interessi passivi a partire dal 2008.
Già altre volte ho sottolineato come l'evasione "anomala" rappresenti lo schermo
che consente ad una evasione "normale", particolarmente aggressiva, di prosperare
praticamente indisturbata al riparo di quella "anomala". Quest'ultima, per la sua diffusione
di massa, rappresenta un multiplo rispetto a quella "normale"; ma mentre questa sottrae al
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
fisco risorse reali e, ove ridimensionata, consentirebbe consistenti recuperi di gettito,
l'evasione "anomala", cui si collega affiancandola l’economia irregolare, si limita in gran
parte a redistribuire tra i diversi fattori produttivi (consumatori e famiglie) risorse in larga
parte "reali" solo in quanto sottratte a tassazione: una situazione questa difficilmente
quantificabile, ma di dimensioni comunque imponenti.
Si pensi ad esempio alla quota di salario distribuita fuori busta dal sistema delle
imprese minori, al lavoro irregolare, quando non completamente al nero, che, secondo le
stime ISTAT, coinvolgerebbe tre milioni e mezzo di lavoratori, questi si realmente precari;
alla parte di costi ed oneri deducibili non dichiarati da lavoratori autonomi ed imprese
minori, per risultare congrui rispetto ai parametri degli studi di settore. Si stima che la sola
evasione dei redditi da lavoro dipendente rappresenti oltre il 60% dell'evasione fiscale e
contributiva totale; ma appare evidente che, proprio per il peso della progressività
marginale, ove questi redditi venissero recuperati a tassazione, nella maggior parte dei casi
verrebbero meno le condizioni economiche che hanno consentito di distribuirli.
Almeno due indizi confermano questa analisi: il primo è rappresentato dalla
dipendenza crescente dell’economia italiana dalla domanda estera nell’ultimo decennio. Le
imprese italiane in difficoltà ad esportare nel 2003/04 con il cambio del dollaro ad 1,20
contro l’euro, oggi continuano ad esportare con il dollaro svalutato ad 1,60. Un
dato
questo che evidenzia la profondità del processo di ristrutturazione che ha investito in questi
anni il sistema delle imprese che consente di esprimere quanto meno dei dubbi sulla
attendibilità degli indicatori che misurano l’andamento della produttività del nostro Paese.
Quello che manca ai fini della crescita è il sostegno della domanda interna che
evidentemente non riceve spinte dal “tesoro” dell’evasione, semplicemente perché
l’evasione diffusa si limita a ridistribuire risorse in modo anomalo, ma non nasconde alcun
tesoro.
Il secondo indizio è costituito dal fatto che evasione anomala ed economia
irregolare sono stati appena sfiorati dai processi di riorganizzazione produttiva e
distributiva; il che ne evidenzia il carattere strutturale e la necessità quindi di contenere e
ricondurre gradualmente il fenomeno entro limiti “normali”, attraverso interventi sulle
imposte che incidano sulla convenienza ad evadere, piuttosto che concentrare l’attenzione
esclusivamente sui controlli. I quali, nella migliore delle ipotesi, risolverebbero il problema
nell’arco di qualche decennio.
Si tratta, come è facile vedere, di un'evasione doppiamente "anomala", in quanto
indotta dalla struttura stessa del sistema tributario, che rende più conveniente per il datore
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
di lavoro non dedurre una parte dei costi anche fiscali del monte salari, sia per occultare
una parte del proprio reddito, sia per ridurre la base imponibile dell’IRAP; con l’effetto di
trascinamento che alimenta l’evasione all’IVA, un'evasione, tra l'altro, spesso indotta dal
lato dell'offerta. Si pensi, nell'ambito della famiglia, al lavoro part-time di uno dei coniugi, di
norma la donna, il cui reddito, specie al sud, difficilmente, supera la soglia di esenzione di
8.000 euro annui, ma che oltre i 2.854 euro comporta, per l'altro coniuge, la perdita della
detrazione d'imposta di 800 euro: è evidente l'incentivo a non perdere tale beneficio,
contrattando una retribuzione al nero.
Anche perché, con il regime previdenziale a carattere contributivo vigente,
difficilmente l'assegno pensionistico di una lavoratrice, specie se poco qualificata e parttime, sarà superiore a quello sociale, che le verrà comunque riconosciuto al termine della
vita lavorativa.
Chi scrive non sottovaluta gli effetti negativi prodotti dall’evasione e dalla crescita
in parallelo ed in simbiosi di un’economia irregolare diffusa, spesso a carattere marginale,
che, specie nel Mezzogiorno, alimenta una vasta zona grigia caratterizzata da assenza di
regole, in cui la criminalità organizzata prospera praticamente indisturbata. Ma non basta
una finalità virtuosa accompagnata da buone intenzioni a trasformare la produzione
alluvionale di disposizioni tributarie dell’ultimo anno e mezzo, molte delle quali inducono
nel sistema costi maggiori dell’evasione che dovrebbero scoraggiare, in una politica
tributaria.
Occorre sottolineare che evasione ed economia irregolare sono realtà mobili,
caratterizzate da molteplici interconnessioni, che si alimentano vicendevolmente e che
rendono quindi poco efficaci misure di contrasto che dilatano in misura spesso
irragionevole gli adempimenti amministrativi ed incidono esclusivamente sui controlli,
senza modificare il quadro delle convenienze economiche che alimentano l’evasione,
attraverso interventi mirati sulla normazione.
D’altra parte, l’economia irregolare, che paga comunque una quota di imposte
non trascurabile, per l’impossibilità di dedurre i costi, è un fenomeno più grave, perché
non rappresenta, come l’evasione, una zona franca, in un sistema basato su regole, ma
una realtà che sopravvive in quanto è fuori da qualsiasi sistema di regole. I due
fenomeni, sostanzialmente diversi, ancorché in simbiosi, vanno quindi combattuti
eliminando le cause che li alimentano.
Sotto questo profilo, la richiesta ricorrente di una fiscalità di vantaggio per le aree
economicamente deboli, pur essendo comprensibile, deve essere ribaltata. Non servono
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
regimi fiscali di favore, inseriti in un sistema che non è in grado di funzionare, perché
troppo oneroso per tutti. Serve invece una riforma profonda del sistema tributario che
gradualmente consenta all’Italia di liberarsi dell’attuale fiscalità di “svantaggio” ed
assecondi la tendenza in atto da alcuni anni nell’economia italiana a ristrutturarsi in base
a modelli organizzativi che ridimensionino le possibilità di evasione non alimentino
l’economia irregolare, e consentano di attuare un modello di decentramento fiscale che
contribuisca ad aumentare l’efficienza della spesa pubblica e la competitivitàdel sistema.
In ogni caso, sembra evidente che la questione evasione, assai complessa,
proprio per la sua diffusione, e per i risvolti sociali che la caratterizzano, non possa essere
letta in chiave esclusivamente moralistica, o peggio ancora, classista. Aggredire l’evasione
attraverso l’aumento degli adempimenti amministrativi e la tracciabilità dei pagamenti,
che in economie caratterizzate da irregolarità diffuse ha il solo effetto di alimentarle
ulteriormente, senza un’analisi approfondita del fenomeno, che evidenzierebbe l’esigenza
di interventi sulla struttura delle imposte sul reddito, finalizzati innanzitutto a ridurre la
convenienza ad evadere, può determinare qualche risultato in termini di gettito nel breve
periodo, destinato ad essere rapidamente riassorbito. Ma non incidendo sulle cause
dell’evasione anomala, non può né ridimensionarla, né tanto meno sconfiggerla. E
questo, proprio perché basata sull’impiego di strumenti di controllo, immaginati per
contrastare l’evasione “normale”.
L’esperienza ci conferma che se non si analizzano le interdipendenze tra le
diverse imposte in una logica di sistema, limitandosi ad interventi sui singoli tributi, il
fenomeno della “fuga davanti alle imposte” trova al suo interno nuovi equilibri, ma non
subisce ridimensionamenti sostanziali, mentre gli effetti di gettito delle politiche antievasione da un lato incidono negativamente sul ciclo, dall’altro tendono ad essere
riassorbiti rapidamente e quindi ad essere effimeri. D’altra parte se non si affronta
attraverso la riduzione della convenienza ad evadere il nucleo centrale dell’evasione
anomala, anche il dare giusto rilievo ai profili etici nelle politiche di contrasto non
condurrà agli esiti attesi.
Comunque, se il problema dell'evasione "anomala" si limitasse ad una
redistribuzione di risorse orientata dagli equilibri di mercato, si potrebbe pensare che essa
di fatto assuma anche aspetti positivi, perché s'incaricherebbe di correggere, attraverso il
mercato, almeno in parte, alcune distorsioni e i più evidenti limiti distributivi del nostro
sistema di imposte sul reddito.
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Ma a parte la sostanziale inaccettabilità giuridica e di principio di equilibri fiscali di
questo tipo, intrinsecamente anomali, gli effetti di questo modo di procedere, indotto da
una struttura delle principali imposte inefficiente ed iniqua, sono tutt'altro che neutrali dal
punto di vista della distribuzione degli oneri tributari, sia per i singoli contribuenti, sia
sotto il profilo macroeconomico.
All'eccesso di prelievo, per giunta mal distribuito, che caratterizza le imposte sul
reddito, personale e societario, corrisponde infatti, sulla base del raffronto tra l’aliquota
media del tributo ed il gettito rispetto al PIL registrato dall’IVA armonizzata nei principali
Paesi dell’UE, un'evasione in Italia non inferiore ai 25-30 miliardi di euro. Un'evasione i
cui effetti di reddito si distribuiscono, in misura difficilmente stimabile, su famiglie ed
imprese che ne sono le principali destinatarie, ma che erode dall'interno la competitività
del nostro sistema produttivo, penalizzando le esportazioni, ed alimenta un'economia
irregolare che costringe le imprese alla frammentazione ed al nanismo, in sinergia con
una legislazione in tema di lavoro indifferente al tema della crescita dimensionale delle
aziende, e più in generale della loro competitività.
E’ vero che negli ultimi anni anche il gettito dell’IVA ha avuto una dinamica più
accentuata rispetto alla crescita dei consumi interni, dalla quale alcuni commentatori
hanno tratto conclusioni forse troppo frettolose sul recupero di evasione nell’IVA.
Innanzitutto l’IVA è un’imposta afferente ai consumi, il cui rapporto con il consumo è solo
indiretto; basta pensare agli investimenti che riducono il gettito del tributo e quindi
falsano il rapporto tra la dinamica dei consumi e quella effettiva dell’IVA, senza perdere di
vista che il luogo di versamento dell’IVA spesso non coincide con quello in cui vengono
effettuate le operazioni imponibili.
Occorre poi considerare che ai fini del rapporto tra gettito del tributo aliquota
standard e PIL utilizzato per i confronti in Europa, quello che conta non sono i versamenti
lordi ma il gettito effettivo realizzato ciascun anno; e la forbice tra incassi e gettito
effettivo dell’IVA in base ai dati disponibili evidenzia una tendenza a ridursi molto più
lenta rispetto alla dinamica degli incassi. A questo risultato comunque positivo, non è
stata certo indifferente la politica tributaria degli ultimi anni: si pensi ad esempio
all’estensione degli studi di settore alle società di capitali introdotta nel 2005, o al reverse
charge negli appalti nell’edilizia del 2006; ma non va neppure trascurata la forte crescita
della grande distribuzione (+5,4 % in Campania nel 2007, più del doppio della media
nazionale), che aumenta il grado di resistenza all’evasione dell’IVA, ma non è certo il
frutto di scelte discrezionali del legislatore tributario.
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
La frammentazione delle imprese a sua volta alimenta l’evasione fiscale, per la
maggiore difficoltà di determinare il reddito effettivo in sede di accertamento per questa
tipologia di contribuenti; mentre la rigidità della legislazione in tema di lavoro rappresenta
un ostacolo obiettivo di rilievo alla crescita dimensionale delle imprese che, ove
realizzata, contribuirebbe a ricondurre gradualmente l’evasione entro margini di
normalità.
La questione delle origini anche fiscali della perdita di competitività del nostro
sistema produttivo, sospinta da una legislazione che aumenta le imposte per tenere conto
dell’evasione, alimentando una spirale perversa, è un tema incomprensibilmente ignorato
sia dall'indagine economica sia da quella giuridica.
Le ragioni sono molteplici. Da un lato vi è la tendenza degli economisti ad
applicare all'analisi
delle
imposte, parametri elaborati in altre esperienze, che
semplicemente non si prestano ad essere trasposti in un modello, quale quello italiano, che,
sotto il profilo della parcellizzazione del sistema produttivo, è assai più vicino alla realtà
turca che a quella tedesca, quindi di difficile interpretazione: ed in cui convivono imprese
tecnologicamente avanzate e realtà produttive tipiche di economie in ritardo di sviluppo.
La scarsa attenzione posta all’analisi dei profili distributivi della capacità
economica che esprime attitudine alla contribuzione, in rapporto all’insieme dei tributi che
incidono sui redditi da lavoro autonomo e di impresa minore, che riguardano non solo
l’imposta personale ma anche gli oneri sociali, l’IRAP e l’IVA, ha avuto nel tempo come
conseguenza quella di alimentare un’evasione all’IVA, il cui onere è normalmente
scaricato a valle, indotta prevalentemente dalla necessità di ridurre il peso degli oneri
contributivi e fiscali, considerati troppo onerosi per il contribuente.
Dall'altro occorre sottolineare che quello che oggi può apparire uno scarso
interesse della maggioranza dei giuristi agli effetti economici e distributivi dei tributi, ed in
genere ai profili che sottendono alla normazione, è la conseguenza del fatto che nel
primo quindicennio di applicazione della riforma tributaria, la Corte Cosituzionale, con il
contributo determinante della dottrina tributarista, ha eliminato alcune delle più evidenti
incongruenze introdotte dal legislatore nel 1977 (cumulo dei redditi nell’imposta
personale; ILOR sui redditi da lavoro autonomo). Nel quindicennio successivo invece, le
difficoltà della finanza pubblica che avevano condotto alla svalutazione della lira del 1992,
hanno condotto ad una linea di politica tributaria molto condizionata dalla situazione
economica contingente, con una generale disattenzione ai profili giuridici che si è
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
ripercossa da un lato in una evidente disorganicità del sistema tributario; dall’altro in un
minore coinvolgimento della evoluzione della normazione in campo fiscale.
Ex adverso si possono ad esempio richiamare i pertinenti rilievi di Raffaello Lupi
sul tema ricorrente della riforma dell'imposizione delle rendite finanziarie e immobiliari
che, nelle intenzioni del Governo Prodi, avrebbero dovuto essere tassate con un'aliquota
proporzionale unica del 20%.
Ora, che l'attuale tassazione dei redditi immobiliari sia particolarmente onerosa,
mentre l'attività di trading dei titoli finanziari sia sottoposta ad un regime di evidente
favore è cosa nota. Ma i rimedi che vengono proposti appaiono ancora peggiori degli
inconvenienti che vorrebbero risolvere perché, anziché ridurre disparità di trattamento e
privilegi, contribuiscono ad alimentarli ulteriormente. Non si vede perché gli effetti della
progressività siano considerati eccessivi e quindi meritevoli di riduzione per i redditi
immobiliari e non anche per quelli da lavoro; o cosa accomuni il reddito prodotto dal
trading di titoli in borsa alla rendita finanziaria di un risparmiatore, tassata si al 12,5%,
ma su una base imponibile che, per almeno i due terzi, sconta la svalutazione del capitale
investito.
In una visione sistematica dei tributi il peso eccessivo dell’imposizione sui redditi
immobiliari può essere riequilibrato intervenendo sia sull’ ICI di cui potrebbe essere
ammessa la deducibilità dall’ IRE/IRPEF, sia sulla base imponibile che potrebbe essere
ulteriormente ridotta per gli immobili dati in locazione; riducendo la convenienza ad
evadere senza scardinare ulteriormente l’IRPEF.
Probabilmente la ragione principale del disinteresse ad affrontare in modo
pertinente il tema della struttura del sistema tributario e dei suoi riflessi distributivi ed
allocativi che minano la competitività fiscale del nostro sistema tributario, nasce proprio
dalla frammentazione degli interessi che caratterizza la nostra economia e che ha
contribuito a costruire nel tempo un modello a carattere accentuatamente corporativo.
Vi è in molti il timore diffuso che una riforma incisiva in senso competitivo del
sistema tributario comporti la perdita dei privilegi e benefici attuali, mentre non si è in
grado di valutare i possibili futuri vantaggi; d’altra parte la vasta platea di contribuenti,
che non gode di particolari privilegi o non raggiunge un livello di reddito tale da rendere
conveniente un'organizzazione fiscale più complessa a fini elusivi, si arrangia come può,
alimentando i mille rivoli dell'evasione di massa e dell’economia irregolare.
Ora quindi, il primo e più urgente problema è quello di affrontare correttamente la
questione tributaria, liberando il dibattito da profili moralistici e classisti, al cui riparo si è
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
consolidato il sistema vigente; ristabilendo le condizioni per il ripristino non solo formale
dello Stato di diritto in campo tributario, il cui presupposto è costituito dalla parità di
trattamento per tutti i contribuenti, in rapporto alla propria effettiva capacità contributiva e
quindi con una particolare attenzione alle interrelazioni tra i diversi tributi che ne
condizionano gli effetti distributivi.
E' ben vero che l'evasione fiscale rappresenta un evidente elemento di distorsione
distributiva, che oltre ad alimentare disparità di trattamento tra contribuenti, prive di
qualsiasi supporto logico, ha effetti distorsivi sulla concorrenza e quindi sul corretto
funzionamento del mercato. D’altra parte, questo è probabilmente l'aspetto più discutibile
dell'attuale politica tributaria, la pretesa di operare una più energica politica di contrasto
all'evasione, senza aggredire le cause strutturali che l'alimentano, segna la differenza tra
l'aver conseguito alcuni risultati pur apprezzabili in singoli settori particolarmente critici, e
l'avviare un coerente e razionale disegno riformatore finalizzato a contrastare l'evasione,
attraverso una più equilibrata distribuzione degli oneri tributari tra le diverse imposte per
l'insieme dei contribuenti, aumentando il grado di adesione dei contribuenti al dovere
fiscale (tax compliance).
Due esempi, tra i molti possibili, evidenziano questa assenza di una visione
realistica dei problemi distributivi e di efficienza del sistema tributario e degli strumenti
idonei a correggere tali problemi; questioni probabilmente non ignorate neppure dal
Governo, ma in contrasto con i propri impellenti obiettivi di gettito. Il primo esempio si
riferisce ai trasferimenti immobiliari: negli ultimi due anni una serie di interventi di
razionalizzazione avevano esteso il modello di imposizione in base ai valori catastali avviato
da Visentini (mai abbastanza benemerito per questa intuizione) oltre vent'anni fa a tutti i
trasferimenti, generalizzando la separazione tra valore fiscale ai fini del trasferimento e
valore contrattuale stabilito nell'atto.
Inopinatamente, in parallelo con un processo di revisione delle rendite catastali che
comporterà a regime incrementi anche molto considerevoli, la Finanziaria 2007 ha limitato
l'applicazione della Visentini ai soli trasferimenti di abitazioni tra privati. Una scelta dettata
da un fiscalismo non solo miope, ma anche poco intelligente. Vale la pena di ricordare che
l'attuale regime delle imposte catastali è stato pensato quando gli immobili non erano
sottoposti ad una imposta patrimoniale a carattere ordinario, come avviene oggi con l’ICI, e
che comunque l'aumento delle rendite catastali in corso poteva essere accompagnato da
una minore riduzione dell'aliquota dell'imposta di registro, con effetti positivi sul gettito.
Senza ricorrere ad interventi che segmentano senza valide ragioni economiche il
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
mercato immobiliare e comportano la sottrazione di alcune migliaia di dipendenti a compiti
più produttivi, con costi di gestione notevoli, ed alimenteranno un contenzioso di cui non si
sentiva alcun bisogno. Una scelta assai discutibile anche dal punto di vista socio-economico,
che comporterà un consistente aumento della quota di denaro liquido necessaria per
l'acquisto di una abitazione con mutuo da parte di giovani coppie, con rinvio degli acquisti
ed effetti depressivi sulla domanda di abitazioni di nuova costruzione.
Ancora più discutibile e comunque priva di qualsiasi logica dal punto di vista del
contrasto all'evasione, la serie di interventi a cascata sugli studi di settore prodotti
nell’ultimo anno in cui convivono norme finalizzate a ridurre la possibilità di forzare il
software Gerico, del tutto ragionevoli, con altre finalizzate ad aumentarne il gettito, che non
intervengono sul meccanismo di funzionamento, migliorandone la capacità di valutazione
media delle diverse realtà economiche sottoposte agli studi; ma guardano solo all’aumento
degli imponibili con interventi sui parametri valutativi che contrastano, specie dopo la loro
estensione alle società di capitali, con la funzione degli studi.
Questi ultimi, introdotti nella seconda metà degli anni '90 sulla base della
consolidata e positiva esperienza francese, ma con il limite di dovervi far rientrare un
numero di contribuenti tre volte maggiore, non essendo previsto, nel nostro modello di
imposizione personale, uno strumento deflativo paragonabile alla "déclaration contrôlée"
francese, che separi nettamente il regime fiscale del maggior numero di contribuenti
minori, rispetto a quello ordinario, hanno avuto un ruolo decisivo nello spingere l'insieme
dei contribuenti a presentare dichiarazioni dei redditi meno irrealistiche, rispetto ad un
recente passato.
Il condono del 2003, finalizzato a favorire il passaggio dal sistema di detrazioni
d’imposta, proprio dell'IRPEF, al nuovo modello di deduzioni allargate, previsto dalla
nuova IRE, con l'obiettivo di ampliare in misura significativa gli imponibili dichiarati, senza
sostanziali aggravi d'imposta per i contribuenti, e l'estensione degli studi alle società di
capitali nel 2005, hanno ulteriormente amplificato questo processo, puntualmente
osservabile ad un'analisi attenta dell'andamento del gettito dell'IRE e dell'IRES, e per
trascinamento dell'IRAP e dell'IVA interna, negli ultimi quattro anni.
Ma gli studi di settore non possono essere considerati un surrogato di un sistema
di catastalizzazione dei redditi che, per l'ampiezza della platea dei soggetti coinvolti,
sarebbe di assai difficile realizzazione e comporterebbe comunque una forbice di
adattabilità ed avvicinamento alla realtà dei singoli, tale da renderli difficilmente
compatibili con i principi di parità di trattamento e capacità contributiva.
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Gli attuali studi di settore costituiscono al contrario uno strumento di
pianificazione fiscale p e r i contribuenti e di selezione delle posizioni da sottoporre a
verifica da parte dell'Amministrazione, che richiedono per svolgere in modo efficace il loro
ruolo, un affinamento continuo, specie dal punto di vista della diversificazione territoriale,
ancora assai poco considerata. Non si comprende perché, ad esempio, gli studi non
prendano in considerazione alcuni indicatori derivati dall’IRAP, imposta che, per il suo
carattere reale, presenta un maggiore grado di resistenza all'evasione ed i cui elementi
essenziali potrebbero essere utilizzati per un affinamento degli indici di congruità e
coerenza.
Ipotesi questa che consentirebbe di definire anche la questione dei limiti di
applicabilità dell’IRAP alle attività di lavoro autonomo; il cui carattere di imposta che
discrimina i redditi di lavoro sulla base di criteri opinabili è stato attenuato, ma non
risolto, dalla giurisprudenza della Cassazione ed attende quindi una soluzione legislativa.
La successione di interventi normativi sugli studi, nell’ultimo anno solo in parte
corretti, attraverso un’interpretazione meno rigida da parte dell’Agenzia delle Entrate,
dopo le proteste delle categorie interessate,
evidenziano la loro irrazionalità ed
arbitrarietà, ed un forte impulso verso il loro progressivo impiego quale strumento di
catastalizzazione impropria dei redditi e di riserva di gettito. Una scelta doppiamente
infelice, perché, aumentando in modo considerevole (l'Agenzia delle Entrate stima in 200
- 250 euro mensili per ciascun contribuente il complesso dei maggiori oneri medi
conseguenti all'insieme delle misure adottate) ed indiscriminato il prelievo per tutti i
contribuenti, non solo non inciderà neppure marginalmente sul nocciolo duro
dell’evasione, ma concentrerà ulteriormente la gran parte dei maggiori oneri tributari sui
redditi medi, tendenzialmente decrescenti, caratterizzati, nonostante una consistente
evasione, da un’altrettanto elevata imposizione fiscale: con effetti distributivi inaccettabili.
E' infatti un dato di comune esperienza che l'elasticità degli studi rispetto alla
situazione
economico-reddituale
cresce
all’ammontare
del
reddito.
Alimentando
ulteriormente una doppia curva di fatto della progressività dell'imposta personale, che
penalizza in misura crescente i redditi medio-bassi da lavoro autonomo e d'impresa
minore rispetto a quelli da lavoro dipendente. Al crescere del reddito la situazione invece
si inverte, al punto che non solo la maggior parte dei contribuenti con reddito superiore ai
100.000 euro annui sono dipendenti, ma che il loro numero sul totale è appena lo 0,8%.
E' in questo quadro che si inseriscono misure quali l'applicabilità degli studi fino
dal primo anno di attività o per periodi inferiori all'anno solare; la possibilità per
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
l'amministrazione finanziaria di effettuare accertamenti per il semplice scostamento di un
solo anno dagli indici degli studi; il carattere di presunzione di evasione per lo
scostamento dagli indici, senza la necessità per l'amministrazione di integrare
l'accertamento con elementi relativi alla realtà di fatto del contribuente, come richiesto
dalla giurisprudenza tributaria, anche di legittimità; l'introduzione, senza alcun confronto
con le categorie rappresentative e senza un minimo di pubblicità sui criteri adottati, di un
nuovo indice di normalità, la cui attendibilità statistica, proprio in relazione alle novità
introdotte, appare del tutto opinabile ed il cui unico effetto reale è stato quello di
spingere comunque i contribuenti ad adeguarvisi, trasformando di fatto gli studi in un
modello di catastalizzazione insieme zoppo ed iniquo.
Intendiamoci, se l’obiettivo era quello di aumentare in misura consistente il
gettito dell’imposta sul reddito a carico dei contribuenti assoggettati agli studi di settore,
operando una redistribuzione dell’imposta interna alle diverse categorie di appartenenza
dei contribuenti, il risultato è stato sicuramente conseguito. Quello che invece è
inaccettabile per il giurista è che interventi di questo tipo, privi di qualsiasi selettività
vengono contrabbandati come strumenti di contrasto all’evasione fiscale
Ma l'aspetto più sconcertante è rappresentato dall'effetto a cascata di novità
normative introdotte con atti ed in tempi diversi, ed applicabili, con effetto retroattivo, ai
redditi 2006 non ancora dichiarati, ma già prodotti per alcuni milioni di contribuenti.
Effetto che si è cominciato ad avvertire nella primavera 2007 quando i contribuenti
assoggettati agli studi di settore hanno potuto quantificare, in termini di maggiori imposte
dovute, le conseguenze delle novità decise nel corso del 2006 e nei primi mesi del 2007.
In particolare, i precari equilibri intorno ai quali ruotano gli studi di settore sono
saltati per effetto dei nuovi indici di normalità, la cui attendibilità, all'interno di un modello
che ingloba oltre cinque milioni di contribuenti, appare scarsamente significativa; e
comunque non assistita da alcuna evidenza empirica che colleghi uno scostamento dagli
indici di normalità (per di più per un solo periodo d'imposta, come stabilito dalla
Finanziaria 2007) ad un comportamento di evasione, specie per la loro applicazione
retroattiva.
Non meno discutibile appare poi il tentativo, da parte dell'Agenzia delle Entrate,
di minimizzare gli effetti normativi delle modifiche legislative introdotte, e di porvi in
qualche modo riparo, dopo le proteste delle categorie interessate, con interpretazioni
riduttive che, ancorché apprezzabili, dilatano ulteriormente i margini di discrezionalità di
una azione amministrativa che dovrebbe essere, al contrario, predeterminata per legge.
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Che l’applicazione retroattiva dei nuovi indici degli studi di settore abbia effetti di
contenimento dell’evasione molto più modesti rispetto a quanto sostenuto dal Governo, è
del resto dimostrato dalla crescita nel 2007 della voce relativa all’autotassazione a saldo,
che si riferisce ai redditi prodotti nel 2006, prima delle modifiche introdotte dalla
Finanziaria 2007, quasi doppia rispetto a quella in acconto. Per cui, a parte la evidente
irragionevolezza dell’applicazione retroattiva della riforma degli studi a redditi prodotti nel
2006, tutto fa intendere che, in assenza di interventi strutturali sull’IRE/IRPEF, che
riducano la convenienza ad evadere, gli effetti di gettito della riforma degli studi,
evidenziati
nel
2007,
saranno
gradualmente
riassorbiti
e
l’evasione,
premiata
dall’aumento della progressività marginale, riprenderà a crescere.
3) Alcuni caratteri distintivi dell’evasione italiana, loro riflessi sul ciclo economico
e limiti delle analisi previsionali; in particolare la riforma dell’IRE/IRPEF del 2007
Bisogna tuttavia riconoscere che l'azione del Governo ha evidenziato in questo
settore del metodo; la lotta all'evasione ha rappresentato infatti, a partire dalle cifre
iscritte nelle tabelle allegate alla Finanziaria, che prevedevano di incassare nel 2007, 3
miliardi e 200 milioni di curo di maggiori imposte, dal recupero dell'evasione nel solo
settore dei contribuenti assoggettati agli studi di settore, e quasi 8 miliardi complessivi, il
contenitore cui sono confluiti invece gli effetti dei due decreti Bersani — Visco e della
riforma dell'IRE/IRPEF, attuata con la Legge Finanziaria.
E' facile comprendere che l'assenza di qualsiasi selettività nella più forte delle
misure "grandine" che hanno colpito i contribuenti nell'ultimo anno, e cioè la revisione
degli studi di settore, avrà effetti modesti, quando non marginali, sul contenimento
strutturale dell'evasione, si comporterà infatti sostanzialmente come una sovraimposta
capitaria. Ma la determinazione con cui si è mascherato, a partire dalla Legge Finanziaria
2007, un ulteriore consistente aumento della pressione fiscale, come risultato della
politica di contrasto all'evasione e quindi con effetti neutrali per i contribuenti corretti,
susciterebbe ammirazione, se non avesse prodotto una serie di effetti collaterali, tutt'altro
che positivi, che evidenziano quanto meno notevoli carenze nella comprensione del
fenomeno evasione e più in generale dagli effetti economici della manovra delle imposte.
Da un lato l'incremento del gettito rispetto alle previsioni della Finanziaria 2007
ha superato a consuntivo abbondantemente un punto di PIL (43,3% contro 42,1%), per
effetto di un aumento generalizzato delle imposte per la quasi totalità dei contribuenti,
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
assai più che per il pur significativo recupero di evasione in alcuni settori a rischio come
l'edilizia. Dall'altro la forte componente dell'incremento del prelievo legata alla riforma
dell'IRE — IRPEF, ha già determinato un colpo di freno all'economia, ben superiore allo
0,3% di PIL stimato dal Governo, quale effetto delle proprie scelte di finanza pubblica per
il 2007; offrendo la controprova che i maggiori introiti fiscali hanno inciso in larga
prevalenza sulla capacità di spesa delle famiglie e di investimento delle imprese minori,
piuttosto che sulle ampie sacche di reddito sottratte al fisco dall'evasione "normale", che
alimenta la capacità di risparmio dei contribuenti a più elevato indice di evasione:
paradossalmente i meno incisi dalle misure antievasione adottate dal Governo tra il 2006
e il 2007.
Così, mentre l'economia francese tedesca e spagnola hanno registrato nella
seconda metà del 2007 un significativo rallentamento della crescita, prontamente
contrastato dai rispettivi Governi con politiche tributarie espansive (la Spagna ha ad
esempio tagliato con la manovra di bilancio 2007 -18,5 miliardi di imposte), l'economia
italiana, fortemente dipendente da quei mercati, che da soli assorbono circa un terzo
delle nostre esportazioni, è oggetto, da luglio, di un aumento indiscriminato delle imposte
a carico di famiglie ed imprese, che da sole comporteranno una riduzione della crescita
prossima ad un punto di PIL nel 2008. Con effetti di trascinamento sul debito pubblico, la
cui riduzione non è determinata soltanto dall'aumento del denominatore del gettito
tributario, come sembra ritenere il Governo, ma dall'altrettanto importante numeratore
rappresentato dalla crescita del PIL, bersaglio indiretto, ma purtroppo efficace della
politica tributaria negli ultimi due anni.
Vi è poi un altro profilo che merita di essere segnalato e che attiene alla perdita
di competitività del sistema, di origine fiscale, che appare, se non ignorata, quanto meno
rimossa dall’analisi economica.
La questione non rileva soltanto per il livello della pressione fiscale, che peraltro è
fra i più elevati tra i Paesi industrializzati; vi sono infatti Paesi come la Danimarca,
l'Olanda e la Svezia, o la stessa Francia in cui la pressione fiscale, anche tenendo conto,
dell'economia irregolare, che in Italia tende a sottostimare il peso reale del fisco, è
superiore a quella italiana, ma con effetti meno negativi sulla competitività del sistema.
In questi Paesi le imposte sul reddito sono molto meno onerose rispetto all'Italia, sia con
riferimento alle famiglie, sia alle imprese, mentre una quota crescente del gettito viene
assicurata da imposte sui consumi come l'IVA, che non incidono sulle esportazioni e
quindi ne favoriscono l'espansione.
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Il problema del fisco italiano non è quindi solo o principalmente un problema di
dimensione del prelievo, questione dai confini incerti, caratterizzata da profili politici che
non si prestano ad essere oggetto di analisi giuridica, ma di qualità e di distribuzione del
gettito fra le diverse componenti che caratterizzano l'economia italiana. Il cui carattere
dualista tende ad essere ulteriormente divaricato da una politica tributaria poco attenta
alle persone, alle famiglie e alle imprese, e più in generale ai problemi di competitività;
una forbice che si è accentuata in modo esponenziale negli ultimi anni, e trae alimento
dagli interessi, dai pregiudizi e dalle abitudini del nostro modello di economia, al tempo
stesso irregolare, corporativa e assistita.
Tuttavia il dato forse più sconcertante è rappresentato dalla mancanza di
attendibilità del quadro previsionale relativo alla dinamica delle entrate degli ultimi due
anni.
Se nel 2006 l'aumento di quasi 23 miliardi di curo del gettito tributario, in
aggiunta ai 15,5 previsti dalla Legge Finanziaria di quell’anno, era in parte giustificato da
un andamento più favorevole della crescita del PIL rispetto alle previsioni (+1,9 rispetto al
+1,3 stimato dalla Finanziaria) da misure una tantum, quali la rivalutazione dei beni
aziendali ovvero ad effetto non facilmente predeterminabile, quale l'estensione degli studi
di settore alle società di capitali, resta il fatto che almeno 12 miliardi di maggiori entrate
sono stati il frutto, secondo il ministro dell'Economia Padoa Schioppa, di una maggiore
"tax compliance" da parte dei contribuenti.
Secondo il Governo Prodi, ma anche per molti commentatori (si veda ad esempio
“La Finanza Pubblica italiana”, Rapporti 2006-2007, Il Mulino), sarebbero il frutto della
propria politica di annunci di rigore fiscale (niente condoni e lotta all'evasione), che
avrebbe prodotto un effetto anticipato di diciotto mesi rispetto all’azione del futuro
Governo Prodi. Le opinioni sono evidentemente tutte rispettabili, ma queste, più che
opinioni appaiono atti di fede.
La realtà è un po' diversa e meno fantasiosa: basta confrontare i dati
sull'andamento del gettito delle principali imposte tra il 2004 e il 2006 per comprendere
che una parte consistente delle maggiori entrate nelle imposte dirette (IRE, IRES, IRAP)
nei diversi comparti era stato determinato dagli effetti del secondo modulo della riforma
dell'IRE e dai primi interventi di alleggerimento dell'IRAP per le imprese fino a cinque
dipendenti, avviati con la Finanziaria 2005.
Una conseguenza positiva delle misure di riduzione dell'imposizione sul reddito e
sulle attività minori pari a oltre 6 miliardi di euro, adottate in quel periodo che non aveva
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
nulla di ideologico e che era stata fortemente sottovalutata anche dal Governo di centro
destra che le aveva attuate.
L’aumento generalizzato che si riscontra tra il 2005 e il 2006 sia nelle ritenute
d'acconto per i redditi da lavoro autonomo, la cui dinamica è stata superiore a quella delle
ritenute da lavoro dipendente del settore privato, sia più in generale nell'auto tassazione,
evidenziano questo effetto virtuoso, che si riflette in parte anche sull’IVA e che non
troverebbe altrimenti spiegazioni in un anno, il 2005 di crescita zero.
Ma il dato più interessante per comprendere gli effetti sulla propensione ad
evadere determinati dal secondo modulo della riforma tributaria è rappresentato
dall’andamento dell’IRAP nel settore privato. Mentre nel 2004 l’IRAP, non sfiorata dal
primo modulo della riforma tributaria, registra un calo di mezzo miliardo di euro, a partire
dal 2005, e sino a tutt’oggi l’imposta è oggetto di una dinamica del gettito nel settore
privato del +10,5% nel 2005, anno di economia stagnate; del + 9,3% nel 2006 e del +
6,3% nel 2007 (nonostante il taglio del cuneo fiscale). Data la maggiore resistenza
dell’IRAP all’evasione, per il suo carattere d’imposta reale, sembra verosimile che una
parte significativa del maggior gettito sia conseguenza delle riduzioni fiscali mirate decise
tra il 2005 ed il 2006.
Un comportamento quindi determinato in tutta evidenza non da maggiore
attenzione da parte del Governo Prodi per le politiche antievasione (le condizioni,
obiettivamente vantaggiose, per definire eventuali accertamenti non hanno subito infatti
modifica alcuna negli ultimi anni, e quindi per i contribuenti il rischio da “evasione” è
rimasto invariato) ma dalla minor convenienza ad evadere, per i redditi medi, in seguito
all'allargamento dell'area delle deducibilità e alla riduzione della progressività marginale
dell'imposta personale, decise nei due anni precedenti.
Un dato che avrebbe meritato di essere valutato con maggiore attenzione non
solo da parte del nuovo Governo e che avrebbe consigliato ulteriori interventi di
razionalizzazione nella curva delle aliquote e di allargamento delle deduzioni a favore
della famiglia e delle imprese minori, accompagnati dalle correzioni di alcune
incongruenze nel sistema delle deduzioni decrescenti, ereditate dalla parziale attuazione
della legge delega di riforma del sistema tributario 80/2003 in continuità con tale legge.
Coniugando insieme obiettivi di equità, efficienza e razionalità. Una scelta equilibrata, di
graduale riallocazione degli oneri tributari, che avrebbe probabilmente avuto, se
perseguita con continuità, effetti redistributivi interni al sistema tributario, maggiori di
quelli perseguiti nel 2006/07 dal governo Prodi, senza produrre gli effetti collaterali
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
evidenziati in precedenza.
La riforma dell'IRE-IRPEF attuata con la Finanziaria 2007, strumento inidoneo
rispetto all’adozione di riforme ordinamentali e quindi senza alcun confronto e valutazione
seria sugli effetti economici e distributivi e con stime sul gettito errate, appariva a chi
scrive, già alla luce di alcuni dati parziali relativi alle entrate tributarie del primo semestre
2007, come una riforma onerosa per i contribuenti sotto il profilo del gettito, ed iniqua dal
punto di vista distributivo.
Il confronto di tali primi dati con quelli del primo trimestre 2008, relativi ai redditi
da lavoro dipendente del settore privato i soli comparabili, dopo il diverso accorpamento di
quelli del settore pubblico operato dal mese di gennaio, cresciuti del 12,5%, in un periodo
in cui l’aumento dell’occupazione si è arrestato e non risultano particolari distribuzioni di
compensi arretrati, conferma il giudizio negativo sugli effetti distributivi e più in generale
economici indotti dall’aumento della progressività per i redditi medio-bassi dalla riforma
dell’IRE-IRPEF del 2007.
Risultato peraltro prevedibile che anche in considerazione dell’inversione del ciclo a
partire dall’autunno 2007 avrebbe richiesto una prima correzione con la finanziaria 2008,
almeno per la componente relativa al drenaggio fiscale, cui si deve la maggior parte
dell’ulteriore incremento delle ritenute sui redditi da lavoro dipendente nel primo trimestre
2008.
L'arbitrarietà ed irrazionalità di un sistema di detrazioni d'imposta decrescenti che,
oltre a mascherare evidenti aspetti di illusione finanziaria, perché aumenta la progressività
implicita del tributo, penalizza a parità di reddito quelli con carichi familiari, è stata più volte
sottolineata dai giuristi per i profili di incostituzionalità che essa riverbera sul nuovo modello
di imposizione del reddito personale. Ma l'aspetto più critico dell'imposta sul reddito
personale, versione 2007, è quello relativo al maggior gettito atteso, stimato dalla
Finanziaria, al netto delle riduzioni, pari a 230 milioni di euro: un dato che, a consuntivo,
occorrerà moltiplicare per dieci volte o forse più, e che evidenzia il carattere improvvisato di
una riforma che ha avuto esiti distributivi molto meno favorevoli per i contribuenti minori
rispetto a quanto affermato dai sostenitori della riforma. Per un lavoratore dipendente la
soglia di indifferenza si colloca intorno ai 1.150 euro mensili netti, ad un livello cioè tre volte
inferiore rispetto alle stime del Governo.
Anche il riferimento all’aumento degli assegni familiari, sottolineato da qualche
economista, per giustificare la riforma sotto il profilo distributivo, appare inconferente,
perché mentre la crescita del prelievo investe la maggior parte dei contribuenti, l’aumento
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
degli assegni familiari riguarda solo una parte dei medesimi; d’altra parte anche gli assegni
familiari hanno carattere decrescente e contribuiscono quindi ad aumentare la progressività
marginale dell’imposta, con effetti distorsivi nella distribuzione dei redditi.
Senza dire che se la sottostima del gettito, oltre precisi limiti di prudenza, appare
sempre criticabile in quanto determina incrementi di prelievo non valutati nella loro effettiva
portata dal Parlamento e quindi consentiti solo formalmente, essa diviene, francamente
inaccettabile quando è il frutto di una riforma dell'imposta personale, i cui effetti di gettito
apparivano, già al momento della presentazione delle tabelle allegate alle Finanziaria, frutto
di un esercizio di fantasia; e la cui collocazione deve quindi trovare necessariamente spazio
nella voce relativa al recupero di evasione, non a caso portata alla inverosimile cifra di 8
miliardi di euro. I quali ricomprendono quindi sia gli effetti della revisione retroattiva degli
studi di settore, per 3.3 miliardi, sia quelli relativi alla riforma dell’IRE/IRPEF, che valgono
almeno 4.5 miliardi, sia le misure di allargamento degli imponibili: tutti interventi che con il
contenimento dell’evasione hanno una parentela incerta o lontana.
4) Il ruolo dei sostituti d’imposta per contenere l’evasione nelle imprese minori:
funzione e limiti della cosiddetta tracciabilità
L’analisi dell’andamento delle entrate negli ultimi 2 anni è comunque di notevole
interesse per il giurista (nei tributi i numeri sono il risultato diretto delle norme) perché
consente non solo di verificare se gli effetti attesi degli interventi di riforma abbiano trovato,
e in che misura, corrispondenza nell’andamento del gettito dei principali tributi, ma anche di
avere riscontri, sia pure indiretti, sul ruolo giocato dalla nuova IRE/IRPEF, sull’aumento del
gettito del tributo riformato.
Evidenzia inoltre la natura tendenzialmente effimera di misure cosiddette
antievasione che, intervenendo senza alcuna selettività sugli imponibili, non rimuovono le
cause che rendono poco attendibili le dichiarazioni dei contribuenti minori, che non operino
in prevalenza in rapporto con soggetti di grandi dimensioni; e ne sottolineano quindi le
finalità essenzialmente di gettito.
Raffaello Lupi, in più occasioni, ha evidenziato con chiarezza i limiti, innanzitutto
culturali, di un approccio al tema dell’evasione che pretende di ricostruirne i profili
economici ricorrendo a categorie moralistiche e utilizza la figura dei grandi evasori come
strumento di consenso e di coesione sociale, senza porsi il problema centrale del diverso
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
grado di valutabilità, intrinseco a ciascuna attività, del proprio valore rappresentato dal
reddito.
In particolare, osserva Lupi, il fisco da un lato non sempre utilizza le potenzialità
relative alla grande massa di informazioni che provengono dalle aziende istituzionalizzate
per affinare i controlli sui contribuenti minori; dall’altro “valuta” questi ultimi in base ai
medesimi strumenti analitico-contabili che descrivono la realtà economica delle imprese
istituzionalizzate, con il risultato di avere, nella maggior parte dei casi, una fotografia delle
attività minori dai contorni sfumati; circostanza che ovviamente non si riscontra nelle realtà
istituzionalizzate, in cui la numerosità dei dipendenti rappresenta un elemento che limita
molto l’evasione fiscale, fino a renderla, almeno nel settore delle retribuzioni, praticamente
irrilevante.
In un’impresa di dimensione minore ad esempio, la quota variabile del salario può
essere corrisposta ai dipendenti almeno in parte fuori busta, sulla base di reciproche
convenienze tra proprietà e dipendenti; ma il fenomeno, quando il loro numero cresce ed il
ruolo organizzativo dell’azienda tende a differenziarsi rispetto a quello della proprietà,
inevitabilmente si contrae progressivamente, fino a sparire.
Purtroppo, e questo è un altro aspetto che viene ignorato quando si analizza
l’anomalia dell’evasione italiana, il fisco costituisce assieme alla legislazione sul lavoro un
ostacolo decisivo alla crescita dimensionale delle imprese; ed infatti negli ultimi
trentacinque anni il numero medio di addetti per impresa nell’industria manifatturiera si è
ridotto del 40% (da 5,3 a 3,8 addetti per impresa), in controtendenza rispetto al resto dei
Paesi industrializzati: insomma dimensione delle imprese e struttura distributiva del
prelievo, che concentra la propria attenzione prevalentemente sui ricavi e sul valore
aggiunto della produzione, costituiscono un elemento sinergico che contribuisce ad
alimentare l’evasione e a distribuirla sull’intero sistema tributario.
In questo senso deve essere riconsiderato anche l’eccesso di fiducia riposto dagli
economisti negli strumenti di etero-determinazione delle imposte, attraverso la tracciabilità
delle attività, specie minori, per garantire la fedeltà fiscale: l’impiego su larga scala della
figura del “sostituto d’imposta” per assicurare il versamento dei tributi ha effetti molto
meno certi dal punto di vista del contrasto all’evasione, quando le dimensioni dei soggetti
coinvolti (minori) facilitano gli accordi bilaterali, ai danni del fisco. Fenomeno questo
particolarmente evidente nella attività di lavoro autonomo, che si riverbera sul gettito
dell’IVA, sia perché la maggior parte delle attività non viene fatturata, sia perché una quota
dell’IVA è dedotta indebitamente.
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Ma il vero elemento di debolezza delle politiche di contrasto all’evasione, basate su
analisi del fenomeno di tipo sociologico, o semplicemente economiche, è rappresentato
dall’assenza di quella visione di insieme nell’apprezzamento della realtà economica che solo
la sensibilità giuridica è in grado di assicurare; specie in relazione ad attività che, ancorché
minori, tendono ad assumere, anche sotto il profilo organizzativo, una complessità
inimmaginabile non più di dieci o quindici anni fa.
E cosa, se non l’assenza di metodo giuridico, ha caratterizzato negli ultimi due anni
la miriade di interventi normativi in campo tributario; l’obiettivo, va da sé condivisibile di
contrastare l’evasione, non basta a caratterizzare la sommatoria di interventi nei settori più
disparati, privi di qualsiasi visione di sistema, in una svolta capace di imprimere un indirizzo
nuovo alla politica tributaria, migliorandone gli assetti distributivi.
La scarsa propensione a stimare la capacità economica, evidente nel nostro
modello di imposizione, si estende al sistema dei controlli, concentrati prevalentemente
sulle attività maggiori, e orientati all’analisi degli effetti delle realtà economiche apparenti,
piuttosto che alla scoperta ed alla valutazione di quelle eventualmente occultate.
Una scelta questa comprensibile perché non espone i funzionari ai rischi propri
delle attività valutative, che presentano sempre dei margini di discrezionalità piuttosto
ampi, ma che certo non contribuisce ad aumentare la capacità di contrasto all’evasione.
All’interno di questo quadro di riferimento la scelta da parte del governo Prodi, di
moltiplicare gli adempimenti amministrativi a carico dei contribuenti, con l’obiettivo di
aumentare la tracciabilità dell’attività per estendere il livello di adesione spontanea (taxcompliance) appare una scelta comprensibile ma, per le ragioni rappresentate in
precedenza, poco efficace, e per alcuni versi controproducente.
La non portabilità degli assegni, ad esempio, in aree caratterizzate da diffusa
evasione e da economia irregolare, non aumenta la tracciabilità delle operazioni, ma solo
un ampliamento delle operazioni definite per contanti: in un quadro di generale
rallentamento delle attività economiche che non preclude ad un miglioramento del tessuto
economico, ma solo ad una osmosi tra l’area dell’economia irregolare e quella dell’evasione.
L’influenza delle scelte di politica tributaria sul sistema produttivo, non riguarda
solo la struttura delle imposte, che possono essere più o meno orientate a favorirne la
crescita, ma investe anche i profili che attengono ai costi amministrativi e burocratici che
l’adempimento degli obblighi tributari comporta per il sistema produttivo; riguarda quindi
direttamente anche il sistema dei controlli, che a sua volta è influenzato dalla struttura delle
imposte.
