Prof. Raffaele Perrone Capano (direttore) COMITATO SCIENTIFICO Prof. Prof. Prof. Prof. Prof. Prof. Prof. Prof. Prof. Prof. Prof. Prof. Prof. Andrea Amatucci Carlo Amatucci Carlo Amirante Elisabetta De Franciscis (coord. area Diritto pubblico comparato) Luciana Di Renzo (coord. Finanza interna e comunitaria) Stefano Fiorentino (coord. area Diritto tributario) Massimo Marrelli Carlo Panico (coord. area Economia) Marilena Rispoli (coord. area banche e mercati finanziari) Luigi Sico (coord. area Diritto internazionale e comunitario) Sandro Staiano Mario Tedeschi Talitha Vassalli REDAZIONE Roberta Alfano (coordinamento rivista) Domenico Ardolino Gino Buonauro Debora Cioffi Elena Cuomo Anna Maria Di Lieto Giordano Di Meglio Gabriella Duranti Olimpia Esposito De Falco Chiara Fontana Laura Letizia Serena Maresca Maria Pia Nastri Raffaele Sabato Leonardo Saviano Giuseppina Simioli Dea Squillante Loredana Strianese (coordinamento newsletter) EDITING e GRAFICA Vittorio Mostacciuolo Sebastiano Romitelli INNOVAZIONE E DIRITTO – rivista on line http://www.innovazionediritto.unina.it Registrazione Tribunale di Napoli n. 45 del 22 giugno 2005 ISSN 1825-9871 DIRETTORE RESPONSABILE Avv. Maurizio Migiarra UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA Innovazione e Diritto Innovazione e Diritto è una rivista open. La rivista è consultabile e scaricabile liberamente attraverso le pagine del suo sito web all’indirizzo http://www.innovazionediritto.unina.it La rivista e tutti i suoi contenuti possono essere riprodotti liberamente a condizione che se ne citi sempre la fonte, riportando il web address. Per contattare la redazione utilizzare il seguente indirizzo email: [email protected] La rivista è edita dal laboratorio LARIGMA presso il Dipartimento Internazionalistiche e Studi sul Sistema Politico ed Istituzionale Europeo di Scienze Numero finito di stampare il 23 aprile 2008 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 INDICE I l falso m i to del contrasto all'evasione come obiettivo di politica tributaria, tra vincoli strutturali dell’ordinamento, riflessi economici delle imposte ed affievolimento dei principi giuridici di Raffaele Perrone Capano...................................................................................... 1 Los derechos fundamentales de los extranjeros a la luz de la jurisprudencia del Tribunal Constitucional di Nicolás Pérez Sola .............................................................................................45 La sussidiarietà a livello orizzontale nell’esperienza italiana di decentramento fiscale di Chiara Fontana .................................................................................................76 Il processo civile telematico di Wanda D’Avanzo...............................................................................................98 Fiscalità e finanza pubblica a confronto nei programmi elettorali: in particolare l’attuazione del federalismo fiscale e la misura del quoziente familiare di Maria Debora Cioffi..........................................................................................112 GIURISPRUDENZA - CASI PRATICI - DOCUMENTAZIONE L’Italia ancora nel mirino della Corte di Giustizia Europea: la distinzione tra rifiuto e sottoprodotto si fonda sul riutilizzo «certo, senza trasformazione preliminare e nello stesso processo di produzione» (Nota alla sentenza della Corte di Giustizia Europea, Sez. III, 18 dicembre 2007, Causa C-194/05) di Filomena Daniela Piccolo..................................................................................131 P.JANNI, L’Occidente plurale. Gli Stati Uniti e l’Europa nel XXI secolo di Leonardo Saviano............................................................................................153 Una possibile soluzione per agevolare il passaggio generazionale nelle società di Antonio Visconti ..............................................................................................157 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 I l falso m i t o del contrasto all'evasione come obiettivo di politica tributaria, tra vincoli strutturali dell’ordinamento, riflessi economici delle imposte ed affievolimento dei principi giuridici di Raffaele Perrone Capano Sommario: 1) Le politiche di contrasto all’evasione come alibi per aumentare la pressione tributaria. 