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Sotto questo profilo i dati relativi al maggior gettito delle attività di controllo tra il
2006 e il 2008, offrono alcuni importanti spunti di riflessione. Il primo è che l’incremento
dell’azione di contrasto all’evasione che si è manifestata sia attraverso una maggiore
incisività dei profili normativi dell’attività di controllo, sia nell’aumento del numero delle
verifiche, ha comportato una lievitazione degli incassi, tra ruoli e versamenti diretti pari a 2
miliardi di euro nel 2007 rispetto all’anno precedente (4,367 miliardi nel 2006 – 6,376
miliardi nel 2007). Nel primo quadrimestre del 2008 il trend si è mantenuto positivo con un
delta di incremento del 24%, che sembra confermare l’andamento dell’anno precedente,
con un rallentamento della crescita degli incassi in base a ruoli, che sconta lo smaltimento
di una parte consistente degli arretrati, da parte della riscossione, in seguito ai più incisivi
strumenti esecutivi introdotti da Tremonti a fine 2005.
Si tratta di risultati complessivamente molto positivi, che richiedono tuttavia
qualche elemento di valutazione integrativo.
Il primo riguarda l’IVA: qui i dati relativi all’attività di accertamento evidenziano un
significativo calo sia nelle grandi aziende (-36% rispetto al 2006), sia in quelle dei soggetti
diversi, con ricavi fino a 25,822 milioni di euro.
Ora, poiché il differenziale di evasione dell’IVA italiana rispetto agli altri partner
europei è rimasto negli anni sostanzialmente invariato, e anche negli ultimi due il recupero,
pur significativo del gettito dell’IVA ha evidenziato solo una modesta inversione di tendenza
in questo campo, appare evidente, come il problema del contrasto all’evasione sia anche un
problema di controlli più efficaci, ma non si esaurisce certo nei controlli.
Anche perché, pur ammettendo che il trend di recupero dell’evasione si mantenga
ai livelli attuali anche nei prossimi anni, il che è evidentemente almeno dubbio, ci vorrebbe
circa un quarto di secolo per eliminare l’evasione anomala, per collocarci al livello degli altri
Paesi avanzati. Senza perdere di vista che l’aggravio per i contribuenti del costo di gestione
degli adempimenti amministrativi, è aumentato negli ultimi 2 anni, per la sola parte
tributaria ad oltre 2 miliardi di euro, il che evidentemente incide sulla competitività del
sistema.
Questa conclusione, sia ben chiaro, non sminuisce affatto il risultato molto positivo
della lotta all’evasione (quella vera) negli ultimi 2 anni. Vuole, nell’evidenziarne
l’importanza, sottolineare le necessità accanto alle tradizionali politiche di contrasto
all’evasione, basate su controlli, di integrare tali politiche con una serie di interventi
complementari sulla struttura delle imposte finalizzati da un lato a ridurre la convenienza ad
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
evadere, dall’altro rendere il sistema tributario più attrezzato, sotto il profilo ordinamentale,
a contrastare l’evasione fiscale.
Sotto questo profilo l’avere, negli ultimi 2 anni, messo insieme misure di effettivo
contrasto all’evasione, con altre finalizzate esclusivamente a fare cassa, costituisce un
evidente limite di quelle politiche, che ne ha in larga misura minato la credibilità; e la cui
sottovalutazione in termini di maggiore gettito della nuova IRPEF, e degli interventi sugli
studi di settore (per la loro applicazione retroattiva) ha determinato in Italia, in una fase
turbolenta dell’economia mondiale, una stretta fiscale di cui non si avvertiva alcun bisogno.
In conclusione, e sulla base dell’esperienza degli ultimi anni, è possibile individuare,
all’interno di un percorso finalizzato ad accrescere il grado di competitività fiscale del
sistema, alcuni indirizzi normativi coerenti con questo obiettivo, idonei a ridurre
gradualmente gli spazi e le convenienze che oggi alimentano l’evasione, contribuendo al
tempo stesso a rendere più robusto il nostro sistema produttivo.
Il tutto, si badi bene, lasciando al legislatore il pieno esercizio della discrezionalità
legislativa in campo tributario; recuperando alla normazione il ruolo suo proprio di
strumento tecnico insostituibile, per regolare gli interessi individuati dalla politica, secondo
l’indirizzo politico che essa di volta in volta esprime.
5) Ricerca di un equilibrio tra contenimento dell’evasione e rilancio della
competitività del sistema tributario: in particolare il regime delle imprese minori e quello
dei redditi familiari.
Una politica tributaria, finalizzata a migliorarne la coerenza sotto il profilo
distributivo e ad aumentarne il grado di competitività internazionale, sulla base degli
indirizzi analizzati in precedenza, attraverso l’individuazione di interventi normativi in
sintonia con tali obiettivi, dovrebbe caratterizzarsi per alcune linee di fondo, chiaramente
percepibili dall’insieme dei contribuenti, da attuare per gradi, nell’arco di alcuni anni.
Un primo obiettivo dovrebbe essere finalizzato a realizzare una consistente
riduzione del carico tributario, a favore delle famiglie e delle imprese, accompagnata da una
redistribuzione del prelievo tra imposte dirette ed IVA di consistenza almeno pari. La tesi
che solo il recupero dell’evasione rappresenti la condizione preliminare per una riduzione
delle imposte, il che in presenza di un’elevata evasione costituisce spesso un alibi per
ulteriori aumenti, non è nella realtà, specie italiana, sostenuta da dati di esperienza e va
quindi capovolta.
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Ovviamente la scelta dei mezzi per attuare la riduzione delle imposte non è
indifferente: deve essere cioè attuata con l’impiego accorto di strumenti tra loro coordinati,
idonei a produrre un effetto clessidra virtuoso. Meno imposte sui redditi attraverso modalità
che facilitino l’allargamento degli imponibili, per determinare un effetto di traboccamento
che si rifletta positivamente sul gettito dell’IVA e sull’IRAP , incrementandolo.
Se si analizzano le conseguenze delle riduzioni fiscali decise tra il 2001 e il 2005,
questa tendenza al riequilibrio, sia nella distribuzione delle imposte sul reddito tra le diverse
tipologie di contribuenti, sia tra le imposte sui redditi e quelle sul valore aggiunto (IRAP e
IVA) appare ad una attenta analisi dell’evoluzione del gettito delle principali imposte
evidente; e il dato risulta tanto più interessante perché questi effetti si sono prodotti
all’interno di un contesto in cui le riduzioni fiscali rispondevano ad esigenze politiche
contingenti, piuttosto che ad un disegno finalizzato ad un riequilibrio del gettito tra i diversi
tributi.
Al contrario lo slittamento di un anno nell’adozione del secondo modulo della
riforma del IRE-IRPEF (nel 2005 anziché nel 2004, con effetti sul gettito prevalentemente
nel 2006) ne ha probabilmente limitato parzialmente l’impatto, in termini di riduzioni attese
delle imposte da parte dei contribuenti, ritardando di molti mesi l’inversione del ciclo. Ma la
tesi che la politica tributaria, in quella legislatura, non priva di incertezze nel perseguire il
disegno riformatore, sia stata lassista, quando non addirittura compiacente con l’evasione,
per via dei condoni, ovviamente criticabili, non trova riscontri nella realtà. Basta guardare
all’aumento a due cifre del gettito dell’IRES e dell’IRAP a partire dal 2005 ed al lento ma
costante recupero del gettito effettivo dell’IVA interna in quegli anni, per cogliere indizi di
segno opposto che occorre riprendere oggi, con maggiore determinazione ed una attenta
analisi proprio sulla base di quella esperienza.
Anche l’opinione, più volte ripresa da studiosi di economia pubblica, che i condoni
alimenterebbero l’evasione appare, nella realtà italiana, poco convincente: Certo i condoni
non giovano alla serietà dell’ordinamento che li adotta per fini di cassa spesso discutibili
(vedi rottamazione delle cartelle esattoriali); ma il successo in termini di gettito e il
conseguente allargamento delle basi imponibili determinato dagli ultimi condoni, taglia alla
radice qualsiasi obiezione relativa al fatto che i condoni sottrarrebbero in futuro una parte
consistente di imponibili evasi alla possibilità di accertamenti. In tutti i casi, non è affatto
dimostrato che i contribuenti siano spinti ad evadere nell’attesa di un futuro condono, ma
per le caratteristiche strutturali delle principali imposte che alimentano la convenienza ad
evadere.
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Al contrario i condoni in quanto aumentano in una misura esponenziale il rischio dei
controllo, operano in senso inverso; obbligano cioè il contribuente poco corretto ad aderirvi
(per altro senza alcun entusiasmo). In una situazione ordinaria in cui un contribuente poco
fortunato (non si esprime, ovviamente, alcun giudizio di valore) può concordare un
eventuale accertamento dell’Ufficio con uno sconto medio del 50% e con sanzioni ridotte
ad un quarto, l’idea che siano i condoni ad alimentare l’evasione, al di là di una critica
politica convincente, rispetto al loro abuso, significa avere un’idea del fenomeno evasione in
Italia quanto meno approssimativa. Anche questi esempi facilmente riscontrabili, nella
realtà del sistema tributario, riconducono alla necessità di interventi normativi che
riducendo la convenienza ad evadere, limitino il fenomeno all’origine, in maniera
incomparabilmente più efficace rispetto a strumenti di controllo che operino ex post su una
platea di soggetti amplissima.
Un discorso analogo può essere sviluppato per l’andamento dell’IRAP di cui è
evidente lo stretto collegamento con le imposte sui redditi, ed i cui effetti distorsivi nei
confronti delle esportazioni ne richiederebbe in prospettiva l’assorbimento nell’IVA. Una sua
riduzione, parallela a quella delle imposte sui redditi, che in una prima fase potrebbe vedere
concentrati i benefici prevalentemente sul lavoro dipendente, favorirebbe anch’essa la
graduale emersione di base imponibile nelle imposte dirette, con effetti positivi in termini
non solo distributivi, ma di coerenza complessiva del sistema.
Tra le diverse possibili opzioni per ridurre, in misura consistente, il peso dell’ IRAP
per i contribuenti, senza incidere sul gettito delle Regioni, vi è quella di rendere deducibile
l’IRAP dalle imposte sui redditi. Questione questa all’attenzione da tempo della Corte
Costituzionale , per i palesi effetti distorsivi della parità di trattamento che essa determina
tra i contribuenti, senza alcun collegamento con la capacità contributiva; e che, se non è
stata ancora decisa dalla Corte, evidentemente per la difficoltà di trovare una motivazione
convincente circa la legittimità dell’attuale regime di indeducibilità, ma anche per i riflessi
che una eventuale decisione sfavorevole al fisco avrebbe sul bilancio dello Stato, potrebbe
essere affrontata dal nuovo Governo con un riconoscimento graduale della deducibilità che
risolverebbe in radice il problema dei rimborsi, perché consentirebbe alla Corte, sulla base
del nuovo orientamento legislativo, di superare i problemi di costituzionalità tuttora irrisolti .
La tesi, sostenuta dai non molti economisti che ancora sostengono le ragioni di
questo tributo, tanto originale da non essere stato adottato in nessun altro Stato del
pianeta, che la deducibilità sarebbe un falso problema perché, ove il tributo fosse deducibile
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dall’imposta sul reddito, lo stesso gettito potrebbe essere assicurato attraverso l’adozione di
un’aliquota più elevata, per cui il conto, finirebbe quindi in parità, è suggestiva.
Dal punto di vista del fisco, l’osservazione è corretta; non lo è però per i diretti
interessati, i contribuenti che, se assoggettati all’IRES, non possono riportare in avanti la
perdita fiscale nel caso, tutt’altro che infrequente, di un’impresa il cui esercizio chiuda in
perdita. La situazione per le persone fisiche, se possibile, è ancora più grave, perché sul
valore dell’IRAP assolta e non deducibile dall’IRE-IRPEF, si applica un’aliquota progressiva:
il che è coerente con le caratteristiche del tributo personale, ma è del tutto irragionevole,
perché l’IRAP rappresenta un costo per il contribuente, e non una espressione del proprio
reddito.
Una soluzione potrebbe essere quella di realizzare la piena deducibilità dall’imposta
sui redditi, in un arco di tre o quattro anni, coprendo i costi relativi (2,5-3 miliardi all’anno)
con l’incremento del gettito tendenziale dell’IRAP del settore privato; il quale a partire dal
2004 presenta una dinamica superiore a quella delle altre principali imposte che evidenzia
una tendenza al contenimento dell’evasione, che precede di alcuni anni il Governo Prodi, ed
è stata sicuramente incoraggiata dall’introduzione a partire dal 2005 di una no tax area pari
a 7.500 euro per i contribuenti IRAP, con 5 dipendenti o meno.
In ogni caso, nell’arco di qualche anno, il peso dell’IRAP, quantomeno nel settore
privato dovrebbe essere fortemente ridimensionato, in parallelo con il recupero
dell’evasione all’IVA, la cui attribuzione del gettito alle Regioni potrebbe favorire questo
processo virtuoso per la competitività del sistema, senza riflessi negativi sui bilanci delle
Regioni.
In connessione con la scelta di rendere deducibile l’IRAP, andrebbe affrontato
anche il più ampio tema della disciplina delle deducibilità nelle imposte sui redditi e non
solo. L’attuale modello, basato in larga prevalenza su deducibilità al tasso del 19%, risulta
di dubbia legittimità, perché aumenta la progressività implicita delle imposte sui redditi in
modo poco trasparente, mentre l’eccessivo peso delle aliquote rispetto alle deduzioni e alle
detrazioni d’imposta per determinare la progressività implicita, ed il valore modesto della
quota deducibile (19%) rispetto alla spesa sostenuta, ne annullano praticamente l’efficacia
sotto il profilo del contrasto di interessi.
La soluzione probabilmente più ragionevole è quella di riconsiderare le attuali
deduzioni al 19%, sostituendole gradualmente con deduzioni piene relativamente ad alcune
spese socialmente rilevanti (spese per la salute, la cultura e l’istruzione, i trasporti, i mutui
ed in genere il risparmio di lunga durata). L’ampliamento dell’area della deducibilità, nella
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prospettiva di un modello di imposizione a due scaglioni, simile a quello previsto dalla legge
80/2003, assicurerebbe la progressività del tributo, affiancando la no tax area e la family
area; per queste ultime la deduzione potrebbe avere ancora carattere moderatamente
decrescente, fino ad annullarsi al passaggio del reddito al secondo scaglione.
L’esperienza degli interventi di riduzione delle imposte sul reddito e dell’IRAP tra il
2005 e il 2006 basata sull’allargamento dell’area della deducibilità, offre la conferma
dell’utilità di strumenti di questo tipo per aumentare la tax-compliance; anche in questo
settore tuttavia non ci si deve attendere miracoli. L’importante è che gli interventi di
riduzione delle imposte sul reddito e dell’IRAP, su cui il Governo mantieme un’ampia
discrezionalità nella scelta degli interventi, siano complementari e modulati all’interno di un
quadro normativo finalizzato a favorire l’emersione di valore aggiunto ai fini dell’IVA,
attraverso modelli impositivi che privilegino la progressività per deduzione rispetto a quella
per aliquota.
Il vantaggio di un percorso di questo tipo è evidente: da un lato, facilita l’emersione
graduale di quella parte consistente dell’economia irregolare che fugge da imposte
modulate sulla capacità economica della parte più sviluppata del Paese; tema questo che
meriterebbe una maggiore attenzione da parte degli studiosi di economia pubblica, che in
genere hanno, specie negli ultimi anni, sottovalutato gli effetti della fiscalità, in cui
un’economia, quale quella italiana, che resta sostanzialmente dualista. Dall’altro sposta una
quota del prelievo dalle imposte dirette all’IVA, aumentando la competitività fiscale
dell’economia nazionale.
Non è questa la sede per affrontare i complessi problemi collegati con il non più
rinviabile avvio di un modello di decentramento fiscale, finalizzato da un lato a
responsabilizzare maggiormente le politiche di spesa locali, attraverso una più ampia
autonomia tributaria, percepibile dai cittadini. Mi sembra tuttavia evidente che, poiché la
diversa capacità fiscale per abitante obblighi già oggi e vincolerà ancor più in futuro le aree
economicamente più deboli ad avere una fiscalità locale relativamente più onerosa per
assicurare ai cittadini diritti sociali comparabili su tutto il territorio della Repubblica,
l’estensione della deducibilità delle imposte locali (IRAP, ICI) da quelle statali sul reddito,
assicurerebbe, al contrario di quanto previsto dalla legge delega di attuazione dei principi di
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, presentata nell’agosto 2007
dal Governo Prodi, un parziale riequilibrio, in piena coerenza con la funzione propria del
sistema tributario dello Stato, che è quella di assicurare la perequazione e la tendenziale
parità di trattamento nella distribuzione degli oneri fiscali.
33
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Ma l’intervento legislativo più sconcertante è quello stabilito dall’art.1 comma 43
della legge 244/07 (Finanziaria 2008). La disposizione stabilisce che a partire dal 1°
gennaio 2009 l’IRAP è istituita con legge regionale, ma con tali limitazioni quanto alla
manovrabilità del tributo da parte delle Regioni, da renderne quanto meno dubbia la
qualificazione di tributo proprio. Viene poi ribadita l’indeducibilità dell’IRAP dalle imposte sui
redditi: disposizione evidentemente inutile perché, come del resto ribadito anche dalla
Corte Cosituzionale, il regime di indeducibilità dell’IRAP dalle imposte sui redditi; riverbera
la sua possibile illegittimità sull’IRE/IRPEF e sull’IRES, non certo sull’IRAP. La disposizione in
parola, in quanto rivolta al legislatore nazionale non ha pertanto valore neppure come
principio di coordinamento, ai sensi dell’art.117 terzo comma Cost.. L’unica cosa che appare
chiara, in questa fase che dovrebbe preludere all’avvio del federalismo fiscale è che nella
delicata e complessa vicenda del decentramento tributario gli interessi del cittadino
contribuente sono semplicemente ignorati.
La scarsa attenzione alla famiglia che caratterizza il nostro sistema tributario, a
partire dalle riforme degli anni ’70, ha, in parallelo con l’incremento della pressione fiscale,
rilanciato l’attenzione verso modelli diversi, quali lo splitting allargato della Germania o il
quoziente familiare francese, che determinano in quei Paesi una tassazione dei redditi
familiari molto più generosa della nostra (in Francia ad esempio una famiglia di quattro
persone con un reddito annuo complessivo di 75.000 euro paga 5.800 euro, ovvero poco
più di un quarto di una sua omologa italiana).
Il problema tuttavia non riguarda il mezzo (nell’esempio il quoziente familiare), ma
il risultato. Se la scelta del legislatore andrà nel senso di una decisa riduzione della
progressività per aliquota, come nel modello del 2003, il quoziente familiare è uno
strumento del tutto inutile, perché il 98% dei contribuenti rientrerebbe nel primo scaglione
e quindi il quoziente sarebbe ininfluente rispetto alla progressività per aliquota. Al contrario
per i contribuenti con i redditi più elevati il quoziente determinerebbe una riduzione
eccessiva del tributo con evidenti effetti regressivi, insostenibili sia dal punto di vista dei
principi, sia sotto il profilo politico.
L’obiettivo di ridurre il peso del fisco familiare potrebbe essere invece assicurato da
un graduale ampliamento della family area con strumenti che non penalizzino il lavoro
femminile, specie part-time, ed assicurino una ragionevole gradualità nella perdita degli
sconti fiscali dal momento del raggiungimento della maggiore età da parte dei figli.
L’elasticità positiva che caratterizza il sistema tributario italiano rispetto a riduzioni
mirate delle imposte sul reddito e sull’IRAP, sperimentata tra il 2002 e il 2006 consente di
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
programmare una serie di ulteriori consistenti riduzioni dell’ imposta personale, finalizzata
sia ad assecondare l’emersione delle attività irregolari, sia al riequilibrio tra imposte sui
redditi ed IVA. L’intervento dal lato delle entrate per raggiungere questi obiettivi deve avere
dimensioni consistenti e quindi ha senso solo se accompagnato da una riduzione della
spesa che la stabilizzi in termini reali, accordandone la dinamica al tasso di inflazione;
contribuendo così ad innescare un circolo virtuoso in cui il peso della spesa pubblica
rispetto al PIL diminuirebbe tanto più velocemente quanto più una politica finanziaria
virtuosa favorisca una maggiore e positiva dinamica del prodotto interno lordo.
Un’altra linea guida dovrebbe riguardare le modalità di determinazione delle
imposte per i redditi minori da lavoro autonomo o di impresa. Si tratta di un nodo cruciale
del nostro sistema tributario sin qui irrisolto, sia per il numero dei contribuenti interessati
(svariati milioni tra lavoratori autonomi ed imprese individuali) sia per la struttura del
sistema tributario, che non prevede, se non in misura marginale (ad esempio le nuove
iniziative), un regime differenziato rispetto a quello dei contribuenti maggiori; con evidenti
riflessi sul funzionamento dell’IVA, per la difficoltà di limitare la deducibilità degli acquisti
non strettamente inerenti l’attività svolta, dato l’elevatissimo numero di partite IVA.
La strada da percorrere, a mio avviso, è quella di favorire la fuoriuscita dal regime
di deducibilità dell’IVA per almeno un paio di milioni di lavoratori autonomi ed imprenditori
individuali, riducendo gli adempimenti contabili, ma non fino al punto di lasciare il
contribuente libero di dichiarare quel che gli pare, fidando solo sulla tracciabilità delle
operazioni.
Una scelta quest’ultima fatta propria dalla Finanziaria 2007, che di fatto sembra
favorire le attività svolte a favore dei privati o caratterizzate da sottofatturazione elevata,
ma non risolve il problema di come determinare il carico d’imposta per i singoli contribuenti,
attraverso un collegamento meno evanescente all’attività economica effettivamente svolta
da ciascuno.
Ritengo che un ragionevole punto di equilibrio, tra riduzione dei costi gestionali e
convenienza tributaria da un lato, ed un tendenziale maggior realismo delle dichiarazioni
possa essere trovato attraverso un regime forfetario, magari a valenza biennale, che
preveda comunque, sul modello francese, il filtro di un controllo preventivo, magari
biennale, da parte dell’Amministrazione finanziaria, differenziato, a seconda che riguardi il
lavoro autonomo o i redditi d’impresa minore (in questo caso il tetto potrebbe essere
portato a 100.000 euro). Una soluzione, quindi che, in tema di semplificazione tenga conto
dell’esperienza tedesca e del contributo di quella dottrina che ancora la legittimità di modelli
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
di semplificazione o di tipo forfettario, al fatto che questi siano attuati in modo da favorire
l’estensione dell’eguaglianza tributaria, valorizzando il criterio di proporzionalità tra mezzi e
risultati.
Il nuovo regime forfetario dovrebbe essere comunque collegato ad una evoluzione
degli studi di settore che consenta di ridurre lo scarto tra volume d’affari, reddito e relativo
rango di coerenza con gli studi, privilegiando quegli elementi che consentano di non fare
lievitare eccessivamente il reddito imponibile rispetto ai ricavi. In questo senso appare
evidente il ruolo giocato dalle deduzioni, che rappresentano pur sempre un elemento
significativo per risalire al volume di affari reale e la cui efficacia è tanto maggiore quanto
minore è lo scarto tra aliquota media,che determina l’effetto distributivo implicito dei tributi,
e quella marginale che costituisce il sovrappremio dell’evasione. Il che riconduce, quasi
fatalmente, se si riconosce il carattere prioritario che riveste l’obiettivo di una maggiore e
diffusa regolarità fiscale, a percorrere con determinazione la strada delle riduzioni fiscali
mirate.
In ogni caso gli studi di settore devono essere considerati uno strumento in
continua evoluzione; il loro affinamento presuppone da una lato l’allargamento dei
parametri di valutazione all’IRAP e all’IVA; dall’altro un recupero di flessibilità, che ne
corregga gli sbandamenti dovuti ad alcuni interventi estemporanei del legislatore nel 2007.
La tendenza dovrebbe essere quella di orientare gli studi verso modelli che privilegino la
crescita dei ricavi e del valore aggiunto rispetto alla determinazione del reddito che
potrebbe essere integrata con uno specifico indice di normalità territoriale. Favorendo una
programmazione fiscale che renda meno conveniente l’occultamento di una parte dei costi,
per aggirare il software GERICO.
L’esperienza delle politiche di contrasto all’evasione, che per tanta parte hanno
condizionato la politica tributaria nell’ultima legislatura fino al punto di far perdere di vista
altri aspetti non meno importanti, quali ad esempio l’impatto delle decisioni di politica
tributaria sulle aspettative delle famiglie e più in generale sull’economia, offre lo spunto per
alcune considerazioni conclusive.
La prima è che non basta porsi un obiettivo virtuoso (ad esempio la lotta
all’evasione) per attuare una politica tributaria equilibrata sia sotto il profilo distributivo sia
dal punto di vista economico L’abuso della retroattività ed una riforma dell’IRE-IRPEF nel
2007 con fini prevalentemente redistributivi hanno, probabilmente al di là delle stesse
intenzioni del legislatore, colpito una platea così ampia di contribuenti da provocare una
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
frattura che si è dimostrata insanabile tra maggioranza del corpo elettorale e Governo, ed
ha avuto un ruolo determinante nella conclusione anticipata della legislatura.
Il cui lascito, per altro non certo irrilevante è che il contrasto all’evasione strutturale
debba comunque rappresentare una priorità anche per il prossimo Governo.
La seconda è che la gestione di realtà complesse come quella tributaria presuppone
una accurata individuazione di strumenti giuridici di semplice gestione, coerenti con
l’obiettivo di ridurre la convenienza ad evadere, non certo il loro sistematico snaturamento,
o peggio l’idea che il diritto rappresenti un inutile orpello di cui sbarazzarsi alla prima
occasione.
La terza considerazione, connessa con la precedente, riguarda l’analisi degli effetti
della politica tributaria: esame che, per le logiche di sistema proprie di tutti gli ordinamenti
giuridici, non può certo limitarsi ad analizzare le singole disposizioni di legge, ma deve
essere in grado di comprenderne le ricadute, indirette sull’intero ordinamento tributario, e
di prevederne ragionevolmente le conseguenze economiche.
Un metodo questo quanto meno sottovalutato, sia nell’approccio con cui sono state
individuate e costruite le innumerevoli novità tributarie della legislatura appena conclusa,
sia nell’analisi degli effetti delle disposizioni, che specie da parte di studiosi di economia
pubblica, sono state in genere sopravvalutate negli effetti positivi, senza porre attenzione
alle ricadute sul sistema, quanto meno problematiche, quando non prevedibilmente
negative.
Trovo ad esempio sorprendente la generale sottovalutazione delle conseguenze, sul
terreno della crescita, di una concentrazione degli effetti delle misure fiscali, adottate dal
Governo Prodi nel 2006 e con la Finanziaria 2007 anche per l’abuso di disposizioni
retroattive,; un colpo di freno all’economia pari a 16,5 miliardi di euro in 5 mesi (tra luglio e
novembre 2007) concentrato su famiglie e imprese, a cui vanno sommate almeno 4,3
miliardi di maggiori imposte (tra IRE-IRPEF e addizionali) a carico del lavoro dipendente (a
partire da gennaio 2007): una stretta fiscale priva di senso anche in termini di politica di
bilancio (ne è prova il rinvio al 2008 di versamenti a carico della riscossione previsti a
dicembre per circa 5 miliardi di euro), che evidenzia una incredibile navigazione a vista nel
Governo della finanza pubblica.
Non ignoro che una parte del maggior gettito dei tributi sia stato utilizzato per
finanziare interventi che a prima vista appaiono ragionevoli sotto il profilo distributivo e che
avrebbero meritato di essere inseriti nel sistema in un diverso contesto. Resto invece
perplesso rispetto ad esercizi di misurazione degli effetti distributivi della politica fiscale
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
(basati sull’applicazione di indici quali quello di Gini) che ovviamente non possono tener
conto né dell’evasione né dell’economia irregolare.
Mi sembra contraddittorio da un lato sottolineare il carattere anomalo, anche dal
punto di vista dimensionale dell’economia irregolare in Italia. (20%- 25% del PIL) e farne
dedurre da questo dato una stima dell’evasione pari a 120-150 miliardi di euro, come se
l’economia irregolare non pagasse alcun tributo; e utilizzare poi quale indice di riduzione
delle disuguaglianze, misure di sostegno diretto a favore dei contribuenti che risultino
incapienti rispetto a nuove detrazioni fiscali, quando non vi è alcuna evidenza empirica che
all’area dell’incapienza corrisponda nella maggior parte dei casi, un disagio, e non un
comportamento fiscalmente irregolare. Insomma l’impiego di strumenti di imposizione
negativa, ben noti anche alla cultura giuridica, appaiono nelle attuali circostanze, piuttosto
un esercizio teorico, supportato da ottime intenzioni, che un tassello organico di una
evoluzione delle imposte verso un sistema più razionale ed equilibrato ed attento alle
persone.
Il problema degli incapienti è determinato essenzialmente dal mancato raccordo tra
il limite di reddito da non superare per essere considerato a carico di un altro familiare
convivente (2.840 euro), limite al di sotto del quale il dichiarante ha diritto ad una
detrazione di 800 euro ed il minimo imponibile fissato sia per i redditi da lavoro dipendente
(8.000 euro), sia per quelli da lavoro autonomo (4.500 euro) ad un livello molto più
elevato. Elemento questo che alimenta in molti casi il lavoro nero e, nelle detrazioni diffuse
di redditi modesti ma superiori a 2.840 euro, l’incapienza delle detrazioni stabilite a
sostegno della famiglia. IL solo percorso razionale è quindi quello di elevare la detrazione
per carichi familiari al livello del minimo imponibile, conservandone il carattere decrescente.
Probabilmente le misure a favore degli incapienti, introdotte con il decreto legge di
accompagnamento alla Finanziaria, uno strumento, sia detto per inciso, giuridicamente
abnorme, rispondevano alla motivazione inespressa di voler correggere l’aumento eccessivo
del prelievo, determinato dalla riforma dell’IRE/IRPEF del 2007, per i contribuenti a basso
reddito. Una toppa peggiore del buco, come si usa dire nella patria di Goldoni.
Queste osservazioni sottolineano da un lato la complessità dei problemi, dall’altro
l’importanza di affermare una tendenza a favorire comportamenti orientati ad una maggiore
regolarità fiscale, come conseguenza di una struttura delle imposte meno aggressiva sulle
realtà visibili, e più equilibrata verso le altre , che non possono godere, come spesso
avviene oggi, di ampie zone franche.
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Una tendenza che va costruita gradualmente e che non si presta ad essere gestita
con approssimazione, o peggio ancora con aumenti di imposta a pioggia su intere categorie
di contribuenti, per di più con effetti retroattivi su redditi già prodotti, del tutto irragionevoli.
In conclusione non mi nascondo i limiti di un approccio al tema dell’evasione che si basi
essenzialmente sull’analisi tecnica dei profili giuridici dei principali tributi, sulla loro reciproca
interdipendenza e su dati di gettito caratterizzati da disaggregazioni significative, ma pur
sempre parziali; e che su questi elementi costruisca ipotesi di interventi normativi finalizzati
ad aumentare il grado di effettività, sistematicità, eguaglianza distributiva e competitività
dell’ordinamento tributario.
D’altra parte è di tutta evidenza l’interconnessione tra l’obiettivo di avviare a
compimento un moderno sistema di decentramento fiscale, e la necessità di una riforma
complessiva del sistema tributario, funzionale a rendere possibile questo obiettivo. Sotto
questo profilo,il progetto di legge di federalismo fiscale proposto dalla Regione Lombardia,
rappresenta molto più di una provocazione, perché evidenzia l’impossibilità di finanziare con
l’attuale sistema tributario, e con un trasferimento di funzioni, non parametrato alla stessa
scala dimensionale (e di popolazione) delle Regioni, i costi del decentramento. Ben inteso,
nessuno pensa di invadere il terreno della discrezionalità legislativa, ma poiché tutta la
materia è coperta da riserva di legge ed in diverse circostanze investe anche principi di
rilievo costituzionale, appare evidente l’urgenza, oltre che la necessità di affrontare le
questioni che attengono al fisco con minore improvvisazione rispetto ad un passato
recente, rivalutando il ruolo centrale svolto dalla normazione per perseguire gli obiettivi
posti dalla discrezionalità politica.
Naturalmente ho presenti i punti di vista, talvolta divergenti con le conclusioni qui
espresse, offerti dall’analisi economica rispetto al tema dell’evasione e più in generale al
tema degli effetti dei tributi.
La mia impressione è che questo derivi non solo dalla diversità del metodo
impiegato; quello economico in particolare sembra talvolta condizionato sia da esperienze
di diversa origine, non facilmente trasferibili nella realtà italiana, sia più in generale dalla
sottovalutazione degli aspetti giuridici dai quali, specie in campi come quello tributario, non
è possibile prescindere!
Si pensi, ad esempio, al tema delle deduzioni, in genere sottovalutato nei suoi
effetti sul sistema tributario italiano, specie con riferimento all’evasione, dall’analisi
economica. Non mi riferisco solo alle argomentazioni di tipo etico, per le quali il dovere di
assolvere agli obblighi tributari dovrebbe valere a prescindere dai benefici che da questo
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
comportamento possano derivarne ai contribuenti, alle quali posso solo osservare che la
mia analisi si muove su un piano diverso.
Penso invece all’obiezione che il contrasto di interessi per essere efficace dovrebbe
determinare per il fisco una perdita fiscale per via della deducibilità, pari all’imposta versata
dal contribuente che ha diritto alla deduzione. Tesi questa non convincente perché si limita
ad analizzare le conseguenze della deducibilità nella sola imposta sul reddito, senza
considerare gli effetti positivi che l’allargamento degli imponibili comunque comporta sul
gettito delle altre imposte collegate all’attività svolta dal contribuente, quali l’IRAP e l’IVA.
Né il fatto che l’allargamento dell’area della deducibilità rappresenta un ottimo indicatore
per sottoporre a verifica la valutazione reddituale dell’attività dichiarata avvicinandola a
quella effettiva.
Questa opinione conferma i limiti di un approccio esclusivamente economico
all’analisi del tributo e delle sue vicende che, anche per lo scarso interesse manifestato dai
giuristi ai temi della normazione, è sempre più considerato nell’opinione corrente una
questione di interesse strettamente economico. Con il risultato che la vicenda dei tributi
appare sempre meno orientata ad essere analizzata con riguardo agli effetti che essa
determina in fatto: parametro quest’ultimo obbligato dell’analisi giuridica.
Questo limite intrinseco all’analisi dei tributi oggi prevalente in Italia è ben
evidenziato dal tema della capacità contributiva , tautologico per gli economisti; parametro
di riferimento per definirne la legittimità, per l’analisi giuridica. Ma forse la conseguenza più
paradossale di questa condizione squilibrata nell’approccio all’analisi dei tributi è che i temi
degli effetti economici reali e della competitività del sistema tributario sono oggi, in Italia,
se non ignorati quanto meno molto sottovalutati; per la buona ragione che di norma si
parla di tributi in maniera del tutto generica senza conoscerne i delicati meccanismi di
funzionamento. I quali evidentemente sono tutt’altro che indifferenti sia rispetto agli effetti
distributivi sia a quelli economici.
La conclusione che si può trarre dall’esame degli indirizzi della politica tributaria
degli ultimi due anni è che, al di là dell’ingegno nel contrasto all’evasione che ha
accompagnato l’azione del Governo Prodi, sia purtroppo mancata quella visione organica,
intrinseca alla metodologia giuridica che sola consente di coordinare a sistema l’insieme di
misure a carattere settoriale, all’interno di un’architettura normativa coerente. In questa
prospettiva l’analisi economica dei tributi rappresenta, a mio modo di vedere, uno
strumento complementare di sicura utilità rispetto al metodo giuridico, per orientare la
disciplina delle imposte. Ma non possa costituire come nel recente passato il solo parametro
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
di riferimento per affrontare la complessa realtà tributaria italiana, largamente
insoddisfacente anche per l’eclissi del diritto che da troppo tempo ne rappresenta un
elemento caratterizzante.
41
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Los derechos fundamentales de los extranjeros a la luz de la jurisprudencia del
Tribunal Constitucional
por Nicolás Pérez Sola1
I.- Los pronunciamientos iniciales del Tribunal Constitucional
Creemos que un elemento imprescindible para conocer el estatuto jurídico del
inmigrante en nuestro país lo constituye la jurisprudencia constitucional, en la que se
aprecia una evolución significativa en la materia. Si bien esta lectura debe ser
complementada con otros pronunciamientos del Alto Tribunal respecto al contenido
esencial de los derechos fundamentales o el valor hermenéutico de los tratados
internacionales, en los que se contiene un reconocimiento expreso de los mismos, a
tenor de la falta de homogeneidad que preside
la proclamación constitucional de la
titularidad de los derechos fundamentales por los extranjeros. Es por ello que la
interpretación de la Constitución (en adelante CE), en el ámbito de la titularidad de los
derechos fundamentales, queda abierta a un amplio margen de apreciación que pasa,
inicialmente, por una aproximación a los términos del artículo 13 de esta Norma
Fundamental. Como ya destacara la doctrina, el enunciado literal del artículo 13 CE
permite una gradación en las condiciones de ejercicio de los derechos por los extranjeros,
insistiendo el constituyente en la configuración legal de los mismos. No cabe duda que el
mandato del artículo 13 CE nos remite al legislador para configurar los términos exactos
del ejercicio de los derechos de los extranjeros2. Pero,
sin cuestionar este extremo,
debemos recordar que el legislador de los derechos fundamentales no goza de una
absoluta libertad para regular las condiciones del ejercicio de los mismos, aun cuando sus
titulares no sean nacionales. De una parte, el propio contenido esencial del derecho
fundamental actuará como un límite insalvable para el legislador, de otro, los tratados
internacionales completan el marco de referencia en el que debe operar el legislador
orgánico.
1
Universidad de Jaén (España); El presente trabajo se ha desarrollado en el marco del Proyecto de
Investigación SEJ2005-05368 El estatuto jurídico y los derechos de los inmigrantes dirigido por E. Aja. Una
versión actualizada aparecerá próximamente en el número 17 de la Revista de Derecho Migratorio y extranjería.
2
“Los extranjeros gozarán en España de las libertades públicas que garantiza” la Constitución española “en los
términos que establezcan los tratados y la ley”.
45
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
En todo caso las sucesivas reformas legales en la materia evidencian la
inexistencia de una orientación clara en la regulación de la inmigración. Así cabe recordar
que desde el año 2000 se han llevado a cabo las siguientes regulaciones: Ley Orgánica
4/2000 sobre derechos y libertades de los extranjeros en España y su integración social,
reformada por la Ley Orgánica 8/2000, cuya reforma se ha producido a través de la Ley
Orgánica 11/2003 de medidas concretas en materia de seguridad ciudadana, violencia
domestica e integración social de los extranjeros y por la Ley Orgánica 14/2003, sin
olvidar el vigente Reglamento de extranjería contenido en el Real Decreto 2393/20043.
.
En esta “configuración legal” el Tribunal Constitucional fundamentó, en su
temprana sentencia 107/1984, un primer intento de sistematización, a través de una
clasificación tripartita de los derechos fundamentales susceptibles de titularidad por los
extranjeros. Así, el Tribunal Constitucional, lejos de extraer una conclusión homogénea,
afirmaba en dicha sentencia que “la igualdad en el ejercicio de los derechos, (...)
depende, pues, del derecho afectado”, por lo que el propio Tribunal reconocía la
existencia de derechos que corresponden “por igual a españoles y extranjeros y cuya
regulación
ha de ser igual para ambos”, otros de los que estarían excluidos los
extranjeros y, finalmente “aquéllos que pertenecerán o no a los extranjeros según lo
dispongan los tratados y las leyes, siendo entonces admisible la diferencia de trato con
los españoles en cuanto a su ejercicio”.
Retomando brevemente los términos de aquella resolución encontramos una
referencia incompleta en la STC 107/1984 a la ubicación de los distintos derechos
proclamados en el Título I CE en cada una de estas categorías. En cuanto a los derechos
incluidos en este primer grupo, señalaba el Tribunal Constitucional,
cabe prescindir
“para modular el ejercicio del derecho” de la nacionalidad de sus titulares y, por tanto,
afirmar así “una completa igualdad entre españoles y extranjeros”, como ocurre respecto
de derechos que pertenecen a la persona en cuanto tal y que son “imprescindibles para
la garantía de la dignidad humana”, que fundamenta nuestro sistema político. Aunque
3
La sentencia de la Sala de lo Contencioso–administrativo del Tribunal Supremo de 20 de marzo de 2003
declaró nulos 12 artículos del Real Decreto 864/2001por el que se aprobaba el Reglamento de ejecución de la
Ley Orgánica 4/2000, ante la que el gobierno decidió la elaboración y aprobación del citado Real Decreto
2393/2004.
46
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
esta afirmación queda matizada ya que, dicha proclamación contenida en el artículo 14
de la CE4 se refiere “con exclusividad a los españoles”, sin que quepa deducir de la
Constitución dicha igualdad a los extranjeros. Pero la inexistencia de declaración
constitucional que proclame la igualdad de los extranjeros y españoles no es un
argumento indiscutible, sino que la interpretación del artículo 13 CE debe aportar los
instrumentos necesarios para determinar el alcance de este mandato constitucional (STC
107/84).
Es precisamente en este ámbito en el que la indeterminación pesa aún sobre el
legislador orgánico y constituye uno de los elementos más polémicos del debate actual
sobre extranjería. En efecto, como hemos apuntado en otro lugar5, el legislador orgánico
no ha sido ajeno a esta cuestión, si bien ha recogido de modo distinto la regulación de
las condiciones de igualdad en el ejercicio de los derechos por los extranjeros en los dos
textos aprobados en el año 2000. A nuestro entender, la clave que permite un
fundamento diferenciado entre ambos textos no es otra que el diverso entendimiento de
la extranjería que se deriva de las redacciones sucesivas del artículo 3 de la Ley
Orgánica. Es en este precepto, en nuestra opinión, donde se ubica el elemento esencial
de análisis por cuanto marca la pauta que luego de forma individualizada para los
diferentes derechos se concretará a lo largo del articulado de la norma. Inicialmente se
precisaba en la Ley Orgánica 4/2000 que “los extranjeros gozarán en España, en
igualdad de condiciones que los españoles, de los derechos y libertades reconocidos en el
Título I de la Constitución y en sus leyes de desarrollo, en los términos establecidos en
esta Ley Orgánica”. Pero esta redacción ha sufrido una clara modificación en la Ley
Orgánica 8/2000 al prescindir expresamente el legislador de referencia alguna a la
“igualdad de condiciones que los españoles”. Además, el segundo párrafo incorporado al
texto anterior si en principio recupera la igualdad, lo hace en un sentido claramente
restrictivo que invita desde la propia ley a llevar a cabo una lectura restringida del
alcance de la igualdad, frente al “efecto irradiador”6 respecto de todos los derechos que
permitía el artículo 3,1 en la redacción anterior de la que se derivaba un “fuerte
4
“Los españoles son iguales ante la ley”
Sobre las dudas de constitucionalidad de algunas limitaciones al ejercicio de derechos fundamentales ver
Pérez Sola, N., en Comentario a la Ley y Reglamento de Extranjería e Integración social, Monereo Pérez y
Molina Navarrete, Comares, Granada 2001 pags, y ss.
6
Aja, E.,(Coord.), La nueva regulación de la inmigración en España, Institut de Dret Public, Tirant lo blanch,
2000, pág. 76.
5
47
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
contenido simbólico”7.
De la redacción de la Ley Orgánica 4/2000 se deducía con
claridad que la invocación de la igualdad estaba destinada a operar sobre los derechos y
libertades reconocidos en el Título I de la CE, mientras que la incorporación como criterio
interpretativo de la igualdad en la Ley Orgánica 8/2000 tiene como destinatario a los
derechos en ella reconocidos8. Así en la vigente norma se afirma que “como criterio
interpretativo general, se entenderá que los extranjeros ejercitan los derechos que les
reconoce esta ley en condiciones de igualdad con los españoles”.
En otras ocasiones, ha señalado el Tribunal Constitucional, puede recaer en la
nacionalidad el elemento esencial para la determinación de los titulares de los derechos
y por ello no resultaría de aplicación el principio de igualdad, como sucede con la
participación en los asuntos públicos. Aunque esta afirmación fue matizada por el
Tribunal Constitucional en su Declaración de 1 de julio de 1992 que propició la única
reforma constitucional acaecida a nuestra Carta Magna de 1978. La Declaración de 1 de
julio de 1992 del Tribunal Constitucional marca, sin ningún género de dudas, un punto de
inflexión en el tratamiento de la extranjería. En esta Declaración se contiene la afirmación
de que el Tratado de la Unión Europea configura una “naciente ciudadanía europea”, en
orden a una “parcial superación del tradicional binomio nacional/extranjero por la vía de
la creación de aquel tercer status común”, que ha posibilitado a través de la reforma
constitucional, el reconocimiento de derechos de participación política inicialmente
reservados a los nacionales9, en favor de los extranjeros comunitarios más allá de la
estricta aplicación del criterio de la reciprocidad10.Tras esta afirmación, parece necesaria
la reconsideración de la titularidad de los derechos de participación política,
tradicionalmente los más estrechamente vinculados con la nacionalidad y en la actualidad
dotados de gran dinamismo. Pero también se deduce de esta Declaración una apuesta
7
Santaolaya Machetti, P., (Coord.), Comentarios a la nueva Ley de Extranjería, Lex Nova, Madrid, 2000, pág.
51.
8
Balaguer Callejón, F., “Derechos de los extranjeros e interpretación de las normas ( art. 3)",
en Moya
Escudero, M., (Coord.) Comentario Sistemático a la Ley de Extranjería, Comares, Granada 2000, pág. 481.
9
Recordemos que en la redacción de la primera ley de extranjería, la Ley Orgánica 7/1985, expresamente se
señalaba que los extranjeros no podrían ser titulares de los derechos de sufragio activo o pasivo ni acceder al
desempeño de cargos públicos, si bien se matizaba más adelante que se podría reconocer el derecho de
sufragio activo en las elecciones municipales a los extranjeros residentes “en los términos y con las condiciones
que, atendiendo a criterios de reciprocidad”, se estableciesen en tratados o por ley para los españoles
“residentes en los países de origen de aquellos” (art. 5).
10
Así podemos señalar con antelación a la reforma constitucional el Acuerdo entre España y los Países Bajos
por el que se reconoce el derecho a votar en elecciones municipales con carácter reciproco (BOE 8 de agosto de
1990), el Acuerdo entre España y Dinamarca (BOE 30 noviembre 1990) y los Acuerdos entre España y Noruega
y España y Suecia (BOE 27 junio 1991).
48
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
del Tribunal Constitucional en favor de una concepción-percepción superadora de las
categorías tradicionales de nacionalidad y extranjería aunque con un alcance por el
momento limitado.
Finalmente, existiría a la luz de esta jurisprudencia constitucional, un grupo de
derechos constitucionalizados que, de conformidad con el artículo 13.1 CE, su goce por
los extranjeros se realizará en los “términos de la ley”. No ha habido, sin embargo, por
parte del Tribunal Constitucional una invocación expresa de qué derechos fundamentales
serían incardinables en este grupo. Es, por tanto, en la concreción de los derechos
incluibles en el tercer grupo donde se planteaba bastante incertidumbre que el propio
Tribunal, consciente de ello, pretendía salvar señalando que el artículo 13.1 CE no deja
abierto el camino hacia la “desconstitucionalización” de la “posición jurídica de los
extranjeros” respecto de los derechos y libertades constitucionalizados, en la medida en
que el origen del reconocimiento de estos derechos no está en las libertades que les
atribuyan los tratados y la ley sino en la propia Constitución. Respecto de este tercer
grupo de derechos es cierto que desde la doctrina se señaló en un primer momento
como derechos incluibles en él los derechos de reunión y asociación junto a otros como
la libertad de residencia, el derecho a la enseñanza, a la sindicación y a la huelga11. Más
tarde, algún autor ha optado por excluir de este ámbito a los referidos derechos de
asociación y reunión apuntando su ubicación entre los que deben predicarse por igual de
todas las personas12. La incertidumbre sobre la identidad de los derechos incluibles en
este grupo quedó despejada tras la aprobación de la Ley Orgánica 8/2000 y solo con la
STC 236/2007, 259/2007 y siguientes ha sido matizada y concretada, como más tarde se
verá. En esta norma se reconoce a los extranjeros un conjunto de derechos pero su
ejercicio quedaba sujeto a la regularidad de su situación administrativa en nuestro país
y/o al contrato de trabajo, convirtiendo en una ficción su titularidad ya que no era posible
su ejercicio para los extranjeros que se encontrasen en una situación irregular.
Por otra parte, para Aragón Reyes la constatación que realiza el Tribunal
Constitucional en la Sentencia 107/1984 no es otra que el origen constitucional de los
derechos fundamentales de los extranjeros y de ahí su consideración como “verdaderos”
11
Cruz Villalón, P., “Formación y evolución de los derechos fundamentales”, Revista Española de Derecho
Constitucional, Núm. 25, enero-abril 1989.
12
Massó Garrote, M. F., Los derechos políticos de los extranjeros en el Estado nacional. Los derechos de
participación política y el derecho de acceso a funciones públicas, Colex, 1997.
49
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
derechos fundamentales, sin perjuicio de su configuración legal. Ahora bien, la diversa
consideración de los derechos fundamentales de los extranjeros realizada por nuestro
Tribunal se fundamenta para este autor en la mayor conexión con la dignidad humana de
la vida o la integridad física, del derecho a la libertad ideológica, a la intimidad y a la
libertad personal como a la tutela judicial efectiva. Sin embargo, otros derechos
constitucionalizados cuya “conexión no es directamente inmediata”, permite al legislador
introducir diferencias de trato siempre que respete el contenido esencial del derecho y
responda a criterios de “razonabilidad y proporcionalidad”13.
Es cierto que aquella inicial posición del Tribunal Constitucional ha sido matizada,
pues en la STC 115/1987 se declaró la inconstitucionalidad de algunos preceptos de la
Ley Orgánica 7/1985 sobre derechos y libertades de los extranjeros en España14.
Recodando brevemente algunas de las afirmaciones vertidas en aquella sentencia
recogemos los precisos términos en los que el Tribunal Constitucional centró aquél
debate: “una cosa es, en efecto, autorizar diferencias de tratamiento entre españoles y
extranjeros y otra es entender esa autorización como una posibilidad de legislar al
respecto sin tener en cuenta los preceptos constitucionales”. Por tanto, aunque el
Tribunal
parte del reconocimiento al legislador de la posibilidad de establecer
condicionamientos adicionales al ejercicio de derechos fundamentales por parte de los
extranjeros
(art.
13.1
CE),
en
todo
caso
debe
respetar
“las
prescripciones
constitucionales, pues no se puede estimar aquel precepto permitiendo que el legislador
configure libremente el contenido mismo del derecho cuando éste ya haya venido
reconocido por la Constitución directamente a los extranjeros”. A tenor de este
pronunciamiento del Tribunal los derechos de reunión y manifestación así como del de
asociación son predicables también de los extranjeros.
II.- La jurisprudencia sobre los derechos fundamentales de los
extranjeros
13
Aragón Reyes, M., “Es constitucional la nueva ley de extranjería”, Claves de Razón Práctica, núm. 112, pág.
14.
14
Brevemente expuesto el contenido de aquella Sentencia, el Tribunal Constitucional consideró contraria a la CE
la sujeción a autorización administrativa para el ejercicio de los derechos de reunión y asociación de los
extranjeros, así como la imposibilidad de que los jueces y tribunales pudieran suspender la ejecución de las
resoluciones administrativas que afectaran a los extranjeros, reconociendo que éstos eran titulares del derecho
a la tutela judicial efectiva.
50
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Con posterioridad, y con un alcance más limitado, se han sucedido
pronunciamientos relativos a la protección de los derechos de los extranjeros que, si
bien reflejan una cierta evolución en la doctrina del Tribunal, no permiten extraer una
jurisprudencia sólida a tenor de los concretos ámbitos de garantía cuestionados. En una
breve enumeración por su significación podemos recordar un pequeño bloque de
Sentencias relativas a
las cautelas que deben ir unidas a la expulsión en las que el
Tribunal ha matizado las garantías que deben presidir los procedimientos de expulsión
administrativa de los extranjeros ( SSTC 94/199315, 116/1993 y 242/1994). En esta
misma línea y por la trascendencia de su afirmación vale la pena recordar que en la STC
242/1994 el Tribunal Constitucional dejó formulada la posibilidad de que los extranjeros
“pueden ser titulares de los derechos fundamentales” salvo la excepción constituida por
el artículo 23 CE en los términos establecidos por la Declaración del Tribunal
Constitucional de 1 de julio de 1992. Pero a esta matizada evolución jurisprudencial no le
ha seguido, al menos con la intensidad que en otros Estados, el necesario debate
doctrinal en torno a la conveniencia
16
fundamentales como derechos humanos”
de reforzar “la validez de los derechos
de toda persona.
Posteriormente la jurisprudencia constitucional ha ido matizando el alcance del
derecho de los extranjeros al habeas corpus (SSTC12/1994, 21/1996, 66/1996, 86/1996,
174/1999, 179/2000), así como respecto a la tutela judicial efectiva (SSTC181/1994,
96/19995, 182/1996, 203/1997, 5/1998, 24/2000, 207/2000) y a la vulneración del
derecho a la libertad personal (SSTC 71/2000, 147/2000) que analizaremos más tarde.
1.- La dignidad humana
La sentencia 13/2001 dictada en un recurso de amparo por la Sala Segunda del
Tribunal Constitucional vuelve a reiterar los términos de la jurisprudencia
anterior al
considerar “admisible (...) que se fijen diferencias respecto a los nacionales” en ámbitos
como el de los requerimientos policiales de identificación. Aunque en esta ocasión se
15
El Tribunal Constitucional consideró arbitraria una expulsión de un extranjero ya que “la licitud de su
expulsión no pudo ser enjuiciada con todas las garantías antes de llevar a cabo su ejecución” (STC 94/1993).
16
Hesse, C., “Significado de los derechos fundamentales”, en VVAA, Manual de Derecho Constitucional, IVAPMarcial Pons, Madrid 1996, pág. 115. Este debate se ha avivado por Ferrajoli con invitaciones a la reflexión en
torno a la internacionalización de los derechos fundamentales en orden a la superación de la antinomia igualdad
y ciudadanía, entre el universalismo de los derechos y sus confines estatalistas, a través de “la superación de la
ciudadanía” y “la desnacionalización de los derechos fundamentales”. Ferrajoli, L., Derechos y garantías,
Editorial Trotta, 1999.
51
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
trataba de determinar la adecuación a la Constitución de una actuación policial en la que
se “usó el criterio racial como meramente indicativo de una mayor probabilidad de que la
interesada no fuera española”, la formulación de un voto particular discrepante del
parecer de la Sala pone en evidencia la necesidad de encontrar respuestas a numerosas
cuestiones relativas a la extranjería, sobre las que aún pesa un elevado nivel de
indeterminación, si bien es cierto que la resolución del citado recurso de amparo no era
con toda probabilidad la sede adecuada para alcanzar dicha respuesta. En las escasas
ocasiones en las que se han planteado ante el Tribunal Constitucional cuestiones sobre
discriminación racial o étnica se ha reiterado por éste su “carácter odioso” como
“perversión jurídica” (STC 126/1986), sin que quepa fundamentarla en la libertad
ideológica o en la libertad de expresión por resultar contrarios a la dignidad humana (STC
214/1991), siendo incompatible cualquier mensaje racista con los principios de un
sistema democrático de convivencia pacífica (STC 176/1995). Pero la polémica surge
cuando criterios como la raza o étnia pueden estar en el fondo de una actuación policial.
Para el Tribunal Constitucional “es forzoso reconocer que” cuando los controles policiales
sirven a la finalidad de acreditar la identidad “determinadas características físicas o
étnicas pueden ser tomadas en consideración en ellos como razonablemente indiciarias
del origen no nacional de la persona que las reúne”. Ello no supone desconocer que
dicha actuación de identificación se lleve a cabo de forma “proporcionada, respetuosa,
cortés” al objeto de limitar al máximo su incidencia “en la esfera del individuo”. El parecer
mayoritario de la Sala se contiene en la afirmación de que “lo discriminatorio hubiera
sido la utilización de un criterio (en este caso el racial) que careciese de toda relevancia
en orden a la individualización de las personas para las que el ordenamiento jurídico ha
previsto la medida de intervención administrativa”. Frente a esta consideración de la
actuación policial acorde al marco constitucional, el voto particular del Magistrado
González Campos suscita algunas interesantes interrogantes que trascienden de los
términos en los que fue planteado el recurso de amparo17.
Para el Magistrado discrepante del parecer de la Sala “aun admitiendo que no
cabe pretender la igualdad en la ilegalidad”, es controvertido afirmar que “determinadas
características físicas o étnicas puedan ser tomadas en consideración” en actuaciones
17
Entre otras cuestiones formuladas por el Magistrado recurrente recogemos aquí la interrogante sobre la
constitucionalidad del “control general de los extranjeros”, la admisibilidad de un control “no discriminatorio de
los extranjeros ante una diversidad de situaciones” reales como las que están presentes en nuestra sociedad o
“¿Cómo puede llevarse a cabo ese control sin que su práctica afecte a la dignidad de la persona?”.
52
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
policiales de control “como racionalmente indiciarias del origen no nacional de la persona
que las reúne”18. Ciertamente cabe deducir del fallo del Tribunal una minoración del
alcance del mandato constitucional contenido en el artículo 14 CE, en la medida en la que
la actuación policial encuentra en la raza una “justificación adicional”. En el mismo
sentido, como se señala en el voto particular, quedaría devaluada la proclamación de la
dignidad humana al estimar la Sala la actuación policial fundada en la raza “como criterio
de selección en el control”. Además,
se habría omitido el juicio de proporcionalidad
necesario para determinar si tales medidas son acordes con la finalidad de la seguridad
ciudadana. En resumen, concluye este Magistrado, la utilización del criterio étnico dado el
carácter multirracial de nuestra sociedad puede conllevar la discriminación “entre
nacionales por razón de la raza”, con el consiguiente atentado a la dignidad personal, a
través de los requerimientos policiales de identificación.
En efecto, de conformidad con la jurisprudencia constitucional la dignidad
humana se proyecta “sobre los derechos individuales, (...) en cuanto <<valor espiritual y
moral inherente a la persona”(STC 53/1985), por lo que la dignidad “ha de permanecer
inalterada cualquiera que sea la situación en que la persona se encuentre (...)
constituyendo, en consecuencia un minimum invulnerable que todo estatuto jurídico debe
asegurar>>” (STC 120/1990 y 57/1994). Ahora bien, esta conocida jurisprudencia
constitucional posteriormente ha sido matizada por nuestro Alto Tribunal en conexión
con el entendimiento del contenido esencial de los derechos fundamentales. Si en la
jurisprudencia anterior se había afirmado que los poderes públicos españoles se hallan
vinculados de “modo incondicionado ad intra por los derechos fundamentales en tanto en
cuanto esté en juego el <<contenido esencial>> de los mismos”, en la Sentencia
91/2000 el Tribunal Constitucional se cuestiona el alcance del “contenido vinculante de
los derechos fundamentales cuando se proyectan ad extra, esto es, el, en virtud de su
validez universal, pudiéramos denominar <<contenido absoluto>>”. Para llevar a cabo
esta operación el Tribunal Constitucional toma como punto de partida la dignidad de la
persona y los derechos inviolables que le son inherentes, para afirmar a continuación que
la Constitución “salvaguarda absolutamente aquellos derechos y aquellos contenidos de
los derechos <<que pertenecen a la persona en cuanto tal y no como ciudadano (...)
18
En opinión del Magistrado González Campos la Sala debiera haber realizado una “interpretación excluyente o,
cuando menos, restrictiva y sujeta a estrictas condiciones del control general de los extranjeros en cualquier
lugar del territorio nacional”.
53
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
aquéllos que son imprescindibles para la garantía de la dignidad humana” (STC
242/1994). Asumir con todas sus consecuencias la afirmación de nuestro Alto Tribunal de
que “sólo el núcleo irrenunciable del derecho fundamental inherente a la dignidad de la
persona puede alcanzar proyección universal”, podría llevar a
concluir que “hay un
núcleo absoluto de los derechos fundamentales” (STC 91/2000).
La relevancia de los derechos que analizamos deriva de su relación con la
dignidad de la persona y de la “imprescindibilidad” de los mismos en un sistema
democrático. Son, en efecto, la proyección inmediata y positiva de la dignidad de la
persona y “las posibilidades de desarrollo de la misma dependen de su reconocimiento y
ejercicio” como ha señalado Solozabal19 . Ahora bien, somos conscientes de los riesgos
que se derivan de la afirmación anterior de nuestro Alto Tribunal, que debe ser
ponderada, ya que para considerar que se ha vulnerado la Constitución será necesario el
menoscabo del contenido esencial del derecho “de un modo que afecta a la dignidad
humana” (STC 91/2000), pues cualquier restricción que a su ejercicio se imponga no
deviene necesariamente en un estado de indignidad (STC 120/1990). Por tanto, cabría
deducir de la jurisprudencia constitucional que la titularidad y ejercicio de los derechos
fundamentales por los extranjeros quedaría sujeta a la mayor o menor intensidad de
estos en relación con la dignidad de la persona20, aunque persiste la duda respecto a su
identificación a tenor de la jurisprudencia aquí comentada.
2.- El beneficio de justicia gratuita
Se ha cuestionado la conexión entre el derecho a la asistencia jurídica gratuita y
el derecho a la tutela judicial efectiva (art. 24 CE)21. Como ya señalara el Defensor del
Pueblo en el recurso de inconstitucionalidad planteado contra el artículo 2 de la Ley
1/1996 de asistencia jurídica gratuita, la sujeción de los extranjeros a determinadas
19
Solozabal Echevarría, J.L., “Algunas cuestiones básicas de la teoría de los derechos fundamentales”, Revista
de Estudios Políticos, núm, 71, 1991 posteriormente desarrolladas en otros trabajos.
20
A modo de ejemplo por lo que a “la libertad de circulación respecta a través de las fronteras del Estado y el
derecho a residir dentro de ellas, no son derechos imprescindibles para la garantía de la dignidad humana, ni
por consiguiente pertenecen a todas las personas en cuanto tales al margen de su condición de ciudadano (...)
es pues lícito que las leyes y los tratados modulen el ejercicio de sus derechos en función de la nacionalidad de
las personas, introduciendo tratamientos desiguales entre españoles y extranjeros en lo que atañe a entrar y
salir de España y a residir en ella” (STC 94/1993).
21
“Todas las personas tienen derecho a obtener la tutela efectiva de los jueces y tribunales, en el ejercicio de
sus derechos legítimos, sin que, en ningún caso, pueda producirse indefensión”.
54
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
causas para poder ser beneficiario de dicha asistencia22 pudiera tener difícil adecuación
constitucional. Esta situación además se ha agravado con el tratamiento que de la
asistencia jurídica gratuita se contiene en la Ley Orgánica 8/2000. Para el recurrente de
inconstitucionalidad, la exigencia legal de permiso de residencia o estancia para el
ejercicio efectivo del derecho fundamental a la tutela judicial, a través de la asistencia
jurídica gratuita, planteaba dudas sobre su razonabilidad y proporcionalidad al sacrificio
que impone, esto es, la imposibilidad de ejercer un derecho fundamental por quien
carece de dicha residencia legal fuera de los supuestos tasados por la Ley. Una
interpretación sistemática de los artículos 14, 24.2 y 119 CE, así como de la
jurisprudencia emanada del Tribunal Constitucional y del Tribunal Europeo de Derechos
Humanos,
debería conducirnos a afirmar que con el derecho a la asistencia jurídica
gratuita se persigue garantizar el acceso a la justicia. Por tanto, los impedimentos y
obstáculos para acceder a la justicia conducirían a desconocer o privar del derecho a la
tutela judicial a los extranjeros en situación irregular que carecieran de recursos
económicos fuera de los supuestos legalmente reconocidos. La resolución de este recurso
por el Tribunal Constitucional ha zanjado definitivamente esta cuestión al afirmar en la
STC 95/2003 la inconstitucionalidad en la exigencia del requisito de la legalidad de la
residencia, por tanto “los extranjeros que se encuentren en España y reúnan las
condiciones requeridas legalmente para ello podrán acceder a la asistencia jurídica
gratuita en relación con cualquier tipo de proceso a efectos del cual gocen de la precisa
legitimación”23. La fundamentación de esta resolución descansa en que si el extranjero
no reside legalmente en España y carece de recursos suficientes para procurarse la
asistencia de Procurador y Abogado tendrá impedido su acceso a la jurisdicción y, por
tanto, no podrá “someter al control” de los Tribunales la legalidad de actuaciones
administrativas que le afectan directamente como permiso de residencia, trabajo,
exenciones de visado, etc., que pueden acarrear finalmente su expulsión del territorio
español. Por tanto, la especial conexión entre la tutela judicial efectiva y la asistencia
jurídica gratuita de quienes carecen de recursos económicos para litigar –también los
22
En principio tendrían derecho a la asistencia jurídica gratuita “los nacionales de los Estados miembros de la
Unión Europea y los extranjeros que residan legalmente en España, cuando acrediten insuficiencia de recursos
para litigar” (art.2 a) si bien se introducen dos excepciones en cuanto se acredite insuficiencia de recursos para
litigar aun cuando no residan legalmente en territorio español: en el orden jurisdiccional penal y en el
contencioso-administrativo en los procesos relativos al derecho de asilo (art. 2 e y f).
23
Según el Tribunal Constitucional la exigencia de residencia legal en España “habrá de entenderse referida a la
situación puramente fáctica de los que se hallan en territorio español, sin que quepa atribuir a la referida
expresión un significado técnicamente acuñado de residencia autorizada administrativamente”.
55
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
extranjeros no residentes legalmente en España- conlleva la inconstitucionalidad del
citado precepto.
3.- El procedimiento de Habeas Corpus
Con objeto de precisar la interpretación constitucional relevante respecto del
objeto de protección del procedimiento de habeas corpus24, recordemos que la
pretensión del constituyente no fue otra que la de propiciar “un medio de defensa” del
derecho a la libertad, al objeto de poner fin con celeridad a situaciones que constituyesen
privaciones “irregulares” de libertad, con la consiguiente puesta a disposición judicial de
quien hubiese sufrido dicha privación (STC 98/1986). Por tanto, debe considerarse el
habeas corpus como una “garantía fundamental del derecho a la libertad” y un
instrumento orientado a determinar en “qué medida puede verse vulnerado el derecho (a
la libertad) por resoluciones judiciales de inadmisión a trámite de la solicitud de habeas
corpus” (SSTC 94/2003 y 23/2004).
En suma la labor del Tribunal Constitucional se limitará a constatar que
no se haya producido una valoración errónea de la situación de supuesta privación de
libertad por parte del Juez que ha conocido del procedimiento de habeas corpus y pueda
ratificar “una situación de privación de libertad, efectiva al tiempo de dictarse la
resolución judicial” por considerarla conforme a derecho a tenor del artículo 8.1 de la Ley
Orgánica 6/1984 reguladora del Habeas Corpus (en adelante LOHC).
Nos encontramos pues ante “una garantía reforzada del derecho a la libertad
para la defensa de los demás derechos sustantivos establecidos en el resto de los
apartados del artículo 17 CE“ al objeto de hacer posible “el control judicial a posteriori de
la legalidad y de las condiciones en las cuales se desarrollan las situaciones de privación
de libertad” que se han producido sin intervención judicial para la puesta a disposición
judicial de quien entienda que ha sido privado de libertad de forma ilegal (SSTC 94/2003
y 23/2004).
De la jurisprudencia constitucional cabe resumir, al objeto de caracterizar el
procedimiento de habeas corpus, que aun cuando se trata de un proceso de “cognición
limitada”, ello no impide que estemos ante la necesidad de un control judicial de la
privación de libertad “plenamente efectivo”, que en ningún caso suponga “un menoscabo
24
“La ley regulará un procedimiento de habeas corpus para producir la inmediata puesta a disposición judicial
de toda persona detenida ilegalmente. Asimismo, por le se determinará el plazo máximo de duración de la
prisión provisional” (art. 17.4 CE).
56
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
en la eficacia de los derechos fundamentales y, en concreto, de la libertad” (STC
122/2004).
El énfasis del Tribunal Constitucional recae sobre la necesidad de examinar “la
legalidad de las circunstancias” de la situación de privación de libertad, aun cuando dicha
privación haya sido acordada en resolución administrativa por órgano competente (SSTC
86/1996, 224/1998 y 174/1999). El alcance del enjuiciamiento a realizar por el juez del
habeas corpus no debe ofrecer dudas, las circunstancias que han de ser objeto de
examen son las relativas a
la detención preventiva, y en ningún caso analizar “la
procedencia de la expulsión” (STC 21/1996, 86/1996 y 174/199925), siempre susceptible
de recurso ante la jurisdicción contencioso-administrativa.
Ahora bien, junto a las previsiones de la LOHC, la Ley Orgánica 8/2000 también
ha previsto otro mecanismo que afecta a la garantía de la libertad (art. 17.1 CE)26. El
Tribunal Constitucional ha tenido que pronunciarse sobre este procedimiento y su
compatibilidad o redundancia con el de habeas corpus al invocarse este último
procedimiento por el afectado por la limitación de libertad y la aplicación de la normativa
de extranjería. En efecto con la STC 303/2005 comienza una serie de sentencias relativas
a la inadmisión o admisión a trámite de la solicitud de habeas corpus formuladas por
ocupantes de pateras, tras haber sido interceptados cuando arribaban a las costas
españolas, en la que se impetra ante el Alto Tribunal la supuesta vulneración de los
derechos de libertad personal y del habeas corpus por inadmisión del mismo acordado en
auto judicial. A partir de aquí y, en función de la valoración de las secuencias temporales
del procedimiento seguido para el control judicial de la limitación de la libertad, se
derivará la formulación de votos particulares en sucesivas sentencias27.
25
En esta ocasión el juez inadmitió a trámite la solicitud de habeas corpus por un doble motivo, en primer lugar
por considerar que del retraso en la expulsión era responsable el solicitante de habeas corpus que había
intentado la admisión de la solicitud de asilo para evitar la expulsión y, en segundo lugar porque la privación de
libertad se había acordado "en cumplimiento de una resolución fundada y en el ejercicio del poder de policía
que tienen atribuidas las autoridades administrativas y en cumplimiento de la legislación vigente". El Tribunal
Constitucional entendió sin embargo que el Juez, “en el trámite previo de admisibilidad, y, por tanto, sin que el
que instó este procedimiento fuera puesto en su presencia, efectuó un enjuiciamiento de fondo de la legalidad
de la situación de privación de libertad padecida por el que instaba ese procedimiento, que, a tenor de la
doctrina expuesta, debe considerarse lesivo del derecho que consagra el art. 17.4 CE.”.
26
“Toda persona tiene derecho a la libertad y a la seguridad”.
27
La conclusión que se alcanza es que “aun cuando la autoridad judicial prevé que, en virtud de la legislación
de extranjería, va a tener que intervenir en breve para la decisión de internamiento del extranjero solicitante de
habeas corpus, esta institución esta configurada en nuestro ordenamiento jurídico de manera absolutamente
independiente de cualquier otro mecanismo de garantía de la libertad personal y únicamente en los casos en los
que por mera coincidencia temporal, se ha llevado a cabo el control judicial de la situación del detenido con
anterioridad a la decisión de admisión o no del procedimiento de habeas corpus podrá entenderse
constitucionalmente legítima la decisión de inadmisión de plano de dicho procedimiento”.
57
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Es en este sentido en el que el Alto Tribunal se ha manifestado inicialmente en la
STC 303/2005 y después en sucesivas resoluciones, pues si en virtud de las previsiones
de la Ley Orgánica 8/2000 “con carácter previo al internamiento en el centro
correspondiente por un tiempo máximo de cuarenta días se le tomó declaración al
detenido en el Juzgado de Instrucción, no cabe nada que objetar a la inadmisión liminar
del procedimiento de habeas corpus interpuesto, ya que la privación de libertad se
acordó por órgano judicial, resultando carente de sentido un nuevo control judicial de la
privación judicial de la liberad (art. 62.1 y 2 de la Ley Orgánica 8/2000)”28.
Supuestos posteriores que presentan cierta analogía con la citada STC 303/2005,
han propiciado consideraciones discrepantes por parte de algunos de los propios
Magistrados del Alto Tribunal, no tanto en torno a la previsible duplicidad de controles
judiciales sobre la limitación de la libertad del extranjero vía habeas corpus o legislación
de extranjería, sino sobre el momento procesal en el que se considera efectuado el
referido control judicial sobre la limitación de la libertad. Como consecuencia mediata de
esta situación, la efectividad del procedimiento de habeas corpus quedaría abierta a la
discusión en torno a su operatividad, especialmente en aquellos casos en los que con
anterioridad a la impetración del mismo se hubiese operado el control judicial de la
privación de libertad en aplicación del artículo 62 de la Ley Orgánica 8/2000 y, por tanto,
haría innecesario el planteamiento del habeas corpus en aplicación de la citada Ley
Orgánica.
En efecto, pese a la aparente analogía con la STC 303/2005 aparece una
discrepancia entre los magistrados integrantes de la Sala como se acredita inicialmente
en la resolución del recurso de amparo contenida en la STC 169/2006 y luego se ha
reproducido en resoluciones posteriores en los votos particulares formulados por éstos en
sucesivas sentencias con idéntica problemática29.
La discrepancia esencial suscitada en los últimos pronunciamientos del
Alto Tribunal sobre el tema descansa sobre la eficacia que se deriva de la puesta a
28
Nada acredita una situación de riesgo para la integridad de dicho derecho. Y es que el procedimiento de
habeas corpus queda manifiestamente fuera de lugar cuando, como es el caso, la intervención judicial ya se ha
producido con la aplicación de la Ley de extranjería, sin que todavía hubiera transcurrido el plazo que para la
duración del internamiento se había fijado por el Juez” (STC 303/2005).
29
“las garantías que para la libertad personal se derivan del régimen de control judicial que señala el citado art.
62.1 y 2 de la Ley Orgánica 4/2000, equivalen, desde el punto de vista material y de eficacia, a las que pueden
alcanzarse por medio del habeas corpus, lo que haría redundante la posibilidad añadida de este remedio
excepcional, sólo justificable en el plazo de la estricta detención cautelar gubernativa (durante las primeras
setenta y dos horas) o, en su caso, superado el plazo acordado por la autoridad judicial para el internamiento,
si el extranjero continúa privado de libertad”.
58
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
disposición judicial, aun cuando no se haya formalizado expresamente la comparecencia
ante éste. La razón fundamental aquí suscitada es la de estar ante “un supuesto límite”,
ya que en el momento en el que se resuelve por parte del órgano judicial la
inadmisibilidad de la solicitud de habeas corpus “no queda acreditado, al contrario de lo
que sucedía en el supuesto de hecho de la STC 303/2005, que el Juez hubiera oído con
anterioridad a dicha decisión al recurrente, asistido de Abogado e intérprete al amparo
del art. 62.1 y 2 de la Ley Orgánica 8/2000. Por tanto, en el momento de rechazo del
habeas corpus solicitado, no consta que existiera un control judicial de la situación de
detención del demandante. En suma, “la supuesta legalidad de la situación de detención
del solicitante,(..) esa es la cuestión a dilucidar en la fase plenaria del procedimiento de
habeas corpus”.
Sin embargo, frente a la anterior fundamentación se plantea un Voto particular
que formula el Magistrado Rodríguez-Zapata Pérez que se reiterará en sucesivos votos
particulares entre otras en las SSTC 316/2005, 319/2005 y STC 169/2006, así como un
voto concurrente que formula el Magistrado don Roberto García-Calvo y Montiel que se
materializa en el entendimiento de que
"el procedimiento de habeas corpus queda
manifiestamente fuera de lugar cuando la intervención judicial ya se ha producido con la
aplicación de la Ley de extranjería, sin que todavía hubiera transcurrido el plazo que para
la duración del internamiento se había fijado por el Juez" (STC 303/2005).
La doctrina mayoritaria que se reproduce en sucesivas resoluciones es que lo
relevante no es que la audiencia del recurrente y el control judicial de su situación de
privación de libertad como consecuencia de la aplicación de la legislación de extranjería,
tuvieran lugar el mismo día, sino que “a partir de la vista de las actuaciones y muy
significativamente del tenor del Auto impugnado, no puede afirmarse que el demandante
estuviera efectivamente a disposición judicial con anterioridad al momento en que se
inadmitió de plano y por motivos de fondo el procedimiento de habeas corpus (SSTCE
201 y 213/2006).
Es evidente que una nueva perspectiva cobra el procedimiento de habeas corpus
con ocasión de la concurrencia de éste con la aplicación del control judicial sobre el
extranjero sujeto a limitación de libertad, sin embargo la efectividad del control operado
en aplicación del artículo 62 de la Ley orgánica 8/2000 puede afectar a la operatividad de
este instrumento en el ámbito de la aplicación de la legislación de extranjería.
3.- El derecho de entrada y residencia en el territorio nacional
59
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
También el Tribunal Constitucional ha tenido ocasión de pronunciarse sobre el
alcance y contenido del derecho a entrar en España (art. 19 CE)30 y ejercer el derecho de
elegir en ella el lugar de residencia, si bien en este segundo aspecto ya afirmó que en
tanto no se haya entrado no cabe ejercer este derecho. La cuestión que se ha planteado
ante el Alto Tribunal ha sido la relativa a la existencia de un derecho fundamental de los
extranjeros a entrar en España pues ya se había pronunciado sobre el alcance de la
protección del art. 19 CE para los extranjeros que por disposición legal, tratado o
autorización tuvieren derecho a residir en España. Para la resolución de esta cuestión se
ha considerado que “el derecho a entrar en España, con el carácter fundamental, solo
corresponde a los españoles y no a los extranjeros” (STC 72/2005).
III.- Las recientes sentencias del Tribunal Constitucional relativas a la
inconstitucionalidad de la Ley Orgánica 8/2000
La jurisprudencia más reciente en materia de extranjería se encuentra en la STC
236/2007 que resuelve el recurso de inconstitucionalidad interpuesto por el Parlamento
Navarro y la STC 259/2007 que resuelve el recurso de inconstitucionalidad interpuesto
por la Junta de Andalucía relativos ambos a la impugnación de diversos artículos de la
vigente regulación de extranjería. Sin embargo, como es notorio, la reforma de la Ley
Orgánica 4/2000 sobre Derechos y Libertades de los Extranjeros en España y su
Integración Social introducida por la Ley Orgánica 8/2000, fue objeto de diferentes
recursos de inconstitucionalidad también resueltos por el Tribunal Constitucional, si bien
estas resoluciones posteriores han reiterado en términos generales los aspectos sobre los
que ya se había pronunciado el Tribunal en las citadas resoluciones31.
La formulación de diversos recursos de inconstitucionalidad contra algunos
preceptos de la Ley Orgánica 8/2000 ha requerido por parte del Tribunal Constitucional
un
esfuerzo de concreción respecto de la adecuación constitucional de los límites al
30
“los españoles tienen derecho a entrar y salir libremente de España”.
Nos referiremos en concreto no sólo a la STC 236/2007 y la STC 259/2007, sino también a la STC 260/2007
que resuelve el recurso de inconstitucionalidad interpuesto por el Parlamento Vasco, STC 261/2007 que
resuelve el recurso de inconstitucionalidad interpuesto por sesenta y cuatro Diputados del Grupo Parlamentario
del PSOE en el Congreso, STC 262/2007 que resuelve el recurso de inconstitucionalidad interpuesto por la Junta
de Comunidades de Castilla-La Mancha, STC 263/2007 que resuelve el recurso de inconstitucionalidad
interpuesto por la Comunidad de Aragón, STC 264/2007 que resuelve el recurso de inconstitucionalidad
interpuesto por la Junta de Extremadura, STC 265/2007 que resuelve el recurso de inconstitucionalidad
interpuesto por el Principado de Asturias.
31
60
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
ejercicio de determinados derechos incorporados por aquella norma, por la situación de
irregularidad en la que se encuentren los extranjeros, ya que su ejercicio queda
restringido a situaciones de regularidad administrativa. De un lado, esta limitación
alcanza, entre otros, al ejercicio de los derechos de reunión, asociación, educación,
huelga y sindicación. Por otra parte, también han sido objeto de impugnación preceptos
que a la luz de la vigente regulación, presentan una serie de situaciones administrativas
en las que la privación de la libertad acordada por la autoridad gubernativa pudieran
entrar en contradicción con el texto constitucional, en cuanto a las garantías derivadas de
la tutela judicial, que puedan ser obviadas por la inexistencia de un efectivo control
judicial sobre las resoluciones administrativas que afectan a los extranjeros. Dos son pues
las cuestiones que nos suscitan un mayor interés en este comentario a la reciente
jurisprudencia constitucional en materia de la vigente regulación de la extranjería: las
restricciones a los extranjeros por su situación irregular para el ejercicio de derechos
constitucionalizados y los supuestos de indefensión que se puedan derivar de la ausencia
de control judicial efectivo de los actos administrativos acordados en materia de
extranjería, que no podrán ser abordadas en este trabajo por razones de extensión. Sin
perjuicio de todo ello habrá que hacer alguna consideración respecto de otros preceptos
relativos a reagrupación familiar y denegación de visado no motivada que completan el
conjunto de preceptos impugnados ante el Tribunal Constitucional.
La fundamentación esencial en la que descansa el posterior análisis y resolución
del Alto Tribunal es la dignidad humana y su mayor o menor grado de conexión con ella
de los derechos afectados por la impugnación de inconstitucionalidad. Es pues el propio
Tribunal el que reconoce que “el criterio fijado en su día (…) para determinar si un
concreto derecho pertenece o no a este grupo ofrece algunas dificultades por cuanto
todos los derechos fundamentales, por su misma naturaleza, están vinculados a la
dignidad humana”.
En efecto, el criterio determinante para el Tribunal será “el grado de conexión
con la dignidad humana que mantiene un concreto derecho” puesto que el legislador no
goza de una ilimitada libertad de configuración al regular los derechos “imprescindibles
para la garantía de la dignidad humana”. Por tanto, el legislador no puede en la
elaboración de la norma, “modular o atemperar su contenido (STC 99/1985), ni por
supuesto negar su ejercicio a los extranjeros, cualquiera que sea su situación, ya que se
61
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
trata de derechos <<que pertenecen a la persona en cuanto tal y no como
ciudadano>>”. Es decir, “aquéllos que son imprescindibles para la garantía de la
dignidad humana” (STC 242/1994)32.
Reiterando criterios establecidos por el Tribunal en anteriores pronunciamientos
jurisprudenciales se afirma la necesidad de llevar a cabo un análisis individualizado de
cada derecho
para determinar “en qué medida” nos encontramos ante
un derecho
inherente a la dignidad humana (STC 91/2000). Por tanto, la dignidad de la persona se
erige en un límite a la libertad del legislador orgánico para llevar a cabo la tarea de
regular los derechos y libertades de los extranjeros. Ahora bien, será necesario en cada
caso concretar “el grado de conexión” del derecho analizado con la dignidad, atendiendo
esencialmente al contenido y naturaleza del mismo, para “precisar en qué medida es
imprescindible para la dignidad de la persona” como titular de derechos de conformidad
con la Declaración Universal de Derechos Humanos (en adelante DUDH), los tratados y
acuerdos internacionales a tenor de los dispuesto en el art. 10.2 CE33.
A partir de aquí se hace una distinción a los efectos de determinar la libertad del
legislador a la hora de conformar el reconocimiento y ejercicio de los derechos por los
extranjeros. Así, de un lado se afirma que el legislador estará “limitado” al regular
aquellos derechos que “la Constitución reconoce directamente a los extranjeros”, frente a
la “mayor libertad” de la que goza para la regulación de los derechos de los que serán
titulares los extranjeros en la “medida y condiciones que se establezcan en los Tratados y
las Leyes”, es decir “aquellos derechos no son atribuidos directamente por la Constitución
a los extranjeros pero que el legislador puede extender a los no nacionales <<aunque no
sea necesariamente en idénticos términos que los españoles>>”. Es en la regulación de
estos derechos donde el legislador cuenta con mayor libertad puesto que “puede modular
las condiciones de ejercicio <<en función de la nacionalidad de las personas,
introduciendo tratamientos desiguales entre españoles y extranjeros>>”, si bien aquella
libertad “no es en modo alguno absoluta” (STC 94/1993). Por tanto, estas “restricciones y
32
“proyectada sobre los derechos individuales, la regla del art. 10.1 CE implica que, en cuanto valor espiritual y
moral inherente a la persona la dignidad ha de permanecer inalterada cualquiera que sea la situación en que la
persona se encuentre (…) constituyendo, en consecuencia un minimum invulnerable que todo estatuto jurídico
debe asegurar” (STC 91/2000).
33
“Las normas relativas a los derechos fundamentales y a las libertades que la Constitución reconoce se
interpretarán de conformidad con la Declaración Universal de Derechos Humanos y los tratados y acuerdos
internacionales sobre las mismas materias ratificados por España”.
62
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
limitaciones” no resultan ilimitadas ya que en ningún caso pueden afectar a “aquellos
derechos que <<son imprescindibles para la garantía de la dignidad humana>>”34. En
resumen, si bien del artículo 13 CE cabe deducir que se otorga una amplia libertad al
legislador para llevar a cabo la regulación de los derechos de los extranjeros incluso con
la fijación de condiciones para su ejercicio, lo cierto es que para su regulación se ha de
observar “el grado de conexión” de cada derecho con la “garantía de la dignidad
humana”, atendiendo también al “contenido preceptivo del derecho tratándose de
derechos reconocidos “directamente” a los extranjeros en la Constitución. Se debe
atender también al “contenido delimitado” para el derecho por la CE y los Tratados
Internacionales.
La cuestión a cerca de si los tratados internacionales ratificados por España a
tenor del art. 10.2 CE “se convertirían en canon de la constitucionalidad de las leyes
españolas” también es objeto de consideración por el Tribunal, pese a que contamos ya
con algunos pronunciamientos del mismo sobre este precepto constitucional y su correcta
interpretación. La precisión del Tribunal ayuda a situar los citados tratados indicando que
“el significado de la <<interpretación>> contenida en el art. 10.2 CE <<no convierte a
tales tratados y acuerdos internacionales en canon autónomo de validez de las normas y
actos de los poderes públicos desde la perspectiva de los derechos fundamentales”35.
Pues bien al objeto de la correcta interpretación del art. 10.2 CE cabe recordar
que, como señalara el Tribunal, este precepto “<<no da rango constitucional a los
derechos y libertades internacionalmente proclamados en cuanto no estén también
consagrados por nuestra propia CE, pero obliga a interpretar los correspondientes
preceptos de ésta de acuerdo con el contenido de dichos tratados o convenios>>”. ¿En
qué radica pues la operatividad de los tratados y acuerdos para resolver la
inconstitucionalidad de la norma?, la respuesta no es otra que la de llevar a cabo un
juicio al objeto de “determinar si el legislador ha respetado los límites impuestos ex art.
10.2 CE por las normas internacionales que le obligan a interpretar de acuerdo con ellas
34
En este grupo se encontraría según el Tribunal Constitucional el derecho al trabajo, a la salud, a la
percepción de una prestación por desempleo así como el derecho de residencia y desplazamiento si bien con
algunas puntualizaciones.
35
“no puede haber duda de que la validez de las disposiciones y actos impugnados en amparo debe medirse
sólo por referencia a los preceptos constitucionales que reconocen los derechos y libertades susceptibles de
protección en esta clase de litigios, siendo los textos y acuerdos internacionales del art. 10.2 una fuente
interpretativa que contribuye a la mejor identificación del contenido de los derechos cuya tutela se pide a este
Tribunal Constitucional” (STC 64/1991).
63
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
los derechos y libertades consagrados” en la CE. La operatividad de los tratados
internacionales para determinar la inconstitucionalidad de los preceptos impugnados de
la Ley Orgánica 8/2000 es pues objeto de acotación: dichos tratados “no se convierten
en si mismos en canon de constitucionalidad de los concretos preceptos recurridos”. Por
tanto, corresponde al Tribunal llevar a cabo un ejercicio de contraste de los preceptos
impugnados con los preceptos constitucionales que declaran los derechos y libertades de
los extranjeros, eso sí “interpretados de acuerdo con el contenido” de los tratados y
convenios ratificados por España. En todo caso, el recurso al tratamiento en los tratados
internacionales de cada derecho objeto de impugnación de inconstitucionalidad permitirá
hacer un análisis más detenido de su concepción, alcance y jurisprudencia internacional
sobre el mismo.
Una vez precisado el alcance del art. 10.2 CE el procedimiento desarrollado por el
Tribunal para constatar la vulneración del contenido constitucionalmente declarado de
estos derechos pasa, en una primera fase, por examinar el contenido esencial del
derecho y, posteriormente, analizar “su vinculación” con la dignidad de la persona con el
objeto de constatar “si la condición establecida por el legislador para su ejercicio es
constitucionalmente admisible” de conformidad con lo preceptuado en la DUDH, así como
en los tratados y acuerdos internacionales ratificados por España.
1.- Derecho de Reunión (art. 7)36
Los recurrentes fundamentan la inconstitucionalidad del precepto en la ausencia
de cobertura constitucional para distinguir entre españoles y extranjeros a efectos del
ejercicio de este derecho que entienden derivado de la dignidad humana. En cambio la
Abogacía del Estado considera que la distinción introducida por el legislador orgánico con
la exigencia de la autorización de estancia o residencia tiene “un significado constitutivo
de un derecho de configuración legal”.
El Tribunal ha reiterado en diversas sentencias “el relieve fundamental que este
derecho-cauce del principio democrático participativo- posee, tanto en su dimensión
subjetiva como en la objetiva, en un Estado social y democrático de Derecho”. También
36
“Los extranjeros tendrán el derecho de reunión y manifestación, conforme a las leyes que lo regulan para los
españoles y que podrán ejercer cuando obtengan autorización de estancia o residencia en España”.
64
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
se ha hecho eco nuestro Alto Tribunal de la jurisprudencia del Tribunal Europeo de
Derechos Humanos (en adelante TEDH) que ha destacado “la conexión entre el derecho
de reunión y la libertad de expresión”. En esta dimensión y atendiendo a la DUDH como
al Pacto Internacional de Derechos Civiles y Políticos (en adelante PIDCP), así como al
Convenio Europeo de Derechos Humanos (en adelante CEDH) parece concretarse la
conexión del derecho de reunión con la dignidad. En todo caso el Tribunal considera que
“la definición constitucional del derecho de reunión realizada por nuestra jurisprudencia,
y su vinculación con la dignidad de la personas, derivada de los textos internacionales,
impone al legislador el reconocimiento de un contenido mínimo de aquel derecho a la
persona en cuanto tal, cualquiera que sea la situación en que se encuentre”. En concreto,
el Tribunal admite que el legislador orgánico establezca condiciones para el ejercicio del
derecho de reunión por parte de los extranjeros que carecen de autorización de estancia
o residencia, “siempre y cuando respete un contenido del mismo que la Constitución
salvaguarda por pertenecer a cualquier persona, independientemente de la situación en
que se encuentre”. Sin embargo, el legislador orgánico en la reforma operada por la Ley
Orgánica 8/2000 no ha llevado a cabo “una modulación del derecho de reunión” al
objeto de precisar cuales son las condiciones para ejercerlo, sino que ha negado el
derecho de reunión a los extranjeros que carecen de autorización de estancia o
residencia. La conclusión pues no puede ser otra que la de constatar que la regulación
efectuada vulnera el art. 21 CE37 y por ello se acuerda su inconstitucionalidad.
2.- Derecho de Asociación (art. 8)38
Cabe recordar que sobre el derecho de asociación de los extranjeros ya se
pronunció el Tribunal en la STC 115/1987, su nivel de protección no admite duda a la luz
del art. 11 del CEDH y permite concluir al Alto Tribunal la vinculación del derecho de
asociación con la dignidad humana y el libre desarrollo de la personalidad, ya que
“protege el valor de la sociabilidad como dimensión esencial de la persona y en cuanto
elemento necesario para la comunicación pública en una sociedad democrática”.
Atendiendo pues a que estamos en presencia “de un derecho cuyo contenido está unido
a esa dimensión esencial”, entiende el Tribunal que no resulta “constitucionalmente
37
“Se reconoce el derecho de reunión pacífica y sin armas”.
“Todos los extranjeros tendrán el derecho de asociación, conforme a las leyes, que lo regulan para los
españoles y que podrán ejercer cuando obtengan autorización de estancia o residencia en España”.
38
65
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
admisible la negación de su ejercicio” a aquellos extranjeros que no dispongan de
autorización de estancia o residencia.
Por tanto, se declara la inconstitucionalidad del art. 8 de la Ley Orgánica 8/2000,
ya que “al excluir cualquier ejercicio de este derecho por parte de los extranjeros que
carecen de autorización de estancia o residencia en España ha vulnerado el art. 22 CE39
en su contenido constitucionalmente declarado por los textos a los que se refiere el art.
10.2 CE”.
3.- Derecho a la Educación (art. 9) 40
El objeto de impugnación de inconstitucionalidad recae sobre el
impedimento de acceso a la enseñanza no obligatoria a los extranjeros menores de 18
años que no dispongan de residencia legal en nuestro país. La fundamentación de los
recurrentes recae en la consideración de que para alcanzar el libre desarrollo de la
personalidad debiera ser inherente a toda persona el derecho a la educación sin
limitación a la etapa obligatoria, sino atendiendo a criterios de mérito y capacidad
académica. No existirían pues razones para justificar la continuidad de diferencias
“razonables” en el contenido del derecho a la educación del menor establecidas por el
legislador entre nacionales y extranjeros sin regularizar.
El proceso analítico que desarrolla el Alto Tribunal principia por el examen del
contenido esencial del derecho a la educación, “específicamente en su dimensión
prestacional”, para constatar con posterioridad si resulta conforme al mandato
constitucional recogido en el artículo 27 CE “la exclusión” de la educación no obligatoria
establecida por el legislador para los menores extranjeros que carezcan de la condición
de residentes. El reconocimiento del derecho fundamental a la educación y su conexión
con el pleno desarrollo de la personalidad y de la dignidad humana está plenamente
recogido en las diferentes normas internacionales tales como la DUDH (art. 26), el PIDCP
(art. 18.4), el Protocolo Adicional del CEDH (art. 2), la Convención relativa a la lucha
39
“Se reconoce el derecho de asociación”.
“Los extranjeros residentes tendrán derecho a la educación de naturaleza no obligatoria en las mismas
condiciones que los españoles. En concreto, tendrán derecho a acceder a los niveles de educación y enseñanza
no previstos en el apartado anterior y a la obtención de las titulaciones que correspondan al caso, y al acceso al
sistema público de becas y ayudas”.
40
66
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
contra la Discriminación en la Enseñanza (art. 5) y el Pacto Internacional de Derechos
Económicos, Sociales y Culturales en su art. 13 (en adelante PIDESC). Este último texto
internacional además vincula el pleno ejercicio del derecho a la educación con el proceso
de adquisición de la formación que capacita a las personas para su participación plena en
la sociedad (art. 13).
En efecto, el Tribunal constata “la inequívoca vinculación” de este derecho con
“la garantía de la dignidad humana”, su carácter imprescindible para la consecución del
desarrollo de la personalidad, como instrumento de integración en la sociedad, en el que
se incluye el conocimiento de “los valores democráticos y el respeto a los derechos
humanos, necesarios para <<establecer una sociedad democrática>> avanzada”. Se
trata sin duda de un derecho fundamental sobre cuyo contenido ya se ha pronunciado el
Tribunal indicando que incorpora “junto a su contenido primario de derecho de libertad,
una dimensión prestacional” que obliga a los poderes públicos a “procurar” su
efectividad.
La conclusión a la que se llega por el Alto Tribunal en atención a la interpretación
del art. 27 CE41 a la luz de los textos internacionales de conformidad con el art. 10 CE, es
que forma parte del contenido esencial del derecho a la educación el acceso a la
educación no obligatoria de los extranjeros menores de edad sin autorización para residir,
y su ejercicio solo puede quedar sujeto a los requisitos de mérito y capacidad.
4.- Libertad Sindical (art.11) 42
Según los recurrentes no sería respetuoso con el reconocimiento del
derecho a la libertad sindical (art. 28.1 CE)43 la exigencia de autorización de trabajo para
su ejercicio por un extranjero. Por el contrario, el Abogado del Estado entiende que la
carencia de autorización para residir conlleva la imposibilidad de disponer de autorización
para realizar cualquier actividad laboral y, por ello, también a ejercer cualquier otro
derecho conectado con dicha actividad laboral. Ciertamente el criterio interpretativo ex
41
“Todos tienen el derecho a la educación”.
“Los extranjeros tendrán derecho a sindicarse libremente o a afiliarse a una organización profesional, en las
mismas condiciones que los trabajadores españoles, que podrán ejercer cuando obtengan autorización de
estancia o residencia en España”.
43
“Todos tienen derecho a sindicarse libremente”.
42
67
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
art. 10.2 CE es decir de la DUDH (art. 23), PIDCP (art. 22), PIDESC (art. 8), CEDH (art.
11), la Carta Social Europea (art. 5), el Convenio núm. 87, sobre la libertad sindical y
protección del derecho de sindicación de la Organización Internacional del Trabajo (art.
2) y el Convenio núm. 98 relativo a la aplicación de los principios de derecho de
asociación y negociación colectiva de la citada OIT, reiteran la ausencia de distinción
respecto de la libertad sindical y la protección del derecho de sindicación. El Tribunal
Constitucional ha reiterado en su jurisprudencia como el derecho a la actividad sindical
forma parte del contenido esencial de este derecho fundamental. Por tanto a juicio del
Tribunal no debe prosperar una interpretación restrictiva del contenido del precepto
impugnado ya que de conformidad con el contenido esencial del derecho a la libre
sindicación concretado por el Alto Tribunal, “no resulta constitucionalmente admisible la
exigencia de la situación de legalidad (…) para su ejercicio por parte de los trabajadores
extranjeros aún cuando si resulte exigible la situación de regularidad administrativa para,
considerar validamente celebrado un contrato de trabajo”.
En parecidos términos a los anteriores pronunciamientos del Tribunal se reitera
por éste que es perfectamente factible el establecimiento por el legislador orgánico de
limitaciones o excepciones a su ejercicio, pero en ningún caso “la exclusión total” del
derecho de libertad sindical de los trabajadores extranjeros que carezcan de autorización
de estancia o residencia en España. La decisión final del Tribunal se concreta en la
afirmación según la que no se corresponde el reconocimiento constitucional del derecho
de libertad sindical con su ejercicio restringido exclusivamente a los trabajadores que se
encuentran en situación legal ya que la titularidad de este derecho posibilita, entre otras
finalidades posibles “la defensa de los intereses de los trabajadores, para llegar a
ostentar tal condición jurídico-formal”. Por tanto, el legislador orgánico podrá estipular
en la norma “condiciones específicas para el ejercicio del derecho de sindicación”
respecto del extranjero carente de la prescriptiva autorización de estancia o residencia,
pero en todo caso ha de ser respetuoso con el contenido constitucionalmente garantizado
de este derecho “a cualquier persona independientemente de la situación en que se
encuentre”. Aquí se matiza por el propio Tribunal la inconstitucionalidad de ese inciso
“viene referida exclusivamente al derecho a sindicarse libremente, pero no al derecho a
afiliarse a una organización profesional”.