2) L’anomalia fiscale italiana e gli effetti della riforma degli studi di settore. 3) Alcuni caratteri distintivi dell’evasione italiana, loro riflessi sul ciclo economico, e limiti delle analisi previsionali; in particolare la riforma dell’IRE/IRPEF del 2007. 4) Il ruolo dei sostituti d’imposta per contenere l’evasione nelle imprese minori: funzione e limiti della cosiddetta tracciabilità. 5) Ricerca di un equilibrio tra contenimento dell’evasione e rilancio della competitività del sistema tributario: in particolare il regime delle imprese minori e quello dei redditi familiari. 1) Le politiche di contrasto all’evasione come alibi per aumentare la pressione tributaria Il tema della lotta all'evasione fiscale riemerge in Italia periodicamente, come un fiume carsico, nel dibattito di politica tributaria, in genere quale elemento di coesione sociale e di accompagnamento diversivo di interventi sul sistema fiscale finalizzati ad aumentarne il gettito; ottenuto il risultato, il tema ritorna tra quelli di cui non è opportuno occuparsi, risucchiato in un impenetrabile cono d'ombra. Probabilmente questa è una delle ragioni della scarsa attenzione dedicata al tema dai giuristi, che, per altro, in prevalenza sembrano più attenti ai profili interpretativi delle singole disposizioni tributarie, con particolare riferimento al contenzioso, che interessati ai problemi di struttura del sistema tributario; l’analisi giuridica dei tributi appare infatti orientata in prevalenza ad approfondirne i meccanismi di funzionamento piuttosto che ad omologare i rapporti tra le diverse manifestazioni di capacità economica e la individuazione degli strumenti normativi idonei a regolarne i profili tributari. Naturalmente non mancano eccezioni autorevoli, per tutte i puntuali e stimolanti interventi di Enrico De Mita sul "Il Sole 24 ORE", il cui carattere di attualità non fa premio sull'approfondimento ed il rigore metodologico. 1 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Una disattenzione probabilmente motivata dal fatto che il sistema vigente si è un po' assestato, lungo l'arco di un ventennio, in un quadro di pressione fiscale moderata, che ne ha mascherato gli aspetti distributivi insoddisfacenti, le inefficienze sotto il profilo economico e le carenze normative e sistematiche; nodi strutturali che sono inevitabilmente venuti al pettine con la svolta della seconda metà degli anni novanta, caratterizzata da condizioni di stress fiscale, che hanno caratterizzato un processo riformatore non privo di elementi innovativi condivisi. Criticità di bilancio che ha contribuito ad accentuare le divaricazioni tra i principi anche di rilievo costituzionale caratterizzanti l’ordinamento tributario e la sua gestione quotidiana. Sotto questo profilo quindi l’approccio al tema dell’evasione offerto dal Governo Prodi cosituisce una novità di qualche rilievo, perché ha rappresentato un elemento di continuità dell’azione di governo che non può essere ignorata. L’analisi della produzione normativa in campo tributario della più breve legislatura della storia repubblicana può rappresentare per il giurista l'occasione di una svolta, innanzitutto metodologica, sia perché il tema della lotta all'evasione sembra essere stato se non l'unico, certo il più caratterizzante ed insistito, elemento distintivo della politica tributaria del governo Prodi, sia perché l'elusione dei principi, che ne ha caratterizzato tanto gli aspetti contenutistici, quanto quelli applicativi, è stata per alcuni aspetti così insistita, da imporsi all'attenzione degli osservatori, per le ricadute che essa è destinata a determinare sulla società italiana, ben oltre i confini tributari. Il problema, si badi bene, è, prima ancora che politico, culturale e deriva dall'idea, richiamata più volte in varie interviste dal Ministro dell'Economia PadoaSchioppa, secondo cui, a parte la spesa per vitto, abbigliamento ed