68
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
5.- Derecho de huelga (art. 11.2) 44
La impugnación se dirige contra este precepto por considerar que se somete a la
condición de disponer de la autorización para trabajar o el permiso de residencia para el
ejercicio del derecho de huelga45. La argumentación del Abogado del Estado se limita a
cuestionar el sentido del recurso ya que “quien no esta autorizado a trabajar pudiera
gozar del derecho de huelga”. Nuevamente el proceder del Tribunal sigue las pautas
establecidas para concretar cual sea el contenido constitucionalmente declarado del
derecho de huelga, para, a continuación, valorar si la limitación impuesta por el legislador
orgánico resulta constitucionalmente lícita a la luz del contenido esencial del derecho,
“teniendo en cuenta el criterio interpretativo derivado del art. 10.2 CE, que obliga a
interpretar los derechos y libertades consagrados en la CE de acuerdo con los tratados y
acuerdos internacionales ratificados por España”.
Como tuvo ocasión de señalar de forma temprana el Alto Tribunal nos
encontramos ante un derecho subjetivo del trabajador “necesario para la afirmación de
los intereses de los trabajadores en los conflictos soioeconómicos, conflictos que el
Estado social no puede excluir, pero a los que sí puede y debe proporcionar los
adecuados cauces constitucionales” (STC 123/1992). Además el criterio interpretativo ex
art. 10.2 CE en atención a lo proclamado en el PIDESC (art. 8.d) y la Carta Social
Europea que contemplan este derecho confirman la relevancia del mismo. La conclusión
que alcanza el Tribunal es que nos encontramos ante un derecho reconocido a la persona
en razón de su condición de trabajador y, por tanto, no se adecua a la Constitución la
exigencia de una determinada nacionalidad y situación administrativa en el territorio
nacional para poder ejercer este derecho. Por tanto concluye el Tribunal “no resulta
constitucionalmente admisible que se prive al trabajador de una protección cuya razón de
ser es la propia defensa de sus intereses”.
6.- Intimidad familiar y reagrupamiento familiar (arts. 16.2, 17,2 y
46
18,4)
44
“Los extranjeros tendrán derecho a sindicarse libremente o a afiliarse a una organización profesional, en las
mismas condiciones que los trabajadores españoles, que podrán ejercer cuando obtengan autorización de
estancia o residencia en España”.
45
“Se reconoce el derecho a la huelga de los trabajadores para la defensa de sus intereses”.
46
“el cónyuge que hubiera adquirido la residencia en España por causa familiar y sus familiares con él
agrupados conservarán la residencia aunque se rompa el vínculo matrimonial que dio lugar a la adquisición.
69
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
La doctrina ya ha evidenciado la errónea formulación de este precepto,
así como el equívoco al que conduce su inadecuada redacción. La distinción por tanto es
evidente entre el derecho a la intimidad familiar (art. 18 CE)47 y la protección de la
familia que tiene su encaje en el art 39 CE48 y no admite una consideración conjunta.
La impugnación de inconstitucionalidad se dirige frente a la remisión
reglamentaria que realizó el legislador orgánico que, en opinión de los recurrentes,
supondría una vulneración de la reserva de ley orgánica. Al objeto de determinar la
procedencia de dicha impugnación el Alto Tribunal constata que las remisiones
reglamentarias se producen respecto de la reagrupación familiar que no en relación con
la intimidad.
Frente al criterio de los recurrentes, el Tribunal pues considera que los preceptos
impugnados no regulan ni desarrollan las condiciones de ejercicio del derecho
fundamental a la intimidad familiar, ya que la remisión a desarrollo reglamentario se
dirige a “la posibilidad de conservar la residencia por parte del cónyuge que la adquirió
en virtud de reagrupación, y sus familiares” una vez que ha finalizado el vínculo
matrimonial. Entiende el Tribunal que el “derecho de reagrupación familiar, sin embargo
no forma parte del contenido del derecho consagrado en el art. 18 CE que regula la
intimidad personal”. Según el Tribunal este derecho conlleva “la existencia de un ámbito
propio y reservado frente a la acción y conocimiento de los demás, necesario para
mantener una calidad mínima de la vida humana”(STC 231/1988).
En todo caso y más allá de las consideraciones que se puedan derivar del art. 8
del CEDH y de la jurisprudencia del TEDH coincidiendo con la opinión del Abogado del
Estado se señala que “nuestra Constitución no reconoce un <<derecho a la vida
Reglamentariamente se podrá determinar el tiempo previo de convivencia en España que se tenga que
acreditar en estos supuestos” (art. 16.2).
“El extranjero residente tiene derecho a reagrupar con él en España a los siguientes familiares:
d) Los ascendientes del reagrupante o su cónyuge, cuando estén a su cargo y existan razones que justifiquen la
necesidad de autorizar su residencia en España.
2. Reglamentariamente, se determinarán las condiciones para el ejercicio del derecho de reagrupación y, en
especial, del que corresponda a quienes hayan adquirido la residencia en virtud de una previa reagrupación
(art. 17 1 y 2).
“Reglamentariamente se determinarán las condiciones para el ejercicio del derecho de reagrupación por
quienes hayan adquirido la residencia en virtud de una previa reagrupación” (art. 18.4).
47
“Se garantiza el derecho al honor, a la intimidad personal y familiar y a la propia imagen”.
48
“Los poderes públicos aseguran la protección social, económica y jurídica de la familia”.
70
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
familiar>> en los términos en que la jurisprudencia del TEDH ha interpretado el art. 8.1
CEDH, y menos aún un derecho fundamental a la reagrupación familiar, pues ninguno de
dichos derechos forma parte del contenido del derecho a la intimidad familiar garantizado
por el art. 18.1 CE”.
La conclusión final a la que llega el Tribunal es que no ha de prosperar la
impugnación de inconstitucionalidad por cuanto los preceptos impugnados no afectan a
las condiciones de ejercicio del derecho fundamental a la intimidad familiar, ni por tanto
opera en este ámbito la reserva de ley orgánica.
7.- Denegación de visado (arts. 20.2 y 27.5)49
En la definición del Estado de derecho destaca indudablemente el sometimiento
de los ciudadanos y los poderes públicos a la ley, de tal forma que todos los actos de los
poderes públicos puedan ser objeto de un control por los órganos jurisdiccionales. En
síntesis, esta idea se completa con la interdicción de la arbitrariedad de los poderes
públicos y el sometimiento de todos los actos administrativos al control jurisdiccional (art.
106 CE). Es en este sentido en el que los recurrentes de inconstitucionalidad han
señalado como la adecuación entre ambos preceptos constitucional y orgánico presentan
dificultades, ya que la omisión de motivación de actos administrativos denegatorios de
solicitudes de visado impiden conocer las causas esgrimidas por la Administración para
alcanzar tal resolución denegatoria. Por esta razón, no es posible determinar si el
proceder de la Administración se ha ajustado a derecho en ese caso concreto, al igual
que repercute en la tutela judicial efectiva del interesado, en la media en que desconoce
frente a que razonamientos o argumentaciones de la administración puede plantear un
recurso. Este precepto pues podría colisionar con la jurisprudencia constitucional y del
Tribunal Supremo, que de modo reiterado ha venido afirmando la necesidad de la
motivación para el conocimiento y defensa de sus derechos del administrado también
respecto de las resoluciones administrativas.
49
“Los procedimientos administrativos que se establezcan en materia de extranjería respetarán en todo caso las
garantías previstas en la legislación general sobre procedimiento administrativo, especialmente en lo relativo a
publicidad de normas, contradicción, audiencia al interesado y motivación de las resoluciones, salvo lo dispuesto
en el art. 27 de esta Ley” (art. 20.2).
“La denegación de visado deberá ser motivada cuando se trate de visados de residencia para reagrupación
familiar o para el trabajo por cuenta ajena. Si la denegación se debe a que el solicitante del visado está incluido
en la lista de personas no admisibles prevista en el Convenio de aplicación del Acuerdo de Schengen de 14 de
junio de 1990, se le comunicará así de conformidad con las normas establecidas por dicho Convenio.
La resolución expresará los recursos que contra la misma procedan, órgano ante el que
hubieran de
presentarse y plazo para interponerlos” (art. 27.5).
71
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Por tanto, las impugnaciones de inconstitucionalidad descansan en que esta
nueva regla introducida por la Ley Orgánica impide que se pueda llevar a cabo el
mandato constitucional de revisión jurisdiccional de los actos administrativos, para
constatar la adecuación a derecho de dicha resolución alejada de cualquier sombra de
arbitrariedad o discriminación. Entienden pues los recurrentes que existirían serias
dificultades para poder adecuar a la Constitución la redacción introducida en la Ley
Orgánica 8/2000 respecto de la denegación de visados en determinados supuestos en los
que la Administración no queda obligada a motivar la denegación de la solicitud de visado
(art. 27). Existiría un riesgo real para el ejercicio material del derecho fundamental a
obtener una resolución motivada y razonada en Derecho sobre la pretensión ejercitada,
porque se puede sufrir indefensión a través de una restricción legal. Como es notorio
“cualquier restricción en el ejercicio de un derecho fundamental necesita basarse en una
causa especifica prevista por la ley y que el hecho o la razón que la justifique debe
explicitarse para hacer cognoscible los motivos que la legitiman”. La motivación es un
requisito indispensable del “acto limitativo del derecho, y el contenido necesario de ésta”
(STC 146/1997). Los recurrentes consideran que la indefensión se caracteriza por
suponer una privación o una limitación del derecho de defensa que, en este caso, se
produce por vía legislativa y sobrepasa el límite del contenido esencial de la tutela judicial
prevenido en el art. 53 (STC 48/1984).
Los argumentos esenciales del Abogado del Estado son, de un lado, la
inexistencia en nuestro ordenamiento jurídico de un derecho del extranjero a la
obtención del visado ya que se trata de un instrumento de
política de inmigración
ejercitable por el Estado soberano y, de otro, porque el legislador solo ha exigido a la
administración la necesidad de motivar la denegación en tres supuestos concretos, por lo
que el legislador tampoco impone la no motivación, sino que como compartirá el Tribunal
“simplemente no se exige” en el resto de los supuestos.
En efecto, el Tribunal Constitucional señala que la fundamentación de la
inconstitucionalidad descansa en la “exoneración del deber de motivación referido no a
un resolución judicial, sino a una resolución administrativa denegatoria de un visado, con
las excepciones mencionadas”. Coincidimos con el Tribunal en que el precepto que se
impugna “no contempla propiamente la restricción de un derecho, pues la obtención del
visado no es un derecho reglado del extranjero”, ya que como se ha indicado por el
Tribunal “el derecho a entrar en España no es un derecho fundamental del que sean
titulares los extranjeros” ex art. 19 (STC 75/2005). A juicio del Tribunal “la exoneración
72
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
del deber de motivación de los actos administrativos denegatorios del visado establecida
en aquellos preceptos no debe reputarse contraria al art. 24.1 CE puesto que se trata de
actos que no imponen sanción alguna ni limitan el ejercicio de ningún derecho
fundamental”. Respecto a la alegada contradicción de este precepto con la interdicción
de la arbitrariedad de los poderes públicos (9.3 CE) y con el obligado control de la
actuación administrativa por parte de los Tribunales” (art. 106.1), se considera que no
existe ninguna incompatibilidad. Concluye el Tribunal desestimando este motivo de
inconstitucionalidad ya que pese a los términos en que está redactado el precepto
impugnado “nada impide que se pueda llevar a cabo el correspondiente control
jurisdiccional de estos actos administrativos quedando garantizada la exigencia del art.
106 CE”.
Diversos son otros preceptos de la regulación de extranjería sobre los
que se ha formulado alguna impugnación de inconstitucionalidad en la medida en que
pueden propiciar, desde la estricta aplicación literal de sus términos, la indefensión del
extranjero que se encuentre de modo irregular en el interior o en la frontera de nuestro
territorio. Ciertamente, aun cuando una primera afirmación sobre la titularidad de la
tutela judicial efectiva se contiene en el artículo 20 de la vigente Ley Orgánica 8/2000, la
regulación contenida en diversos preceptos de aquélla plantea desde la perspectiva de
los recurrentes un indudable debilitamiento de la eficacia del control judicial de las
actuaciones administrativas previas que pudiera desdibujar la eficacia de la tutela judicial
efectiva, e incluso generar supuestos de indefensión. En este sentido, la aplicación literal
de algunos de estos preceptos de la norma de extranjería, a juicio de los recurrentes,
conlleva un elevado riesgo de debilitamiento del control judicial sobre actos
administrativos de los que son destinatarios los extranjeros con gravosas consecuencias
para ellos. Brevemente expuestos cabe recordar que se ha impugnado el principio non
bis in idem: expulsión de los extranjeros condenados (art. 57). También se han recurrido
las limitaciones a la libertad relativas a la residencia obligatoria como medida cautelar
previa a la expulsión (art. 61.b), retorno (art. 60), ingreso en el centro de internamiento
(art. 62.2) así como la ejecutividad inmediata de las resoluciones administrativas de
expulsión (art. 63.2).
Pese a las anteriores argumentos que han sido objeto de consideración por el
Alto Tribunal y sobre los que descansan las objeciones esenciales formuladas por los
73
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
recurrentes el Alto Tribunal ha considerado que este procedimiento es compatible con la
tutela judicial efectiva y, por tanto, ha desestimado este motivo de impugnación.
IV.- Consideraciones Finales
En cuanto a los efectos de las sentencias objeto de este comentario por parte del
Tribunal se ha señalado una doble consecuencia de la aceptación de aquellos motivos de
impugnación de inconstitucionalidad que han prosperado. De un lado, para el Alto
Tribunal
cabe
recordar
que
“no
siempre
es
necesaria
la
vinculación
entre
inconstitucionalidad y nulidad; así ocurre cuando <<la razón de la inconstitucionalidad
del precepto reside, no en determinación textual alguna de éste, sino en su omisión”. Por
tanto, no se resuelve la
obtener
cuando
nulidad de los preceptos relativos al inciso “y que podrán
obtengan
autorización
de
estancia
o
residencia
en
España”
correspondiente a los derechos de reunión, asociación y sindicación al objeto de evitar
“un vacío legal”. Por el contrario procede acordar la inconstitucionalidad y la nulidad
respecto del inciso “residentes” de los preceptos relativos a la educación de naturaleza no
obligatoria y el derecho de asistencia jurídica gratuita de los extranjeros. Idéntico
razonamiento se esgrime respecto de la declaración de inconstitucionalidad que conlleva
también la nulidad del inciso “cuando estén autorizados a trabajar” en relación con el
reconocimiento del derecho de huelga.
Baste por último brevemente indicar que las sucesivas resoluciones del Tribunal
que contienen varios votos particulares se centran esencialmente en la discrepancia
respecto de la interpretación del art. 13 CE que consideran los magistrados discrepantes
“supone una diferenciación” entre las posiciones de los españoles y extranjeros. También
se discrepa del fallo del Pleno en la apreciación de la apelación a la dignidad humana que
se entiende insuficientemente “consistente” en los términos de “generalidad” con que es
utilizado a su criterio en dichas sentencias. Por último, constituiría una exageración para
los Magistrados discrepantes la consideración de inherentes a la dignidad humana de los
derechos de reunión, asociación y sindicación.
Evidentemente a lo largo de los siete años que han transcurrido desde la
aprobación de la Ley Orgánica 8/2000 hasta las resoluciones del Tribunal Constitucional
hemos asistido a un escenario complejo, en el que la no intervención del legislador
74
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
orgánico, o quizá por la exclusión llevada a cabo por el legislador orgánico de esas
personas, se ha iniciado una línea de actuación de intervención de las administraciones
autonómicas respecto de la inmigración en el contexto de sus competencias en materia
de prestaciones sociales. Así, instrumentos como el padrón municipal y su inclusión en él,
o la institución del arraigo en la población han operado como cauces para recibir
prestaciones de la administración local y para posibilitar una intervención decidida de los
Ayuntamientos en la atención a la población inmigrada. Los diferentes planes de
integración de la inmigración de las Comunidades Autónomas han dado paso a la
incorporación de competencias en materia de extranjería e integración de los inmigrantes
en los nuevos Estatutos de Autonomía de Cataluña y Andalucía.
Tras los recientes pronunciamientos del Tribunal Constitucional parece necesario
llevar a cabo una reforma legislativa para adecuar la actual normativa a dicha
jurisprudencia así como formular las bases de la gobernanza de la integración, que exige
que los distintos actores implicados en la integración de los inmigrantes pudieran definir
conjuntamente los instrumentos más adecuados para su consecución. Se hace necesario
pues que el legislador plasme en una nueva norma sobre inmigración e integración la
necesidad de coordinar las actividades de integración, así como la evaluación para la
elaboración de las políticas y programas de inserción de la inmigración. También se tiene
que abordar en una próxima norma de extranjería de forma coherente la gestión de los
recursos y el papel de los distintos actores públicos y privados en la financiación de
políticas y prácticas de integración.
La síntesis deseable de este conjunto de circunstancias, condicionantes,
regulaciones y planes autonómicos de integración no debiera ser otra que una mayor
concertación entre el Estado, las Comunidades Autónomas y las administraciones locales.
75
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
La sussidiarietà a livello orizzontale nell’esperienza italiana di decentramento
fiscale
di Chiara Fontana
Sommario: 1. Premessa; 2. Origine e funzioni della sussidiarietà fiscale; 3. Il
principio di sussidiarietà orizzontale nella Costituzione e nella legislazione
statale italiana; 4. Il principio di sussidiarietà fiscale a livello orizzontale; 5.
Sussidiarietà orizzontale, decentramento fiscale e vincoli di sistema
Premessa
Le trasformazioni demografiche e sociali degli ultimi decenni
hanno coinvolto
molti dei principi cardine elaborati dalla scienza politica e giuridica, determinandone, in
alcuni casi, il declino.
In special modo, l’accelerazione conseguita dai processi di mondializzazione ha
posto in discussione, sotto diversi aspetti, l’antica formula dello Stato nazione,
sollecitando, contestualmente, l’evoluzione di una nuova progettualità istituzionali.
Tale situazione risulta, peraltro, più evidente, laddove il modello statale risulti
costruito sulle coordinate dell’accentramento; dello statalismo; e del consociativismo.
I processi in corso, originatisi a partire da una crisi del principio di sovranità
statale, investono, infatti, principalmente, i modelli di civil law, storicamente più rigidi di
quelli di common law, a fronteggiare le sfide lanciate dall’emergere di un diritto
cosmopolita, che tende a riaffermare il primato della prassi sulle geometrie legali.1
In siffatto conteso, non solo il tradizionale monopolio delle fonti del diritto, e la
stessa decisione politica, hanno smarrito la propria capacità di legittimarsi all’interno di un
principio di sovranità incontrollato e autoreferenziale2; ma finanche il controllo politico
1
2
Cfr. GENTILE, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, Padova, 2001, p. 53.
Cfr. ANCONA, Alle origini della sovranità, Padova, 2004, p.7.
76
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
sull’economia nazionale, tradizionalmente centrata sul mercato interno, risulta oscurata
dall’emergere di un sistema economico globale, che elude il controllo statale.
Tale fenomeno impatta, con forza, anche il diritto fiscale, le cui coordinate,
radicate sulla statualità e sulla materialità della ricchezza, risultano rivoluzionate dai nuovi
processi socio-economici; e dall’incalzare dello sviluppo tecnologico.
La
stessa
formula
no taxation without rapresentation, frequentemente,
presentata, nella letteratura giuridica, come la più alta espressione dell’imprescindibile
legame esistente tra “questione fiscale”e principio democratico, risulta, per questa via,
spogliata di una parte considerevole del suo significato3.
Gli urti della globalizzazione, infatti, hanno posto in discussione la reale portata di
quello che viene abitualmente considerato come il paradigma di fondo della democrazia
fiscale; e che impone la coincidenza, nel medesimo soggetto, delle figure dell’elettore, del
beneficiario della spesa pubblica e del contribuente.
Lo stesso cittadino, infatti, è in condizione di scegliere, autonomamente, dove
pagare almeno una quota dei tributi, in qualità di investitore finanziario o di imprenditore,
pur esercitando il diritto di voto e usufruendo della spesa pubblica nel suo Paese di
appartenenza
La ricchezza, per la prima volta in età moderna, si sottrae, dunque, al vincolo
territoriale4, ponendo, così, in discussione il principio che lega tassazione e
rappresentanza politica.5
Nel nuovo contesto mondializzato, lo Stato sociale, infatti, con la graduale perdita
del controllo dell’economia, ha abdicato ad una quota rilevante della propria sovranità
fiscale e rischia di diventare, paradossalmente, un “peso” proprio per i soggetti più
deboli, che sarebbe tenuto a tutelare6.
Mentre, dunque, le classi più abbienti dispongono dei mezzi funzionali ad
esportare la propria ricchezza in Paesi fiscalmente più vantaggiosi, la pressione fiscale
3
Cfr. ANTONINI , La sussidarietà fiscale. La frontiera della democrazia, Milano, 2005, p. 25.
Non è più lo Stato che stabilisce come tassare la ricchezza, ma è la ricchezza che sceglie dove essere tassata.
5
Cfr. TREMONTI., Il futuro del fisco, in Galgano-Cassese-Tremonti-Treu, Nazioni senza ricchezza e ricchezza
senza nazioni, Bologna, 1993, p. 60
6
Cfr. ANTONINI, Oltre il Welfare State: verso nuovi diritti sociali fondati sulla sussidiarietà, Intervento al
Convegno .Autonomie, cooperazione e raccordi interistituzionali nell’evoluzione del sistema italiano,Roma, 22
febbraio 2006, nel quale, l’Autore evidenzia come, in buona sostanza, la globalizzazione ha messo in crisi la
tradizionale formula politica ed istituzionale dello Stato nazione ed ha naturalmente sollecitato l’evoluzione verso
una nuova progettualità. Tale crisi, peraltro, secondo tale dottrina appare tanto più evidente quanto più il
modello statale è stato costruito sulle coordinate dell’accentramento e dello statalismo: così il pianeta di civil
law, con la sua pretesa di catturare il diritto, si trova a fronteggiare sfide che lo rendono senz’altro più obsoleto
ed inadeguato rispetto a quello di common law.
4
77
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
nazionale finisce per mortificare i redditi che non sono in condizione di godere di mobilità
internazionale; e i beni al sole.
All’interno di questa crisi, il principio di sussidiarietà fiscale sembra, non solo ad
una autorevole dottrina7, ma, anche al legislatore dell’ultimo decennio, l’unico in
condizione di recuperare, in formule nuove, i presupposti e le prestazioni di democrazia
sostanziale racchiusi nel principio che lega tassazione e rappresentanza.
Esso, infatti, strutturando una forma alternativa di concorso alle spese
pubbliche,8 (ex art. 53 Cost.), da realizzarsi, non solo, pagando tributi erariali, ma, anche,
partecipando, più generalmente, alla crescita ed al benessere della comunità,9 si pone
quale correttivo del modello tradizionale “burocratico-impositivo” teorizzato ed edificato
sotto l’egida dello Stato centralista.
In base al suddetto principio, è possibile rivalutare la capacità democratica della
sovranità popolare, fino ad enucleare una nuova generazione di diritti sociali,10 edificati
sullo schema delle libertà negative, ma sostenuti da un valore assiologico, che ne
sottolinea il nesso con i valori sociali.11
Il protagonismo fiscale dello Stato centralista, risolto il vincolo che univa Stato
territorio e ricchezza, si presta, quindi, ad essere riconsiderato alla ricerca di una inedita
conciliazione tra diritti di libertà, sovranità popolare e imposizione fiscale.
Quest’ultima, infatti, risulta delegittimata, sia dal punto di vista delle prestazioni
sociali erogate, sia da quello della democraticità sostanziale che la sostiene.
7
Il riferimento attiene, in primo luogo ad ANTONINI , op. cit.,2005; ma, anche, a numerosi altri Autori, quali
COTTURI, Potere sussidiario. Sussidiarietà e federalismo in Europa e in Italia, Roma, 2001; ALBANESE, Il
principio di sussidiarietà orizzontale: autonomia sociale e compiti pubblici, in Dir. Pubbl., 2002, p. 51;
RESCIGNO, Principio di sussidiarietà e diritti sociali, in Dir. Pubbl., 2002, p. 13 ss.
8
A tale riguardo, fondamentali, tra gli altri, gli studi condotti da: I. MANZONI, Il principio di capacità
contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965; F. MAFFEZZONI, Il principio di capacità
contributiva nel diritto italiano, Torino, 1970; F. MOSCHETTI, Il principio della capacità contributiva, Padova,
1973; F. GAFFURI, L’attitudine alla contribuzione, Milano, 1969; E. GIARDINA, Le basi teoriche del principio
della capacità contributiva, Milano, 1961; S. LA ROSA, Eguaglianza tributaria ed esenzioni fiscali, Milano, 1968;
G. MARONGIU, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria, Torino, 1991; F. MOSCHETTI F. (a cura
di), La capacità contributiva, in Trattato di diritto tributario, (diretto da) A. Amatucci, vol. I, tomo I, Padova,
1994; E. DE MITA, Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 2000; Id., Fisco e Costituzione, vol. I,
Milano, 1987; Id., Fisco e Costituzione, vol. II, Milano, 1993.
9
Siffatta teoria trova la sua legittimazione nella circostanza che l’art. 53 Cost., che rappresenta la base del
sistema fiscale italiano, pur sancendo l’obbligo di concorso alla spesa pubblica da parte di tutti i cittadini in
ragione della loro capacità contributiva, nulla specifica circa le modalità di adempimento dell’obbligazione
tributaria.
10
È il caso, ad esempio, del diritto all’esenzione fiscale dei minimi familiari, il quale, certamente, opera quale
diritto costituzionale sui generis, dato che risulta caratterizzato tanto da un contenuto sociale, quanto da una
struttura analoga a quella delle libertà negative: il Familienexistenzminimum elaborato dalla Corte di Karlsruhe
si struttura, infatti, nella pretesa ad una assenza di interferenza fiscale statale sui presupposti economici minimi
per un’esistenza dignitosa.
11
Cfr. ANTONINI, 2005, p. 20.
78
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
È logico che la sussidiarietà fiscale non sarà mai in grado di sostituirsi allo Stato
fiscale o alla democrazia rappresentativa nella funzione impositiva; vi sono, certamente,
funzioni che in alcun caso potrebbero essere delegate alla società civile o alle realtà sub
statali; tuttavia, innegabilmente, il ruolo da esse svolto potrebbe essere ottimizzato,
attraverso una efficace applicazione del principio di sussidiarietà.
Si profila, per questa via, una possibile “metamorfosi concettuale”12 degli istituti,
diretta ad attualizzare le potenzialità democratiche dell’antico principio che lega la
tassazione alla sovranità popolare, consentendo di recuperarne, almeno parzialmente, i
presupposti e le prestazioni di democrazia sostanziale.13
Date tali premesse, le finalità delle seguenti riflessioni consistono nel fornire
un’interpretazione del principio di sussidiarietà fiscale a livello orizzontale, che risulti
coerente, non solo, con il preesistente assetto normativo, ma, anche, con l’evoluzione
legislativa originatasi dalla legge n. 3 del 2001, di riforma del Titolo V della Costituzione,
che ha riformulato l’art. 118, prevedendo, espressamente, al IV comma, il principio di
sussidiarietà orizzontale.
L’indagine condotta, muoverà, pertanto, dall’analisi circa le origini e le funzioni di
tale principio, per concentrarsi, successivamente, sull’esperienza di sussidiarietà maturata
nell’ambito del più vasto processo di decentramento, che sta interessando il nostro
Paese, nell’ultimo decennio.
Ovviamente, chi scrive non ha alcuna pretesa di riuscire a trattare in maniera
esaustiva, un argomento approfondito da una ben più autorevole dottrina, che si presta,
peraltro, a diverse chiavi di lettura, in alcuni casi, anche molti diverse fra loro.
Tale breve contributo è da intendersi, pertanto, come un primo passo compiuto
all’interno di un più vasto percorso di studio che si intende condurre su uno dei principali
nodi del dibattito politico e culturale italiano sulle istituzioni della finanza pubblica.
2. Origine e funzioni della sussidiarietà fiscale
12
Il termine è mutuato da ANTONINI , op. cit, 2005.
In tal senso, CALAMANDREI, La funzione della giurisprudenza nel tempo presente, in Studi sul processo civile,
vol. IV, Padova, 1957, p. 89; e, più tardi, BERTOLISSI, Rivolta fiscale, federalismo, riforme costituzionali,
Padova, 1997, p. 21, il quale, riprendendo le tesi espresse dal Calamandrei, evidenzia la centralità della
questione fiscale e la necessità di affrontarla seguendo un approccio diretto a coinvolgere gli istituti
fondamentali della forma di Stato cui si riporta il “patto fiscale”.
13
79
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Fornire una definizione unitaria del più vasto principio di sussidiarietà, entro il
quale si colloca la sussidiarietà fiscale, risulta alquanto difficile, a causa della densità del
contesto culturale, della stratificazione del dato storico e del sovraccarico ideologico dal
quale risultano segnate le ricostruzioni teoriche che ne sono state rese; tanto più laddove
tale principio venga considerato in senso “orizzontale”, coinvolgendo la complessa
questione del rapporto tra pubblici poteri ed autonomia dei privati.14
Ordinariamente, si conviene sul fatto che tale principio abbia più matrici culturali,
risalenti e diversificate. Tralasciando le origini filosofiche più antiche15, le componenti
ancora oggi più significative di questa nozione, possono essere individuate nel pensiero
liberale, nel pensiero socialista e nella dottrina sociale della Chiesa.
Nella prima accezione, la formulazione più radicale della sussidiarietà si fonda,
essenzialmente, sull’affermazione della riduzione dell’intervento statale al minimo
necessario per garantire la libertà e la convivenza degli individui; e discende, come
conseguenza necessitata, della asserzione della prevalenza e precedenza della libertà
degli individui sull’attività dello Stato.
L’intervento di quest’ultimo è, infatti, considerato, nell’ottica liberale, come
intrinsecamente minaccioso per l’autonomo dispiegarsi della libertà individuale e come
potenzialmente conflittuale con essa; esso pertanto, è ritenuto legittimo solo se
“sussidiario”, ossia, quando risulti espletato in funzione suppletiva, ogniqualvolta la libera
14
Un’ accurata ricostruzione storica circa la complessità delle radici culturali di tale principio è stata resa da
STAIANO, La sussidiarietà orizzontale: profili teorici, in federalismi.it, n.5/2006.
In questa sede, Egli sottolinea l’opportunità di rinunciare ad un’impossibile “neutralità” definitoria, muovendo,
piuttosto, da un concetto aperto di sussidiarietà. Per tale via, quanto al designatum essa si riferisce ad una
relazione tra livelli territoriali di governo, come sussidiarietà verticale; tra Stato latamente inteso e società civile,
anch’essa latamente intesa, come sussidiarietà orizzontale. Quanto alla funzione, la sussidiarietà privilegia
l’intervento dei soggetti nell’ambito più vicino possibile agli interessi coinvolti.
Sulla sussidiarietà come “principio relazionale”, D’ATENA, Il principio di sussidiarietà nella Costituzione italiana,
in Riv. it.dir. pubbl. com., 1997, p. 609. Dello stesso autore, cfr. Costituzione e principio di sussidiarietà, in
Quaderni cost., n.1/2001, p. 17.
15
Il principio di sussidiarietà affonda le sue radici nel pensiero di Aristotele e di Tommaso d’Aquino,
proponendosi come “rapporto tra lo Stato e la sua collettività”.
Il primo riteneva che in un organismo complesso, l’individuo, la famiglia, il villaggio e la città assumevano le
sembianze di contenitori concepiti come matriosche, sicchè la mancanza di autosufficienza del più piccolo
comportava l’interno della grandezza immediatamente superiore.in tale contesto, il potere politico doveva
gestire la difesa, l’ordine pubblico, la giustizia, etc…..Tommaso d’Aquino, nel rispetto della dignità umana, le
affiancava, quale aspetto imprescindibile, la libertà e la responsabilità del proprio agire. Tale autonomia
comportava una necessità di non ingerenza nelle attività che dal singolo potevano essere autonomamente
svolte, di modo che l’intervento dell’autorità superiore fosse giustificabile solo ove l’autonomia del singolo si
dimostrasse inidonea a raggiungere da sola la piena felicità.Per un’approfondita analisi si rimanda a DURET, La
sussidiarietà orizzontale: le radici e le suggestioni di un concetto, in Jus, 2000, p. 95; RINELLA, op. cit., p. 8;
BERTI, Considerazioni sul principio di sussidiarietà, in Jus, 1994, p. 405.
80
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
iniziativa dei soggetti privati si riveli, in concreto, inidonea a conseguire le finalità che si
propone16.
Ne discende, per questa via, una visione del principio di sussidiarietà fondata su
una concezione antagonistica del rapporto tra Stato e società, che assume una funzione
prevalentemente di delimitazione dell’intervento statale e di difesa nei confronti di
quest’ultima.
Si contrappone allo “Stato minimo,” la corrente che predilige lo “statalismo
pianificatore”, la quale reputa che lo Stato non possa abbandonare il campo: vi sono,
infatti, dei bisogni che non possono essere che soddisfatti dall’Amministrazione.
In quest’ottica occorrono, dunque, sia una redistribuzione del reddito, sia
adeguati sistemi di sicurezza sociale, atti a contrastare la povertà e la disuguaglianza.
Da una parte si contrappone, quindi, la libertà all’uguaglianza, l’individuo allo
Stato, l’iniziativa privata alla garanzia pubblica; dall’altra, si spinge troppo verso uno Stato
fortemente assistenzialista.
Ne discendono due valenze di sussidiarietà, l’una intesa in senso negativo, come
astensione dell’intervento pubblico a favore della libertà del singolo; l’altra in senso
positivo, come dovere di intervento da parte dello Stato.17
Vi è, poi, una posizione intermedia, quella della dottrina sociale della Chiesa, che
si connota, sia di una posizione di tipo negativo (non ingerenza da parte dello Stato per
quanto possa essere fatto dal singolo); sia di una posizione di tipo positivo (in cui lo
Stato, nel riconoscimento di quanto a lui spetta, interviene per favorire tali iniziative).18
Il nucleo fondamentale di tale dottrina può essere rinvenuto, come ben noto,
nelle Encicliche Rerum novarum, del 1891 e Quadragesimo anno, del 193119.
In quest’ultima, in particolare, si afferma che “…non è lecito sottrarre ai privati
per affidarlo alla comunità, ciò che essi possono compiere con le proprie iniziative e la
propria industria, così com’è un ingiustizia, un grave danno ed un turbamento del giusto
ordine attribuire ad una società maggiore più elevata quello che possono compiere e
produrre le comunità minori ed inferiori. Infatti qualsiasi opera sociale in forza della sua
natura deve aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già
16
Si veda, in particolare, JELLINEK, Allgemeine Staatlehre, Leipzig, 1913, p.230.
ALBANESE, Il principio di sussidiarietà orizzontale: autonomia sociale e compiti pubblici, in Dir. pubbl., n.
1/2002, p. 66.
18
Cfr. ALBANESE, op. cit., 2002, p 62.
19
Nel magistero della Chiesa si è poi consolidata l’affermazione del principio di sussidiarietà, come dimostra la
Lettera Enciclica Deus Caritas Est, data da Benedetto XVI, il 25 dicembre 2005, nella quale non solo si conferma
il menzionato principio, ma si individua e si esplicita un filo conduttore unitario nella dottrina della Chiesa che ad
esso si richiama.
17
81
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
distruggerle ed assorbirle. Perciò è necessario che l’autorità suprema dello Stato rimetta
ad associazioni minori ed inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento,
dalle quali essa del resto sarebbe più che mai distratta; ed allora essa potrà eseguire con
più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei solo spettano, perché essa sola può
compierle; di direzione cioè, di vigilanza, di incitamenti, di repressione, a seconda dei casi
e delle necessità”.
La funzione dell’organizzazione statale, in quest’ottica, diventa quella di “aiutare
in maniera suppletiva”20 le strutture sociali inferiori nell’assolvimento dei compiti da esse
svolti. Inteso in tal senso, il principio di sussidiarietà, se, da una parte, ribadisce
l’imperativo dell’astensione, da parte dello Stato, da qualsivoglia ingerenza nelle attività
che possono essere svolte dai singoli o dai gruppi sociali minori, autonomamente;
dall’altra, si completa di una valenza positiva, derivante dal riconoscimento dell’utilità di
un’azione statale finalizzata a sostenere e a promuovere l’attività dei privati.
Sebbene le diversità tra tali matrici siano radicali, derivando dal diverso
fondamento cui ciascuna di esse si richiama, le previsioni normative e la considerazione
preliminare circa la funzione che il principio di sussidiarietà svolge nell’ordinamento, si
caratterizzano per un certo sincretismo, che coglie un comune atteggiamento di
diffidenza rispetto al potere statale e, nel rapporto con quest’ultimo, una preminenza
valoriale del singolo e dell’autonomia dei soggetti intermedi, su base comunitariaterritoriale.
Del resto, una certa bivalenza è insita nello stesso significato del menzionato
principio, che, da un lato, tutela l’autonomia del singolo e dell’organismo minore
dall’invadenza di quelli maggiori; e, dall’altro, implica l’eventualità dell’intervento ausiliario
di questi ultimi, quando gli organismi minori si rivelino inadempienti o inadeguati nello
svolgimento dei propri compiti.
Adottato in un ordinamento giuridico articolato secondo una pluralità di
autonomie sociali e territoriali, esso può comportare, quindi, per il potere pubblico, un
dovere di astensione, quanto uno di intervento.
In ambito fiscale, l’idea che tassazione e rappresentanza dovessero essere
necessariamente collegate è stata, frequentemente, presentata, nella letteratura
giuridica, come il denominatore comune della prima teoria giuridica liberale sulle imposte.
La previsione della riserva di legge in materia tributaria, contenuta nelle carte
costituzionali ottocentesche ha, infatti, determinato l’erronea convinzione di un
20
Il termine sussidiarietà deriva, appunto dalla locuzione subsidium afferre.
82
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
generalizzato
riconoscimento,
negli
ordinamenti
dell’epoca,
del
principio
di
autoimposizione21. Principio che, invero, non può farsi coincidere con la semplice
previsione formale, in ambito costituzionale, della necessità di una consenso
parlamentare alle imposte.
Si è trattato, in realtà, di un significativo equivoco storico che ha legittimato, nei
secoli successivi, una retorica persuasa a determinare, con eccessivo semplicismo, nella
riserva di legge, la garanzia dell’autoimposizione, prescindendo dall’effettivo livello di
rappresentanza in esso realizzato.
A ben vedere, infatti, il concetto di autoimposizione sembra essere stato proprio
solo dell’utilitarismo anglosassone, nell’ambito del quale, l’interesse comune era
rappresentato come la somma degli interessi dei singoli cittadini22.
Nella dottrina mitteleuropea del tempo, invece, le chimere della metafisica
statalistica condussero a teorie e prassi alquanto divergenti nei diversi ordinamenti
tributari.
Nell’ordinamento giuridico italiano, una previsione generica della riserva di legge
in materia tributaria è contenuta nello Statuto Albertino, ai sensi del cui art. 30, nessun
tributo poteva essere imposto o riscosso, se non consentito dalla Camera e sanzionato
dal Re.
L’art. 10 del medesimo Statuto disponeva, inoltre, che le leggi di imposizione
dovessero essere presentate, in via preventiva, alla Camera dei deputati, evidenziando, in
tal modo, l’inadeguatezza del Senato, di nomina regia e privo di rappresentatività, ad
esercitare la funzione legislativa nel settore tributario.
Nella concreta evoluzione legislativa, tuttavia, l’ideologia costituzionale dei diritti
pubblici soggettivi, finì, rapidamente, per determinare una impostazione della dinamica
impositiva meno rispettosa del principio di legalità di quanto originariamente previsto;
che culminò nella prassi dei decreti legge in materia tributaria.
Tale orientamento condizionò, anche, la dottrina successiva, tanto che, ormai
quasi cinquanta anni dopo, A.D. Giannini, si interrogava circa l’opportunità di definire il
rapporto tributario come rapporto giuridico, piuttosto che come rapporto di potere.23
21
Cfr. BARTOLINI, Il principio di legalità in materia di imposizione, Padova, 1957, p. 3.
Al di là di indebite generalizzazioni, il concetto di autoimposizione si realizzò pienamente nell’ideologia
anglosassone, dove appariva come declinazione particolare del più ampio principio della liberty and property
22
clause.
23
GIANNINI, Il rapporto giuridico d’imposta, Milano, 1937, p. 27.
83
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Per il recupero dei presupposti legati al principio di autoimposizione si dovè,
pertanto, attendere, la Costituzione del 1948, nella quale, prevalse la necessità di
rovesciare la tradizione costituzionale dei diritti pubblici soggettivi.
Lo sviluppo della persona, la posizione che essa occupa nella società civile ed il
rapporto che intercorre tra Stato e cittadino, risultano, infatti, nelle intenzioni del
costituente, illuminati dal principio di solidarietà sociale.
In quest’ottica, l’individuo e le formazioni sociali trovano tutela, non in quanto
tali, ma in quanto atti a perseguire degli interessi generali.24
Le potenzialità insite in tale impostazione normativa, tuttavia, furono avvertite in
ritardo e solo parzialmente dalla dottrina italiana; diversamente, dalla Corte costituzionale
che le utilizzò per razionalizzare lo sviluppo dell’ordinamento nazionale e per liberarlo dai
limiti che affievolivano sia il principio di legalità, sia la tutela giurisdizionale.
Se, quindi, la tematica del consenso delle imposte è stata rapidamente ricondotta
all’interno del principio di cui all’art. 23 Cost.; tuttavia, l’evoluzione normativa che ne è
seguita non è stata sufficiente a restituire al principio di autoimposizione le originali virtù
democratiche che lo caratterizzavano25.
In
questo senso, la necessità di assicurare un fondamento legislativo
all’imposizione di prestazioni patrimoniali si è giustificata, essenzialmente, per l’esigenza
che le scelte fondamentali, in merito alla ripartizione dei carichi tributari, siano assunte
nell’ambito di un più vasto processo politico, che tenga conto della tutela delle minoranze
e della ponderazione tra esigenze pubblicistiche e privatistiche.
Un ruolo emblematico, in tale direzione, è stato svolto dalla sentenza n. 134/82,
in cui il giudice delle leggi ha chiarito, riferendosi alla misura delle detrazioni dall’imposta
sul reddito, che il punto d’incontro e di contemperamento delle esigenze finanziarie dello
Stato e dei contribuenti varia a seconda dell’evoluzione economica, finanziaria e sociale
del Paese e spetta al legislatore ordinario di determinarlo alla luce di tali necessità.
Ne discende che, nel collegamento con il principio di autoimposizione, la qualità
democratica della riserva di legge in materia tributaria, ha subito una profonda
trasformazione, che coinvolge la sua stessa attitudine a fungere da manifestazione di
sovranità popolare.
24
In proposito, giova ricordare che la Costituzione ha prestato, tuttavia, grande attenzione all’esigenza di
evitare che i corpi intermedi perseguano interessi di classe, creando un neocorporativismo, di per se stesso
contrario al principio di solidarietà sociale.
25
Al riguardo è d’obbligo sottolineare come l’evoluzione della nozione stessa di riserva di legge si debba
all’intuizione di ABBAMONTE, Principi di diritto finanziario, Napoli, 1975, che per primo sottolineò l’ancoraggio
dell’art. 23 con la sovranità ed il sindacato di legittimità.
84
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
La giurisprudenza costituzionale, infatti, ha interpretato estensivamente la
nozione di prestazione patrimoniale imposta, finendo con il mortificare le esigenze di
democraticità a vantaggio di quelle di garanzia26; peraltro con una forte autolimitazione
in relazione alle previsioni di tipo quantitativo, nei confronti delle quali si è sempre
dimostrata alquanto prudente.27
Tale
interpretazione
giurisprudenziale,
del
resto,
si
accompagna
e,
contestualmente, giustifica un’evoluzione normativa, in materia tributaria, di stretta
origine governativa, nella quale, la legislazione per decreti ha dettato l’abdicazione della
legislazione parlamentare, la cui centralità era proprio una delle principali coordinate del
principio di autoimposizione.
In estrema sintesi, l’evoluzione intercorsa, non solo, ha depauperato di gran
parte del suo significato, la riserva di legge relativa, di cui all’art. 23 Cost., ma ha anche
identificato nei decreti legislativi e nei decreti legge, gli strumenti ordinari di produzione
normativa in materia tributaria.
Questo assetto, la cui origine è riconducibile ai difetti che segnarono i decreti
legislativi che furono emanati in base alla legge delega n. 825/71 per la riforma tributaria
è stato, ulteriormente, consolidato dalla recente tendenza a rafforzare i poteri del
Governo.
Si comprende, pertanto, l’urgenza avvertita da certa Dottrina28 di recuperare le
virtù democratiche del principio di autoimposizione, rivalutando ruolo e funzioni della
sovranità popolare.
Da questo punto di vista, considerando che lo Stato –soggetto si propone come
strumento concorrente, attraverso il quale, il popolo esercita la sovranità di cui resta
titolare nei mutati contesti sociali, il principio di sussidiarietà sembra porsi come
derivazione della sovranità popolare, tendenzialmente idonea, a colmare il deficit
democratico che affligge l’antica formula no taxation without rapresentation.
26
Si ricordi, in proposito, la sentenza n. 236/94, nella quale la Corte ha stabilito che il carattere relativo delle
riserva di legge è rispettato anche in assenza di una esplicita indicazione legislativa dei criteri, dei limiti e dei
controlli sufficienti a circoscrivere l’ambito di discrezionalità assicurato alla Pubblica Amministrazione.
27
L’atteggiamento della Corte si self restreitment è da ritenersi comprensibile laddove essa si trovi a dovere
bilanciare interessi del legislatore ed interessi che essa stessa ritenga conformi allo spirito costituzionale.
L’adesione a tale orientamento, tuttavia, incontra il limite che ci si muova all’interno dei principi costituzionali,
poiché, in presenza di comportamenti irragionevoli del legislatore, il richiamo alla discrezionalità di quest’ultimo
sembra più il rifugio della Corte che non un limite reale al sindacato costituzionale. A contrario, un giudizio
estremamente positivo deve attribuirsi alla Corte con riferimento alle sentenze additive di prestazioni, alle quali
può, indubbiamente, riconoscersi una funzone maieutica.
28
Il riferimento attiene, in primo luogo ad ANTONINI op. cit., 2005, il quale, ha profusamente illustrato, in
numerosi scritti, l’esigenza di recuperare il significato più profondo del principio di sovranità popolare in materia
fiscale attraverso la sussidiarietà.
85
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Su questo crinale, appare utile calare il suddetto principio nel contesto normativo
in cui deve operare.
3. Il principio di sussidiarietà orizzontale nella Costituzione e nella
legislazione statale italiana
Le considerazioni appena svolte consentono di concludere che la sussidiarietà
fiscale ha radici antiche, in questa sede solo parzialmente evocate.
In Italia, tali radici affondano, come accennato, nello statalismo tardo
ottocentesco, rispetto al quale, la Costituzione repubblicana segnò una considerevole
evoluzione29.
Il Testo venne, infatti, approvato a larghissima maggioranza, nell’ambito di una
straordinaria convergenza delle principali forze politiche presenti in Parlamento, che
consentì la cristallizzazione di principi come la libertà di associazione (art. 18 Cost.); e la
tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali dove
svolge la sua personalità (art. 2 Cost.)30
Tale evoluzione, per quanto apprezzabile, tuttavia, non riuscì a valorizzare,
adeguatamente, le menzionate formazioni, il cui, maggiore riconoscimento civilistico e
fiscale avrebbe contribuito a non disperdere la tradizione di Welfare Society che aveva
rappresentato l’humus dello sviluppo socio-economico-culturale italiano.
Le conseguenze che ne sono derivate assumono connotati paradossali, che
hanno avvilito le capacità della società civile di organizzare risorse per rispondere ai
bisogni sociali;31consolidando, contestualmente, una distribuzione centralistica del potere.
29
Al riguardo, FROSINI, Profili costituzionali della sussidiarietà in senso orizzontale, in Riv. giur.mezzogiorno,
2000, p. 15.
30
L’art. 2, implicitamente, sancisce la rottura del monopolio statale rispetto alla definizione dell’interesse
comunitario a favore del riconoscimento ai soggetti sociali del compito di perseguire gli obiettivi propri
dell’intera collettività statale. Nelle intenzioni del costituente, la norma in parola avrebbe dovuto rinsaldare
dimensione individuale ed interesse generale, superandone la tradizionale contrapposizione. La consonanza tra
il principio pluralistico di cui all’art. 2 Cost. e il principio di sussidiarietà deriva, pertanto, dalla valorizzazione
della capacità e dell’autonomia del singolo cittadino, accanto a quella dei gruppi sociali e delle società minori,
nell’ambito della società generale e delle strutture in cui essa organizza il potere. Tale concezione è stata fatta
propria anche dalla Corte di Cassazione la quale ha sostenuto che il fondamento giuridico del diritto all’identità
personale vada individuato direttamente nell’art. 2 Cost., inteso nella sua ampia dimensione di clausola
generale, aperta all’evoluzione dell’ordinamento e suscettibile di apprestare copertura costituzionale ai nuovi
valori emergenti della personalità ( Cass. sez. Un., n. 978/1996, in CIAN TRABUCCHI, Commentario breve al
codice Civile, Padova, 2001, p. 94.
31
Si ricordi, a conferma di tale affermazione, che solo nel 1997 è stato abrogato l’art. 17 del Codice Civile che
prevedeva l’autorizzazione governativa all’accettazione, da parte di associazioni e fondazioni, di lasciti e
donazioni.
86
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Solo negli anni ’90, si è assistito ad un progressivo riassetto dei pubblici poteri
che ha portato, per esempio, alle misure di liberalizzazione adottate a partire dalla l.
142/199032; ed alle privatizzazioni formali di alcune strutture pubbliche erogatrici di
servizi.
All’interno di questo complesso processo di sviluppo dell’ordinamento italiano, in
cui, peraltro, spesso, la valorizzazione delle potenzialità espresse dalla società civile è
avvenuta in maniera meno intensa di quella auspicata da parte della dottrina, le prime
formulazioni esplicite del principio di sussidiarietà, anche nella sua valenza orizzontale33
hanno avuto luogo all’interno della riforma delle autonomie locali.
Il riferimento attiene, innanzitutto, all’art. 4, co. 3, lett. a), della l. 59 del 1997
(c.d. prima legge “Bassanini”), secondo il quale, il conferimento di funzioni agli enti
territoriali deve osservare, tra gli altri, il principio di sussidiarietà (…) attribuendo le
responsabilità pubbliche, anche al fine di favorire l’assolvimento di funzioni e di compiti di
rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità
territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati.;34e al Testo Unico sugli
enti locali (d.l.vo.18 agosto 2000, n. 267, art. 3, co. 5), ai sensi del quale, i Comuni e le
Province svolgono le loro funzioni anche attraverso le attività che possono essere
adeguatamente esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni
sociali.
Successivamente35, la legge costituzionale n. 3 del 2001, di riforma del Titolo V,
ha riformulato l’art 118 Cost. 36, prevedendo, espressamente, al IV comma, il principio di
sussidiarietà orizzontale.
32
Legge 8 giugno 1990, n. 142 di ordinamento delle Autonomie locali.
La sussidiarietà orizzontale riguarda la distribuzione tra privati, da un lato, e pubblici poteri, dall’altro, dei
compiti di erogazione di servizi e benefici. È verosimile, pertanto, che l’espressione “orizzontale”, che
abitualmente si associa al termine sussidiarietà, si giustifichi, proprio, presumendo che l’intera vita associata sia
suddivisa, orizzontalmente, tra azioni dei privati e azioni dei pubblici poteri. Applicando questo principio, di
conseguenza, ogni iniziativa che rientri nel dominio del principio medesimo, spetta prioritariamente agli individui
(in forma singola o associata) e, solo suppletivamente, alla Repubblica ed alle sue articolazioni.
È verosimile, pertanto, che l’espressione “orizzontale”, che abitualmente si associa al termine sussidiarietà, si
giustifichi, proprio, presumendo che l’intera vita associata sia suddivisa, orizzontalmente, tra azioni dei privati e
azioni dei pubblici poteri. Applicando questo principio, di conseguenza, ogni iniziativa che rientri nel dominio del
principio medesimo, spetta prioritariamente agli individui (in forma singola o associata) e, solo suppletivamente,
alla Repubblica ed alle sue articolazioni.
34
In proposito giova osservare che proprio con la legge n. 59/97, il dibattito dottrinale sul principio di
sussidiarietà si è spostato dalla sussidiarietà verticale a quella orizzontale, come dimostra un esame della
letteratura giuridica sull’argomento, ma, anche il dibattito sviluppatosi dentro e fuori la Commissione bicamerale
per le riforme costituzionali della XIII legislatura, a proposito della formulazione dell’art. 56.
35
Sebbene non richiami, espressamente, il principio di sussidiarietà si può ritenere che, anche la Legge 27 luglio
2000, n. 212, contenente Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente, possa essere inserita
all’interno del più vasto filone legislativo caratterizzato dalla ricerca di un nuovo rapporto tra amministrazione ed
amministrati improntato a principi di leale collaborazione e di valorizzazione delle istanze dei singoli cittadini.
33
87
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Tale articolo dispone, infatti, che Stato, Regioni, Province e Comuni favoriscono
l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati, per lo svolgimento di attività di
interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
È chiaro che tale formulazione non è l’unica alla quale si possa fare riferimento,
ciò nonostante, per il solo fatto di essere una norma costituzionale, essa assume un peso
superiore a tutte le altre disposizioni in materia, rappresentando la base di partenza
scientifica per l’attuazione, nel nostro Paese, del principio di sussidiarietà orizzontale.
In proposito, la prima questione da esaminare attiene alla precettività di tale
norma; in particolare, sotto il profilo giuridico, il problema da porsi riguarda l’enunciato
normativo; giova chiedersi, infatti, se la disposizione in commento sia sufficientemente
chiara, nella sua formulazione, per essere immediatamente applicata o richieda,
piuttosto, ulteriori interventi legislativi e regolamentari, funzionali all’attuazione del
principio introdotto nel nostro ordinamento dal legislatore costituzionale.
La risposta affermativa, nel senso dell’immediata applicabilità dello stesso, si
fonda sulla constatazione che l’art. 118 u.c. non enuncia un principio, rinviando al
legislatore ordinario per la sua definizione37, bensì, prevede una fattispecie fondata su un
principio che si realizza nella fattispecie medesima, la cui formulazione risulta
sufficientemente chiara da consentirne una graduale quanto immediata applicazione.
Non si tratta, dunque, di interpretare un concetto astratto, ma, piuttosto, di
realizzare una fattispecie concreta in cui, soggetti, azioni ed obiettivi sono già stati
36
La letteratura sul principio di sussidiarietà in riferimento all’ordinamento costituzionale è molto vasta. Fra i
lavori più recenti, in ordine cronologico, ex multis, RINELLA, Il principio di sussidiarietà: definizioni,
comparazioni e modello d’analisi, in RINELLA-COEN-SCARCIGLIA ( a cura di), Sussidiarietà e ordinamenti
costituzionali, Padova, 1999, p. 8.; RIDOLA, Il principio di sussidiarietà e la forma di Stato di democrazia
pluralista, in CERVATI-PANUNZIO-RIDOLA (a cura di), Studi sulla riforma costituzionale, Torino, 2001, .13;
RESCIGNO, Principio di sussidiarietà e diritti sociali, in Dir. Pubbl., 2002, p. 6; MOSCARINI, Competenza e
sussidiarietà nel sistema delle fonti, Padova, 2003, p. 13.
37
Il legislatore costituzionale si è limitato ad enunciare l’obbligo, per i soggetti pubblici da esso indicati, di
favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, trascurando, per tale via, di fornire una definizione puntuale del
contenuto e della portata di tale principio. Ne discende che sarebbe inesatto sostenere che il principio di
sussidiarietà si esaurisca nel favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini per attività di interesse generale, dato
che, se, da un lato, la norma afferma che lo Stato e gli altri enti territoriali favoriscono l’iniziativa privata;
dall’altro, impone che, nel farlo, debbano attenersi al medesimo principio. Per stabilire il significato esatto e la
portata da attribuire alla norma in commento, pertanto, è necessario esaminare il contesto storico e normativo
dal quale essa ha avuto origine. In tal senso, può sostenersi che la concezione del principio di sussidiarietà
orizzontale recepita dall’art.118 Cost. risente, prioritariamente, delle formulazioni che, del medesimo principio,
sono state elaborate, dalla legislazione statale.
La letteratura sul principio di sussidiarietà in riferimento all’ordinamento costituzionale è molto vasta. Fra i lavori
più recenti, in ordine cronologico, ex multis, RINELLA, Il principio di sussidiarietà: definizioni, comparazioni e
modello d’analisi, in RINELLA-COEN-SCARCIGLIA ( a cura di), Sussidiarietà e ordinamenti costituzionali, Padova,
1999, p. 8.; RIDOLA, Il principio di sussidiarietà e la forma di Stato di democrazia pluralista, in CERVATIPANUNZIO-RIDOLA (a cura di), Studi sulla riforma costituzionale, Torino, 2001, .13; RESCIGNO, Principio di
sussidiarietà e diritti sociali, in Dir. Pubbl., 2002, p. 6; MOSCARINI, Competenza e sussidiarietà nel sistema delle
fonti, Padova, 2003, p. 13.
88
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
precisati; anche perchè, l’eventuale attesa che il legislatore, la dottrina e la
giurisprudenza esplicitino, ulteriormente, contenuti e funzioni della sussidiarietà
orizzontale contrasterebbe con lo spirito dell’art. 118, u.c., i cui profili operativi trovano
realizzazione nell’attività non delle istituzioni, ma dei cittadini38.
Spetta, infatti, a questi ultimi assumere l’autonoma iniziativa, in virtù di quell’
interesse generale, che rappresenta il nucleo essenziale della disposizione.
Anche da questo punto di vista, quindi, il principio in parola manifesta la sua
forza rinnovatrice, invertendo il flusso del potere dalle amministrazioni verso i cittadini.
L’art. 118 u.c., d’altra parte, non fa che costituzionalizzare un orientamento
consolidato, in sede dottrinale, quanto istituzionale, secondo il quale, dal tessuto sociale e
civile di cui è ricco il nostro Paese, può scaturire un contributo rilevante nell’affrontare
temi cruciali per la nostra democrazia.39
L’evoluzione che tale disposizione normativa ha subito, assume, pertanto,
un’importanza accresciuta dal fatto di rendere giustizia alla tradizione italiana,
implementando quella rete di democraticità, data dal protagonismo della società civile,
che costituisce una risorsa indispensabile in un sistema bipolare “virtoso”.40
Risulta, in tal modo, ancora più significativo, il fatto che le prime innovazioni
verso una formula moderna di Welfare Society, siano state introdotte a livello regionale,
laddove si avvertono, maggiormente, le istanze dei cittadini.
Peraltro, anche la diversa intensità con cui le Regioni hanno affermato il principio
di sussidiarietà deve essere positivamente apprezzata; rispecchiando la complessità della
società civile italiana, contraddistinta da una distribuzione disomogenea, sul territorio
nazionale, di cittadini in grado di assumere responsabilità sociali.
Non è una caso, quindi, che, mentre in alcune Regioni si osserva una spiccata
tendenza verso meccanismi di cash regolato (i vouchers), associati ad una forte apertura
alla concorrenza tra produttori di servizi, volta ad accrescere la scelta delle famiglie; in
altre, si rilevi la tendenza a costruire un mercato sociale, caratterizzato da uno spiccato
municipalismo.
38
Così, ARENA, Il principio di sussidiarietà orizzontale nell’art. 118 u.c. della Costituzione, in ARENA (a cura di),
Studi in onore di Giorgio Berti, Milano, 2005, p. 177;
39
Al riguardo, giova rilevare come tale orientamento sia stato sposato dallo stesso Presidente della Repubblica,
Giorgio Napoletano, il quale, nel messaggio inviato in occasione del Convegno “Bipolarismo mite e
sussidiarietà”, tenutosi a Roma, il 29 marzo 2007, ha espresso il suo pieno e convinto apprezzamento per il
prezioso potenziale di sussidiarietà presente nel Paese, indispensabile per muovere verso quel bipolarismo mite,
da intendersi come tempo della maturità per la democrazia dell’alternanza, che rappresenta un obiettivo
imprescindibile per lo sviluppo del confronto politico in Italia.
40
Cfr. ANTONINI, op. cit., 2005, p.81.
89
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Più specificamente, in tema di politiche di sostegno alla famiglia, i modelli
regionali hanno integrato il tradizionale approccio lib/lab, (caratterizzato dal tentativo di
contemperare il risvolto privatistico della tutela della libertà di autodeterminazione della
famiglia, con il risvolto pubblicistico dell’ingerenza statale a tutela di una sia pure relativa
eguaglianza di opportunità); con interventi di tipo “societario”41, come i “nidi-famiglia” o
le “banche del tempo”.
Politiche innovative sono state sviluppate, anche, nel settore dell’assistenza
sociale e della tutela della salute, dove la spinta verso il federalismo si è intrecciata con le
innovazioni introdotte, nell’ultimo decennio, nell’assetto della sanità pubblica.
Le motivazioni che hanno condotto a questa diffusa tendenza dei sistemi regionali
verso l’applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale sono diverse e attengono, da
un lato, alla favorevole contingenza politica; e, dall’altro, alla necessità di riorganizzare le
funzioni trasferite dallo Stato, senza mutuarne le disfunzioni.
In ogni caso, i nuovi modelli regionali di Welfare sono potenzialmente in
condizione di interferire, positivamente, nell’evoluzione del sistema di protezione sociale
del nostro Paese, riducendo il gap di tutele-servizi e opportunità offerte ai cittadini, che
ancora separa l’Italia dai principali Paesi europei.
4. Il principio di sussidiarietà fiscale a livello orizzontale
Le considerazioni svolte nelle pagine che precedono, pur nella loro sommarietà,
consentono di cogliere la sopravvenuta inadeguatezza del principio di autoimposizione ad
individuare, in modo esauriente, la sede reale delle decisioni fiscali.
In quest’ottica, il principio di sussidiarietà appare idoneo a ricomprendere la
molteplicità dei cambiamento intervenuti, rivalutando, a fronte della crisi delle sedi
tradizionali della sovranità statale, la sovranità personale, anche in relazione al concorso
alla spesa pubblica.42
Un esempio concreto delle possibili applicazioni che esso può avere è ravvisabile
in disposizioni normative che implichino la precedenza del risparmio fiscale rispetto
all’assistenza pubblica; o, ancora, nel riconoscimento al contribuente della facoltà di
41
In tal senso: GENNUSA, Le politiche a sostegno della famiglia in Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio,
in VIOLINI (a cura di), Sussidiarietà e decentramento, Milano, 2003, p. 350.
42
Così, ANTONINI, op. cit, 2005, p. 112.
90
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
destinare una quota delle proprie imposte a beneficio di soggetti ritenuti meritori,
ottenendo, contestualmente, la detassazione delle relative donazioni, riconosciute come
forma alternativa di contribuzione.
In questo modo, infatti, parte del controllo della spesa pubblica torna al
contribuente, senza dovere passare per il circuito della rappresentanza.
È logico che siffatti meccanismi pretendono gradualità ed elaborazioni rivolte, tra
l’altro, a superare le c.d. asimmetrie informative; ma lo è altrettanto che essi possono
rappresentare un passo in avanti verso nuove forme di tutela dei diritti sociali.
Da una diversa angolazione, non può, del resto, tacersi la tendenza del
legislatore italiano ad applicare misure fiscali che valorizzano, unicamente, la dimensione
positiva del principio di sussidiarietà orizzontale, enfatizzando il ruolo svolto dai soggetti
pubblici a sostegno dell’attività dei cittadini43.
La
stessa formulazione dell’art. 118,u.c., Cost., si rivela, infatti, priva delle
indispensabili specificazioni normative e del tutto svincolata dalla previsione di
meccanismi giuridici che ne definiscano gli strumenti di attuazione, introducendo criteri di
riparto delle sfere di competenza fra soggetti pubblici e privati44.
A conferma di ciò si rammenti come la necessità di favorire l’autonoma iniziativa
dei privati, a partire dalle c.d. leggi sul federalismo, sia stata sempre enunciata
parallelamente all’attribuzione di funzioni agli enti pubblici territoriali.45
Ne discende una nozione di sussidiarietà fiscale orizzontale che, anziché tendere
a limitare l’intervento pubblico a favore delle organizzazioni sociali, mira ad indirizzare
tale intervento, postulando la necessità di una collaborazione tra poteri pubblici e soggetti
privati, in vista del perseguimento dell’interesse generale46.
In tal senso, il significato più profondo dell’art.118, co.4, Cost. è quello che
sancisce un’alleanza tra amministrazione ed amministrati47 in vista dell’interesse comune,
sottintendendo il riconoscimento di un ruolo ancora centrale e necessario dell’autorità
statale, seppure non più esclusivo ed imperativo48.
43
Il legislatore costituzionale si è, dunque, allontanato dalla concezione classica del principio di sussidiarietà
articolata in due componenti: negativa e positiva.
44
In tal senso, FORMICA, op. cit., p. 6.
45
V. art. 4, l. 15 marzo 1997, n. 59.
46
Sul significato della nozione di interesse generale nell’ordinamento comunitario si veda: Commissione
europea, Libro verde sui servizi d’interesse generale, 2003, COM(2003) 270 def. ed. Id., Libro bianco sui servizi
d’interesse generale, 2004, COM(2004)374def.
47
In questa direzione si è orientata anche la giurisprudenza costituzionale come sottolinea il dettato della
sentenza 17 ottobre 2006, n. 303.
48
Sull’interpretazione dell’art. 118 Cost., ex multis, ARENA, Il principio di sussidiarietà orizzontale nell’art. 118
u.c. della Costituzione, in ARENA (a cura di), Studi in onore di Giorgio Berti, Milano, 2005, p. 177; BOLOGNINO,
91
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
L’idea di fondo è quella di creare un nuovo rapporto, di tipo reticolare tra
istituzioni e privati49, che, da un lato, imponga alle prime di assicurare la rimozione degli
ostacoli, sostenendo le iniziative che realizzano interessi generali; e, dall’altro, legittimi i
cittadini ad attivarsi per perseguire fini che attengono all’interesse generale non perché
da essi stessi definiti tali, ma perché già così qualificati da norme di legge50.
In quest’ottica, i singoli diventano la misura di riferimento per l’allocazione delle
funzioni da assegnare ai livelli territoriali che più possano favorire l’espandersi del ruolo
dei cittadini; e, la democrazia stessa, passa da un modello democratico fondato sulla
rappresentanza della volontà popolare e sul potere della maggioranza, ad uno fondato
sulla egemonia della libertà e dell’autonomia della società (salvo i principi di giustizia e
solidarietà sociale).51
5. Sussidiarietà orizzontale, decentramento fiscale e vincoli di sistema
Alla luce delle considerazioni precedentemente svolte, la remissione alla totale
discrezionalità del legislatore, dei profili dell’imposizione fiscale legati agli artt. 2, 53
Cost., sembra essere stata superata, a beneficio di un’interpretazione costituzionale più
moderna, volta a ridimensionare i margini di discrezionalità concessigli in omaggio ad una
concezione del principio di democraticità più ampia di quella meramente rappresentativa.
Il principio di sussidiarietà fiscale tende, infatti, a rivalutare l’aspetto personale
della sovranità popolare; poiché, da un lato, configura un diritto al non intervento fiscale
dello Stato, per consentire ai cittadini di assolvere, (innanzitutto con risorse proprie), i
compiti di portata generale, relativi al sostentamento delle formazioni minime del tessuto
sociale; e dall’altro, restituisce una quota di sovranità al singolo individuo, consentendogli
di decidere di destinare parte dei propri tributi al finanziamento di finalità che egli stesso
reputi meritevoli di tutela.
Tale orientamento normativo ha trovato una prima formulazione nella Legge 7
aprile 2003, n. 80 di "Delega al Governo per la riforma del sistema fiscale statale", il cui
Il
principio
di
sussidiarietà
www.amministrazioneincammino.it.
nell’art.
118,
49
comma
4,
Cost.:
un’interpretazione,
in
In dottrina si è fatta avanti una nuova nozione di sussidiarietà c.d. circolare, intesa come una cooperazione
tra cittadini ed istituzioni, in cui, senza rapporti di supremazia e gerarchia si coamministra, assicurando lo
sviluppo della persona umana.
50
ARENA, op. cit., p. 30.
51
Così PIZZETTI, Il ruolo delle istituzioni nel quadro della “democrazia della cittadinanza”, Comunicazione al
Convegno Cittadini attivi per una nuova amministrazione, tenutosi a Roma il 7-8 febbraio 2003.
92
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
art. 2, co. 1, lett. n) concerneva, appunto,
l’introduzione di norme che ordinano e
disciplinano istituti giuridici tributari destinati a finalità etiche e di solidarietà sociale. Una
versione specializzata di questo principio era, inoltre, contenuta nell’art. 5, co.1, della
stessa legge, che identificava tra i principi ed i criteri direttivi della riforma dell’IVA, “la
previsione di norme che consentano (…) di escludere dalla base imponibile dell’imposta
sul valore aggiunto e da ogni altra forma di imposizione a carico del soggetto passivo, la
quota del corrispettivo destinato dal consumatore a finalità etiche ( lett. h).
Come è noto, la delega in oggetto ha trovato solo parziale attuazione, dato che,
nella XIV legislatura, tale principio fu declinato, con una sorta di anticipazione normativa
di frammenti del disegno riformatore, nelle forme della “de-tax” e del 5 per mille in
favore del volontariato e della ricerca.
La prima variante legislativa di questo modello volontario, connotato dalla non
fiscalità, è stato previsto dall’art. 19 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269 (convertito, con
modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, n. 326) come strumento non coattivo di
finanziamento dello sviluppo, destinato a funzionare allo stadio del consumo. Tale
disposizione normativa prevedeva che “Il consumatore che acquisti prodotti (…) in
esercizi commerciali convenzionati con associazioni, organizzazioni ed enti che svolgono
attività etiche ha facoltà di manifestare l’assenso alla destinazione nei loro riguardi, da
parte dello Stato, di una quota pari all’1 per cento dell’imposta sul valore aggiunto,
relativa ai prodotti acquistati”.
Mentre, una seconda variante del medesimo modello, originariamente concepita
nella proposta di legge n. 5564 del 27 gennaio 2005, come “un secondo 8 per mille”52
dell’Irpef, è stata introdotta dall’art. 1, co. 337, della legge n. 266/2005, che stabilisce
che “per l’anno finanziario 2006 ed a titolo iniziale e sperimentale, una quota pari al 5 per
mille53 dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è destinata, in base alla scelta del
contribuente, alle seguenti finalità: a) sostegno del volontariato e delle altre
organizzazioni non lucrative di utilità sociale di cui all’art. 10 del decreto legislativo 4
dicembre 1997, n. 460, e successive modificazioni, nonché delle associazioni di
promozione sociale iscritte nei registri nazionale, regionali e provinciali previsti dall’art. 7,
commi 1, 2, 3, 4, della legge 7 dicembre 2000, n. 383, e delle associazioni e fondazioni
52
Un primo 8 per mille è destinato allo Stato.
In proposito giova rammentare che tra la proposta di legge e la legge approvata in Parlamento vi è una
significativa differenza, che consiste nella sostituzione dell’originario 8 per mille, con la nuova formula del 5 per
mille, voluta per evitare gli effetti duplicativi, dovuti alla ripetizione di percentuali analoghe destinate a
finanziare istituti diversi.
53
93
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
riconosciute che operano nei settori di cui all’art. 10, co. 1, lett. a), del decreto legislativo
4 dicembre 1997, n. 460; b) finanziamento della ricerca scientifica e dell’università; c)
finanziamento della ricerca sanitaria; d) attività sociali svolte dal comune di residenza del
contribuente”
Quest’ultimo modello di de-tax, particolarmente apprezzato dai contribuenti
italiani è stato, successivamente, ritoccato dalle norme sul 5 per mille, dell’art. 1, commi
1234-1237, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 ( legge finanziaria 2007).
Tale disposizione ha previsto, in particolare, la ridefinizione delle categorie
beneficiarie, nelle quali non sono più presenti i Comuni e ha introdotto un "tetto"
massimo di spesa che ha suscitato numerose critiche nei confronti del Governo, da parte
del Terzo settore e non solo.54
La legge 24 Dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria per il 2008), ha, poi,
rifinanziato la misura in parola con un incremento di 150 milioni di euro55; e, per il 2009,
ha riproposto la disciplina del 5 per mille Irpef, autorizzando una spesa massima di 380
milioni di euro.
All’interno della finanziaria 2008 sono, inoltre, contenute una serie di detrazioni
volte a porre un limite alla pressione fiscale avvertita, in special modo, dalle famiglie.
Due nuove tipologie di detrazioni riguardano i canoni di locazione
La prima spetta ai titolari di contratti di locazione di unità immobiliari adibire ad
abitazione principale, stipulati o rinnovati ai sensi della legge 431/1998: si tratta di 300
euro se il reddito complessivo annuo non supera i 15.493,71 euro e di 150 euro se il
reddito complessivo supera 15.493,71 euro ma non 30.987,41 euro. La seconda spetta a
giovani tra i 20 e i 30 anni che stipulano un contratto di locazione, ai sensi della legge
431/1998, per l'unità immobiliare da destinare a propria abitazione principale, sempre
che sia diversa da quella dei genitori o di coloro ai quali sono affidati per legge: per i
primi 3 anni spetta una detrazione di 991,6 euro se il reddito complessivo non supera i
54
Questo tetto, originariamente fissato in 250 milioni di euro è stato successivamente portato a 400 milioni; ciò
nonpertanto, la somma effettivamente redsitribuita dal Governo è risultata inferiore a quella effettivamente
destinata dai contribuenti.
55
Per l'anno 2008 le finalità del 5 per mille sono: a) sostegno alle Onlus, alle associazioni di promozione sociale
iscritti nei registri nazionale, regionale e provinciale, alle associazioni riconosciute che senza scopo di lucro
operano in via esclusiva o prevalente nei settori indicati dalla lettera a), comma 1, dell'articolo 10 del Dlgs
460/1997 (assistenza sociale e socio-sanitaria, assistenza sanitaria, beneficenza, istruzione, formazione, sport
dilettantistico, tutela, promozione e valorizzazione delle cose d'interesse artistico e storico, tutela e
valorizzazione della natura e dell'ambiente, con esclusione dell'attività, esercitata abitualmente, di raccolta e
riciclaggio dei rifiuti urbani, speciali e pericolosi; promozione della cultura e dell'arte; tutela dei diritti civili;
ricerca scientifica di particolare interesse sociale svolta direttamente da fondazioni o da esse affidata a
università, enti di ricerca e altre fondazioni che la svolgono direttamente); 2) enti della ricerca scientifica e
dell'università; enti della ricerca sanitaria. Disposizioni per una tempestiva gestione dell'erogazione del 5 per
mille.
94
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
15.493,71 euro56. Risulta, inoltre, estesa la detraibilità del 19% del canone di locazione
pagato per l'alloggio degli studenti universitari fuori sede, ai canoni relativi ai contratti di
ospitalità e agli atti di assegnazione in godimento o in locazione stipulati con enti per i
diritto allo studio, università, collegi universitari legalmente riconosciuti ed enti senza fine
di lucro e cooperative (per un importo non superiore a 2.633 euro)57.
Ancora, è stata prorogata al periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2007, la
detrazione Irpef del 19% delle spese documentate, sostenute dai genitori per il
pagamento di rette relative alla frequenza di asili nido, per un importo complessivamente
non superiore a 632 euro annui per ogni figlio ospitato58.
Il legislatore ha, inoltre, introdotto ulteriori detrazioni per carichi di famiglia e
redditi di lavoro;59 per le famiglie numerose;60 e per il pagamento dell’Ici sulla prima
casa61.
Nell’ottica di chi scrive, si tratta, indubbiamente, di misure meritorie, che
contribuiscono ad allentare, seppure in misura insufficiente, il “peso” fiscale avvertito
dalle famiglie italiane.
Ciò che, tuttavia, sembra sfuggire al legislatore è che un’imposizione fiscale
elevata come quella prevista nel sistema tributario italiano finisce con il ledere la dignità
stessa dei cittadini-contribuenti, poiché prima li priva dei mezzi necessari a sostenere
spese inevitabili e poi gli riconosce detrazioni
o gli concede sussidi dei quali in un
contesto di fiscalità più ordinato non avrebbero bisogno62.
56
N.B. Tali detrazioni non sono cumulabili e il contribuente può scegliere di fruire di quella più favorevole.
L'alloggio deve trovarsi in un Comune diverso da quello di residenza, distante almeno 100 chilometri da casa
e, comunque, in provincia diversa.
58
L'importo massimo della detrazione è, dunque, di 120,08 euro.
59
Ai fini del riconoscimento delle detrazioni per carichi di famiglia e per tipologie di reddito, il percipiente deve
indicare annualmente di avervi diritto e il codice fiscale dei soggetti per i quali usufruisce della detrazione. Le
detrazioni per carichi di famiglia e per redditi di lavoro si calcolano sul reddito complessivo, al netto della rendita
dell'immobile adibito ad abitazione principale e delle relative pertinenze. La norma si applica a partire dal
periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2007.
60
In presenza di almeno 4 figli ai genitori è, infatti, riconosciuta una ulteriore detrazione di 1.200 euro, ripartita
al 50% fra i genitori. In caso di genitori separati o divorziati la detrazione spetta in proporzione agli affidamenti
stabiliti dal giudice. In caso di coniuge fiscalmente a carico dell'altro la detrazione compete a quest'ultimo per
l'importo totale. In caso di incapienza è riconosciuto un credito di ammontare pari alla quota di detrazione che
non ha trovato capienza.
61
Si tratta di un’ulteriore riduzione per abitazione principale pari all'1,33 per mille della base imponibile, con un
tetto di 200 euro. Dall'agevolazione sono esclusi castelli, ville e case di lusso, che si somma alla detrazione in
vigore (103,29 euro). Il legislatore, inoltre ha previsto che la delibera comunale possa fissare a decorrere dal
2009 un'aliquota Ici agevolata inferiore al 4 per mille per i soggetti passivi che installano impianti a fonte
rinnovabile per la produzione di energia elettrica o termica per uso domestico (per 3 anni per gli impianti termici
solari e per 5 per tutte le altre fonti rinnovabili).
62
Una ricostruzione sistematica di tale contesto è stata fornita da PERRONE CAPANO, Aumento strutturale delle
57
imposte e politiche redistributive che ignorano il diritto tributario e avvantaggiano il fisco; intanto l’economia si
avvita su se stessa e gli italiani si impoveriscono, in newsletter 08/2003, di Innovazione e Diritto.
95
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
In questa direzione, grande importanza va attribuita alla giurisprudenza
costituzionale tedesca, la quale, da anni, sostiene la necessità di tutelare il reddito come
strumento di libertà personale; e di anteporre il risparmio fiscale alla assistenza sociale.
Più specificamente, il Tribunale costituzionale tedesco ha affermato il principio
della non assoggettabilità a imposizione del reddito minimo necessario al contribuente ed
alla sua famiglia per il fabbisogno vitale;63 evidenziando, contestualmente, l’incongruenza
di quelle disposizioni legislative attraverso le quali lo Stato priva i cittadini dei mezzi
necessari al sostentamento, per ridistribuire successivamente tali mezzi sotto forma di
assegni familiari.
Tale orientamento, chiaramente indirizzato a principi di sussidiarietà fiscale,
appare pienamente riproponibile al conteso italiano64 ed ha ispirato non solo il testo della
delega fiscale, ma anche, in epoca più risalente, il giudice costituzionale italiano, che, con
sent. n. 97/1968 ha dichiarato che il legislatore non può non esentare dall’imposizione
quei soggetto che percepiscano redditi tanto modesti da essere appena sufficienti a
soddisfare elementari bisogni della vita.
Ciò che, tuttavia, appare insoddisfacente è che nel medesimo decisum il giudice
delle leggi abbia sancito la libertà del legislatore di stabilire, in riferimento a complesse
valutazioni economiche e sociali, quale sia la misura al di sopra della quale sorge la
capacità contributiva, con il risultato di consentirgli, in astratto, di tassare nella stessa
misura spese voluttuarie e spese indispensabili.
La remissione alla piena discrezionalità del legislatore dei profili dell’imposizione
fiscale legati ai minimi vitali, andrebbe, piuttosto, superata alla luce di un interpretazione
volta a ridimensionarla in forza di una concezione del principio di democraticità più ampio
di quello meramente rappresentativo.
In questo senso, un ruolo cardine potrebbe essere svolto dalla legislazione
regionale; cioè da quel livello di governo più vicino alle istanze dei cittadini e, pertanto,
naturalmente più preparato a riconoscere, custodire e valorizzare le risorse presenti sul
territorio.
Tralasciando, volutamente, ogni valutazione circa i limiti e le diseconomie insite
nella lettera dell’art. 117 Cost., novellato, può certamente salutarsi con favore
quell’apertura dimostrata dai poteri regionali verso soggetti diversi da quelli strutturati
63
Cfr. sent. n. 82/60 del 29 maggio 1990.
In tale contesto, infatti, i diritti sociali tutelati a livello costituzionale non assumono una connotazione
paternalistica e l’intero sistema è incentrato sul valore della dignità umana.
64
96
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
nella forma burocratica convenzionale, che ha poi fatto da volano a un’analoga
evoluzione, a livello della legislazione nazionale, culminata nei “buoni scuola”; nei “buoni
vacanze” per le famiglie meno abbienti e nei “titoli d’acquisto dei servizi sociali”.
Ciò che si vuole sottintendere, e che costituirà oggetto di più ampi studi in
seguito, è che un’interpretazione “virtuosa” dei principi contenuti in nuce, nel nuovo
Titolo V della Costituzione, potrebbe completare in maniera ordinata ed efficiente il
processo di federalismo fiscale, nell’ottica di una gradualità e di una solidarietà
responsabilizzante, certamente abile a liberare risorse per affrontare, attraverso
l'innovazione nei settori strategici della scuola, della ricerca, della logistica delle
infrastrutture a rete e della specializzazione produttiva, le sfide di una mondializzazione
che non si esorcizza promettendo protezioni ed alimentando paure ma cogliendo le
opportunità che essa offre ad un paese che sappia raccoglierne la sfida65.
65
Il corsivo è da attribuirsi a PERRONE CAPANO, La perdita di competitività dell'Italia tra vincoli internazionali,
limiti strutturali e indirizzi di Finanza pubblica: riflessioni di un giurista. In Innovazione e Diritto, n. 6/2005.
97
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Il processo civile telematico
di Wanda D’Avanzo
1. Introduzione. - 2. Il documento informatico e la firme digitale. - 3. Il dominio
giustizia e il sistema informatico civile. - 4. La posta elettronica certificata. - 5. Il fascicolo
informatico nel processo telematico. - 6. La tenuta dei registri informatizzati. - 7. La
postazione dell’avvocato. - 8. Conclusioni.
1. - Il progetto di digitalizzazione del processo costituisce un approccio,
nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, dei principi relativi all’informatizzazione
delle attività della pubblica amministrazione.
Lo svolgimento telematico del processo ha trovato la sua prima regolamentazione
organica nel DPR del 13 febbraio 2001, n. 123 (Gu n. 89 del 17 aprile 2001), recante la
disciplina dell’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile, amministrativo
e quello dinanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei Conti. Le modalità del progetto
di automazione del processo sono state, successivamente, descritte nel Decreto
Ministeriale del 14 ottobre 2004 (Gu n. 272 del 19 novembre 2004, So 167), recante
regole tecnico-operative per l’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile,
e nei suoi allegati, conformemente con quanto previsto dal comma 3 dell’art. 3 del DPR
123/2001.
Il processo telematico ruota intorno a quattro elementi fondamentali. I primi due
sono rappresentati dal documento informatico e dalla firma digitale. Ai sensi del primo
comma dell’art. 4, DPR 123/2001, “tutti gli atti e provvedimenti del processo possono
essere compiuti come documenti informatici sottoscritti con firma digitale […]”. Qualora
non fosse possibile procedere alla sottoscrizione nel modo indicato, gli atti e i
provvedimenti saranno “redatti o stampati su supporto cartaceo, sottoscritti nei modi
ordinari e allegati al fascicolo cartaceo” (art. 4, comma 2).
Gli altri due elementi del processo telematico sono il dominio giustizia e il sistema
informatico civile. Per dominio giustizia si intende, ex art. 1, lett. e), DPR 123/2001,
“l’insieme delle risorse hardware e software, mediante il quale l’amministrazione della
giustizia tratta in via informatica e telematica qualsiasi tipo di attività, di dato, di servizio,
98
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
di comunicazione e di procedura”; il sistema informatico civile, invece, è “il sottoinsieme
delle risorse del dominio giustizia mediante il quale l’amministrazione della giustizia tratta
il processo civile” (art. 1, lett. f).
2. - Il percorso legislativo seguito dalla regolamentazione del documento
informatico e della firma digitale è stato, inizialmente, tracciato, dalla L. del 15 marzo
1997, n. 59 (Gu n. 63 del 17 marzo 1997, So 57/L), che all’art. 15, comma 2, stabilisce
che “gli atti, dati e documenti formati dalla pubblica amministrazione e dai privati con
strumenti informatici e telematici, i contratti stipulati nelle medesime forme, nonché la
loro archiviazione e trasmissione con strumenti informatici, sono validi e rilevanti a tutti
gli effetti di legge”.
A seguito della L. 59/1997, sono stati emanati il DPR del 10 novembre 1997, n.
513 (Gu n. 60 del 13 marzo 1998), recante criteri e modalità per la formazione,
l’archiviazione e la trasmissione di documenti con strumenti informatici e telematici; il
DPCM del 8 febbraio 1999 (Gu n. 87 del 15 aprile 1999), recante regole tecniche per la
formazione, la trasmissione, la conservazione, la duplicazione, la riproduzione e la
validazione, anche temporale dei documenti informatici, il DPR del 28 dicembre 2000, n.
445 (Gu n. 42 del 24 febbraio 2000, So 30/L), testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di documentazione, successivamente modificato dal D.Lgs. del
23 gennaio 2002, n. 10 (Gu n. 38 del 15 febbraio 2002) 1; il DPR del 7 aprile 2003, n. 137
(Gu n. 138 del 17 giugno 2003), recante disposizioni di coordinamento in materia di firme
elettroniche; ed infine, il D.Lgs. del 7 marzo 2005, n. 82 (Gu n. 112 del 16 maggio 2005,
So 93), recante codice dell’amministrazione digitale, modificato dal D.Lgs. del 4 aprile
2006, n. 159 (Gu n. 99 del 29 aprile 2006, So 105).
Il codice dell’amministrazione digitale ha affrontato, per la prima volta, in modo
organico e sistematico, le problematiche inerenti all’applicazione dei fondamentali principi
giuridici ai processi di digitalizzazione della PA.
Il documento informatico è, secondo la definizione data dal DPR 513/97, e, da
allora, rimasta inalterata, “la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati
giuridicamente rilevanti”.
1
Il D.Lgs. 10/2002, emanato in attuazione della Direttiva europea 1999/93/CE (Guce n. L 13 del 19 gennaio
2000), relativa ad un quadro comunitario per le firme elettroniche, è stato abrogato dalla data di entrata in
vigore del codice dell’amministrazione digitale.
99
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
La firma digitale, invece, è definita, dall’art. 1 del codice dell’amministrazione
digitale come “un particolare tipo di firma elettronica qualificata basata su un sistema di
chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al
titolare, tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica,
rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità del
documento informatico o di un insieme di documenti informatici”.
La chiave privata, nel sistema di firma digitale, è conosciuta dal solo soggetto
titolare
e l’algoritmo che la genera è contenuto in un dispositivo di smartcard.
2
I
dispositivi e le procedure utilizzate per la generazione delle firme, oltre ad essere sicuri,
devono garantire l’integrità dei documenti informatici cui la firma si riferisce. La
corrispondente chiave pubblica consente la verifica della sottoscrizione apposta al
documento informatico dal titolare della firma.
Affinché possa essere garantita la corrispondenza biunivoca tra la chiave pubblica
e il soggetto titolare cui essa appartiene, occorre che il certificatore rilasci un certificato
elettronico qualificato, cioè un attestato elettronico che collega i dati, utilizzati per
verificare le firme elettroniche, ai titolari.
L’art. 20, comma 2, D.Lgs. 82/2005, stabilisce che il documento informatico,
sottoscritto con firma digitale “formato nel rispetto delle regole tecniche stabilite ai sensi
dell’articolo 71, che garantiscano l’identificabilità dell’autore, l’integrità e l’immodificabilità
del documento, si presume riconducibile al titolare del dispositivo di firma ai sensi
dell’articolo 21, comma 2, e soddisfa comunque il requisito della forma scritta, anche nei
casi previsti, sotto pena di nullità, dall’articolo 1350, primo comma, numeri da 1 a 12 del
codice civile”.
Secondo l’art. 21, comma 2, il documento informatico, sottoscritto con firma
digitale ha l’efficacia probatoria prevista dall’art. 2702 cod. civ. e l’utilizzo del dispositivo
di firma si presume riconducibile al titolare, salvo che questi dia prova contraria. Quindi,
in questo caso, il documento fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza
delle dichiarazioni di chi lo ha sottoscritto.3
2
Cfr., l’art. 1, Titolo I, dell’allegato tecnico del DPCM del 8 febbraio 1999.
Per una disamina delle diverse tipologie di firme elettroniche e della diversa validità ed efficacia probatoria del
documento informatico, a seconda che sia sottoscritto con firma elettronica semplice, con firma elettronica
qualificata o con firma digitale, si rinvia a W. D’AVANZO, L’e-government, Movimedia, Lecce, 2007, pp. 33-34 e
pp. 45 ss.
3
100
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
3. - Nella prospettiva del DPR 123/2001 è ammessa la formazione, la
comunicazione e la notificazione di atti del processo civile mediante documenti
informatici; la trasmissione, comunicazione o notificazione dei documenti informatici sono
effettuate per via telematica attraverso il sistema informatico civile (art. 2, commi 1 e 2).
4
La struttura del sistema informatico civile consente di: individuare l’ufficio
giudiziario e il procedimento, individuare il soggetto che inserisce, modifica o comunica
l’atto, assicurare l’avvenuta ricezione della comunicazione dell’atto, nonché l’automatica
abilitazione del difensore e dell’ufficiale giudiziario (art. 3, comma 1, DPR 123/2001).
Il DM del 14 ottobre 2004 ha indicato, specificamente, i soggetti abilitati ad
accedere al sistema informatico civile. In linea generale, sono definiti soggetti abilitati
tutti coloro ai quali è consentito fruire dei servizi di consultazione delle informazioni e
trasmissione di documenti informatici relativi al processo. Prosegue, poi, l’art. 2, lett. i),
DM 14 ottobre 2004, distinguendo i soggetti abilitati in interni ed esterni, e, tra quelli
esterni, i soggetti privati e pubblici. Soggetti interni sono i magistrati, il personale degli
uffici giudiziari e dell’UNEP (ufficio notifiche, esecuzioni e protesti); soggetti esterni
pubblici sono gli avvocati, i procuratori dello Stato e gli altri dipendenti di amministrazioni
statali; soggetti esterni privati sono, infine, i difensori delle parti private, gli avvocati
iscritti negli elenchi speciali, gli esperti e gli ausiliari del giudice.
Al fine di rendere possibile il compimento delle operazioni processuali
informatizzate, descritte dal DPR 123/2001, il decreto ministeriale regolamenta il
funzionamento delle strutture tecniche di cui si compone e secondo cui è organizzato il
sistema informatico civile mediante le quali vengono gestiti i flussi informatici.
Il gestore centrale è l’unico punto di interazione, a livello nazionale, tra il sistema
informatico civile e i soggetti abilitati esterni, attivo presso il Ministero della Giustizia, ed è
definito come la “struttura tecnico-organizzativa che, nell’ambito del dominio giustizia,
[…], fornisce l’accesso al sistema informatico civile ed i servizi di trasmissione telematica
dei documenti informatici processuali” tra questo e i soggetti abilitati (art. 2, lett. b).
4
La previsione della trasmissione dei documenti informatici per via telematica segue l’orientamento costante del
legislatore, il quale, fin dal 1993, ha previsto modalità alternative ai tradizionali mezzi di trasmissione dei
documenti cartacei. Secondo il dettato della L. del 7 giugno 1993, n. 183 (Gu n. 137 del 14 giugno 1993), gli
avvocati possono trasmettere copia di documento processuale ad altro avvocato tramite telefax. Il DPR
513/1997 ha, poi, disciplinato le modalità di trasmissione, per via telematica, del documento informatico, che si
intende inviato e pervenuto al destinatario se trasmesso all’indirizzo elettronico da questi dichiarato. Il D.Lgs.
del 17 gennaio 2003, n. 5 (Gu n. 17 del 22 gennaio 2003, So 8), sul nuovo rito societario, prevede la possibilità,
per le parti costituite, di effettuare tutte le comunicazioni e notificazioni a mezzo fax o per posta elettronica. Cfr.
F. MIRABELLI, Il processo civile telematico, in G. RIEM, A. SIROTTI GAUDENZI, La giustizia telematica e la procedura
informatizzata, Maggioli, Rimini, 2005, p. 54.
101
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Il punto di accesso, a sua volta, è la struttura che “fornisce ai soggetti abilitati,
esterni al sistema informatico civile, i servizi di connessione al gestore centrale e di
trasmissione telematica dei documenti informatici relativi al processo, nonché la casella di
posta elettronica certificata” (art. 2, lett. e). Il punto di accesso può essere attivato e
gestito, secondo il dettato dell’art. 6, DM del 14 ottobre 2004, esclusivamente dai consigli
dell’ordine degli avvocati, limitatamente ai propri iscritti; dal Consiglio Nazionale Forense,
limitatamente ai propri iscritti e agli iscritti dei consigli dell’ordine degli avvocati; dal
Consiglio Nazionale del Notariato, limitatamente ai propri iscritti; dall’Avvocatura dello
Stato, dalle amministrazioni statali o equiparate e dagli enti pubblici, limitatamente ai
propri iscritti e dipendenti; dal Ministero della Giustizia, ma solo per i soggetti abilitati
interni ed in via residuale. Il punto di accesso può anche essere attivato e gestito da
soggetti privati, purché, però, questi abbiano forma di società per azioni e rispondano ai
requisiti di onorabilità previsti dall’art. 25, comma 1, del D.Lgs. del 1 settembre 1993, n.
385.
I soggetti abilitati esterni, quindi, accedono al sistema informatico civile, tramite
un punto di accesso, ossia il servizio di interfacciamento del dominio giustizia, che,
connette i soggetti stessi direttamente al gestore centrale.
Per consentire l’accesso al sistema informatico civile è necessario procedere,
previamente, alla autenticazione dei soggetti abilitati, cioè alla loro identificazione in rete
che avviene secondo le specifiche previste dalla carta nazionale dei servizi (art. 30, DM
14 ottobre 2004).
Le connessioni tra i punti di accesso e il gestore centrale, quindi le comunicazioni
con l’esterno del dominio giustizia, avvengono mediante collegamento diretto alla Rete
Unitaria della Pubblica Amministrazione (RUPA). 5
5
Le Rete Unitaria della Pubblica Amministrazione (RUPA) è stata istituita dell’art. 5, comma 1, della L. 59/1997e
può essere definita come l’insieme dei domini, ciascuno inteso come l’insieme delle risorse hardware, di
comunicazione e di software di competenza di una determinata amministrazione, organizzato in un interdominio
centrale, costituito da una dorsale, cioè da un sistema di routers o nodi, “in grado di instradare i vari messaggi,
e dotato di tante porte di rete quanti sono i domini delle amministrazioni connesse”; v., F. BUFFA, Il processo
civile telematico. La giustizia informatizzata, Giuffrè, Milano, 2002, p. 40. Scopo della RUPA è quello di garantire
a qualunque utente della rete, purché autorizzato e in condizioni di sicurezza, “di poter accedere ai dati e alle
procedure dei sistemi informativi automatizzati della propria e delle altre amministrazioni, indipendentemente
dalle reti attraversate e dalle tecnologie utilizzate dai singoli sistemi informativi”; sul punto, M. IASELLI, La rete
unitaria della P.A., in G. CASSANO (a cura di), Diritto delle nuove tecnologie informatiche e dell’Internet, Ipsoa,
Milano, 2002, p. 1278. I livelli applicati della RUPA sono stati ridefiniti dal D.Lgs. del 28 febbraio 2005, n. 42 (Gu
n. 73 del 20 marzo 2005), che ha istituito il Sistema Pubblico di Connettività (SPC) e la Rete Internazionale della
Pubblica Amministrazione (RIPA). Questo decreto è confluito nel codice dell’amministrazione digitale a seguito
della modifica al codice intervenuta con il D.Lgs. 159/2006 che ha previsto, peraltro, un termine per la
cessazione dell’operatività della RUPA e la sua sostituzione con il SPC.
102
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Diversamente, i soggetti abilitati interni accedono al SIC tramite la Rete unica
della Giustizia (RUG) e tramite il punto di accesso del Ministero della Giustizia.
Il gestore locale, invece, è il “sistema informatico che fornisce i servizi di accesso
al singolo ufficio giudiziario o all’UNEP, ed i servizi di trasmissione telematica dei
documenti informatici processuali tra il gestore centrale ed il singolo ufficio giudiziario o
UNEP” (art. 2, lett. c). Il gestore locale fornisce servizio di consultazione del sistema
informatico dell’ufficio giudiziario, per i soggetti abilitati esterni, collegati attraverso il
gestore centrale, nei limiti dei privilegi di accesso dell’utente (art. 22, commi 1 e 2, DM 14
ottobre 2004). Inoltre, gestisce la trasmissione dei documenti tra i sistemi informatici
dell’ufficio giudiziario o dell’UNEP ed il gestore centrale.
Il gestore centrale ed i gestori locali comunicano, tra loro, esclusivamente
mediante la Rete Unica della Giustizia (RUG). La RUG è collegata alla RUPA e ciò
consente “le operazioni di trasporto, interoperabilità e cooperazione applicativa tra il
sistema informativo giustizia ed i sistemi informativi di amministrazioni pubbliche
diverse”; inoltre, “il collegamento alla RUPA consente nuovi sistemi di accesso ad
informazioni, documentazione e servizi, e ciò sia per gli accessi dell’amministrazione della
giustizia, sia viceversa per gli accessi agli archivi della stessa […]”. Infatti, il fatto di
adottare il “paradigma ipertestuale, analogo a quello su cui si basano i servers della rete
Internet, consente di affiancare poi, alla disponibilità in linea dei documenti, la possibilità
di interrogazioni semplici di archivi di documenti tra loro indipendenti, attraverso
consultazioni ipertestuali contemporanee di più banche dati […], con il valore aggiunto
che deriva dalla correlazione dei dati”. 6
Tra le funzioni principali del gestore centrale rientrano, in particolare, quella di
attestare temporalmente l’evento di ricezione dei documenti informatici che vi
pervengono e quella di inoltrarli automaticamente verso il gestore locale e da questo
verso l’esterno, alla casella di posta elettronica certificata dei soggetti abilitati.