alloggio, in tutti gli altri settori le scelte del decisore pubblico sarebbero da preferirsi a quelle dei singoli. Pensiero debole, cui si contrappone talvolta la tesi che le imposte non rappresentino un dovere civico oneroso ma necessario, ed un elemento insostituibile di coesione sociale, ma solo uno strumento di inefficienza, vessazione e spreco, che legittimerebbe forme di protesta e resistenza anche estreme. Tesi quest'ultima non solo indifendibile in via di principio, ma assai poco aderente alla realtà italiana: in un sistema tributario caratterizzato da una diffusa autoriduzione dei tributi, che differenzia tipologicamente l'evasione italiana rispetto ai principali paesi industrializzati, forme di protesta eclatanti contro gli eccessi della fiscalità, appaiono poco realistiche, quando non velleitarie. D'altra parte, l'analisi del tema dell'evasione fiscale e dei possibili strumenti di 2 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 contrasto non può prescindere da questi limiti culturali, che hanno accompagnato nel tempo lo sviluppo ed il consolidamento di un ordinamento tributario poco attento ai principi e caratterizzato da forti venature corporative; ordinamento funzionale ad un sistema economico caratterizzato da scarsa mobilità sociale, ed assistenzialismo, da rigidità diffuse e da vincoli pressoché in ogni settore produttivo ed in cui la concertazione ha rappresentato, attraverso le protezioni assicurate agli interessi più forti, ed i condizionamenti imposti dai poteri auto organizzati, l'adattamento in chiave contemporanea del modello protezionistico, sviluppatosi nel contesto istituzionale autoritario ed autarchico degli anni '30. Un complesso di equilibri entrato in crisi con le strette fiscali degli anni '90 che contrasta con le esigenze di competitività anche di ordine fiscale, imposte dal processo di mondializzazione dell'economia. È questo il quadro di riferimento entro cui va collocato ed analizzato il tema dell'evasione fiscale, in correlazione con un sistema di controlli poco efficace, anche per le caratteristiche strutturali delle principali imposte; in presenza di un ordinamento tributario, caratterizzato dalla sovrapposizione di interventi, spesso disorganici, disattento ai valori della persona, e della famiglia, che discrimina i redditi e le posizioni soggettive dei contribuenti in base a criteri spesso erratici e privi il più delle volte di elementi di ragionevolezza nel quale emergono le disparità di trattamento, diffuse praticamente in ogni tributo, spesso introdotte per correggere altre distorsioni, ovvero finalizzate a farne lievitare il gettito. All'interno di questo orizzonte ed in un arco temporale di pochi mesi, la grandine di provvedimenti non solo legislativi, abbattutasi sui contribuenti e sull'Amministrazione Finanziaria, che non ha risparmiato praticamente nessun ramo dell'ordinamento tributario, avrebbe dovuto determinare, almeno nelle intenzioni del Governo Prodi, un salutare shock nei contribuenti, e diffondere di conseguenza una maggiore fedeltà fiscale; premessa, sempre secondo il Governo, per una graduale riduzione della pressione fiscale. Ora, nonostante il supporto dei principali quotidiani, capofila "Il Sole 24 ore", che hanno sostenuto nei primi mesi in modo generalmente acritico la politica fiscale del viceministro Visco, i primi risultati non solo in tema di recupero dell'evasione, appaiono contraddittori e complessivamente deludenti, in un quadro di ulteriore incremento della pressione fiscale, dissimulato come recupero di evasione. Intendiamoci, alcune misure di contrasto all'evasione nell'IVA, si pensi al reverse charge nei subappalti nel settore dell'edilizia e al nuovo regime dei trasferimenti immobiliari, attratti in larga maggioranza, all'imposta di registro, hanno chiuso alcune falle e 3 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 ridotto per conseguenza, in quei settori, elusione ed evasione. Ma l'assenza di qualsiasi analisi approfondita sulle cause ordinamentali dell'evasione, sulla sua distribuzione, limitata il più delle volte ad affermazioni generiche o di tipo moralistico e sui