4. - Le comunicazioni con biglietto di cancelleria e la notificazione dei documenti
informatici del processo può avvenire, oltre che tramite sistema informatico civile, anche
tramite posta elettronica (art. 6, DPR 123/2001).
L’indirizzo del difensore, tramite il quale avvengono le comunicazioni e le
notificazioni, è unicamente quello che l’avvocato avrà comunicato al consiglio dell’ordine
di appartenenza.
6
F. BUFFA, cit., pp. 46-47.
103
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Un particolare tipo di posta elettronica disciplinata nell’ambito del processo
telematico dal DM del 14 ottobre 2004 è la posta elettronica certificata. 7
Il DM del 14 ottobre 2004 dispone che per utilizzare i servizi di trasmissione
telematica dei documenti informatici, e quindi per poter inviare e ricevere dati e
comunicazioni attinenti al processo e per effettuare notificazioni, occorre che i soggetti
abilitati esterni dispongano di un indirizzo elettronico e della relativa casella di posta
elettronica certificata, che vengono forniti dal punto di accesso. Ogni casella di posta
elettronica certificata del processo telematico è abilitata a ricevere messaggi provenienti
unicamente da altri punti di accesso e dal gestore centrale (art. 11, DM 14 ottobre 2004).
L’utilizzo della posta elettronica certificata consente, oltre alla conoscibilità certa
della casella mittente e quindi del titolare, anche la possibilità di legare la trasmissione
con il documento trasmesso.
Gli indirizzi elettronici e la relativa casella di posta elettronica certificata vengono
attivati da ogni punto di accesso, su richiesta scritta di registrazione dell’interessato, il
soggetto abilitato esterno, cui deve essere allegato certificato, rilasciato dal consiglio
dell’ordine di appartenenza, attestante l’iscrizione all’albo. Lo stesso vale per gli esperti e
gli ausiliari del giudice, che, al momento della registrazione, presentano il certificato di
iscrizione all’albo dei consulenti tecnici o la copia della nomina del giudice, da cui deve
risultare che l’incarico non sia esaurito.
Gli indirizzi e le informazioni sui richiedenti vengono conservati in un apposito
registro che ogni punto di accesso deve attivare, in cui sono contenuti, oltre agli indirizzi
emessi, anche quelli revocati o sospesi (art. 16, DM 14 ottobre 2004).
I singoli registri attivati dai punti di accesso, e le informazioni in essi contenute,
confluiscono nel registro generale degli indirizzi elettronici, attivo presso il gestore
centrale (art. 13, DM 14 ottobre 2004). Le copie dei registri locali e di quello nazionale
sono consultabili per via telematica, ai sensi degli artt. 18 e 19 del decreto ministeriale,
garantiscono la veridicità delle informazioni contenute e sono, costantemente, aggiornate
dal personale autorizzato; i registri originali, invece, rimangono inaccessibili dall’esterno.
7
A partire dal riferimento primario costituito dall’articolo 15, comma 2, della L. 15 marzo 1997, n. 59, il quadro
normativo di riferimento relativo alla posta elettronica certificata è costituito dal DPR del 11 febbraio 2005, n. 68
(Gu n. 97 del 28 aprile 2005), regolamento recante disposizioni per l’utilizzo della posta elettronica certificata, a
norma dell’articolo 27 della L. del 16 gennaio 2003, n. 3; dal DM del 2 novembre 2005 (Gu n. 265 del 14
novembre 2005), recante le regole tecniche per la formazione, la trasmissione e la validazione, anche
temporale, della posta elettronica certificata; dalla Circolare CNIPA CR/49 del 24 novembre 2005 (Gu n. 283 del
5 dicembre 2005), che ha disciplinato le modalità per la presentazione delle domande di iscrizione all’elenco
pubblico dei gestori di posta elettronica certificata; dal codice dell’amministrazione digitale.
104
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
La casella di posta certificata, è definita, nell’Allegato B del DM in esame, come
una “casella di posta elettronica alla quale è associata una funzione che rilascia delle
ricevute di avvenuta consegna al ricevimento di messaggi di posta certificata”.
La necessità di assicurare la sicurezza degli scambi di comunicazioni impone un
sistema di verifica e controllo dei messaggi inviati. Le operazioni di verifica sono
effettuate dal gestore centrale, mentre il punto di accesso ha il compito di mantenere in
linea i documenti informatici inviati fino a quando non riceve avviso di consegna dal
gestore centrale o dal punto di accesso del destinatario.
Al momento dell’invio di un messaggio di posta certificata, il sistema verifica,
preliminarmente, l’identità del mittente e dei dati di certificazione, che descrivono il
messaggio originale; è necessario, poi, controllare che il messaggio non contenga virus
informatici e che sia formalmente valido e privo di anomalie.
Una volta che siano stati compiuti i controlli necessari ed il messaggio risulti
validamente formato, il mittente riceve, nella sua casella di posta, una ricevuta di
accettazione, cioè a dire che il sistema ha accettato il messaggio. L’accettazione
garantisce la correttezza formale del messaggio originale.
Se, invece, il messaggio contiene degli errori o è privo dei dati necessari per
essere instradato nella casella di posta del destinatario, il mittente riceverà un messaggio
di errore contenente l’avviso del rifiuto del messaggio e l’indicazione degli elementi
mancanti.
Il documento informatico, inviato dal soggetto abilitato esterno, è ricevuto dal
sistema informatico civile nel momento in cui il gestore centrale lo accetta ed attesta il
momento temporale della ricezione. Contestualmente, il gestore centrale fornisce un
servizio di inoltro automatico, previo controllo, di tutti i documenti informatici ricevuti
dall’interno del sistema informatico civile verso l’indirizzo elettronico di destinazione.
La ricezione effettiva dal destinatario del messaggio viene attestata con una
ricevuta di avvenuta consegna, nel momento in cui il messaggio stesso è inserito nella
casella di posta certificata del destinatario.8
La casella di posta certificata permette, anche, di effettuare i servizi di
notificazione degli atti processuali informatici che avviene secondo le modalità descritte
dall’art. 45 del decreto ministeriale del 2004. Le richieste di notifica dei difensori
pervengono all’UNEP mediante inoltro del documento dal punto di accesso del mittente,
tramite intermediazione e controllo del gestore centrale. Le richieste di notifica che
8
Si veda l’Allegato B del DM del 14 ottobre 2004.
105
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
provengono, invece, dagli uffici giudiziari, sono inoltrate, tramite la RUG, verso il sistema
informatico dell’UNEP.
Ad avvenuta notificazione dell’atto, il sistema informatico dell’UNEP invia, a chi ha
richiesto il servizio, il documento informatico corredato di relata di notifica, costituita dalla
ricevuta elettronica, sottoscritta dall’ufficiale giudiziario con firma digitale.
Le notifiche tra difensori consistono, invece, in uno scambio di messaggi tramite
le rispettive caselle di posta certificata, mediato dal gestore centrale che provvedere a
corredare i messaggi e le ricevute di avvenuta consegna delle necessarie attestazioni
temporali.
5. - Gli artt. 9 ss. del DPR 123/01 disciplinano la costituzione in giudizio delle
parti, il deposito degli atti e l’iscrizione a ruolo della causa, nonché la formazione del
fascicolo informatico. Sia la procura alle liti sia la nota di iscrizione a ruolo possono essere
trasmesse per via telematica e sottoscritte con firma digitale.
La parte che procede alla iscrizione a ruolo o alla costituzione in giudizio
trasmette per via telematica i documenti probatori come documenti informatici o le copie
informatiche dei documenti probatori su supporto cartaceo (art. 9).
Il difensore che si costituisce per via telematica trasmette la copia informatica
della procura alle liti, nel caso in cui sia stata conferita su supporto cartaceo, e ne attesta
la conformità all’originale sottoscrivendola con la propria firma digitale (art. 10).
Anche la nota di iscrizione a ruolo può essere trasmessa per via telematica come
documento informatico sottoscritto con firma digitale (art. 11).
La cancelleria che riceve i documenti informatici del processo procede, con essi,
alla formazione informatica del fascicolo d’ufficio e, contestualmente, anche alla
formazione del medesimo fascicolo su supporto cartaceo. Nel fascicolo informatico sono
inseriti anche i documenti probatori comunque acquisiti al processo (art. 12).
I fascicoli informatici ricevono la stessa numerazione dei fascicoli cartacei e
l’indice informatico degli atti contiene, anche, l’indicazione dei documenti conservati solo
nel fascicolo cartaceo; è, inoltre, redatto in modo tale da consentire la diretta
consultazione degli atti e dei documenti informatici in esso elencati. Il fascicolo
informatico contiene, altresì, apposite sezioni, ciascuna contenente l’indicazione del
giudizio e della parte cui si riferiscono, nelle quali vengono inseriti gli atti e i documenti
probatori depositati dalle parti, contestualmente alla costituzione in giudizio o
106
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
successivamente. Il fascicolo informatico è consultabile dalla parte, oltre che per via
telematica, anche nei locali della cancelleria attraverso un videoterminale (art. 13).
Ogni successivo atto del processo, documento probatorio e la sentenza del
giudice vengono redatti come documenti informatici sottoscritti con firma digitale,
trasmessi e depositati per via telematica. In particolare, il processo verbale d’udienza,
redatto come documento informatico, viene sottoscritto con firma digitale dal giudice e
dal cancelliere; nel caso in cui esso contenga le dichiarazioni rese dai testimoni o dalle
parti in udienza sarà sottoscritto con la firma digitale di ciascuno. Se non è possibile
procedere alla sottoscrizione digitale, il processo verbale viene redatto e stampato su
supporto cartaceo, sottoscritto nei modi ordinari e allegato al fascicolo cartaceo. La copia
informatica del processo verbale viene, però, comunque allegata al fascicolo informatico
(art. 5, commi 1 e 2).
Il consulente tecnico d’ufficio trasmette la sua relazione, come documento
informatico sottoscritto con firma digitale, e, con lo stesso mezzo, allega ad essa i
documenti e le osservazioni delle parti, o la copia informatica di questi se sono stati
prodotti su supporto cartaceo. Gli originali dei documenti, forniti dalle parti su supporto
cartaceo, devono essere depositati dal consulente tecnico, prima della udienza successiva
alla scadenza del termine per depositare le sua relazione (art. 15).
Dopo la precisazione delle conclusioni, il responsabile della cancelleria appone al
fascicolo informatico la sua firma digitale.
La sentenza, redatta come documenti informatico e sottoscritta con firma
digitale, viene trasmessa per via telematica al presidente del tribunale e al presidente
della sezione di cui fa parte l’estensore, ed al cancelliere per il deposito. Ai fini del
deposito, il cancelliere appone sulla sentenza la sua firma digitale.9
Il sistema di gestione del fascicolo informatico è, quindi, la parte del sistema
dell’ufficio giudiziario dedicata all’archiviazione ed al reperimento di tutti i documenti
informatici, prodotti sia all’interno che all’esterno dell’ufficio giudiziario. Oltre ai
documenti informatici e agli allegati, sono inserite nel fascicolo informatico, anche, le
ricevute brevi di avvenuta consegna e le attestazioni temporali degli scambi di messaggi
intercorsi tra i soggetti abilitati esterni e gli uffici (art. 50, DM 14 ottobre 2004). I vari
9
Per quanto riguarda le sentenze, particolare importanza rivestono le procedure informatiche di redazione degli
atti, con notevoli vantaggi specie per quanto riguarda la semplificazione dell’attività giurisdizionale. I sistemi
esperti, la giurimetrica, il deposito e la trasmissione della sentenza costituiscono una evoluzione delle tecnologie
a servizio dell’amministrazione della giustizia. Per una completa disamina della sentenza telematica, si veda F.
BUFFA, cit., pp. 143-162.
107
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
fascicoli informatici dei procedimenti giudiziari in corso sono conservati, per tutta la
durata del procedimento, nell’archivio in linea dell’ufficio. Una volta conclusosi il
procedimento i fascicoli vengono conservati presso gli uffici giudiziari competenti.
Il fascicolo informatico può essere trasmesso ai soggetti abilitati esterni, in tutto
o in parte, e, in questo caso, il gestore locale provvederà a cifrarlo mediante un
meccanismo di crittografia basato sulla chiave pubblica di cifratura del destinatario. Nel
caso di richiesta di copia conforme del fascicolo, la conformità all’originale è attestata dal
cancelliere e sottoscritta con la propria firma digitale.
6.
- Dopo una lunga evoluzione normativa10, nel 2000 è stato emanato il
regolamento di disciplina della tenuta informatizzata dei registri di cancelleria con DM del
27 marzo n. 264 (Gu n. 225 del 26 settembre 2000).
Al regolamento ha fatto seguito il DM del 24 maggio 2001 (Gu n. 128 del 5
giugno 2001) che ha indicato, a norma degli artt. 1, comma 1, lett. f), e 3 del DM
264/2000, le regole procedurali relative ai registri informatizzati tenuti, a cura delle
cancellerie o delle segreterie, presso gli uffici giudiziari, ovvero dei registri previsti da
codici, leggi speciali o da regolamenti, comunque connessi all’espletamento delle
attribuzioni e dei servizi svolti dalla amministrazione della giustizia.
Oggetto del DM del 2001 è il sistema informativo, ossia “l’insieme delle risorse
umane, delle regole organizzative, delle risorse hardware e software (applicazioni e dati),
dei locali e della documentazione (sia in formato cartaceo, sia elettronico) che, nel loro
complesso, consentono di acquisire, memorizzare, elaborare, scambiare e trasmettere
informazioni inerenti i registri informatizzati degli uffici” (art. 1, comma 1).
Il sistema informativo è, dunque, l’intera struttura adibita alla gestione e alla
utilizzazione dei registri informatizzati11; esso deve essere organizzato in modo da
garantire la disponibilità e l’integrità delle informazioni e dei servizi da parte degli utenti
del sistema, l’autenticità dei dati, nonché il controllo degli accessi. Infatti, le informazioni
possono essere fruite, e quindi create, modificate o cancellate, solo ed esclusivamente
dalle persone autorizzate a compiere tali operazioni e secondo modalità predefinite (art.
2).
10
Sul punto, v., ivi, pp. 177 ss.
P. VINCENZOTTO, La riservatezza e la sicurezza del sistema informativo negli uffici giudiziari, in G. RIEM, A.
SIROTTI GAUDENZI, cit., p. 138.
11
108
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Responsabile della tenuta dei registri è il dirigente amministrativo dell’ufficio che
è tenuto a produrre e mantenere aggiornato un dettagliato inventario di tutti gli elementi
facenti parte del sistema informativo di sua competenza (art. 6).
È cura del responsabile della tenuta dei registri, con l’ausilio dell’amministratore
del sistema, redigere il piano della sicurezza del sistema informativo (art. 3).
L’art. 7 del DM del 2001 indica le informazioni che il piano per la sicurezza deve
contenere.
Oltre all’inventario delle risorse, devono esservi indicate le misure adottate per la
protezione del sistema, in specie quelle per garantire la continuità degli applicativi relativi
ai registri informatizzati in caso di malfunzionamento dei server, le misure adottate per la
protezione fisica delle aree e dei locali interessati e quelle per la protezione dei dati e
delle informazioni, nel rispetto anche delle norme in tema di trattamento dei dati
personali.
Nel piano per la sicurezza devono, altresì, essere descritte le misure di
monitoraggio del sistema, ossia le procedure di controllo e verifica della corretta
esecuzione delle attività di utilizzo e gestione del sistema informativo, le modalità delle
procedure di archiviazione ottica e di copia storica dei dati e, infine, il piano di
adeguamento degli applicativi.
7. - Per poter usufruire dei servizi offerti dalle strutture del processo telematico, i
soggetti abilitati esterni devono avere delle postazioni di lavoro che gli consentano
l’accesso al sistema informatico civile.
Il DM del 14 ottobre 2004, all’art. 36, descrive la postazione di lavoro come
l’insieme delle risorse hardware, software e di rete utilizzate direttamente dai soggetti
abilitati per la formazione dei documenti informatici, per l’inoltro e la ricezione dei
messaggi e per la consultazione del sistema informatico civile.
La postazione di lavoro, inoltre, deve essere dotata delle risorse hardware e
software necessarie alla gestione della firma digitale su smartcard e alla autenticazione
per la connessione al punto di accesso.12
12
L’avvocato può scegliere il proprio sistema informatico e il suo Internet service provider che gli assicuri la
connessione al dominio giustizia. In particolare, gli avvocati utilizzano ambienti software integrali che
consentono le funzionalità di gestione dello studio legale e la comunicazione interattiva con altri ambienti con
piena integrazione tra i vari momenti dell’attività legale. Inoltre, l’avvocato connesso on line può operare
direttamente presso gli uffici giudiziari; v. F. BUFFA, cit., pp. 199 ss.
109
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
I soggetti del processo telematico dispongono, poi, di un certificato di crittografia
necessario per la cifratura degli atti e, inversamente, per decifrare quelli crittati; allo
stesso modo, gli uffici giudiziari automatizzati fruiscono della chiave e del certificato di
cifratura con i quali possono cifrare gli atti depositati sul client dei soggetti abilitati.
Quindi, gli atti e i documenti redatti dai soggetti abilitati esterni, dalla postazione
di lavoro, devono essere firmati e crittati per l’ufficio giudiziario di destinazione. Il gestore
locale decifra i documenti crittografati che riceve e provvede a cifrare i documenti in
uscita dai singoli uffici giudiziari o dall’UNEP. Inoltre, il gestore locale verifica
automaticamente la firma digitale, apposta sul documento, e l’autenticità e l’integrità dei
documenti informatici ricevuti. Controlla, a sua volta, il rispetto dei formati e l’assenza di
virus, e, successivamente, rende disponibili i documenti ricevuti al sistema informatico di
gestione delle cancellerie o dell’UNEP, associandovi le informazioni dell’attività di verifica,
per valutarne la ricevibilità (art. 22, DM 14 ottobre 2004).
Il sistema informatico di gestione dell’UNEP funziona nel modo su descritto,
acquisendo i documenti da notificare e restituendoli, completi di relata di notifica, a
notificazione eseguita.
Il sistema informatico di gestione delle cancellerie, invece, cura l’accettazione del
documento ricevuto aggiornando i registri ed il fascicolo informatico.
Quando il difensore invia all’ufficio giudiziario del ruolo generale del tribunale un
atto per la iscrizione della causa a ruolo, il sistema informatico di gestione comunica, per
via telematica, una comunicazione recante il numero di ruolo del procedimento assegnato
dall’ufficio competente a conoscere la causa.
8. - Come si può osservare dalla lettura delle norme sul processo telematico e le
relative regole tecniche, non si assiste ad alcuna modificazione delle procedure
giudiziarie, ma soltanto alla automazione delle fasi processuali.13 Il progetto di
automazione del processo ha trovato avvio, in via sperimentale, in alcuni tribunali italiani
tra cui quelli di Bari, Lamezia Terme, Bergamo, Bologna, Catania, Genova e Padova.
In particolare, il gruppo di lavoro di Bologna ha messo a punto, dal 1993, un
progetto denominato ‘Polis’, nell’ambito del quale è stato realizzato il primo sistema
informativo per la produzione, archiviazione e consultazione delle decisioni, che consiste
nella memorizzazione informatica del testo integrale di tutte le sentenze emesse dal
Tribunale di Bologna, consultabili per via telematica da magistrati e avvocati.
13
M. CAMMARATA, “Tutti gli atti e i provvedimenti del processo...”, in Interlex (www.interlex.it).
110
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
La sperimentazione ha avuto avvio, informatizzando completamente le procedure
d’urgenza relative ai ricorsi per ingiunzioni di pagamento e decreti ingiuntivi.
E dopo la fase di sperimentazione, di recente, il Tribunale di Milano ha avviato la
fase operativa del processo civile telematico.
Inoltre, nel corso del 2004 sono state collaudate, nell’ambito del progetto di
automazione, la consultazione a distanza dei registri di cancelleria e degli archivi dei
documenti e la automazione delle attività di cancelleria e del giudice delle esecuzioni
mobiliari e immobiliari. 14
Ulteriormente, per quanto riguarda la realizzazione di servizi on line sono stati
collaudati: il portale di accesso agli uffici giudiziari, il sistema per la pubblicità telematica
delle aste giudiziarie il progetto Norme in rete, punto di accesso alla documentazione
normativa pubblicata dalle amministrazioni pubbliche sul web, dal quale è possibile anche
l’accesso al patrimonio normativo del CED della Corte Suprema di Cassazione.15
Una serie di iniziative sono state intraprese anche relativamente ai sistemi
informatici dell’area penale e della giustizia amministrativa.16
14
Si veda il Piano Triennale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione 2005-2007, a cura del CNIPA, in
www.cnipa.gov.it.
15
Si veda il Piano Triennale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione 2006-2008, a cura del CNIPA, in
www.cnipa.gov.it.
16
Le iniziative hanno come obiettivo, in ambito penale, migliorare l’efficienza del sistema penale nelle varie fasi
processuali, dalla attività investigativa fino al momento della esecuzione penale. I principali progetti correlati alla
automazione della fase investigativa riguardano la riorganizzazione dei centri per le intercettazioni telefoniche,
finalizzata alla costituzione di un sistema unitario che preveda la registrazione e la gestione computerizzata
dell’archiviazione; il progetto EPOC (European Pool against Organized Crimes) per il supporto alla raccolta,
analisi, uso e scambio di informazioni di interesse per le indagini di criminalità organizzata eseguite in paesi
diversi e presso diversi uffici investigativi. L’automazione del processo penale prevede, poi, la riorganizzazione
del Sistema Integrato Esecuzione e Sorveglianza (SIES), per la condivisione del patrimonio informativo degli
uffici giudiziari e la gestione documentale e archiviazione delle sentenze. Ulteriori azioni sono correlate alla
automazione ed integrazione delle banche dati e dei flussi informativi strumentali alle azioni di contrasto alla
criminalità organizzata, tra cui, ad esempio, l’acquisizione telematica delle notizie di reato e la comunicazione
elettronica delle notizie di reato; la realizzazione del sistema per la gestione delle misure cautelari personali, per
consentire il monitoraggio dei termini di scadenza e prevenire il rischio di scarcerazioni. I nuovi progetti
riguardano il Sistema informativo dibattimentale, per la gestione multimediale del dibattimento attraverso la
realizzazione di un sistema di archiviazione digitale multimediale, sincronizzazione e information retrieval degli
atti del dibattimento penale, e la realizzazione del Sistema Integrato dell’Area Penale (SIAP), per la condivisione
del patrimonio informativo digitale delle procure e la piena integrazione con i sistemi di casellario, della
Cassazione e dell’amministrazione penitenziaria. Per quanto riguarda l’ambito della giustizia amministrativa, il
cittadino, che ne abbia interesse, e le parti, gli avvocati e le amministrazioni centrali e locali, possono consultare
sul sito dell’amministrazione lo status dei ricorsi dal deposito iniziale fino alla emissione del provvedimento. È
consentito, inoltre, consultare i provvedimenti emessi sui singoli ricorsi a partire dall’ottobre del 2000. Vengono
infine rese disponibili informazioni sulla normativa e sul funzionamento del processo amministrativo. Le
iniziative e i progetti su menzionati sono descritti nei Piani triennali per l’informatica nella PA, 2005-2007 e
2006-2008, cit., curati dal CNIPA.
111
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Fiscalità e finanza pubblica a confronto nei programmi elettorali: in particolare
l’attuazione del federalismo fiscale e la misura del quoziente familiare
di Maria Debora Cioffi1
Sommario. 1. Le misure finanziarie e fiscali programmate: una visione d’insieme;
2. Finanza pubblica e federalismo fiscale; 3. Il quoziente familiare.
1. Le misure finanziarie e fiscali programmate: una visione d’insieme
Nelle pagine che seguono sono descritti per grandi linee gli interventi di natura
fiscale e finanziaria delineati nei programmi dei due maggiori schieramenti elettorali.
Il programma del Popolo della libertà2 è articolato in sette missioni dedicate
rispettivamente al rilancio dello sviluppo, al sostegno della famiglia, alla sicurezza e
giustizia, ai servizi ai cittadini, al Sud, al federalismo ed infine alla finanza pubblica.
Secondo l’ideologia che contraddistingue lo schieramento, l’ impresa è vista come
punto nevralgico di ogni qualsivoglia politica di sviluppo economico; per essa occorre un
fisco più leggero e meno oppressivo. Motivo per cui nella prima missione intitolata al
rilancio dello sviluppo, una apposita sezione è dedicata ad un nuovo fisco per le imprese.
Le misure fiscali agevolative programmate nel programma del Pdl sono
essenzialmente le seguenti.
Sul versante delle imposte dirette sul lavoro dipendente, si propone la
detassazione del lavoro straordinario, delle mensilità aggiuntive nonché di premi ed
inventivi legati al risultato, prevedendo per esse una aliquota secca del 10%;
contemporaneamente la graduale abolizione, nei cinque anni,
dell’ Irap a partire da
quella sul costo del lavoro. La detassazione degli straordinari, condivisibile come misura
sperimentale per aumentare la produttività, non appare idonea sotto il profilo
congiunturale a rilanciare la produzione in una fase in cui il primo problema è quello di
sostenere la domanda interna. Il modello, più in linea con politiche che hanno
caratterizzato l’orientamento politico dello schieramento avverso, tende a ridistribuire
1
2
Dottore di ricerca presso l’Università degli studi di Napoli, “Federico II”.
Cfr. in Il nostro Programma – sette missioni per il futuro dell’Italia, Il Popolo della libertà, in ilsole24ore.it.
112
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
risorse dal sistema delle piccole imprese, poco interessate a misure di questo tipo, alle
grandi imprese; motivo per il quale ci si chiede quali effetti sulla congiuntura e sul ciclo
economico possa avere una misura siffatta, in un sistema economico caratterizzato da
imprese di piccole dimensioni e dalla prassi degli straordinari pagati fuori busta.
In merito all’ imposizione indiretta, oltre alla progressiva riduzione dell’IVA sul
turismo per rilanciare il settore da tempo sofferente, si programma di introdurre il
principio del versamento dell’IVA successivo all’effettivo incasso della fattura e il rimborso
dell’IVA a credito per il contribuente entro tempi ragionevoli stimati in 60, 90 giorni
contro gli attuali.
Ad avviso di chi scrive le misure descritte nel programma non costituiscono né
grandi novità in campo fiscale nè forti misure a sostegno dell’impresa.
Nella seconda missione, dedicata alla famiglia, la principale misura fiscale ivi
prevista a sostengo del nucleo è rappresentata dall’introduzione del quoziente familiare.
Sul punto si rinvia a quanto sarà successivamente detto infra al § 3.
Gli altri interventi di natura fiscale per la famiglia contemplati dal programma
sono: la totale eliminazione dell’ICI sulla prima casa, senza oneri per i Comuni; la
graduale e progressiva tassazione separata per i redditi da locazione con aliquota unica
del 20%, ciò favorirebbe la concessione in locazione ma consentirebbe, secondo i
promotori, anche l’emersione di redditi; l’ abolizione delle imposta sulle successioni e
donazioni, misure già attuate dal precedente governo di centro-destra e poi reintrodotte
dal governo Prodi.
Si osserva che il primo intervento, sostanziandosi in una misura fiscale
agevolativa orizzontale, sarebbe accolto con favore in quanto volto alla generalità dei
contribuenti e facilmente percepibile dall’intera collettività con un costo in termini di
gettito non eccessivo (1,4 miliardi); parallelamente qualche dubbio si manifesta in merito
alla circostanza che il mancato gettito dell’ICI, principale fonte di finanziamento dei
Comuni, debba essere posto a carico della fiscalità generale.
Comunque si tratta di materia, quella della finanza locale che necessita di una
riflessione più ampia, nella prospettiva di una riforma generale del sistema tributario. Una
ipotesi potrebbe essere quella di aumentare di qualche decimo di punto la possibilità di
variare l’aliquota da parte dei Comuni, rendendo contemporaneamente deducibile il
tributo locale patrimoniale dalle imposte sul reddito.
Non convincente sembra essere anche la previsione della tassazione secca al
20% dei redditi da locazione laddove essa avvantaggerebbe in misura maggiore i
113
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
percettori di redditi più facoltosi che vedrebbero sottratti alla progressività dell’ Irpef una
parte del proprio reddito. Condivisibile, invece, la detrazione per il fitto pagato, proposta
dal programma del Pd, di cui si dirà più avanti, quale misura di supporto alla costituzione
di una famiglia o comunque di una qualsivoglia forma di convivenza.
La medesima missione contiene anche la previsione di una serie di misure
finalizzate a consentire ai giovani sia l’inserimento nel mondo del lavoro sia il
mantenimento del posto di lavoro. Gli interventi programmati a tal fine sono la
sperimentazione di un periodo no tax per le nuove iniziative imprenditoriali e professionali
dei giovani; l’introduzione del credito d’imposta per le imprese che assumono giovani e
per quelle che trasformano i contratti di lavoro a tempo determinato in contratti a tempo
indeterminato, infine la concessione di garanzie pubbliche per i prestiti d’onore e per il
finanziamento d’avvio a favore di giovani che iniziano la loro attività d’impresa.
In considerazione della precarietà del lavoro giovanile e della quasi certezza circa
l’assenza di una forma previdenziale che possa ai giovani di oggi garantire una pensione
superiore ai livelli di sussistenza all’atto dell’uscita dal mondo del lavoro, è prevista la
progressiva totalizzazione dei periodi contributivi e l’introduzione di un sistema di mutue
che attraverso il sostegno pubblico e privato possano garantire assistenza sociale e
sanitaria in caso di non lavoro e di bisogno.
In definitiva, l’obiettivo della legislatura sarebbe quello di arrivare ad una
pressione fiscale al di sotto del 40%.
La parte senz’altro più innovativa ed interessante del programma di cui si discute
è rappresentata dalla sesta missione, dedicata al federalismo fiscale, di cui si tratterà nel
prosieguo.
Il programma presentato dal Pd3, scandito in 12 azioni di governo, prevede
relativamente alle misure fiscali un taglio dell’Irpef di un punto l’anno per 3 anni partendo
dai redditi bassi, ovvero 15.000 – 25.000 euro; in particolare per i redditi da lavoro
dipendente, si prevede una detrazione ai fini Irpef più alta, nonchè minore imposizione
fiscale sulla quota di salario derivante dalla contrattazione di secondo livello.
Circa l’aspetto della precarietà del lavoro, il Pd prevede di sperimentare un
compenso minimo legale pari a 1.000 – 1.100 euro netti mensili per i precari, la
concessione di forti incentivi in caso di assunzione a tempo indeterminato, la previsione
della
durata
massima
di
un
biennio
per
le
forme
contrattuali
atipiche
e,
contemporaneamente, di una contribuzione più alta di quella a tempo indeterminato, ed
3
Cfr. in Adesso una Italia nuova. Si può fare, il Partito democratico in www.partitodemocratico.it.
114
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
ancora, l’estensione a tutti i lavoratori delle tutele fondamentali. Il pacchetto giovani
precari prevede infine la misura della formazione permanente e la costituzione di fondi di
credito e microcredito che offrano prestiti a condizioni agevolate per sostenere progetti
imprenditoriali nei settori dell’innovazione tecnologica, dello sviluppo sostenibile, nei
servizi di utilità sociale ed impegno civile.
Anche questo schieramento è favorevole all’introduzione di un’aliquota fissa sul
fitto percepito, propone inoltre una detrazione per l’affitto pagato.
Le misure a sostegno delle imprese, consistono nel migliorare il sistema del
forfettone e nel favorire la capitalizzazione delle imprese con sconti di imposta. Si auspica
inoltre la sostituzione del sistema dei contributi a fondo perduto con degli strumenti
automatici e il credito di imposta su ricerca e sviluppo.
Anche il Pd ha inserito nel suo programma l’attuazione del federalismo fiscale ex
art. 119 della Costituzione. Sul tema ci soffermeremo più ampiamente nel prosieguo della
trattazione.
Per quanto concerne la finanza pubblica, il suddetto programma propone come
obiettivo strategico la riduzione del volume globale del debito pubblico per portarlo sotto
quota 90% del Pil e l’obiettivo del pareggio del bilancio con il rigore della gestione della
finanza pubblica e con misure straordinarie come la valorizzazione della quota non
demaniale del patrimonio pubblico.
Viene proposta la ridefinizione delle norme civilistiche per restringere la nozione
di demanio pubblico e allargare la quota di immobili da valorizzare.
Gli interventi finanziari e fiscali contemplati da entrambi i programmi elettorali
mancano di un vero contenuto innovativo. Ambedue i programmi elettorali hanno un
contenuto fiscale molto poco propositivo: nei termini di cui si dirà appresso solo
l’introduzione del quoziente familiare quale misura fiscale a sostegno della famiglia
costituisce un’ innovazione rispetto all’attuale sistema delle detrazioni e deduzioni ai fini
Irpef, con tutti i limiti di cui si dirà in prosieguo; gli altri interventi fiscali programmati si
sostanziano in diminuzioni di punti percentuali alle aliquote attualmente in vigore per
l’Irpef o addirittura la soppressione di imposte attualmente in vigore, quali l’ICI e l’ Irap
come affermato nel programma del PDL senza peraltro indicare i mezzi per far fronte al
mancato gettito. Genericamente è detto nei programmi elettorali che alla riduzione della
pressione fiscale corrisponderà una pari riduzione della spesa corrente, mentre non vi è
alcun accenno ai profili distributivi del sistema vigente, il cui assetto appare tutt’altro che
soddisfacente
115
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Sul versante della finanza pubblica, è nostra intenzione tratteggiare le
caratteristiche del federalismo come proposto dal PDL che essenzialmente riproduce la
proposta contenuta nei documenti approvati dal Consiglio Regionale Lombardo,
sottolineando da parte di scrive l’esigenza preliminare di emanare la legge di
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.
Per tale motivo in queste pagine soffermeremo la nostra attenzione sulle due
misure sopramenzionate: una di natura prettamente fiscale, prevista nel programma del
Pdl, nota come quoziente familiare, sistema di tassazione del reddito del nucleo familiare,
mutuato da esperienze d’oltralpe, ove già sperimentato, sebbene con profili differenti, e l’
altra, di natura finanziaria, consistente nell’attuazione del federalismo fiscale, voluto ed
auspicato, oltre che dalle forse politiche, dalla gran parte della dottrina, sia pure con
molti significativi distinguo.
2. Finanza pubblica e federalismo fiscale
Una parte interessante di entrambi i programmi elettorali è quella dedicata alla
finanza pubblica. Ambedue gli schieramenti politici concordano sui seguenti punti:
1. l’attuazione del federalismo fiscale ex art. 119 Cost.;
2. i tagli alla spesa pubblica;
3. la riduzione del debito pubblico.
Si è detto che la parte senz’altro più innovativa ed interessante del programma
del Pdl è rappresentata dalla sesta missione, dedicata al federalismo fiscale. I promotori
sottolineano come la riforma del Titolo V abbia posto le premesse per avviare un ampio
processo di trasferimento di poteri dal centro alla periferia. Per tale motivo, ai fini di un
riconoscimento di un’effettiva autonomia delle Regioni e degli Enti Locali occorre
realizzare il federalismo fiscale, che comporta il trasferimento di risorse finanziarie dal
centro alla periferia, a parità di spesa pubblica e di pressione fiscale complessiva.
Il
federalismo
proposto
dal
Pdl4
sottolinea
in
maniera
incisiva
come,
relativamente al coordinamento della finanza pubblica, debba procedersi, ai fini della
perequazione, alla riduzione ma non l’annullamento delle differenze di capacità fiscale
premiando le Regioni a minore evasione fiscale e incentivando i comportamenti finanziari
virtuosi (rat. 1, comma 2); in tema di coordinamento del sistema tributario, tra i principi e
i criteri direttivi, il Pdl sostiene la correlazione tra il prelievo fiscale ed il beneficio
connesso alle funzioni esercitate sul
4
territorio (art. 1, comma 3); infine, si auspica
Come da Proposta di legge al Parlamento approvata dal Consiglio regionale lombardo il 19 giugno 2007, n. 40.
116
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
l’attribuzione di risorse ed imposte in base all’effettivo gettito tributario ed la premialità
dei comportamenti virtuosi ed efficienti nell’esercizio della potestà tributaria.
Quanto programmato dal PDL era stato sostanzialmente già formalizzato dalla
Regione Lombardia nella relativa richiesta di approvazione da parte del Parlamento della
proposta di legge “Nuove norme per l’attuazione dell’art. 119 della Costituzione”, adottata
dal Consiglio regionale il 19 giugno 2007.
Il documento suddetto prevedeva:
-
una compartecipazione regionale all’IVA pari all’80%, commisurata al
gettito riscosso riferibile al territorio di ciascuna regione, ai sensi dell’art.
2, comma 3, lett. B) della proposta citata;
-
l’istituzione dell’Imposta Regionale sul Reddito Personale con aliquota
iniziale uniforme per tutte le regioni e contestuale diminuzione nella
stessa misura delle aliquote sull’ Irpef erariale (art. 2, comma 2, lett. d)
della proposta di legge); l’aliquota uniforme sarebbe stata stabilita in
misura non inferiore al 15 per cento e le regioni avrebbero potuto variare
liberamente l’aliquota e le detrazioni per i familiari a carico ma non
determinare la base imponibile;
-
l’istituzione dell’ Imposta Locale sui Redditi Fondiari quale tributo locale
proprio (art. 2, comma 2, lett. g) della medesima proposta);
-
l’ assegnazione alle regioni dell’intero gettito delle accise sulla benzina,
dell’imposta sui tabacchi e quella sui giochi, riferibile al territorio di
ciascuna regione come previsto dall’ art. 2, comma 3, lett. c), della
proposta);
Trattasi di un “pacchetto” di risorse stimabile per la sola Regione Lombardia,
limitatamente ad Iva ed Irpef in quasi 15 miliardi di euro5.
Infine, per quanto concerne la perequazione, il documento approvato dalla
regione Lombardia prevede che l’istituendo fondo sia alimentato con quote di gettito di
tributi e quote di compartecipazioni delle Regioni a maggiore capacità fiscale, anche se si
5
L’Assemblea Regionale lombarda promuove la riforma in senso federale. A tal fine approva due documenti :
una Risoluzione del Consiglio in data 3 aprile 2007 e una Proposta di legge al Parlamento; dodici le materie su
cui esercitare maggiori competenze. Il 1 luglio 2007 il Consiglio ha approvato a larghissima maggioranza una
mozione per sollecitare il Governo ad avviare il negoziato. A partire da questi documento Regione e Governo si
sono trovati il 30 ottobre 2007 a Roma per dare ufficialmente il via al negoziato per il trasferimento alla Regione
di competenze sulla base del III comma dell’art. 116 cost. per l’applicazione del c.d. “federalismo differenziato”.
Sono seguiti ulteriori incontri in data 15.11.2007, 20.11.2007.
Alla fine del lavoro di approfondimento, verrà predisposto un documento finale unico con le valutazioni su ogni
singola materia che dovrà essere condiviso tra Governo e Regione e quindi trasmesso al Parlamento che dovrà
votarlo con la maggioranza degli aventi diritto, quindi con una maggioranza qualificata.
117
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
sottolinea come la perequazione non deve eliminare più del 50% delle differenze di
capacità fiscale per abitante.
Parlare di percentuali in una realtà in cui non siano state predeterminate le
funzioni non ha senso. La questione va affrontata proprio dal versante delle funzioni che
in base ad una corretta visione del principio di sussidiarietà, possono essere decentrate
solo se la loro gestione a livello locale non comporti diseconomie di scala; al cittadino non
si possono chiedere maggiori imposte per finanziare funzioni decentrate che, se
esercitate ancora dallo Stato costerebbero meno.
La finalità perequativa, com’è noto, è quella di integrare le risorse finanziarie
degli enti con minore capacità fiscale, avendo particolare riguardo al finanziamento degli
oneri derivanti dalle prestazioni inerenti i livelli essenziali ex art. 117, comma 2, lett. m)
della Costituzione. E’ pertanto evidente che o la perequazione, come in Germania (98%)
tendenzialmente annulla le differenze tra le capacità fiscali, oppure il trasferimento di
funzioni alle Regioni con minore capacità fiscale per abitante dovrà essere solo parziale.
In ogni caso vale la pena di ricordare che l’Alta Commissione sul federalismo fiscale aveva
fissato nel suo rapporto del 2005 una soglia perequativa del 95%.
Oltre al fondo perequativo nazionale, è prevista l’istituzione di un fondo
perequativo interno a ciascuna Regione al fine di offrire sostegno agli enti locali minori
con ridotta capacità fiscale.
Ciò a parere di chi scrive non comporterà l’ uniformità su tutto il territorio
nazionale del livello minimo essenziale di ciascuna prestazione relativa a diritti
costituzionalmente protetti perché quanto sopra, secondo il progetto lombardo, va
commisurato al costo della vita di ciascuna Regione e all’evasione fiscale.
La perequazione da realizzarsi ai sensi del V comma del 119 della Cost. fa
riferimento ad un modello perequativo verticale; il nostro sistema per reggere abbisogna
di una elevata percentuale perequativa vicina al 100%, e tanto perché il modello
delineato dall’art.119 Cost. si riferisce ad una fiscalità regionale che deve riuscire a
finanziare non solo alcuni servizi predeterminabili nei costi, ma anche una serie di materie
stabilite nell’art.117 III comma che attengono in senso ampio alla politica economica.
Mentre le Regioni autonomamente possono coprire il costo dei servizi sulla base di costi
standard cui sono ricollegati i diversi strumenti fiscali a loro disposizione, la stessa cosa
non può dirsi per i costi degli interventi di politica economica demandati alle stesse, per i
quali in assenza di una perequazione tendenzialmente livellatrice delle capacità fiscali,
118
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
mancherebbero le risorse necessarie a finanziarli, in violazione dell’art.119 IV comma
Cost.
Si vuole precisare che il nostro, più che federale, è un modello unitario
decentrato, ed al fine di assicurare un avanzato decentramento è necessario procedere a
differenziazioni tra Comuni e Regioni. Cosa non semplice a causa delle differenze
dimensionali di queste ultime.
Una soluzione potrebbe essere quella di devolvere
maggiori risorse alle Regioni più grandi per le materie trasferite, alcune delle quali invece
potrebbero rimanere centralizzate per le piccole Regioni, che beneficerebbero del fatto
che lo Stato in prima persona se ne continuerebbe a fare carico.
La previsione di un’aliquota regionale del 15% dell’imposta sul reddito, come
proposto dalla Lombardia nulla dice e nulla aggiunge alla finalità federale, mentre incide
in modo indebito sul principale tributo statale, la cui riforma è necessariamente
demandata al Parlamento. E’ invece urgente procedere a riformare l’imposta sul reddito,
evitando norme pretestuose, vedi quella contenuta nell’art.1 comma 43 della legge
finanziaria 2008, che vietino la deduzione delle imposte regionali dalle erariali. In un
sistema caratterizzato da un ampio decentramento fiscale il riconoscimento di tale
deducibilità appare al contrario necessitato, per ridurre le disuguaglianze con effetto
perequativo, per cui sarebbe ovviamente lo Stato a doversene assumere l’onere.
Certamente non saremo in presenza di una misura compensativa totale ma di certo la
deducibilità delle imposte locali dall’imposta personale sul reddito assicurerebbe la finalità
di riequilibrare il sistema tra imposte statali e regionali. Inoltre anche la previsione di una
deduzione delle imposte patrimoniali locali dalle imposte sul reddito statale, che a sua
volta presuppone una sua riforma complessiva, sarebbe saggia in quanto pienamente
idonea a realizzare l’ autonomia tributaria, in un quadro di tendenziale perequazione.
Più volte si è detto che la proposta di legge qui in commento sottolinea la
necessità di premiare i comportamenti virtuosi: il che tradotto in termini di gettito vuol
significare erogare agli enti c.d. virtuosi una maggiorazione di aliquota di un tributo
erariale, commisurata allo scostamento tra i risultati programmati e gli obiettivi realizzati.
La proposta seppur suggestiva nella sua formulazione, si scontra con la realtà: ci si
chiede infatti come i promotori del progetto di federalismo, che qui si commenta
pensano, al fine di premiare le Regioni virtuose di calcolare l’evasione fiscale su base
regionale? A parere di chi scrive se non è ravvisabile un collegamento diretto tra gettito e
territorio per la più parte dei tributi, basti pensare a titolo di esempio alle società con sedi
secondarie in altre regioni, localizzare l’evasione è ancora più difficile; senza dire che una
119
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
distribuzione delle imposte locali parametrato all’evasione, contrasterebbe prima ancora
che con il principio di eguaglianza, con il buon senso.
Una parte degli interventi previsti nella proposta di legge formulata dalla Regione
Lombardia sono stati essenzialmente recepiti dallo schema di disegno di legge, approvato
dal Consiglio dei Ministri il 28 giugno 2007, per il conferimento al Governo della delega a
disciplinare la riforma in senso federale della finanza di Regioni ed enti locali, ai sensi
dell’art. 119 Cost..
Più in dettaglio, lo schema approvato definisce i principi e i criteri direttivi per la
disciplina del sistema di finanziamento delle istituzioni regionali e locali nel rispetto
dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa garantita a comuni, città metropolitane,
province e regioni, nonché dei principi di solidarietà e di coesione sociale, in maniera da
sostituire gradualmente, per tutte i livelli istituzionali, il criterio della spesa storica.
In sintesi, sono state dettate regole per il coordinamento della finanza pubblica,
stabiliti criteri per l’istituzione e l’applicazione di tributi propri da parte degli enti territoriali
ai fine di garantire armonia e coerenza al sistema tributario, disciplinati criteri di riparto
delle risorse da assegnare agli enti locali con finalità perequative e di efficienza delle
amministrazioni, indicati i criteri per l’attribuzione di risorse aggiuntive e infine definiti
criteri di finanziamento di Roma capitale della repubblica.
Relativamente al punto sub 2), il Pdl prevede un taglio delle imposte di pari
portata e parallela al taglio della spesa corrente, che a sua volta andrebbe ridotta di un
punto all’anno per portare al termine della legislatura la pressione fiscale al sotto del
40%.. Inoltre, con una manovra choc in giugno, verrebbe destinato l’extragettito fiscale
alla riduzione del deficit, per poi far seguire un consolidamento con la finanziaria 2009.
Parimenti anche il Pd programma un taglio di mezzo punto della spesa corrente il
primo anno, e quindi un punto l’anno nei due successivi.
Ai fini della riduzione del debito pubblico di cui al punto sub 3), il Pd si propone di
scendere al di sotto del 90%, attraverso misure straordinarie come la valorizzazione della
quota non demaniale del patrimonio pubblico. A tal fine è necessaria la ridefinizione delle
norme civilistiche per restringere la nozione di demanio pubblico e allargare la quota di
immobili da valorizzare.
Lo schieramento opposto, per gli interventi straordinari sulla finanza pubblica, ha
stilato un piano che prende le mosse da un nuovo patto tra Stato, Regioni, Province,
Comuni, risparmiatori ed investitori per ridurre il debito dello Stato. Nel medesimo Patto è
prevista anche la piena attuazione del federalismo fiscale solidale. In altre parole la
120
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
proposta è immettere sul mercato una quota di patrimonio pubblico, offrendo a
risparmiatori ed operatori economici maggiori e migliori opportunità di investimento.
Secondo le stime inserite nel programma il patrimonio pubblico è superiore al debito.
L’attivo che potrebbe essere collocato sul mercato e valorizzato ha un valore di 700
miliardi di euro, di cui 2/3 è delle Regioni e degli Enti Locali. La riduzione del debito
avrebbe come conseguenza una riduzione degli oneri per interessi; l’effetto cumulato
atteso delle due misure è stimato in termini di un punto di PIL.
3. Il quoziente familiare
Il quoziente familiare rappresenta una forma di tassazione del reddito familiare
alternativa a quella attualmente in vigore nel nostro Paese.
Il
modello
impositivo
vigente
dell’imposta
personale
perviene
alla
determinazione dell’ imposta lorda applicando le relative aliquote progressive al reddito
imponibile, dato dal reddito complessivo, abbattuto da una serie di deduzioni o oneri
deducibili (quali ad es., assegni periodici corrisposti al coniuge, contributi previdenziali ed
assistenziali, etc.); l’imposta lorda così determinata è diminuita delle detrazioni per carichi
di famiglia, delle detrazioni sostitutive delle spese di produzione (quali ad es. le somme
corrisposte ai dipendenti, chiamati a ricoprire incarichi elettorali) ed infine delle detrazioni
per oneri (quali ad es. spese sanitarie, spese funebri, spese di istruzione, premi di
assicurazione sulla vita, etc.).
La scelta tra deduzioni e detrazioni dipende dall’effetto che si vuole realizzare:
le prime avvantaggiano a parità di importo i possessori di redditi più elevati, soggetti ad
aliquota progressiva marginale più alta; al contrario, le seconde, incidendo sull’imposta
dovuta con percentuale fissa, consentono un risparmio quantitativamente identico per
tutti i contribuenti, ma non equivalente sotto il profilo qualitativo: lo stesso onere di mille
euro consente un risparmio di 190 euro uguale per tutti, ma sicuramente più significativo
per chi è titolare di un reddito basso rispetto ad un contribuente con un reddito elevato.
La delega per la riforma del sistema fiscale approvata con l. n. 80/2003
prevedeva la progressiva sostituzione delle detrazioni in deduzioni; la tutela delle classi
più disagiate avrebbe dovuto tuttavia essere assicurata attraverso la concentrazione delle
deduzioni sui redditi bassi e medi al fine di meglio garantire la progressività dell’imposta.
121
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
La riforma in esame in parte attuata con l. n. 311/2004 è stata oramai
abbandonata6.