suoi collegamenti con l’economia, regolare e non, e le modalità non di rado propagandistiche con cui sono state accompagnate una serie di misure in qualche caso inutilmente onerose e vessatorie a carico dei lavoratori autonomi e delle imprese minori, hanno determinato reazioni ed effetti opposti rispetto a quelli attesi. Anche perché, come vedremo, la diffusione dei comportamenti che determinano l'autoriduzione delle imposte da parte dei contribuenti è tale da non consentire al fisco di rinunciare agli strumenti premiali deflativi del contenzioso, quali l'accertamento con adesione, che abbattendo le sanzioni ne riduce parallelamente la deterrenza. Con la conseguenza che, se si pone attenzione esclusivamente ai controlli e non si interviene contemporaneamente sulla normazione abbassando decisamente la soglia della convenienza ad evadere le imposte sul reddito, con interventi strutturali, sulla progressività marginale, sulle deduzioni e sul regime dei redditi familiari, e la riforma dell'IRE-IRPEF del 2007 è andata in direzione opposta, i risultati in termini di contrasto all'evasione appaiono destinati a rimanere limitati quando non effimeri. Del resto proprio la recente esperienza delle riduzioni fiscali introdotte con la Finanziaria 2005, i cui effetti positivi sul gettito erano stati sottostimati anche da chi le aveva adottate, avrebbe dovuto indurre il Governo Prodi a maggiore misura ed equilibrio, nella scelta anche temporale degli interventi; senza perdere di vista che il primo destinatario delle novità fiscali è l'Amministrazione Finanziaria, la cui azione di contrasto all'evasione per essere efficace richiede stabilità normativa e tempi ragionevoli. L'aspetto sorprendente della questione è che anche il responsabile delle Finanze del Governo Prodi, on. Visco, sembrava convinto che il problema dell’evasione in Italia fosse rappresentato dal carattere anomalo dell'evasione italiana e dalla necessità quindi di riportare anche in Italia l'evasione entro gli standard dei principali Paesi europei. Tuttavia le misure adottate, quali la moltiplicazione degli oneri documentali ed amministrativi, l'inasprimento delle sanzioni e l'aumento dei controlli, se si prescinde dall'abuso della retroattività, comunque ingiustificabile e come vedremo in seguito in qualche circostanza causa di effetti indesiderabili dal punto di vista economico, sottostimati del Governo, rappresentano strumenti ‘normali’, certo non inutili, ma sicuramente non decisivi, per ricondurre l'evasione italiana entro limiti di normalità. 4 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Al contrario gli interventi sulle principali imposte, motivati con la necessità di contrastare l’evasione, appaiono piuttosto finalizzati a recuperare gettito; le misure adottate non soltanto ignorano il problema della evasione strutturale, ma tendono talvolta ad alimentarla ulteriormente. Si pensi alla riforma dell’IRE/IRPEF del 2007, che ha sostituito le deduzioni con le detrazioni, soluzione solo apparentemente neutrale, ha dimezzato il primo scaglione e ha rivisto al rialzo le aliquote intermedie; mentre infatti il carattere decrescente delle deduzioni non influisce sulla progressività marginale, le detrazioni decrescenti introducono una ulteriore aliquota implicita che si somma a quella nominale, pari alla percentuale di decrescenza delle detrazioni al crescere dell’imponibile. Una riforma che nel 2007 ha determinato da sola un incremento del gettito di oltre 3 punti percentuali nelle ritenute sui redditi da lavoro dipendente del settore privato, compreso l’aumento delle addizionali locali e al netto degli elementi (aumento della retribuzione e del numero degli occupati) che hanno ampliato gli imponibili. Questo dato deve fare riflettere, perché il settore del lavoro dipendente privato è stato poco influenzato nel 2007 da aumenti straordinari delle retribuzioni, quali i rinnovi contrattuali; mentre non vi è alcuna evidenza empirica di una riduzione della propensione a corrispondere quote di salario al nero da parte delle realtà minori. Nel 2007 quindi l’aumento del prelievo a carico dei redditi da lavoro (dipendente ed autonomo) è stato non solo molto più elevato di quanto indicato in Finanziaria (5,4% al lordo delle addizionali locali - +7,2% complessivo) ma anche superiore alle stime della banca d’Italia (+2,7%). Una parte d’aumento del gettito è quindi espressione diretta della nuova struttura dell’IRE/IRPEF, e conferma ampliandole le stime da noi formulate nel dicembre 2007. L’effetto combinato dell’aumento degli imponibili, legato agli interventi correttivi sugli studi di settore e dalle aliquote dell’IRE/IRPEF è particolarmente evidente nel settore dei redditi di lavoro autonomo e di impresa; qui le ritenute a titolo di acconto crescono del 6,6% mentre il totale dell’IRE/IRPEF in autoliquidazione cresce nel 2007 del 14%. Un risultato questo che evidenzia, ben più del contraso all’evasione, l’intento di perseguire una redistribuzione tra le diverse categorie di percettori di redditi del carico dell’IRPEF, motivata con il contrasto all’evasione. Anche il regime forfetario, introdotto anch’esso con la Finanziaria 2007, in alternativa agli studi di settore, per i contribuenti minimi, una misura apprezzabile specie per i riflessi sull’evasione nell’IVA, è stato messo in piedi con una tale improvvisazione, da renderlo da un lato poco attraente (l’aliquota omnicomprensiva del 20%, accompagnata 5 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 dall’indeducibilità dell’IVA appare vantaggiosa solo per quei contribuenti che si collocano in prossimità della soglia dei 30.000 euro, ovvero svolgono un’attività caratterizzata da molto “nero”), dall’altro, in particolari ipotesi, eccessivamente privilegiato; in ogni caso la determinazione dei ricavi è caratterizzata dall’assenza di riscontri, per cui è di fatto rimessa al buon volere dei contribuenti. Un risultato questo contraddittorio dal punto di vista del contrasto all’evasione e quanto meno dubbio dal punto di vista della semplificazione che, per essere legittima, richiede proporzionalità tra strumenti derogatori e risultati. 2) L’anomalia fiscale italiana e gli effetti della riforma degli studi di settore Se si analizza il rapporto tra le diverse tipologie di contribuenti e le principali imposte, appare evidente che l'anomalia fiscale italiana sia indotta da un numero di lavoratori autonomi, di imprese individuali o familiari o minori multiplo rispetto a Paesi con livello di sviluppo comparabile al nostro ed i cui redditi vengono determinati dagli stessi contibuenti in base a dichiarazione, senza alcuna intermediazione o confronto preventivo con l’Amministrazione finanziaria. Questi soggetti sono sottoposti mediamente ad un livello più elevato di imposizione rispetto a quello dei redditi di pari importo da lavoro dipendente, con la motivazione sottintesa che dispongono di una maggiore possibilità di occultarne una parte. Quindi per difendersi in qualche misura da quelli che considerano gli eccessi dell'imposizione sul reddito, personale e d'impresa, attuano una programmazione fiscale, compatibile con gli studi di settore, basata sul contenimento del volume d'affari, bilanciato dalla rinuncia a dedurre una parte dei costi, con effetti di trascinamento, sia sull’IVA sia sull’IRAP. La vera anomalia quindi è rappresentata da una struttura ordinamentale delle imposte e degli studi di settore, che favorisce questo tipo di comportamenti, ed anzi li istituzionalizza, senza porsi il problema degli effetti distributivi perversi in termini di gettito tra le principali imposte di un sistema tributario, in cui il prelievo non tiene conto delle interdipendenze tra tributi a carico del medesimo contribuente. In particolare, la convinzione diffusa che nei rapporti economici con soggetti minori, l'IVA sia un'imposta semiopzionale, da assolvere solo se è possibile scaricarla a valle, evidenzia il carattere irrealistico di politiche di contrasto dell'evasione che non incidano sulle cause strutturali, ma vanno in senso opposto, aumentando la convenienza ad evadere, e si affidano 6 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 esclusivamente all'aumento degli adempimenti amministrativi e dei controlli. D’altra