Qualsiasi forma di imposizione sul reddito personale può esser strutturata
diversamente a seconda che il presupposto da colpire sia rappresentato dal reddito
individuale o dal reddito familiare. Nel primo caso l’unità impositiva alla base dell’imposta
sul reddito è l’individuo, nel secondo la famiglia.
L’adozione del secondo criterio è dettata dalla circostanza che il benessere del
singolo e la sua attitudine a partecipare alla spesa pubblica dipendono effettivamente dal
reddito a disposizione della famiglia e dalla composizione di quest’ultima.
Un buon modello di imposizione dovrebbe dunque opportunamente integrare sia
il criterio della tassazione del reddito personale che quello del reddito familiare7, cosa che
del resto già avviene per fruire di una serie di benefici a carico della spesa pubblica, che
sono parametrati al reddito familiare.
La tassazione familiare a sua volta può concentrarsi o sul cumulo dei redditi, nel
qual caso, l’aliquota media è una funzione del reddito dei familiari, o per parti, ove
l’aliquota è una funzione della somma dei redditi del nucleo divisa per un certo numero di
parti8.
Il sistema della tassazione per parti conosce storicamente due varianti: lo
splitting e il quoziente familiare.
Il quoziente familiare in rassegna è ispirato al modello francese: esso è basato sul
presupposto teorico delle scale di equivalenza, ovvero richiede di sommare i redditi di
tutti i componenti e di dividere il risultato per un quoziente, che si ottiene dalla somma di
opportuni coefficienti assegnati a ciascun componente familiare, prima di applicare al
valore risultante la scala delle aliquote. Al pari delle altre tipologie di tassazione per parti,
il quoziente familiare comporta l’equiparazione del trattamento delle famiglie monoreddito
a quelle bireddito, rispondendo ad esigenze di equità orizzontale. Esso produce inoltre
un’attenuazione della progressività, di cui beneficiano le famiglie ad alto reddito,
soprattutto quelle dove esiste un forte differenziale di reddito tra i coniugi e quindi finisce
col porre un problema di equità verticale.
6
Per maggiori approfondimenti si veda più ampiamente TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, parte spec.,
Torino, 2007, p. 241 e ss..; FALSITTA G., Manuale di diritto tributario, parte speciale, Padova, 2008, p. 93 e ss..
7
Per maggiori approfondimenti sul tema cfr., LECCISOTTI, PATRIZII (a cura di), Il trattamento fiscale della
famigli anei paesi industrializzati, Giappichelli, 2002.
8
LONGOBARDI, PATRIZII (a cura di), La tassazione dei redditi familiari, in La crescita ineguale, 1981 – 1991, il
Mulino.
122
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Con il metodo dello splitting, sul modello tedesco e statunitense, il reddito
complessivo familiare è dato dalla somma del reddito dei due coniugi o di tutti i
componenti il nucleo familiare, che va diviso per due, ed ad esso applicate le aliquote;
moltiplicando l’imposta così ottenuta per due, si ottiene l’imposta che il nucleo familiare
deve versare.
Sinteticamente è stato valutato che un sistema di tassazione per parti, sia esso
sotto forma di splitting che di quoziente, incentiva il matrimonio, è neutrale rispetto
all’elusione, attribuisce un maggior vantaggio che cresce al crescere del reddito, tiene
conto della struttura dei bisogni al crescere del nucleo, incorporando, come si è detto,
una vera e propria scala di equivalenza, disincentiva, infine, rispetto al lavoro del secondo
coniuge9. Quest’ultima affermazione tuttavia non può essere generalizzata perché è
funzione di una serie di variabili quali l’aliquota marginale e il riconoscimento di detrazioni
d’imposta per i carichi familiari.
La proposta italiana di tassare a quoziente i redditi familiari10 fino a 73.000 euro
nasce proprio dall’esigenza di favorire le famiglie a reddito basso e medio. Ma la
tassazione a quoziente familiare può anche avere un effetto collaterale negativo: quello di
ridurre l’offerta di lavoro femminile, che in Italia è la minore d’Europa, spostando in capo
al coniuge con reddito più basso (di solito la moglie) parte dell’onere fiscale, ed
allontanerebbe ancor di più il nostro paese dal raggiungimento di uno degli obiettivi
dell’Agenda di Lisbona, che punta ad un tasso di partecipazione femminile alla forzalavoro pari almeno al 60 per cento (attualmente l’Italia è poco sopra il 40 per cento). Su
questo versante dovrebbero quindi essere previsti quanto meno dei correttivi.
Focalizziamoci ora sul modo in cui il quoziente familiare italiano dovrebbe essere
costruito per affrontare i due problemi caratteristici del nostro paese: la ridotta
partecipazione femminile alla forza-lavoro e la ridotta natalità.
Per incentivare la prima, occorrerebbe assegnare al coniuge a carico un basso
valore del coefficiente individuale, il che ridurrebbe il beneficio fiscale per le famiglie
monoreddito.
9
Per maggiori approfondimenti in merito agli effetti distributivi di un’ipotetica riforma della tassazione familiare
italiana ispirata al modello descritto si veda più ampiamente RAPALLINI, Il quoziente familiare: valutazione di
un’ipotesi di riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche in Working Paper, n. 475, Società italiana di
economia pubblica, Dipartimento di economia pubblica e territoriale, Università di Pavia.
10
Va precisato che il reddito familiare che confluiscono nella tassazione per parti con il metodo del quoziente
deve essere originato dal lavoro dal lavoro dipendete e/o autonomo, con l’esclusione dei figli che fino alla
maggiore età restano in famiglia.
123
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Per incentivare la natalità invece occorrerebbe invece assegnare un elevato
valore (pari all’unità) al coefficiente attribuito dal secondo figlio in poi che accrescerebbe
il beneficio fiscale per le famiglie che scelgono di non fermarsi al figlio unico.
Facendo un confronto con la Francia, dove il quoziente familiare rappresenta
l’architrave della politica familiare, il beneficio fiscale aumenta per le coppie che scelgono
di avere almeno tre figli (coefficiente pari a 1 per il terzo e quarto erede, solo 0.5 per il
primo e secondo), mentre il coefficiente assegnato al coniuge (pari a 1) non incentiva la
partecipazione femminile al mercato del lavoro, che evidentemente viene perseguita con
altri strumenti di policy.
In definitiva, una proposta che preveda un coefficiente sufficientemente basso
(0.65) per il coniuge a carico, e che aumenti il beneficio fiscale a partire dal secondo figlio
(coefficiente 1), andrebbe nella giusta direzione. Resta l’incertezza sulla effettiva
copertura finanziaria di una tale manovra, che i proponenti non dettagliano, e sembrano
invece rinviare alle virtù taumaturgiche della lotta all’evasione fiscale. Ma il tema è
meritevole di approfondimento, se effettivamente si desidera tutelare la famiglia come
unità fondamentale della società, anche senza assumere problematici orientamenti pronatalisti.
Il quoziente familiare è uno strumento per tassare il reddito fino a 73 mila euro
con un risparmio stimato tra i 2.500 e i 3.000 euro per famiglia, sulla base dell’IRPEF in
vigore dal 2007.
L’introduzione del quoziente familiare implica un complessivo riaggiustamento del
meccanismo Irpef del tutto incongruente con l’Irpef a 2 aliquote (23% fino a 100.000 € e
33% oltre i 100.000 €) disegnata nella riforma approvata dalla Cdl nel 2003 che viene
tuttavia riproposta.
Al di là della notevole perdita di gettito che determinerebbe l’introduzione del
quoziente familiare, oltre 15 md di euro, poco meno di quanto costerebbe il sistema a
due aliquote a regime, il quoziente è essenzialmente un modo per ridurre la progressività
dell’imposta a vantaggio principalmente delle famiglie con redditi medio alti. In tutti i casi
ove il Pdl mantenesse l’obiettivo di un’imposta personale a due scaglioni, l’adozione del
quoziente familiare non avrebbe più alcun senso; mentre attraverso il gioco delle
deduzioni, un’imposta sul reddito a due scaglioni, potrebbe essere formulata in modo da
assicurare un grado ragionevole di progressività, senza premiare, come farebbe il
quoziente familiare, quelli più elevati.
124
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Non a caso, per evitare questo risultato, nel sistema francese il quoziente
familiare per l’ Irpef si accompagna all’imposta sulle Grandi Fortune, come strumento per
un recupero di progressività accettabile.
Il sistema del quoziente familiare come immaginato nel modello che si vuole
introdurre nel nostro Paese funziona come di seguito:
a. si sommano i redditi dei coniugi;
b. ai fini della determinazione dell’imponibile cui applicare le aliquote si divide il
reddito complessivo familiare per il numero dei componenti della famiglia, attribuendo al
contribuente e al coniuge un coefficiente 1, e ad ogni figlio un coefficiente 0,5; sicchè in
assenza di figli il reddito complessivo viene diviso per due; in presenza di un figlio 2,5
etc.;
c.
determinato così il reddito medio familiare imponibile, ad esso si applicano le
aliquote in vigore; il risultato viene successivamente moltiplicato per 2; 2,5; 3, etc., al
fine di ottenere l’imposta che le famiglie devono versar al fisco.
Gli effetti sono evidenti: se le aliquote sono progressive, il vantaggio rispetto al
sistema oggi in vigore (tassazione separata + deduzioni per carichi di famiglia) è tanto
maggiore quanto più elevato è il reddito complessivo dei coniugi, in quanto si abbattono
le aliquote più alte e si finisce per applicare un’aliquota più ridotta. Si ottiene in tal modo
una forte riduzione della progressività e del prelievo. E’ ovvio che una famiglia a basso
reddito collocata nel primo scaglione dell’ Irpef e quindi a livello delle aliquote più basse,
non avrebbe nessun vantaggio dal nuovo sistema perché la riduzione convenzionale del
reddito imponibile assicurata dal meccanismo del quoziente non fornirebbe alcuna
riduzione dell’aliquota applicabile, diversamente a quanto avviene per gli altri
contribuenti. Al contrario questi contribuenti potrebbero risultare svantaggiati dal
momento che verrebbero meno le deduzioni per carichi di famiglia. Analogamente nessun
vantaggio dall’attuazione della proposta trarrebbero i soggetti incapienti, cioè coloro che
hanno un reddito così basso da essere già al di sotto del minimo imponibile.
Infatti l’applicazione del quoziente ai dati italiani mostra che esso porterebbe
vantaggi molto modesti al primo 70% dei contribuenti, concentrando metà dei 14 miliardi
di minor gettito sul 30% più ricco, mentre al 20% più povero non arriverebbe nulla.
Si ripete inoltre che le famiglie che ottengono il vantaggio maggiore dalla
divisione del reddito sono quelle in cui il reddito di uno dei coniugi è uguale a zero in
quanto si dimezza in questo caso il reddito imponibile.
125
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In altri termini il nuovo meccanismo, come tutti i sistemi di splitting,
rappresenterebbe senza correttivi un disincentivo al lavoro femminile: il contrario di
quanto sarebbe necessario e di quanto richiesto dalla strategia di Lisbona.
Infine non va sottovalutato il fatto che ciascun figlio contribuisce alla riduzione
del reddito imponibile per lo 0,5; ciò significa che per il fisco il figlio ricco vale più di un
figlio povero.
In conclusione il quoziente va in direzione opposta a quello di cui c’è bisogno nel
nostro Paese: un sostegno effettivo alle famiglie con redditi bassi e medi, che concentri
su di loro le risorse da mettere in campo.
L’aspetto più sorprendente della proposta del Pdl è che essa contrasta in modo
evidente con la riforma dell’IRE, approvata dal centro destra nel 2003, che nella sua
parziale attuazione aveva mostrato grande attenzione ai contribuenti minori e alla
famiglia attraverso la creazione della family area e il forte allargamento della no – tax
area.
Ai redditi minori guarda invece il centrosinistra con l’ “Assegno per il sostegno
delle responsabilità familiari” che riunificherebbe, incrementando i trattamenti, l’attuale
assegno al nucleo familiare e la deduzione Irpef per figli a carico. L’Assegno avrebbe
carattere universale, rivolgendosi sia ai lavoratori dipendenti sia agli autonomi, e
verrebbe fruito anche dagli incapienti, introducendo così nel nostro Paese una prima
forma di “imposta negativa” (trasferimento a favore degli incapienti da parte dello Stato).
Concentrando le risorse sui redditi bassi e medi, l’onere risulta molto più contenuto:
meno di 5 miliardi di euro a regime, ossia un terzo dell’onere del quoziente familiare.
La conclusione che si può trarre dai programmi fiscali dei due maggiori partiti è
che si è raggiunta una maggiore consapevolezza della necessità di porre un freno alla
crescita della pressione fiscale, apparsa nel periodo 2006-7 fuori controllo. Manca tuttavia
nell’insieme delle forze politiche la percezione della scarsa competitività fiscale del nostro
Paese e quindi della necessità ed urgenza di una riforma tributaria, che da un lato
assicuri le risorse indispensabili alla modernizzazione del Paese, dall’altro ne aumenti la
competitività internazionale.
126
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INDICE BIBLIOGRAFICO
1. CONTE – PAPUZZI, Il meccanismo trova il proprio fondamento nel
sistema generale di imposizione per la famiglia tipico dell’ordinamento
transalpino, in Fisconelmondo.it;
2. LECCISOTTI, PATRIZII (a cura di) , Il trattamento fiscale della famigli
anei paesi industrializzati, Giappichelli, 2002.
3. LONGOBARDI, PATRIZII (a cura di), La tassazione dei redditi familiari, in
La crescita ineguale, 1981 – 1991, il Mulino.
4. RAPALLINI, Il quoziente familiare: valutazione di un’ipotesi di riforma
dell’imposta sul reddito delle persone fisiche in Working Paper, n. 475,
Società italiana di economia pubblica, Dipartimento di economia pubblica
e territoriale, Università di Pavia.
5. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, parte spec., Torino, 2007.
6. FALSITTA G., Manuale di diritto tributario, parte speciale, Padova, 2008.
7. Adesso una Italia nuova. Si può fare, il Partito democratico in
www.partitodemocratico.it
8. Il nostro Programma – sette missioni per il futuro dell’Italia, Il Popolo
della libertà, in ilsole24ore.it
9. Proposta di legge elaborata dal Consiglio regionale della Lombardia in
data 3 aprile 2007
10. Risoluzione del Consiglio Regionale della Lombardia del 3 aprile 2007
11. Schema di disegno di legge, approvato dal Consiglio dei Ministri il 28
giungo 2007, per il conferimento al Governo della delega a disciplinare la
riforma in senso federale della finanza di Regioni ed enti locali, ai sensi
dell’art. 119 Costituzione
127
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GIURISPRUDENZA
CASI PRATICI
DOCUMENTAZIONE
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L’Italia ancora nel mirino della Corte di Giustizia Europea: la distinzione tra
rifiuto e sottoprodotto si fonda sul riutilizzo «certo, senza trasformazione
preliminare e nello stesso processo di produzione» (Nota alla sentenza della
Corte di Giustizia Europea, Sez. III, 18 dicembre 2007, Causa C-194/05)
di Filomena Daniela Piccolo
Sommario: 1. Premessa. 2. I “rifiuti” nell’ordinamento comunitario tra
disposizioni normative ed interventi interpretativi della Corte di Giustizia Europea. 3. La
nozione di “rifiuto” nell’ordinamento nazionale: dal D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915
all’articolo 14 della l. 8 agosto 2002 n. 178 (interpretazione autentica della definizione di
rifiuto, di cui all’articolo 6 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n.22 – Decreto Ronchi). 3.1Legge
delega in materia ambientale e d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 sulla stessa scia dell’articolo
14: il tentativo del non rifiuto non si ferma neanche dopo la bocciatura dell’articolo 14
della l. 8 agosto 2002 n. 178. 4. Corte di Giustizia Europea, Sez.III, 18 dicembre 2007,
Causa C-194/05: nessuna norma può escludere, a priori ed in via generale, le terre e
rocce da scavo dal novero dei rifiuti. Un altro caso di incompatibilità tra legislazione
nazionale e normativa comunitaria. 5. Conclusioni.
1. Premessa
L’attuazione di politiche ambientali efficaci e strategiche è condizionata dalla
risoluzione di una questione preliminare, la c.d. questione nozionistica, a garanzia di
un’esatta e puntuale demarcazione concettuale dell’espressione “ambiente” e di ogni altra
espressione afferente agli specifici settori che compongono l’ecosistema.
La definizione concettuale dell’espressione ambiente ha originato vivaci dibattiti,
coinvolgendo autorevoli ed insigni giuristi ed attraendo l’attenzione della giurisprudenza,
chiamata a svolgere un ruolo significativo nella vicenda, di cui essa stessa ha evidenziato,
oltre
la
rilevanza
dogmatica,
l’importanza
pratica
rivestita
ed
unanimemente
riconosciutale. A partire dalla metà degli anni 70, la problematiche legate all’ambiente
hanno cominciato ad affacciarsi sullo scenario comunitario e poi su quello nazionale,
occupando, gradualmente, una posizione di sempre maggiore centralità, diventando
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
impellente l’esigenza di conferire un significato univoco ed esatto al termine ambiente, al
fine di assicurare un’applicazione omogenea ed uniforme della relativa disciplina1.
Le stesse motivazioni e l’identico o forse maggiore livello di coinvolgimento e
partecipazione hanno alimentato la querelle sulla nozione di rifiuto, la quale, al contrario
di quella concernente l’ambiente, ad oggi ancora non ha trovato una definitiva
collocazione concettuale, stagnando in una situazione di incertezza e confusione
aggravata dalla discrasia che si registra tra ordinamento comunitario e ordinamento
nazionale in merito ad essa, sia sotto il profilo legislativo che sotto quello
giurisprudenziale.
In generale, un contributo determinante, a fini chiarificatori, è provenuto dalla
giurisprudenza, che ha profuso un notevole impegno nella risoluzione di spinose questioni
interpretative riguardanti l’ambiente e nella elaborazione di criteri orientativi, di agevole
ed immediata utilizzazione da parte di tutti gli operatori del diritto. Considerata, infatti, la
genericità, l’indeterminatezza nella formulazione delle disposizioni e la polivalenza delle
espressioni (Robert Delors e Francois Walter hanno evidenziato le difficoltà interpretative
che riguardano l’ambiente, cui sono stati attribuiti, in occasione di alcuni studi condotti in
Francia, ben 750 significati diversi)2, si è reso obbligatorio l’apporto della giurisprudenza,
con risultati apprezzabili ed anzi appaganti relativamente alla questione nozionistica
dell’ambiente. Al contrario, la nozione di rifiuto, nonostante i molteplici interventi della
Corte di Giustizia Europea e della giurisprudenza nazionale, continua a costituire oggetto
di pronunce giurisprudenziali e a dividere la giurisprudenza comunitaria da quella
nazionale. Si registrano, ad oggi, infatti, con una certa frequenza, contrasti tra giudice
comunitario e giudice nazionale, che impediscono di approdare ad una definitiva
soluzione e di dirimere tutti i nodi interpretativi concernenti il concetto di “rifiuto”. Se,
quindi, la giurisprudenza, attraverso un’eloquente e raffinata attività ermeneutica, è
riuscita a colmare la lacuna legislativa segnalata a proposito della definizione
1
La doverosità di politiche ambientali si afferma, innanzitutto, in sede comunitaria, quando, a seguito di
interventi modificativi e riformatori del Trattato di Roma del 1957, la questione ambientale finisce per occupare
uno spazio significativo nell’ambito delle politiche comunitarie. Con l’Atto Unico Europeo del 1987, infatti, viene
inserito nel Trattato un nuovo e autonomo titolo, specificamente dedicato alla tutela dell’ambiente (Art. 130
R,S,T poi diventati art. 174-176); con il trattato di Amsterdam del 1997, ulteriore valorizzazione riceve la tutela
dell’ambiente. L’approvazione di 6 programmi d’azione da parte del Consiglio (dal 1973, a partire dal 1
programma d’azione) per l’attuazione delle politiche comunitarie in materia ambientale, è una evidente
dimostrazione della crescente importanza assunta dall’ambiente. Per una sintesi breve ma efficace del percorso
evolutivo della tutela ambientale a livello comunitario, v.di F. Marchello. M. Perrini, S. Serafini, Diritto
dell’Ambiente, VII Ed., Napoli, Simone, 2007, 39 e ss. Sul punto c.fr anche B. Caravita, Diritto dell’ambiente, III
ed., Bologna, Il Mulino, 2005, 71 e ss.
2
Il riferimento agli autori ed all’opera “Historie de l’envoirnment european” Presses Univ. De France, 2001 è in
F. Marchello e A.A.V.V., op. cit
132
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
dell’espressione ambiente, affermandone, unanimemente, una nozione “unitaria e
totalizzante”, comprensiva di tutte le risorse naturali e culturali3, sembra ancora lontana
dal traguardo rispetto alla nozione di rifiuto.
2. I “rifiuti” nell’ordinamento comunitario tra disposizioni normative ed interventi
interpretativi della Corte di Giustizia Europea.
La disciplina sui rifiuti ha avuto, nel nostro ordinamento, vita particolarmente
tormentata, per la difficoltà di coniugare esigenze contrapposte ovvero quelle della
produzione, da un lato, e quelle della tutela dell’ambiente e della salute, dall’altro lato. Ne
è derivata una normativa frastagliata, disorganica e confusa, caratterizzata, spesso, più
dall’intenzione di risolvere le urgenze di determinate categorie di produttori di rifiuti che
dallo scopo di offrire un sistema regolamentare nitido e completo. Personalismi e scopi
egoistici hanno, quindi, guidato il legislatore nazionale sollecitandolo ad intervenire nella
materia, che, al contrario, per la rilevanza delle questioni che ha da sempre intercettato,
avrebbe meritato un assetto normativo più stabile, più ordinato e, soprattutto, volto ad
un’effettiva protezione dell’ambiente. Nel settore dei rifiuti, l’ostinazione con cui il
legislatore è intervenuto, al fine di sottrarre quante più sostanze possibili dal novero dei
rifiuti4, sembra proprio non aver avuto eguali, pur essendosi l’attività legislativa
ambientale, nel nostro Paese, connotata in tal senso; come attività, cioè, incapace di
apprestare congegni veramente idonei a scongiurare i rischi per l’ambiente, mancando,
storicamente, una cultura ambientale sensibile e matura.
Proprio sulla nozione di rifiuto, si è, infatti, registrata (ed ancora si registra, a dire
il vero) una certa disomogeneità tra normativa nazionale e normativa comunitaria, per la
diversa portata con cui
nazionale,
infatti,
ha
essa è stata accolta nel nostro ordinamento. Il legislatore
recepito
più
formalmente
che
sostanzialmente
l’indirizzo
comunitario, sposando una teoria restrittiva della nozione di rifiuto, inidonea, perciò
3
Ad. es:. Corte Costituzionale 28 maggio 1987, n. 210 “l’ambiente, quale bene unitario, comprende la
conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni naturali (aria, acqua, suolo e territorio
e di tutte le sue componenti), l’esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici terrestri e marini, di tutte le
specie animali e vegetali che in esso vivono allo stato attuale ed in definitiva la persona umana in tutte le sue
estrinsecazioni”
4
Così L. Ramacci, La nuova disciplina dei rifiuti, Piacenza, la Tribuna, 2006, 17 e ss.
133
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
stesso, a soddisfare esigenze di salvaguardia dell’ambiente e di protezione della salute,
sancite come prioritarie dal Trattato CE.
Il quadro normativo per il trattamento dei rifiuti, a livello comunitario, è stato
stabilito, innanzitutto ed in via principale, dalla direttiva comunitaria del 15 luglio 1975, la
75/442/CEE (poi modificata dalla direttiva del 18 marzo 1991, la 91/156/CEE), sostituita,
di recente, dalla direttiva 2006/12/CE del 5 aprile 2006, ad oggi, principale riferimento
normativo comunitario. La nuova direttiva, però, non ha stravolto l’impostazione della
precedente, riproducendo, al contrario, il dispositivo e non introducendo, quindi, alcuna
significativa innovazione5, almeno secondo quanto sostenuto da una parte degli
interpreti. Essa è nata dall’esigenza di eliminare incertezze ed ambiguità della normativa
sui rifiuti, fonte principale di divergenze nella interpretazione da uno Stato ad un altro,
proponendosi, il legislatore comunitario, proprio l’obiettivo di chiarire la distinzione tra ciò
che è rifiuto e ciò che rifiuto non è e di distinguere il recupero dallo smaltimento,
sollevando, una volta e per sempre, la Corte di Giustizia da questo arduo compito, per
anni al centro delle sue maggiori preoccupazioni.
Un proposito innovativo, di certo, serpeggiava, nel disegno del legislatore
comunitario ma pur sempre di tipo formale, ovvero finalizzato alla razionalizzazione, alla
semplificazione, al riordino della normativa e non di tipo sostanziale, non essendo stata,
in alcun modo, palesata l’intenzione di rompere con la tradizione normativa pregressa, la
quale ha plasmato la nozione di rifiuto su criteri oggettivi, rifuggendo da ogni
impostazione di tipo personalistico e soggettivistico. Al di là di una sostituzione, intesa
come meramente lessicale, nessun cambiamento apprezzabile ha riguardato la nozione di
“rifiuto”, nessuno che si ponga in rotta di collisione con gli indirizzi consolidatisi nella
Comunità Europea, almeno secondo la interpretazione corrente fino ad oggi sostenuta.
Con questo lavoro, si intende tracciare l’orientamento formatosi in sede
comunitaria relativamente alla nozione di rifiuto, per evidenziare la frattura con
5
Nella nuova direttiva l’epressione “abbia deciso” è sostituita dall’espressione “abbia l’intenzione”. Così recita
l’articolo 1, comma 1, lettera a della direttiva 2006/12/CE rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle
categorie riportate all’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l’obbligo o abbia l’intenzione di disfarsi.
Potrebbe, di certo, attribuirsi alla sostituzione una valenza anche sostanziale e non solo lessicale, in quanto a
voler interpretare letteralmente si dovrebbe aver rifiuto già quando il detentore abbia solo mostrato l’intenzione
di disfarsi, quando abbia solo espresso un proposito, che ben potrebbe non essere accompagnato da una
volontà concreta di realizzarlo, con una conseguente dilatazione del concetto di rifiuto. Resta chiaro, comunque,
anche a voler accogliere una interpretazione letterale delle espressioni utilizzate (criterio non da tutti
privilegiato) che il legislatore comunitario va a confermare l’indirizzo formatosi in sede comunitaria
relativamente alla nozione di rifiuto, proponendo una nozione ancora più ampia e giammai restrittiva. V.di, a tal
proposito, il commento di V. Vattani, Pubblicata in Gazzetta la nuova direttiva comunitaria sui rifiuti che va a
sostituire la precedente direttiva 75/442/CE. Apportate modifiche alla nozione di rifiuto, in
www.dirittoambiente.com, 2 maggio 2006.
134
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
l’ordinamento nazionale, a riprova che il settore ambientale sembra proprio essere il
prescelto dall’ordinamento nazionale per violare la normativa comunitaria e per non
allinearsi alle posizioni della Corte di Giustizia Europea6.
La direttiva 75/442/ CEE (il richiamo ad essa non va considerato anacronistico, in
quanto pur essendo di fatto superata dalla direttiva del 2006, in realtà rivive nelle
disposizioni di quest’ultima) è stata, da sempre, letta alla luce delle interpretazioni fornite
dalla Corte di Giustizia Europea. L’articolo 1 della direttiva ha definito “rifiuto” qualsiasi
sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate all’Allegato I e di cui il detentore
si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di difarsi”. L’allegato ha precisato tale definizione
attraverso un elenco di sostanze o di oggetti qualificabili come rifiuti, al quale è stato
riconosciuto un valore indicativo, discendendo la qualifica del rifiuto, innanzitutto, dal
comportamento del “detentore” e dal significato dell’espressione “disfarsi”. I termini
“detentore” e “disfarsi”, quindi, hanno delimitato l’ambito operativo della normativa e
sono stati interpretati secondo i criteri forniti dalla Corte di Giustizia Europea, la quale ha
prediletto una nozione “oggettiva” di rifiuto, fondata su una valutazione obiettiva della
condotta del detentore o di un obbligo cui lo stesso è tenuto.
Nella nota sentenza Niselli (Corte di Giustizia 11 novembre 2004, C-457/02), si è
fatto obbligo di interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto, per ridurre i danni
inerenti alla loro natura; già prima,con la sentenza Palint Granit (Corte di Giustizia 18
aprile 2002, C 9/00, ove si precisa che i detriti provenienti dall’attività estrattiva di una
cava di granito, che non si configurano come produzione principale ricercata mediante
tale sfruttamento, rientrano, in via principale, nella categoria dei rifiuti) sono stati indicati
i criteri elaborati per interpretare il verbo “disfarsi”7. Esso, ha sostenuto la Corte, va letto
alla luce delle finalità della normativa comunitaria ovvero nell’ottica di tutela della salute
umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del
trattamento, dell’ammasso e del deposito di rifiuti in attuazione dei principi di precauzione
e di prevenzione8. Le affermazioni contenute nella sentenza Palint Graint sono apparse
ambigue e hanno suscitato, infatti, in un primo momento polemiche e dubbi circa l’esatta
portata del termine rifiuto.
6
V.di, a tal proposito, A. Gratani, L’ambiente: il settore prescelto dall’ordinamento italiano per violare la
normativa comunitaria, in Riv. Giur. Amb., 2/2007, 289 e ss., v.di A. M. Camerani, La Commissione procede nei
confronti dell’Italia per alcune violazioni della normativa ambientale, in Amb. e Sviluppo, 3/2007, 197 e ss., ove
si passano in rassegna cinque procedimenti di infrazione intrapresi nei confronti dell’Italia dalla Commissione,
tutti riguardanti la violazione della normativa comunitaria per la protezione dell’ambiente e della salute umana.
7
Nel senso che il termine disfarsi e la nozione rifiuto devono essere interpretati estensivamente, anche Corte di
Giustizia Europea, 15 giugno 2000, cause riunite C-418/97 e C-419/97, ARCO Chemie Nederland.
8
Cfr. L. Ramacci, op. cit., 43 e ss.
135
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
D’obbligo, nella ricostruzione della vicenda è il passaggio sulla categoria giuridica
del “sottoprodotto”, categoria coniata dalla Corte di Giustizia Europea, nell’intento di
meglio decifrare l’espressione “rifiuto”. Esso compare, per la prima volta, nella sentenza
Palint Graint e riceve tale definizione un bene, un materiale o una materia prima che
deriva da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinata
a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale
l’impresa non ha intenzione di disfarsi, ai sensi dell’articolo 1, lettera a, 1 comma della
direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni ad essa
favorevoli, in un processo successivo, e sempre che tale riutilizzo sia certo, non richieda
trasformazioni preliminari e intervenga nel corso del processo di produzione o di
utilizzazione.
Il contrasto interpretativo è sorto dalla indeterminatezza del pensiero espresso
dalla Corte, ricavato da due passaggi importanti della sentenza, in cui la stessa, pur
riferendosi ad un concetto, ha utilizzato espressioni diverse, giustificando una lettura ora
restrittiva ora estensiva. Essa, infatti, prima ha adoperato l’espressione nel corso del
processo di produzione, avallando un’interpretazione restrittiva, perché alludente al solo
ciclo tecnologico da cui proviene il residuo; in seguito, poi, ha adottato l’espressione in un
processo successivo, a favore di una più estensiva lettura.
La questione ha ruotato intorno ad un punto ben preciso: cosa intendere per
processo produttivo, al fine di sottrarre dal novero dei rifiuti determinate sostanze.
L’ambiguità della Palint è stata superata alla luce di altri brani della medesima sentenza
che hanno optato per un’interpretazione restrittiva del processo produttivo, intendendolo
come medesimo processo di produzione. La questione è approdata, comunque, ad una
definitiva sistemazione teorica in Corte di Giustizia 8 settembre 2005, causa C 416/02,
ove, in maniera inconfutabile, si è considerato riutilizzo solo quello effettuato nell’ambito
del ciclo produttivo di origine9. Chiarita la portata del sottoprodotto ed individuate le
condizioni della sua configurabilità, la Corte ha espressamente dichiarato, in più di
un’occasione, che il fatto che una sostanza o un oggetto siano suscettibili di riutilizzazione
9
C.fr V. Paone, I rifiuti tra presente e futuro, nota a Cassazione, ord., 14 dicembre 2005, Rubino e sentenza 14
aprile 2005, Colli, in Foro Italiano, 4/2006, 214 e ss. Altra questione, di indubbia importanza al fine di un’esatta
ricostruzione della vicenda, è quella relativa alla distinzione tra recupero e smaltimento. Il recupero, e questo va
sottolineato, pur distinguendosi dallo smaltimento va riferito sempre e comunque ai rifiuti, come evidenziato da
G. Garzia., La nozione giuridica del “recupero” dei rifiuti: il quadro vigente e le prospettive di riforma, in
Ambiente e Sviluppo, 1/2008; 34 e ss, le sostanze utilizzate mantengono la qualificazione giuridica di rifuto fino
al momento in cui il processo di recupero non è del tutto terminato.
136
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
economica non valeva ad escludere necessariamente la loro natura di rifiuto, essendo
indispensabile a tal fine:
•
un riutilizzo certo e non eventuale;
•
riutilizzo non preceduto da trasformazione preliminare ovvero da una
modificazione di carattere chimico o merceologico;
•
riutilizzo nell’ambito dello stesso processo produttivo.
3.1 La nozione di “rifiuto” nell’ordinamento nazionale: dal D.P.R. 10 settembre
1982, n. 915 all’articolo 14 della l. 8 agosto 2002 n. 178 (interpretazione autentica della
definizione di rifiuto, di cui all’articolo 6 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 – Decreto
Ronchi).
Primo intervento significativo nel settore dei rifiuti risale al D.P.R. 10 settembre
1982 n. 915, con il quale il legislatore italiano recepisce le tre direttive comunitarie di
base sui rifiuti: la 442 del 15 luglio 1975 (sui rifiuti in generale), la 76/403 (sullo
smaltimento dei policlorodifenili e policlorotrifenili) e la 319 del 20 marzo 1978 (sui rifiuti
tossici e pericolosi). Si inaugura, da questo momento, una fervida attività interpretativa
che porta in sé i segni evidenti di contrasti tra regolamentazione comunitaria e disciplina
nazionale. L’articolo 2 del D.P.R. non riproduca fedelmente il testo delle direttive,
sollevando problemi di coordinamento con le disposizioni in esso contenute e prestandosi
a non univoche interpretazioni. Definendo, infatti, rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto
derivante da attività umane e da cicli naturali, abbandonato o destinato all’abbandono”,
crea una frattura concettuale con la disciplina comunitaria, affiancando al criterio
oggettivo uno soggettivo che sembra assumere
ruolo principale e determinante
nell’attività ermeneutica. Con l’espressione destinato all’abbandono viene inserito accanto
ad un parametro di valutazione oggettivo, privilegiato in sede comunitaria, uno di tipo
squisitamente soggettivo, che affida alla volontà del detentore il destino di una sostanza
o di un oggetto10. Sorge, quindi, una contrapposizione tra disciplina comunitaria e
disciplina nazionale e si formano due correnti di pensiero in seno alla stessa dottrina:
10
Illustra in maniera chiara e puntuale il dibattito sulla nozione di rifiuto sorto tra oggettivisti e soggettivisti,
M.G.Mancini, La nozione di rifiuto, I Rifiuti – Legislazione Comunitaria e Legislazione Italiana – a cura di A.
Mazzetti, Giuffrè, 1992 – Quaderni della Rivista Giuridica dell’Ambiente, 5, 89 e ss.
137
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
parte di essa si rende promotrice e fautrice della teoria soggettiva, altra minoritaria
difende la teoria oggettiva. Mentre la prima esalta l’importanza del processo volitivo, la
seconda, nell’ottica di una effettiva garanzia della salute e dell’ambiente, considera rifiuto
quella sostanza non più utilizzabile, misurando l’utilizzabilità con il criterio della continuità.
Esclude dal novero dei rifiuti, perciò, solo il sottoprodotto o il materiale riciclato all’interno
dello stesso insediamento produttivo che lo genera, in conformità agli insegnamenti della
Corte di Giustizia Europea. E’ l’utilità che la sostanza conserva per chi la detiene a dover
determinare la sua qualificazione giuridica e non l’intenzione del detentore-produttore
non potendosi ancorare alla sua intima ed insondabile volontà la sorte della sostanza11.
La complessa vicenda si avvia ad assumere connotati più nitidi, almeno
apparentemente, con l’ entrata in vigore del c.d. Decreto Ronchi (d.lgs. 5 febbraio 1997,
n. 22), di attuazione di tre direttive comunitarie, la n. 91/156/CEE sui rifiuti, la n.
91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e la 94/62/CEE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio,
che, eliminando buona parte della normativa esistente, scolpisce una diversa nozione di
rifiuto, su modello di quella comunitaria; perviene ad una combinazione di criterio
oggettivo e criterio soggettivo, che, però, non situa al centro della scena quest’ultimo,
come in precedenza. L’articolo 6 del decreto Ronchi così recita “rifiuto è qualsiasi
sostanza od oggetto, che rientra nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso
o abbia l’obbligo di disfarsi”, imponendo, di conseguenza, all’interprete una duplice
valutazione: verificare l’appartenenza all’allegato e sondare la volontà del detentore. Con
il Decreto Ronchi, tra l’altro, il legislatore, a differenza del passato, esalta la potenzialità
merceologica del rifiuto, non concependolo più solo nell’ottica negativa, cioè quale scarto
da smaltire, bensì valorizzando la ricchezza che può offrire, prevedendo come alternativa
allo smaltimento il recupero.
Il Ronchi sembra inserirsi nel solco interpretativo tracciato dalla Corte, sia per
l’accezione positiva che conferisce al rifiuto, sia perché più propenso ad accogliere una
nozione meno restrittiva del rifiuto, non delimitabile solo in base ad elementi psicologici
e soggettivi ma dall’innesto di più fattori concomitanti. I dibattiti continuano nei loro toni
11
In molte decisioni si evidenziato che la nozione di rifiuto, vuoi per il dritto nazionale vuoi per il diritto
comunitario, non può dipendere dalla sola volontà del soggetto di riutilizzare o meno il materiale, ma è
necessario che la destinazione emerga da elementi oggettivi, concretamente riscontrabili e forniti dalla parte di
chi li adduce; in questo senso Cassazione 5 aprile, n.16879, Chiovolone; Cassazione 7 aprile 2005, n. 18195,
Conoscenti, inedita; Cass. 5 aprile 2005, n. 16613, Coppetta, inedita; Cassazione 14 gennaio 2005, n. 5472,
Capone, inedita; Cass. 22 marzo 2005, n. 17621, Barone, inedita. In altre pronunce, la Cassazione sembra non
conformarsi all’indirizzo comunitario, escludendo per molte sostanze la qualificazione giuridica di rifiuto; vedi
Cass. 27 ottobre 2004, Sollo; Cass. 10 febbraio 2005, Montanaro, Cass. 19 aprile 2005, n.18229, Toriello,
inedita. Queste pronunce sostengono la tesi per cui una sostanza residuale che possegga tutte le caratteristiche
di una materia prima e possa essere reimpiegata in un nuovo processo produttivo, non sarebbe rifiuto.
138
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
accesi tanto da spingere il legislatore ad intervenire per chiarire, con esattezza e
puntualità, le espressioni adottate dal Decreto Ronchi e garantire un’applicazione
uniforme ed omogenea della normativa, scongiurando il rischio di un’attuazione
diversificata in ragione della diversa accezione ermeneutica scelta di volta in volta. Il
legislatore mostra una certa sensibilità alla problematica, affidando ad un’apposita
disposizione normativa, l’articolo 14, contenuta nella l. 8 agosto 2002, n. 178, di
conversione del d.l 8 luglio 2002, n. 138, (recante interventi urgenti in materia tributaria,
di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno
dell’economia anche nelle aree svantaggiate) la sua risoluzione, perpetrando, però, una
grave violazione dello spirito della normativa ambientale comunitaria. Per “disfarsi”,
secondo l’articolo 14, deve intendersi qualsiasi comportamento attraverso il quale, in
modo diretto o indiretto, una sostanza è avviata o sottoposta ad attività di smaltimento o
recupero, secondo gli allegati B e C del Ronchi; per “abbai deciso di disfarsi” la volontà di
destinare ad operazioni di smaltimento o recupero, secondo gli allegati B e C del Ronchi,
sostanze o materiali; per “abbia l’obbligo”l’obbligo di avviare un materiale ad operazioni
di recupero o smaltimento stabilito da legge, da provvedimento o imposto dalla natura
stessa del materiale, dalle sostanze o dal fatto che i medesimi siano compresi nell’elenco
rifiuti pericolosi di cui all’allegato D del Ronchi. Si esclude l’integrazione delle fattispecie di
cui alle lettere b e c del comma 1 per beni o sostanze e materiali residuali di produzioni o
di consumo, alla condizione che essi siano oggettivamente utilizzati senza subire alcun
intervento preventivo ed altresì le si esclude quando, pur in presenza di un trattamento
preventivo, non si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle di cui
all’allegato C del Ronchi. Dalla Commissione UE, nell’ottobre 2002, parte una procedura di
infrazione contro l’Italia, per il generato contrasto, originato dalla disposizione testè
citata, con la normativa europea e con la giurisprudenza comunitaria, in totale dispregio e
compromissione dei valori ambientali, prioritari nell’ambito delle politiche comunitarie. La
Commissione Europea, nell’articolo 14, intravede un chiara violazione della normativa
comunitaria ed un’abile escamotage per sottrarre aziende, industrie e quanti altri alle
regole imposte dalla disciplina sui rifiuti a difesa dell’ambiente. Subordinando, infatti, la
qualificazione giuridica di rifiuto alle sole operazioni di smaltimento o di recupero,
escludendo i casi di riutilizzo anche a seguito di processi di trasformazione preliminare, si
presta il fianco ad un’elusione vera e propria della normativa, restringendo, in maniera
ingiustificata, l’ambito operativo della disciplina. Si ha residuo e non rifiuto quando si
garantisce una riutilizzazione tal quale dello stesso, senza necessità di alcun tipo di
139
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
trattamento (dal più elementare al più complesso). Desta allarme l’intervento del
legislatore nazionale attuato con l’articolo 14, in quanto tradisce i principi sanciti a livello
comunitario, i quali distinguono il “riutilizzo diretto”dal “recupero”: il primo si riferisce al
residuo, il secondo al rifiuto. Con l’articolo 14, insomma, si realizza una dilatazione della
categoria dei residui, ricomprendendosi al suo interno non solo le ipotesi di una sostanza
riutilizzata nello stesso o in un
altro processo produttivo o di consumo, senza
sottoposizione ad alcun trattamento preventivo ma anche l’ipotesi di riutilizzazione a
seguito di un “trattamento preventivo” senza la sottoposizione ad alcuna operazione di
recupero12. Quello spirito anticomunitario, volto alla compressione dell’ambito operativo
delle normativa sui rifiuti, che nella “’interpretazione autentica” fornita dall’articolo 14 d.l.
8 luglio 2002 n. 138, convertito in legge 8 agosto 2002 n. 178, trova la sua adeguata
collocazione, sembra rivivere nel disegno di legge delega in materia ambientale
approvato a soli quattordici giorni dalla pubblicazione della sentenza Niselli della Corte di
Giustizia Europea (Sez. II, 11 novembre 2004, C – 457/02), che sconfessa quella
interpretazione autentica. Il disegno di legge in materia ambientale contiene tutta una
serie di disposizioni di diretta ed immediata applicazione in materia di rifiuti, il cui comma
26 dell’articolo 1 esordisce “Fermo restando quanto disposto dall’articolo 14 del decreto
legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito in l…”; è fatto salvo proprio l’articolo dichiarato,
dalla Corte di Giustizia Europea, contrastante con la normativa comunitaria.
3.1 Legge delega in materia ambientale e il d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 sulla
stessa scia dell’articolo 14: il tentativo del “non rifiuto” non si ferma neanche dopo la
bocciatura dell’articolo 14 della l. 8 agosto 2002 n. 178.
La legge delega 308 del 15 dicembre 2004, recante disposizioni per il riordino, il
coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta
applicazione si propone, teoricamente, l’ambizioso quanto auspicato obiettivo di
razionalizzare, risistemare e semplificare la normativa ambientale, in sintonia con i
12
Di fronte all’articolo 14, non si è registrata unanimità di posizioni nella giurisprudenza nazionale. La tendenza
maggioritaria era a restringere al massimo il ricorso all’articolo 14, pur non mancando un atteggiamento
opposto in alcune sentenze della 3 sezione penale della Cassazione. V.di, a tal proposito, G. Amendola, Rifiuto:
non era autentica l’interpretazione italiana, nota a sentenza Corte di Giustizia Europea 11 novembre 2004,
causa C-457/02, in Foro Italiano, 1/2005, Parte Quarta, 17 ess. Sulla questione, consulta anche V. Paone, La
nozione di rifiuto tra diritto comunitario e diritto penale, in Foro Italiano, 1/2005, Parte Quarta, 19 e ss.
140
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
principi comunitari. Concretamente, essa non realizza tale risultato ma va, anzi, a creare
ulteriori occasioni di polemiche e scontri tra gli interpreti per le anomalie e le
contraddizioni che porta in sé. La scelta di una legge delega per attuare una riforma così
importante, la portata della delega stessa, che per la genericità ed indeterminatezza dei
criteri è stata bollata come delega in bianco, l’ampiezza della stessa, l’inserimento di
disposizioni attuative
in materie tanto disparate hanno fatto elevato un coro di
polemiche, i cui toni si sono accentuati e non placati con l’entrata in vigore del decreto
legislativo di attuazione della delega, il d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in
materia ambientale.
Non è questa la sede più adatta per soffermarsi sulle ambiguità con cui si è
pervenuti alla redazione del testo unico ambientale, per approfondire i tanti motivi di
dissenso manifestati da varie associazioni ambientaliste, le argomentazioni poste a base
dei giudizi espressi dalla Conferenza delle Regioni, la quale ha lamentato l’inosservanza
dello spirito di “leale collaborazione” che avrebbe dovuto permeare tutti i lavori e le
attività strumentali all’adozione del testo unico. Oggetto della disamina è, infatti, la
nozione di rifiuto e
tutte le modifiche apportate, la nozione di sottoprodotto13,
complementare a quella di rifiuto, come banco di prova di un atteggiamento di contrasto
assunto dal legislatore nazionale nei confronti della disciplina comunitaria e dei principicardine in materia ambientale dettati a livello europeo.
Si ripropongono in egual misura se non con qualche accentuazione in più le
difficoltà interpretative che, già sotto la vigenza della vecchia normativa, ne hanno
ostacolato la uniforme applicazione (la maggiore accentuazione delle difficoltà
interpretative è dovuta alla introduzione dell’espressione sottoprodotto e all’ampio novero
di casi di esenzione introdotti dal testo unico ambientale).
In dispregio agli obiettivi sanciti ovvero la maggior chiarezza e precisione nella
formulazione di norme, l’articolo 183 del testo unico ripropone una definizione di rifiuto,
incentrata ancora una volta sul significato da attribuire al termine “disfarsi”, senza fornire
criteri e regole per agevolare e rendere omogenea la relativa interpretazione. Le
incertezze nella individuazione della nozione hanno lo stesso sapore di quelle emerse in
precedenza, serpeggiando nel testo unico lo stesso intento
che aveva supportato
l’emanazione dell’articolo 14 d.l. 8 luglio 2002 n. 138, convertito in legge 8 agosto 2002
n. 178, ovvero ampliare l’elenco delle sostanze da sottrarre alla categoria dei rifiuti,
calpestando e mortificando obiettivi e propositi della legislazione comunitaria. Il
13
Cfr. L. Ramacci, op. cit, 20 e ss.
141
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
legislatore nazionale, oltre a disattendere, con il testo unico, i criteri elaborati dalla
giurisprudenza comunitaria, mostra di non volersi allineare a quel filone della
giurisprudenza nazionale schierato dalla parte dei giudici comunitari (es:. Cass. Pen., Sez.
III, 14 aprile 2005, n. 746, Colli;
Cass.
Sez. III penale,
4 novembre 2005, n.
01180/2005, Zuffellato), secondo il quale la nozione di rifiuto va interpretata in sintonia
con la normativa europea. Nella sentenza Colli della III sezione penale, la Cassazione
sostiene la doverosità di una interpretazione estensiva della nozione di rifiuto, essendo la
stessa indicata, dalla Corte di Giustizia Europea, quale chiave unica di lettura della
normativa comunitaria. Quando una sentenza della Corte di Giustizia Europea interviene
per precisare il significato di una disposizione, lo fa autoritariamente, come riconosciuto
anche dalla nostra Corte Costituzionale, e non può e non deve essere ignorata o
contraddetta dagli Stati membri. Secondo la Cassazione, quindi, un residuo di produzione
può essere escluso dalla disciplina dei rifiuti solo se coincide con il sottoprodotto, cioè
solo se trattasi di situazioni in cui il riutilizzo del residuo sia certo, senza trasformazione
preliminare e nel corso del processo di produzione14, senza recare pregiudizio
all’ambiente15.
L’impianto normativo costruito dal legislatore nazionale sembra essere fedele
proprio a quei principi e criteri tanto stigmatizzati a livello comunitario e da buona parte
della giurisprudenza nazionale, in un’ottica di restrizione dell’ambito operativo della
normativa sui rifiuti. Al centro di dissidi, stavolta, non si situa solo la portata
dell’espressione disfarsi, ma la stessa nozione di “sottoprodotto”16, di “materia prima
secondaria”, di “combustile”,
insomma tutte le formule utilizzate dal legislatore per
sottrarre i rifiuti, soprattutto quelli industriali, alla relativa disciplina.