parte, anche l’analisi economica del fenomeno evasione, se si limita a definirne i confini e ad evidenziarne le motivazioni economiche ma non è affiancata da uno studio delle conseguenze ordinamentali dell’evasione che consenta di intervenire sui tributi con modifiche normative che incidano positivamente sulla convenienza ad evadere, non è in grado di assicurare risultati eclatanti e soprattutto stabili nel tempo, nonostante l’aumento dei controlli. Anche perché questi comportamenti diffusi, se da un lato sottraggono una parte del reddito effettivo a tassazione, dall'altro sottopongono i contribuenti a una pressione fiscale molto superiore alla media europea. Sotto questo profilo la tesi che il recupero di evasione avrebbe effetti neutrali nei confronti dei contribuenti onesti, sostenuta dal Ministro Padoa Schioppa nella RUEF del marzo 2008, appare semplicistica. Questa opinione avrebbe un fondamento se l’evasione “anomala” occultasse risorse successivamente disponibili, attraverso le politiche di contrasto all'evasione. La realtà è invece che l’evasione anomala e l’economia irregolare operano redistribuzioni al loro interno, la cui correzione comporta effetti sensibili anche per l’economia regolare. Comunque, l'effetto indotto più grave di questa anomalia italiana, prodotto sia dalle caratteristiche strutturali delle imposte sul reddito (progressività marginale elevata, deducibilità parziali poco efficaci, scarsa attenzione alle condizioni personali e familiari, disparità di trattamento nella tassazione del reddito di impresa a carico delle realtà minori) sia dal carattere duale dell'economia italiana, caratterizzata da polverizzazione del sistema di imprese e dalla diffusione di vaste aree di economia irregolare, è che tale anomalia consente all'evasione "regolare" di prosperare quasi indisturbata. A queste caratteristiche strutturali delle imposte sul reddito, che sembrano ignorare le realtà economiche, chiamate ad assolvere il tributo, si affianca l’IRAP, un’imposta a larga base imponibile, particolarmente onerosa per il lavoro autonomo, almeno fino all’introduzione nel 2005 di una no-tax area pari a 7.500 euro per le imprese minori (fino a 5 dipendenti). La stretta fiscale, conseguente ai decreti Bersani - Visco e alla finanziaria 2007, proprio per la filosofia che l’aveva ispirata, che evidenzia, dietro lo schermo della lotta all’evasione, quella di fare cassa ad ogni costo, e di colpire nel mucchio con inasprimenti generalizzati, ha dimostrato, come era facilmente prevedibile, tutti i suoi limiti, puntualmente riflessi nell'andamento delle entrate tributarie nel 2007; la cui crescita, al netto delle una tantum è stata del 6,8% ; ben superiore quindi alle previsioni formulate 7 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 dal Governo con la Legge finanziaria 2007. Questo dato non deve trarre in inganno: l'incremento del gettito infatti, a parte l'imposta di registro che cresce per la sottrazione della maggior parte dei trasferimenti immobiliari al previgente regime IVA, si concentra essenzialmente sull’IVA trascinata dalla ripresa del 2006/07 e sulle imposte sul reddito, la cui distribuzione evidenzia, ben più che un contenimento dell'evasione, i forti inasprimenti introdotti dalla finanziaria 2007 con la riforma delle aliquote e delle detrazioni, a carico della larga maggioranza dei contribuenti, specie con carichi familiari. All’aumento del gettito contribuisce anche, come è ovvio, la revisione retroattiva degli studi di settore, che ha comportato nel 2007 un incremento dell’autoliquidazione del 18,5%. Ma si tratta appunto di un dato fortemente condizionato da un comportamento del legislatore che definire anomalo appare un eufemismo. L’applicazione del nuovo regime degli studi, modificato per interventi successivi sino alla primavera 2007, ne ha ritoccato profondamente la funzione, avvicinandola a quella di un catasto anomalo. L’applicazione poi dei nuovi indici a redditi già prodotti (quelli del 2006), ha trasformato l’aumento del prelievo in una sorta di quota capitaria, come del resto è stato sottolineato, con qualche spregiudicatezza, dall’ex