Secondo la
definizione ex articolo 183, lett. n, sono sottoprodotti quelli dell’attività d’impresa che, pur
non costituendo
oggetto dell’attività principale, scaturiscono in via continuativa dal
processo industriale dell’impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al
consumo. La norma specifica che tra i sottoprodotti sottratti alle disposizioni sui rifiuti
rientrano anche le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro…ecc, suscitando non poche
14
A questo proposito resta un punto da chiarire. La Corte Europea richiede, per il sottoprodotto, il riutilizzo
nello stesso processo di produzione, mentre la Cassazione, pur riportando fedelmente il pensiero della Corte
Europea, lascia aperta la possibilità che esso possa intendersi come processo produttivo diverso.
15
Il contenuto della sentenza è brevemente sintetizzato da G. Amendola, Anche la Cassazione disapplica la
famigerata interpretazione autentica della nozione di rifiuto? in Diritto all’ambiente, www. dirittoambiente.com.
16
Sulle caratteristiche della nuova categoria di “sottoprodotto” si è soffermata anche parte delle giurisprudenza
nazionale, aderendo all’impostazione comunitaria ; a tal proposito, v.di Corte di Cassazione, Sez. III penale,
11/04/2007, n. 14557; da ultimo v.di anche Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, 21
gennaio 2008, sentenza n. 2 che, applicando principi e criteri ermeneutici forniti dalla giurisprudenza
comunitaria, qualifica quali rifiuti le vinacce residuate dalla vinificazione.
142
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
perplessità per la sottrazione di alcune sostanze dalla disciplina sui rifiuti, avvenuta con
tanta disinvoltura, aprioristicamente ed in assenza di un’analisi concreta (come vuole la
Corte di Giustizia Europea). La genericità nella formulazione della disposizione sul
sottoprodotto e la qualificazione in tal senso di alcuni sostanze costituiscono i due aspetti
nodali della questione, i quali, segnalati a più riprese da parte della dottrina e da quella
giurisprudenza
rivisitazione.
uniformata
ai
giudici
comunitari,
necessitano
di
un’opportuna
Il d.lgs. 152/2006 non testimonia, di certo, il momento di svolta nella
vicenda normativa ambientale, né da un punto di vista formale, in quanto non acquisisce
linearità e coerenza l’impianto normativo, né da un punto di vista sostanziale, non
risultando lo stesso conforme a quello comunitario. La valanga di critiche e polemiche da
cui è travolto il testo unico
ambientale ne impone una revisione attraverso decreti
correttivi predisposti dal Governo e adottati, però, con un ritardo notevole.
Il primo decreto correttivo ed integrativo del c.d. Codice dell’ambiente, d.lgs. 8
novembre 2006, n. 284, non introduce alcuna significativa innovazione17; con il secondo
decreto correttivo, d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, entrato in vigore lo scorso 13 febbraio, si
realizza, almeno parzialmente, quell’opera di assestamento tanto auspicata ma che
rappresenta solo una tappa del processo riformatore della disciplina dell’ambiente. Novità
interessanti riguardano la prima parte del testo unico, la disciplina sulle acque (parte
terza), la disciplina sui rifiuti (parte quarta); relativamente a quest’ ultimo aspetto,
vengono introdotti i principi previsti dal Trattato UE in materia di tutela ambientale, tra
cui quello di gerarchia nella gestione dei rifiuti, viene riformata la nozione di
sottoprodotto e materie e prodotti secondari; sono precisate le modalità di riutilizzo delle
terre e rocce da scavo. Viene inserito un articolo ad hoc sulle materie prime secondarie
ovvero quelle materie, sostanze o prodotti secondari da individuarsi con decreto
ministeriale, non ascrivibili alla categoria dei rifiuti. Interessante appare anche la
definizione di sottoprodotto, maggiormente aderente a quella elaborata in sede
comunitaria ed articolata in maniera più puntuale e dettagliata, in modo da garantire il
rispetto dei canoni interpretativi dettati dalla normativa comunitaria. Sono fissate, a tal
fine, le condizioni da rispettare : 1) impiego certo della sostanza e direttamente nel corso
del processo di produzione o di utilizzazione preventivamente individuato e definito, 2)
17
Il primo decreto correttivo modifica gli articoli 59, 160, 170 e 224 del testo unico ambientale. Oltre a questi
cinque articoli, le uniche modifiche intervenute fino al secondo decreto correttivo sono l’effetto di altri
provvedimenti legislativi, come ad esempio la legge 12 luglio 2006, n. 228, il d.l. 262 del 3 ottobre 2006, conv.
in legge 286 del 24 novembre 2006, la legge 296 del 27 dicembre 2006 che abroga il comma 6 dell’articolo 229
in materia di cdr e pochi altri.
143
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
verifica dei requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro
impiego non di luogo ad emissioni e impatti diversi da quelli autorizzati per l’impianto
dove sono destinati ad essere utilizzati, 3) nessuna sottoposizione a trattamenti
preventivi o di trasformazione preliminare, 4) valore di mercato18.
Un segnale di cambiamento è stato lanciato ma il cammino è ancora lungo e
arduo.
4. Corte di Giustizia Europea, Sez. III, 18 dicembre 2007, Causa C-194/05:
nessuna norma può escludere, a priori ed in via generale, le terre e rocce da scavo dal
novero dei rifiuti. Un altro caso di incompatibilità tra legislazione nazionale e normativa
comunitaria.
Le tre pronunce della Corte di Giustizia della Comunità Europea del 18 dicembre
2007 (C- 194/05, C-195/05 e C-263/05) confermano l’adesione della giurisprudenza
comunitaria all’indirizzo ormai consolidatosi in materia di rifiuti19 e l’accoglimento, quindi,
dei criteri ermeneutici elaborati per distinguere rifiuti da sottoprodotti. Ancora una volta,
la Corte di Giustizia è costretta ad intervenire per richiamare l’Italia all’osservanza della
normativa comunitaria adottata nel settore ambientale e all’obbligo, ex articolo 174 del
Trattato CEE, dell’elevato standard di tutela ambientale. Adducendo le argomentazioni
costantemente sostenute, la Corte censura gli articoli 10 della legge 23 marzo 2001, n.
93, recante disposizioni in campo ambientale e l’articolo 1, commi 17 e 19 della legge 21
dicembre 2001, n. 443, recante delega al Governo in materia di infrastrutture ed
insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive,
segnalandone la difformità con la direttiva comunitaria 75/442 CEE, come modificata
dalla direttiva 91/156/CEE.
In pari data, con le sentenze C-195/05 e C-263/05, condanna l’Italia per aver
violato la medesima direttiva, escludendo dalla nozione di rifiuto gli scarti alimentari
18
Sul secondo decreto correttivo del testo unico ambientale, cfr. S. Maglia, Alcune considerazioni in merito al
secondo decreto correttivo del testo unico ambientale, in Amb. e Sviluppo 11/2007, 969 e ss.
19
Sulla nozione di rifiuto, sui criteri distintivi, sul fatto che una sostanza non può essere esclusa
automaticamente dalla categoria dei rifiuto solo perché suscettibile di riutilizzazione economica, tra le altre, v.di
Corte di Giustizia della Comunità Europea, 25 giugno 1997, cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94, C225/95); Corte di Giustizia della Comunità Europea, 18 dicembre 1997, C-129/96; Corte di Giustizia della
Comunità Europea, 15 giugno 2000, C-418/97 e C-419/97; Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 8
settembre 2005, C-121/2003.
144
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
destinati alla produzione di mangimi e, in generale, quei residui di produzione che
possono essere riutilizzati.
Ci soffermeremo, in questa sede, sulla prima pronuncia, la quale desta particolare
interesse per la spinosa questione trattata ovvero quella della qualificazione giuridica
delle terre e delle rocce da scavo e dei criteri utilizzabili per dirimere i relativi dubbi
interpretativi.
L’atteggiamento del legislatore nazionale, come opportunamente evidenziato
dalla Corte di Giustizia, è fortemente contrastante con lo spirito che pervade la normativa
comunitaria e con gli obiettivi che guidano l’attività ermeneutica della giurisprudenza
comunitaria, attenta alle esigenze di tutela ambientale e, quindi, favorevole ad
un’interpretazione ampia della nozione di rifiuto. Il sistema normativo comunitario non
esclude le terre e rocce da scavo a priori ed in via generale
dal novero dei rifiuti,
operando una presunzione che, al contrario, fa figurare queste sostanze come rifiuti, in
ossequio alla tradizione legislativa e giurisprudenziale spiccatamente orientata alla
salvaguardia dell’ambiente, quale valore fondante dell’ordinamento comunitario. A livello
nazionale, al contrario, il regime di presunzioni è costruito in senso inverso, escludendo
dalla categoria dei rifiuti terre e rocce da scavo, nell’errata convinzione che i residui, in
quanto materiali recuperabili, si sottraggono, perciò solo, alla qualificazione giuridica dei
rifiuti e quindi alla disciplina dettata per il trasporto e la gestione20. Per come organizzato,
strutturato ed interpretato, l’impianto normativo nazionale sembra fondarsi su un sistema
di automatiche presunzioni di esclusioni in materia di terre e rocce da scavo, causa di
effetti nocivi e pregiudizievoli per l’ambiente in misura anche irreparabile.
Dal confronto tra normativa comunitaria e normativa nazionale, è agevole
evincere la dissonanza dell’una rispetto all’altra, emergendo, in modo palese, la diversità
di obiettivi che animano i due ordinamenti e i diversi, contrapposti, parametri di
valutazione
adoperati
per
individuare
rifiuti
e
sottoprodotti.
La
Commissione,
conformemente all’articolo 1 della direttiva 75/442/CEE, adotta una decisione che
istituisce un elenco di rifiuti, denominato catalogo europeo dei rifiuti. Tale catalogo, più
volte rinnovato in forza di successive decisioni della Commissione ( la prima modifica si è
avuta con decisione 3 maggio 2000, 200/532/CE ; l’ultima avvenuta con decisione del 21
luglio 2001, 2001/573/CE) contiene una sezione 17 05, intitolata terra, rocce e fanghi di
20
G. Pizzolante, La possibilità di un nuovo uso dei materiali va dimostrata nella singola circostanza, commento
alla sentenza della Corte di Giustizia Europea, 18 dicembre 2007, Causa C-194/05, in Guida al Diritto, 4/2008;
106 e ss.
145
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
dragaggio, nell’ambito della quale figurano le rubriche 17 05 03 terre e rocce contenenti
sostanze pericolose e 17 05 04 terre e rocce diverse da quelle di cui alla voce 17 05 03.
La normativa italiana, in totale dispregio di quella comunitaria, con l’articolo 8 del
d.lgs. 22/1997, esclude dal suo campo di applicazione determinate sostanze e materiali,
in quanto disciplinati da altre specifiche disposizioni di legge. Il punto b dell’articolo indica
i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall’estrazione, dal trattamento, dall’ammasso di
risorse naturali e dallo sfruttamento di cave. All’elenco si aggiungono i materiali introdotti
dall’articolo 10 della legge 93/2001 (f-bis) terre e rocce da scavo destinate all’effettivo
utilizzo per i reinterri, riempimenti, rilevanti e macinati, con esclusione di materiali
provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai
limiti di accettabilità stabilita dalle norme rifiuti. Lo scopo di un ambito operativo sempre
maggiormente ridotto della normativa sui rifiuti si palesa in tutta la sua intensità con
l’articolo 1, comma 17, della legge 443/2001, che offrendo una chiave di lettura
dell’articolo 8, comma 1, lettera f-bis del Decreto Ronchi,
determina un’automatica
fuoriuscita di terre e rocce da scavo dalla categoria dei rifiuti. Secondo quanto disposto
da detta disposizione, l’articolo 8, comma 1, lett. f-bis deve essere interpretato nel senso
che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, perciò,
escluse dall’ambito di applicazione del medesimo decreto legislativo, anche quando
contaminate durante il ciclo produttivo da sostanze inquinanti derivanti dalla attività di
escavazione, perforazione e costruzione, semprechè la composizione media dell’intera
massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti
dalle norme vigenti. Il comma 19 del medesimo articolo stabilisce, inoltre, che per i
materiali di cui al comma 17 si intende per effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti,
rilevati e macinati anche la destinazione a differenti cicli di produzione industriale, ivi
incluso il riempimento delle cave coltivate, nonché la ricollocazione in altro sito, a
qualsiasi titolo autorizzata dall’autorità amministrativa competente, a condizione che
siano rispettati i limiti di cui al comma 18 e la ricollocazione sia effettuata secondo
modalità di rimodellazione ambientale del territorio interessato. Nonostante le modifiche
a queste disposizioni apportate dal Governo italiano, la Commissione, ritenendo ancora
persistente ed insuperabile il contrasto con la
normativa comunitaria, avvia ricorso
contro la Repubblica Italiana, richiamando l’attenzione, innanzitutto, sul catalogo europeo
dei rifiuti al cui interno compaiono le terre e rocce da scavo e sui criteri ermeneutici
elaborati dalla giurisprudenza comunitaria per qualificare una sostanza come rifiuto o
meno. L’elenco dei rifiuti costituisce elemento utile per l’inquadramento giuridico di una
146
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
sostanza ma esso possiede valore puramente indicativo a tal fine, incentrandosi la
questione sul comportamento del detentore e sul termine disfarsi. Uniformandosi
pienamente all’indirizzo giurisprudenziale consolidato, questa Corte fonda la distinzione
tra rifiuto e sottoprodotto sul riutilizzo certo, senza trasformazione preliminare e nel corso
del processo di produzione21 o di utilizzazione, bocciando ogni disposizione normativa
nazionale che, in via generale ed aprioristicamente, in assenza, cioè, di un’analisi
condotta caso per caso, escluda terre e rocce da scavo dal novero dei rifiuti. Si ha
sottoprodotto, secondo le conclusioni cui perviene questa Corte, quando il detentore non
cerca di disfarsi della sostanza ma intende sfruttare o commercializzare a condizioni ad
esso favorevoli, in un processo successivo, sempre che tale riutilizzo sia certo, non
richieda trasformazioni preliminari ed intervenga nel processo di produzione o
utilizzazione. L’elevato grado di probabilità del riutilizzo, senza trasformazione
preliminare,
costituisce
un
significativo
indice
di
valutazione,
secondo
quanto
espressamente chiarito dalla Corte, ed ove il detentore consegua un vantaggio
economico nel farlo, la probabilità del riutilizzo aumenta. La pronuncia in esame è
espressione di quella
tendenza giurisprudenziale volta a garantire un’effettiva tutela
dell’ambiente, sostenitrice di una nozione ampia di rifiuto, che, proprio per tal motivo,
non può ammettere un’esclusione aprioristica di terre e rocce da scavo dal novero dei
rifiuti.
Il legislatore nazionale ha l’obbligo di rispettare la normativa comunitaria, di
adeguarsi ad essa, di recepirla secondo la lettura che ne offre la giurisprudenza
comunitaria; tal dovere avrebbe potuto assolvere con l’emanazione dei decreti correttivi
del Codice dell’ambiente, riformando completamente la disciplina delle terre e rocce da
scavo.
In realtà le aspettative sono state deluse.
Conclusioni
21
Sul punto G. Amendola, L’Italia conferma il suo primo posto nella classifica degli Stati inadempienti verso la
normativa comunitaria sui rifiuti, in Diritto dell’ambiente, www.dirittoambiente.com, che chiarisce i dubbi
originati da alcuni passaggi della sentenza relativamente al processo di produzione, che, per le espressioni
utilizzate, sembrerebbe non per forza riferirsi allo stesso processo di produzione. In realtà, nota l’autore, presto
possono essere dissipati i dubbi se solo si leggono le conclusioni dell’Avvocato generale presso la Corte Europea
di Giustizia proprio riferite alle cause in esame. Si precisa, infatti, che è fondamentale che la sostanza venga
riutilizzata dal detentore nello stesso processo di produzione.
147
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
L’anno 2007 si è chiuso con tre pronunce della Corte di Giustizia che dimostrano
la persistente inosservanza dello Stato Italiano della normativa comunitaria nel settore
ambientale. La questione affrontata dalla Corte nel caso di specie, ovvero quella delle
terre e rocce da scavo, rappresenta nient’ altro che l’ennesima occasione per il legislatore
nazionale per riproporre una nozione restrittiva di rifiuto ed una conseguente dilatazione
di quella di sottoprodotto, mortificando l’impegno per anni profuso dal legislatore
comunitario per affermare una nozione ampia di rifiuto. La contrapposizione tra le due
correnti di pensiero non ha solo il sapore di una disquisizione teorica, non riveste solo
un’importanza dogmatica, rilevando, al contrario, concretamente per gli effetti distorsivi
che possono conseguire dall’accoglimento della teoria restrittiva. Essa mira a comprimere
fortemente l’ambito operativo della disciplina sui rifiuti, sollevando una particolare
categoria di soggetti (operanti nel settore industriale e produttivo) dall’osservanza di
regole e norme poste a presidio dell’ambiente e della salute. Il legislatore nazionale
mostra di strumentalizzare la categoria del sottoprodotto, coniata dalla giurisprudenza
comunitaria per distinguere ciò che rifiuto è da ciò che effettivamente non lo è, per
perseguire le finalità che da sempre, dall’adozione del D.P.R. 915/1982, plasmano i suoi
interventi legislativi. La bocciatura da parte della Corte di Giustizia Europea dell’articolo
14 della l. 8 agosto 2002 n. 178, che fornisce un’interpretazione autentica della nozione
di rifiuto contenuta nel Decreto Ronchi, non costituisce un deterrente per il legislatore
nazionale, il quale continua imperterrito a non allinearsi ai parametri comunitari, come
dimostrato dalla legge-delega 308/2004 e dal d.lgs. 152/2006, c.d. Codice dell’ambiente,
di attuazione della delega.
Immediatamente, il c.d. Codice dell’ambiente balza al centro di feroci polemiche
per
aver
disatteso,
con tutta
evidenza,
le aspettative
di razionalizzazione e
semplificazione della normativa e per non aver mostrato cenni di adesione ai principi
comunitari. Si impone una revisione dello stesso, la quale, però, attuata con ritardo non
colma le lacune del testo, non lo rinnova effettivamente, non lo adegua ai criteri elaborati
in sede comunitaria nello specifico settore dell’ambiente.
Mentre il primo decreto correttivo del Codice dell’ambiente non offre interessanti
spunti di riflessione, non apportando alcuna significativa innovazione, il secondo decreto
correttivo del Codice ambientale lancia un primo segnale di cambiamento relativamente
alle terre e rocce da scavo; non opera, infatti, il nuovo articolo 186 un’esclusione
automatica di esse dal novero dei rifiuti, prescrivendo, a tal fine, l’accertamento di fattori
e condizioni che possano determinare una simile esclusione.
148
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Si auspica che a questo primo tentativo di modernizzazione della disciplina
nazionale in senso più conforme a quella comunitaria, seguano altri necessari mutamenti,
al fine di offrire un quadro normativo efficace e concretamente orientato a garantire
elevati standards di tutela ambientale, come sancito dal Trattato CEE.
149
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
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Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 18 dicembre 1997, causa C129/96;
Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 15 giugno 2000, cause riunite C418/97 e C-419/97, ARCO Chemie Naderland Ltd ed altri;
Corte di Giustizia Europea, 18 aprile 2002, C 9/00;
Corte di Cassazione, 27 ottobre 2004, Sollo;
Corte di Giustizia Europea, 11 novembre 2004, C-457/02, Niselli;
Corte di Cassazione, 14 gennaio 2005, n. 5472, Capone, inedita;
Corte di Cassazione, 10 febbraio 2005, Montanaro;
Corte di Cassazione, 22 marzo 2005, n. 17621, Barone, inedita;
Corte di Cassazione, 5 aprile 2005, n. 16613, Coppetta, inedita;
Corte di Cassazione, 7 aprile 2005, n. 18195, Conoscenti, inedita;
Corte di Cassazione, Sez. III penale, 11 aprile 2007, n. 14557;
Corte di Cassazione, 19 aprile 2005, n.18229, Toriello, inedita;
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14 aprile 2005, Colli e altri;
Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 8 settembre 2005, C 416/02;
Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 8 settembre 2005, C-121/2003;
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 4 novembre 2005, Zuffellato;
151
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Corte di Cassazione, Sez. III penale, ordinanza 14 dicembre 2005, Rubino e
altri;
Corte di Cassazione, 5 aprile 2005, n. 16879, Chiovoloni, inedita,
Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, 21 gennaio
2008, n.2.
152
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
P.JANNI, L’Occidente plurale. Gli Stati Uniti e l’Europa nel XXI secolo. Collana
di Studi Diplomatici a cura del Circolo di Studi Diplomatici, Rubbettino, Soveria
Mannelli, 2008, pp.162, € 12.
di Leonardo Saviano
“L’Occidente esiste ancora, ma è tornato a essere plurale come era stato nel
passato, salvo la parentesi 1941-1989. America ed Europa sono le due parti di uno stesso
Occidente, ma in un rapporto ineguale, nel quale le ambizioni, gli interessi globali e la
supremazia militare degli Stati Uniti contrastano con gli istinti postmoderni degli Europei”.
Questo è l’assunto del volume intitolato L’Occidente plurale. Gli Stati Uniti e
l’Europa nel XXI secolo che Paolo Janni ha pubblicato presso l’editore Rubbettino di
Soveria Mannelli nella Collana di Studi Diplomatici a cura del Circolo di Studi Diplomatici
valendosi per la sua impostazione della propria duplice esperienza di diplomatico di
carriera al servizio della Repubblica Italiana ora di docente alla Catholic University of
America di Washington.
L’autore, nella stesura della sua opera, ricostruisce il cammino percorso dagli
Stati Uniti nell’arco di tempo compreso fra la prima e la seconda guerra mondiale sino
alla successiva crisi della società americana parallela alla differente esperienza vissuta dal
vecchio Continente e illustra la parte avuta dall’America nel favorire con il piano Marshall
il processo d’integrazione europea contemporaneo all’affermarsi della supremazia
americana la quale ha finito con l’assumere caratteri imperiali.
Egli passa in rassegna le novità introdotte dalla conclusione della guerra fredda e
dal
manifestarsi
degli
imprevisti
rischi
non
convenzionali
con
il
conseguente
riorientamento della tradizionale politica estera americana nei confronti degli alleati
europei e di tutto il mondo e delinea la rinnovata scena europea contraddistinta
dall’allargamento e dalla tentata costituzionalizzazione dell’Unione, dalla massiccia
immigrazione e dall’antiamericanismo arrivando a esaminare i mutamenti profondi della
società americana e la diversa valutazione americana ed europea delle nuove minacce e
dei correlati rimedi.
L’esame prosegue con la disamina delle cause del clamoroso affermarsi del
fattore religioso nelle relazioni internazionali grazie alla riscoperta di tale elemento
essenziale all’origine delle rispettive culture così che lo scenario della politica mondiale si
trova a essere dominato dal confronto tra Occidente e resto del mondo e dalla reazione
153
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
delle altre civiltà alle implicazioni culturali e religiose di quella occidentale, una volta
tenuto conto della diversa percezione del fenomeno religioso da una sponda all’altra
dell’Atlantico e della maggiore familiarità americana con il multietnismo e il
multiculturalismo.
Le incognite destinate a modificare l’ordine mondiale e l’equilibrio globale
corrispondono per Paolo Janni all’emergenza dell’Asia e del Pacifico, allo sviluppo russo,
alla
situazione
politica
ed
economica
dell’Africa
subsahariana,
al
non
facile
ammodernamento arabo, alle contraddizioni della globalizzazione e al problema del
buongoverno giungendo fino alla diffusione delle armi nucleari.
L’autore avverte anche del grave pericolo che corre l’Unione Europea di
trasformarsi in una “organizzazione quadro” anziché sforzarsi di mantenersi come un
organismo coeso dal punto di vista economico e politico capace di imporsi con la propria
azione efficace nella politica estera e in quella militare intesa quale estrema risorsa.
Dal suo complesso studio si evince, secondo il diplomatico e studioso italiano, la
necessità della seguente presa d’atto: “Dopo la fine della guerra fredda, due correnti di
pensiero continuano a dominare il dibattito sulla natura e sul contenuto che potrebbero
avere le relazioni euroamericane nel futuro sconosciuto nel quale ci siamo inoltrati. La
prima, proclama l’uguaglianza identitaria dell’Europa e dell’America. L’Occidente, in altre
parole, non ha cessato di esistere. La seconda scuola sottolinea invece le differenze che
separano le due sponde dell’Atlantico”.
Egli nota, in particolare, come Miles Kahlen neghi che l’elaborazione del mito
della solidità dei legami transatlantici fosse dovuta, un tempo, alla necessità di affrontare
le minacce provenienti dall’esterno ai comuni interessi e la imputi alla costante affinità
culturale e ideologica e afferma: “Americani ed Europei sono le due varianti
dell’occidentalismo. L’Occidente deve andare oltre l’Occidente e, nel farlo, deve anche
mettere in questione se stesso. La crisi dell’Occidente nasce dal suo stesso successo. I
valori occidentali hanno le loro radici nella filosofia greca, nell’antichità romana e in
Gerusalemme”.
Noi dovremmo, come ha osservato Garton Ash, porci possibilmente a mezza
strada tra le due posizioni estreme rappresentate dai “trionfanti
fondamentalisti
occidentali” e dai “relativisti culturali occidentali” grazie alla via mediana della libertà che
è idea sfuggente e densa di pericolo ma che sta ben presente nella mente di coloro che si
trovano a esserne privi donde sorge il quesito
se gli Stati Uniti seguiteranno ad
assecondare la loro propensione al ruolo di potenza egemone a costo di non curarsi di
154
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
coloro che risultano privi di essa e se l’Europa seguiterà a illudersi di potere giungere a
confrontarsi con l’America mettendo a repentaglio i suoi buoni propositi di superpotenza
civile.
Per potere misurarsi e trionfare nei confronti delle sfide del nuovo millennio gli
Stati Uniti dovrebbero forse permettere al loro sentimento di eccezionalismo di coesistere
con la consapevolezza che ormai ciò che li unisce al resto del mondo è destinato a
prevalere nettamente su quanto li separa da esso e che se vogliono essere in grado di
garantire la propria libertà devono sentirsi meno eccezionali e pronti a svolgere un ruolo
in una società internazionale da loro stessi inventata, come suggerisce Hirsh Michael.
L’Occidente ancora esiste, oppure siamo passati dalle due Europe e un solo
Occidente di un tempo a un mondo con due Occidenti e una sola Europa? Janni, dopo
essersi
interrogato, così risponde: “Negli ultimi quattrocento anni, salvo la parentesi
veramente unitaria e solidale degli anni 1941-1989, le due società erano andate
sviluppandosi lungo sentieri diversi. Quella americana, virtualmente in contrapposizione
alla società europea e quella europea modellata dalla lunga sequenza di cruente
lacerazioni ideologiche che hanno accompagnato il percorso storico del vecchio
Continente. L’Occidente esiste ancora, ma è tornato ad essere plurale, come era sempre
stato”.
Messe in secondo piano oppure accantonate durante tutta la seconda parte del
‘900 per lasciare spazio sufficiente a una solida alleanza opposta all’Unione Sovietica, le
diversità proprie del vecchio e del nuovo mondo sono riemerse con il dissolversi del
pericolo rappresentato dal comunismo.
Occorre riconoscere che gli Europei e gli Americani non condividono più una
visione comune del mondo né una comune prospettiva strategica giacché i primi,
secondo la nota lettura di Robert Kagan, si sono rifugiati in una dimensione paradisiaca
postmoderna di prosperità pacifica finendo con l’approdare al pianeta di Venere che
ormai li contraddistingue insieme con l’avversione al ricorso alla forza militare salvo la
legittimazione internazionale del suo uso; i secondi, al contrario, sono collocati sul
pianeta Marte dalla loro avversione alla diplomazia e all’ordinamento internazionale e
dalla certezza alimentata dal pensiero di Hobbes che la tutela della libertà è garantita dal
pronto impiego della forza militare.
“Due metà dello stesso Occidente in un rapporto ineguale nel quale alle
ambizioni, agli interessi globali e all’egemonia degli Stati Uniti fanno da contrappunto gli
istinti postmoderni degli Europei” conclude l’autore de L’Occidente plurale che aggiunge:
155
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
“Non siamo in presenza di un Occidente americano, migliore di quello europeo o
viceversa, ma di due metà dello stesso Occidente che guadagnerebbero entrambe col
riunirsi ma che, verosimilmente, continueranno ad andare in direzioni diverse”.
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Innovazione e Diritto – n. 2/2008
Una possibile soluzione per agevolare il passaggio generazionale nelle società
di Antonio Visconti
Sommario: Premessa; § 1) Analisi del caso concreto; § 2) Definizione delle basi
imponibili; § 3.) Applicazione e determinazione dell’imposta; § 4) Possibili profili di
elusività; § Considerazioni conclusive.
Premessa
Data la struttura familiaristica attraverso cui si è,
da sempre, sviluppata
l’iniziativa economica in Italia, emerge con sempre maggiore insistenza la necessità di
individuare delle “procedure” che consentano di facilitare il passaggio generazionale nelle
aziende facendo sì che tale momento incida il meno possibile sulle capacità che l’azienda
ha di continuare a creare ricchezza.
Tale esigenza è divenuta senza dubbio maggiormente avvertita negli ultimi anni,
in ragione dell’unificazione del mercato comunitario e dalla generale maggiore
esposizione alla concorrenza interna e internazionale che le imprese nostrane si trovano
ad affrontare.
Lo studioso tributario che si occupa di problematiche aziendali è, pertanto,
chiamato ad approfondire le tematiche inerenti il passaggio generazionale nelle imprese,
quale fase fondamentale e strategica del ciclo di vita delle stesse.
In particolare, si rappresenta di seguito un esempio tipo di tale momento che,
oltre ad offrire qualche spunto conclusionale di carattere teorico circa la diffusa richiesta
di semplificazione del sistema tributario in riferimento alla determinazione delle basi
imponibili nelle diverse imposte, soprattutto qualora presupposto delle stesse venga a
realizzarsi con riferimento ad una fattispecie unitaria, consente anche di fornire qualche
spunto circa i modi e i tempi di attuazione di tale processo attraverso la minuziosa
ricostruzione della disciplina di riferimento.
157
Innovazione e Diritto – n. 2/2008
§
1) Analisi del caso concreto
Una società a responsabilità limitata esercente attività industriale è posseduta da
tre soci appartenenti allo stesso nucleo familiare. Più precisamente, il genitore possiede la
maggioranza delle quote e i due figli una eguale quota, pari ad una percentuale inferiore
al venti percento (20%) del capitale sociale.
E’ intenzione del genitore quella di avviare il passaggio generazionale in azienda.
A tal procederebbe al trasferimento a favore dei figli delle proprie quote in parti uguali,
cosicché entrambi possederanno il cinquanta percento (50%) della società.
Tale passaggio generazionale si attuerà nei seguenti modi e tempi:
-
I) donazione ai figli della nuda proprietà delle quote in parti uguali;
-
costituzione dei figli, unitamente al genitore, quali co-amministratori della
società a firma congiunta;
e, dopo un periodo di adattamento e valutazione,
-
II) cessione agli stessi dell’usufrutto ancora posseduto sulle quote, a
fronte della costituzione di una rendita vitalizia.
Ciò premesso, si chiede di tracciare i profili fiscali derivanti dalla realizzazione
delle suddette operazioni, sia a carico della società che a carico delle persone fisiche
coinvolte, con particolare riferimento all’imposta di donazione e alle imposte sul reddito.
§
2) Definizione delle basi imponibili
Prima di procedere alla valutazione delle modalità attraverso cui è possibile
attuare il suddetto negozio, si rende opportuno effettuare una rapida ricognizione di
quelli che sono i dettati normativi attualmente vigenti ai fini della individuazione delle
diverse basi imponibili nelle diverse imposte per le quali sono ivi realizzati i presupposti,
ovvero, donazione della nuda proprietà e cessione dell’usufrutto di quote societarie.
In particolare:
-
I) per l’imposta sulle donazioni, ai sensi dell’art. 16, co. 1, lett. b), d.lgs.
346/90, “il valore delle azioni delle società non quotate in borsa e delle quote di società
non azionarie è determinato assumendo il valore proporzionalmente corrispondente al
158
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valore, alla data di apertura della successione (donazione), del patrimonio netto della
società risultante dall'ultimo bilancio, tenendo conto dei mutamenti sopravvenuti…”;
-
II) per l’Irpef, ai sensi dell’art. 68, co. 6, del tuir, la plusvalenza derivante
dalla cessione di quote sociali è costituita dalla differenza tra: “il corrispettivo percepito
ovvero la somma od il valore normale dei beni rimborsati ed il costo od il valore di
acquisto assoggettato a tassazione, aumentato di ogni onere inerente alla loro
produzione (anche quale rinuncia a crediti dei soci per versamenti effettuati a favore della
società), compresa l'imposta di successione e donazione, con esclusione degli interessi
passivi…”
Accanto a ciò, al fine di addivenire alla precisa individuazione delle basi imponibili
utili per la corretta tassazione dei fatti di cui alla fattispecie concreta considerata, si rende
altresì necessario procedere alla distinzione, sulla base della vigente disciplina, dei valori
di usufrutto e di nuda proprietà, relativamente alle quote societarie, nelle due imposte
che qui ci interessano.
In particolare:
I) per quanto concerne la determinazione del valore della nuda proprietà delle
quote sociali ai fini dell’imposta di donazione, occorrere fare riferimento al combinato
disposto di cui agli artt. 14, co. 1, lett. b) e c), 16, co. 2, e 17, co. 1, lett. c), del d.lgs. n.
346 del 1990.
Sicché, una volta determinata secondo i principi precedentemente enucleati la
base imponibile prevista per la donazione delle quote societarie, tale valore è ricalcolato,
quale differenza con quello dell’usufrutto, sulla base dei coefficienti stabiliti dal prospetto
allegato alla tariffa parte IV del d.p.r. 131/86, tenendo conto del tasso di interesse legale
vigente e dell’età del donante.
II) per quanto attiene, invece, la determinazione del valore di riferimento ai fini
della cessione dell’usufrutto delle quote, occorrere, in assenza di una specifica disciplina
recata in seno alle norme sull’imposizione diretta, fare riferimento a quella contenuta
negli artt. 46 e 48 d.p.r. 26 aprile 1986 n. 131. In particolare una volta determinato, nei
modi anzidetti il prezzo della quota per la cessione a titolo oneroso, il valore
dell'usufrutto, è determinato, sulla base dei coefficienti stabiliti dal prospetto allegato alla
tariffa parte IV del d.p.r. 131/86, tenendo conto del tasso di interesse legale vigente e
dell’età del donante.
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§
3) Applicazione e determinazione dell’imposta
I) Passando alla trattazione della determinazione delle imposte dovute, ai sensi
dell’art. 2 del d.l. 262/06, nel caso di donazione di beni (e dunque, verosimilmente, anche
in quello di donazione della nuda proprietà di quote societarie), gli atti effettuati a favore
del coniuge e/o dei parenti in linea retta sono esenti dall’imposta per la parte che non
eccede il valore di 1.000.000,00 di Euro per ciascun beneficiario. Sulle somme eccedenti
tale soglia, ex art. 2, citato, la relativa aliquota è pari al 4%.
Tuttavia, in virtù dei chiarimenti di recente forniti dalla C.M. n. 3/E del 22.1.08, ai
fini del raggiungimento della predetta soglia di esenzione, occorrere tenere in
considerazione il coacervo di tutte le donazioni eventualmente già disposte dal donante, e
, quindi, anche di quelle eventualmente effettuate nel periodo di abrogazione della norma
(2001 – 2006).
Si fa presente altresì che con la legge n. 296/06 (finanziaria 2007), è stato
modificato l’art. 3 del d.lgs. 346/90, introducendo la disposizione secondo la quale sono
completamente esenti dall’imposta sulle donazioni e le successioni (e dunque, anche ai
fini del coacervo e della franchigia innanzi visti), tra gli altri, i trasferimenti: “…di quote
sociali. In caso di quote sociali…, il beneficio spetta limitatamente alle partecipazioni
mediante le quali è acquisito o integrato il controllo ai sensi dell' art. 2195, co. 1, c.c.”. E’
necessario però, che il requisito del controllo sia mantenuto per un periodo di almeno 5
anni.
Tuttavia, nel caso di specie, ai fini della possibilità di includere il suddetto
trasferimento tra le fattispecie esentate, vanno tenuti presente due chiarimenti fornitici
dall’Agenzia delle Entrate.
In particolare, nell’ipotesi di trasferimento di un diritto sulla quota (usufrutto,
nuda proprietà), ai fini della definizione della predetta soglia di “controllo”, la percentuale
di capitale sociale rappresentata dalla partecipazione ceduta va calcolata con riferimento
alla parte di valore nominale delle partecipazioni corrispondente al rapporto tra il valore
dell'usufrutto o della nuda proprietà ed il valore della piena proprietà (Cfr. R.M. n. 104/E
del 29.3.2002).
Inoltre, con la predetta C.M. n. 3/E del 2008, è stato chiarito che nell’ipotesi di
trasferimento di una partecipazione di controllo a più beneficiari, beneficia dell’esenzione
il solo soggetto in capo al quale si realizza nuovamente il controllo della società, qualora
160
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presente. In altri termini, nel caso di frammentazione tra più eredi della quota di
controllo, nessuno di questi può godere dell’esenzione dall’imposta.
Sempre secondo i chiarimenti recati dalla citata C.M. n. 3/E 2008, l’agevolazione
in parola si applica, invece, qualora, ad esempio, il genitore donante decida di trasferire
ai figli, in comproprietà tra loro, la quota di controllo della società. In tal caso, in virtù
dell’articolo 2347 c.c., i diritti dei comproprietari sono esercitati da un rappresentante
comune, il quale disporrà della maggioranza dei voti esercitabili in assemblea ordinaria.
Nel nostro caso, sulla base dei requisiti soggettivi (donazione a favore dei figli) e
di quelli oggettivi (trasferimento distinto a favore del singolo discendente del diritto di
nuda proprietà di una quota pari a circa il 30% del capitale di una società), tenuto conto
dei predetti chiarimenti in materia di coacervo, l’imposta per tale trasferimento sarà
dovuta nella misura del 4% per i valori eccedenti la franchigia di € 1.000.000,00.
Va da se infine che, come chiarito dalla R.M. n. 61 del 16.5.06, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 1, 9 e 67 del tuir, salvo diversa pattuizione, nell’ipotesi di
cessione della nuda proprietà su quote o azioni, il diritto alla percezione dei dividendi
matura in capo all’usufruttuario.
II) Per quanto concerne, invece, la cessione del diritto di usufrutto sulle quote
sociali a fronte della costituzione di una rendita vitalizia a beneficio del cedente, si fa
presente preliminarmente che l’art. 1, co. 91, L. 244/2007 (finanziaria 2008), ha
reintrodotto, per le persone fisiche proprietarie di terreni o di quote di partecipazione al
capitale di società di persone e di capitali, la possibilità di procedere alla rivalutazione del
costo fiscale dei suddetti beni. In virtù di tale norma agevolatoria, dunque, è possibile
procedere alla rideterminazione del costo fiscale delle partecipazione onde vedere
neutralizzate le eventuali plusvalenze derivanti dalla cessione di queste.
In particolare, per quanto concerne le quote di partecipazione in società, è stato
previsto che possono essere rivalutate, sulla base di un perizia di stima redatta da un
tecnico (dottore commercialista, ragioniere, revisore dei conti, etc) entro il 30 giugno
2008, quelle possedute alla data dell’1° gennaio 08.
A tal riguardo, l’imposta sostitutiva dovuta per la rivalutazione è pari
rispettivamente, al 4% del maggior valore rivalutato, per quanto concerne le
partecipazioni cd. qualificate (superiori al 25% del capitale sociale o al 20% dei diritti di
voto esercitabili in assemblea - ex art. 67 del Tuir) o al 2%, per quanto concerne le
partecipazioni cd. non qualificate (inferiori al 25% del capitale sociale o al 20% dei diritti
di voto esercitabili in assemblea - ex art. 67 del Tuir).
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Si premette altresì che, ai sensi dell’art. 50, co. 1, lett. h) del tuir, è indubbio che
le rendite vitalizie debbano essere tassata in capo al percettore come reddito assimilato a
quello di lavoro dipendente.
Fatte queste doverose premesse, si chiarisce, di seguito, che per la fattispecie
concreta oggetto di indagine, probabilmente, nessun rilievo assumono le problematiche in
ordine alla tassazione della plusvalenza derivante dalla cessione, e quindi, non si
realizzerebbe nessuna esigenza di ricorrere alla preventiva rivalutazione dei suddetti beni.
Procediamo rappresentando rapidamente le motivazioni di tale affermazioni e le
differenti posizioni in tal senso esistenti, onde pervenire ad una corretta qualificazione del
negozio in esame.
Sulla tassazione della plusvalenza in ipotesi di cessione di beni, e dunque anche
quote societarie (la dottrina e la giurisprudenza consultate fanno riferimento all’ipotesi di
cessione d’azienda), a titolo oneroso mediante costituzione di una rendita vitalizia a
favore del cedente, restano aperte due possibili soluzioni dettate dagli orientamenti
opposti che nel corso degli anni si sono formati, in particolare:
-
quella dell’amministrazione finanziaria che sostiene la rilevanza fiscale sia
della plusvalenza maturata rispetto al valore della rendita vitalizia (calcolata applicando le
regole della matematica attuariale), che della percezione della rendita vitalizia,
considerata, come visto, reddito assimilato a quello di lavoro dipendente. Con ciò
ponendosi in netto contrasto col principio di divieto della doppia imposizione (vedi D.R.
Entrate per il Lazio, nota n. 13212 del 6-7-1996; Nota Min. Fin. Dip. Ent. Dir. Reg. Entrate
Campania, 29 luglio 1997, n. 5792, ivi n. 43/1997, pag. 3185. )
-
la Giurisprudenza si è invece uniformata nell'escludere la tassabilità della
plusvalenza in quanto indeterminabile nell'entità, limitando la rilevanza fiscale alla sola
percezione della rendita vitalizia (C.T.C., n. 1206 del 15-2-1990; CTR, Emilia Romagna,
14 aprile 2005, n. 63; ).
Chi scrive, per una serie di ragioni di seguito prospettate è orientato circa la
preminenza della validità della soluzione giurisprudenziale rispetto a quella ministeriale.
In particolare, a sostegno di tale valutazione, si riportano le seguenti
considerazioni:
-
è principio generale dell’ordinamento tributario quello di assumere quale
materia imponibile le sole plusvalenze realizzate e non quelle iscritte o ipotetiche – ex art.
86 del Tuir;
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-
le persone fisiche sono tassate sulla base dei redditi incassati (principio di
cassa) e non su redditi solo maturati.
Con l’accoglimento di tale soluzione, in luogo della tassazione diretta della
plusvalenza maturata, saranno tassati periodicamente, al momento dell’incasso, i singoli
emolumenti così come pattuiti.
Tale soluzione consente il differimento dell’imposizione per tutto il tempo di
durata della rendita. Imposizione che, altrimenti, sarebbe dovuta per intero al momento
della realizzazione del contratto, anche nell’ipotesi di pagamento frazionato (a rate) del
corrispettivo (principio di competenza).
Ciò detto, dunque, dalla realizzazione del suddetto negozio, ai fini impositivi non
deriverà alcun effetto in capo al cedente in ordine alla rilevanza della plusvalenza sulle
quote sociali trasferite (o sul diritto di usufrutto su queste), assumeranno rilievo soltanto,
quindi, i canoni periodici della rendita così come pattuiti.
Il cessionario, dal canto suo, assumerà l’usufrutto sulle quote, sulla base del
prezzo di trasferimento, così come definito nel relativo atto.
Tale valore andrà a consolidarsi con quello della nuda proprietà sulle medesime
quote, innanzi individuato ai fini dell’imposta di donazione
Dal coacervo dei due valori otterremo il prezzo fiscale delle quote possedute dei
discendenti, destinatari del controllo della società.
§
4) Possibili profili di elusività
Restano, infine, da chiarire alcuni profili relativi all’imposizione indiretta collegati
alla cessione dell’usufrutto sulle quote.
Ai sensi dell’art. 11, della tariffa parte IV allegata al d.p.r. 131/86, la stipula di
atti aventi ad oggetto la cessione di quote di partecipazione in società sconta l’imposta di
registro nella misura fissa di € 168,00.
Ciò detto, si fa presente quanto disposto dall’art. 26, d.p.r. 131/86, ovvero che: “i
trasferimenti di partecipazioni sociali, quando il valore della partecipazione o la differenza
tra valore e prezzo siano superiori all'importo di 350 milioni di lire, posti in essere tra
coniugi ovvero tra parenti in linea retta…. si presumono donazioni se l' ammontare
complessivo dell' imposta di registro e di ogni altra imposta dovuta per il
trasferimento,…… risulta inferiore a quello delle imposte applicabili in caso di
trasferimento a titolo gratuito
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Le parti contraenti devono dichiarare contestualmente se fra loro sussista o meno
un rapporto di coniugio o di parentela in linea retta…... In mancanza di tale dichiarazione
il trasferimento si considera a titolo gratuito ove al momento della registrazione non
risulti comprovata l' inesistenza del rapporto; tuttavia l' inesistenza del rapporto di
coniugio o di parentela in linea retta può essere provata entro un anno dalla stipulazione
dell' atto e in tale caso spetta il rimborso della maggiore imposta pagata.”.
Pertanto, occorrerà considerare tale disposizione, in combinato con quelle sopra
rappresentate relative alle franchigie, al coacervo e all’esenzione sulle partecipazioni di
controllo, onde prevenire possibili recuperi da parte dell’ufficio.
§
Considerazioni conclusive
Dalla breve disamina del caso innanzi riportato, abbiamo l’ennesima conferma di
come il settore della legislazione tributaria sia tra i più complessi e frastagliati dell’intero
ordinamento.
In particolare, dalle pagine che precedono, emerge in maniera evidente lo sforzo
ricostruttivo a cui l’operatore tributario è chiamato ad adempiere oltre che con riferimento
alla continua evoluzione normativa anche, e soprattutto, per quanto concerne la corretta
determinazione della grandezza dei fatti impositivi rilevanti nelle diverse imposte.
Sulla base di quanto testé analizzato si ha l’ulteriore conferma che, per la corretta
tassazione delle varie fasi di un negozio unitario, ancorché complesso, qualora si
realizzino fattispecie rilevanti alla realizzazione dei presupposti di diverse imposte,
l’operatore è chiamato a rideterminare, nei diversi settori (IiDd e imposte di successione
e donazione nel caso di specie), la medesima grandezza economica espressione della
capacità contributiva di riferimento. Con ciò, dunque, palesemente derogando al principio
generale che dovrebbe imporre l’oggettiva unitarietà e interdipendenza della base
imponibile dei vari tributi, quale strumento per garantire la semplificazione e il buon
funzionamento dell’intero sistema tributario.
In verità, non poche sono le occasioni in sede legislativa in cui tale principio è
stato ribadito e, poi, di buon grado accolto dalla giurisprudenza e dalla amministrazione
finanziaria.
Procediamo, di seguito, ad operare una disamina allargata, ancorché sicuramente
non esaustiva, di quelli che sono i diversi provvedimenti in tal senso recati.
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Ad esempio, l’art. 10 della Legge delega n. 825 del 9 ottobre 1971, in materia di
riordino del sistema fiscale, sancisce l’obbligo del: “..coordinamento tra la dichiarazione
tributaria annuale e le speciali dichiarazioni prescritte ai fini di singoli tributi e
l'adeguamento della disciplina formale dell'accertamento al principio di oggettiva
unitarietà e interdipendenza della base imponibile dei vari tributi, anche ai fini della
semplificazione e della concordanza degli accertamenti”.
Ed in effetti, in accoglimento di tale indirizzo, dalla lettura degli artt. 33, del d.p.r.
600/73 e 52 del d.p.r. 633/72, in materia di procedure di accertamento dei redditi e
dell’IVA, è possibile notare coma la disciplina nelle due imposte sia pressoché identica,
onde consentire, in sede di verifica, la determinazione dei medesimi valori.
Ancora, l’art. 6 del d.p.r. n. 643/72, dispone che quale base imponibile su cui
determinare l’Invim in capo al cessionario di un immobile, venga assunta quella relativa
all’imposta di registro così come individuata (o rettificata) da parte del cedente.
Ai medesimi principi si è poi orientata la Cassazione nell’affermare che nell’ipotesi
di cessione di Azienda non vi può essere discordanza tra la base imponibile determinata
in capo al cessionario ai fini dell’imposta di registro e quella rilevante per il cedente ai fini
della tassazione della plusvalenza.
Infine, anche le recenti modifiche in materia di determinazione del “valore
normale” per i trasferimenti dei beni immobili ai fini delle imposte dirette, ex art. 39,
d.p.r. 600/73 e delle indirette, ex artt. 54, co. 3, d.p.r. 633/73 e 52, d.p.r. 131/86,
contribuiscono a rinforzare tale esigenza di uniformità
Dalle brevi considerazioni innanzi riportate, assistiamo a come il Legislatore in
talune circostanze abbia attuato il predetto principio di semplificazione. Tuttavia, è facile
constatare, e il nostro caso ne rappresenta una testimonianza, come la concreta
attuazione di tale principio sia l’eccezione piuttosto che la regola.
Preso atto di ciò, e consci della quasi necessitata articolatezza del sistema
legislativo tributario in virtù dell’esigenza di considerare, e al tempo stesso prevenire,
tutte le possibili implicazioni delle fattispecie a cui le norme si riferiscono, non possiamo
non auspicarci per il futuro interventi legislativi più sistematici di semplificazione e
coordinamento, tesi ad una maggiore uniformazione delle basi imponibili previste nei
diversi settori impositivi, o, quantomeno, per quei casi in cui i differenti presupposti
vengono a realizzarsi in relazione ad un unico negozio o ad un insieme di negozi correlati.
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