Direttore dell’Agenzia delle Entrate, Romano. Una scelta questa esclusivamente politica, supportata da motivazioni economiche fragili e comunque discutibili , che si è inserita nel contesto normativo non solo senza un minimo di visione sistematica, ma stravolgendone sicuramente i principi. In definitiva, l’incremento di gettito, proveniente da aree ad evasione diffusa, sembra il frutto di interventi estemporanei piuttosto che il risultato di un contenimento strutturale dell’evasione. Mentre appaiono purtroppo evidenti gli effetti recessivi di una politica tributaria poco meditata, che avendo sottratto in soli 5 mesi, da luglio a novembre, 21 miliardi di maggiori imposte tra i redditi ed IRAP a famiglie e imprese ha anticipato, aggravandolo, il forte rallentamento dell’economia mondiale. A conferma della nostra opinione che l’evasione rappresenti un fenomeno assai più complesso e delicato di quanto sembravano credere Visco e Bersani, che incide sulla struttura dell’economia, alimentando quella irregolare, ma, almeno per la parte che Visco definisce anomala, redistribuisce risorse più che nascondere tesori. Ma l'aspetto meno convincente dell'azione di contrasto all'evasione degli ultimi mesi è rappresentato dal fatto che questa, da un lato ha comportato un consistente aggravio degli adempimenti amministrativi e burocratici, che ha inciso quanto meno indirettamente su tutta la platea dei contribuenti. Dall'altro è stata inserita in un contesto di interventi modificativi dell'imposta personale caratterizzati dalla riduzione dell’ampiezza degli 8 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 scaglioni, dall'incremento delle aliquote e quindi dall’aumento della progressività marginale per l'intera platea dei contribuenti, che non incoraggiano certo la fedeltà fiscale. Ovviamente non sottovaluto né la gravità del fenomeno evasione, né la difficoltà di adottare adeguate politiche di contrasto, se l'obiettivo è quello di ottenere effetti immediati dal lato del gettito. Ma pensare di aggredire l’evasione attraverso l’abuso di disposizioni a carattere retroattivo, prima ancora di essere illusorio è semplicemente errato. Credo che alla base del sostanziale insuccesso della politica tributaria avviata dal Governo Prodi e di cui rappresenta un'evidente spia l'invito del Presidente del Consiglio ai parroci, la scorsa estate, di associarsi alla lotta all'evasione fiscale nelle omelie domenicali, vi sia l'illusione che l'evasione fiscale "anomala" nasconda un "tesoro" che, ove recuperato, consentirebbe miracolosamente non solo di riequilibrare i conti pubblici, ma di finanziare ulteriore spesa pubblica. Il filo conduttore sotto traccia che ha ispirato l'azione del Governo in campo tributario, è stato quindi quello di recuperare base imponibile, senza preoccuparsi né dei principi né degli effetti. Una linea politica tributaria dai profili distributivi assai discutibili, che evidenzia anche una pericolosa sottovalutazione dei riflessi depressivi della propria azione sulla crescita economica. Certo sarebbe ingeneroso attribuire tutte le responsabilità al solo Governo Prodi. I grandi quotidiani di proprietà industriale, La Confindustria e i sindacati, ciascuno per ragioni sue proprie ha tenuto bordone ad una politica tributaria ai limiti dell’irresponsabilità, per l’ effetto combinato della riforma sull’ IRE/IRPEF e della rivalutazione retroattiva degli studi di settore, i cui effetti redistributivi e di gettito si sono fatti sentire sui conti degli italiani a partire da luglio. Effetti puntualmente registrati dal carattere tendenzialmente piatto della domanda interna, la cui dinamica è sostanzialmente pari a quella del tasso di immigrazione, regolare e non, e dal rallentamento del PIL nel secondo semestre 2007, che ha cominciato a scontare "l'effetto fisco", particolarmente evidente nel calo degli investimenti, ben prima che si manifestassero in Europa gli effetti della crisi dei mutui sub-prime negli Stati Uniti. Come non collegare questo dato alla stretta fiscale sulle imprese, specie le minori che operano in regime di studi di settore, che ha prosciugato risorse altrimenti destinate a rimanere nelle imprese, e che ha accompagnato queste misure di aggravio con una ulteriore stretta alla deducibilità degli interessi passivi a partire dal 2008. Già altre volte ho sottolineato come l'evasione "anomala" rappresenti lo schermo che consente ad una evasione "normale", particolarmente aggressiva, di prosperare praticamente indisturbata al riparo di quella "anomala". Quest'ultima, per la sua diffusione di massa, rappresenta un multiplo rispetto a quella "normale"; ma mentre questa sottrae al 9 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 fisco risorse reali e, ove ridimensionata, consentirebbe consistenti recuperi di gettito, l'evasione "anomala", cui si collega affiancandola l’economia irregolare, si limita in gran parte a redistribuire tra i diversi fattori produttivi (consumatori e famiglie) risorse in larga parte "reali" solo in quanto sottratte a tassazione: una situazione questa difficilmente quantificabile, ma di dimensioni comunque imponenti. Si pensi ad esempio alla quota di salario distribuita fuori busta dal sistema delle imprese minori, al lavoro irregolare, quando non completamente al nero, che, secondo le stime ISTAT, coinvolgerebbe tre milioni e mezzo di lavoratori, questi si realmente precari; alla parte di costi ed oneri deducibili non dichiarati da lavoratori autonomi ed imprese minori, per risultare congrui rispetto ai parametri degli studi di settore. Si stima che la sola evasione dei redditi da lavoro dipendente rappresenti oltre il 60% dell'evasione fiscale e contributiva totale; ma appare evidente che, proprio per il peso della progressività marginale, ove questi redditi venissero recuperati a tassazione, nella maggior parte dei casi verrebbero meno le condizioni economiche che hanno consentito di distribuirli. Almeno due indizi confermano questa analisi: il primo è rappresentato dalla dipendenza crescente dell’economia italiana dalla domanda estera nell’ultimo decennio. Le imprese italiane in difficoltà ad esportare nel 2003/04 con il cambio del dollaro ad 1,20 contro l’euro, oggi continuano ad esportare con il dollaro svalutato ad 1,60. Un dato questo che evidenzia la profondità del processo di ristrutturazione che ha investito in questi anni il sistema delle imprese che consente di esprimere quanto meno dei dubbi sulla attendibilità degli indicatori che misurano l’andamento della produttività del nostro Paese. Quello che manca ai fini della crescita è il sostegno della domanda interna che evidentemente non riceve spinte dal “tesoro” dell’evasione, semplicemente perché l’evasione diffusa si limita a ridistribuire risorse in modo anomalo, ma non nasconde alcun tesoro. Il secondo indizio è costituito dal fatto che evasione anomala ed economia irregolare sono stati appena sfiorati dai processi di riorganizzazione produttiva e distributiva; il che ne evidenzia il carattere strutturale e la necessità quindi di contenere e ricondurre gradualmente il fenomeno entro limiti “normali”, attraverso interventi sulle imposte che incidano sulla convenienza ad evadere, piuttosto che concentrare l’attenzione esclusivamente sui controlli. I quali, nella migliore delle ipotesi, risolverebbero il problema nell’arco di qualche decennio. Si tratta, come è facile vedere, di un'evasione doppiamente "anomala", in quanto indotta dalla struttura stessa del sistema tributario, che rende più conveniente per il datore 10 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 di lavoro non dedurre una parte dei costi anche fiscali del monte salari, sia per occultare una parte del proprio reddito, sia per ridurre la base imponibile dell’IRAP; con l’effetto di trascinamento che alimenta l’evasione all’IVA, un'evasione, tra l'altro, spesso indotta dal lato dell'offerta. Si pensi, nell'ambito della famiglia, al lavoro part-time di uno dei coniugi, di norma la donna, il cui reddito, specie al sud, difficilmente, supera la soglia di esenzione di 8.000 euro annui, ma che oltre i 2.854 euro comporta, per l'altro coniuge, la perdita della detrazione d'imposta di 800 euro: è evidente l'incentivo a non perdere tale beneficio, contrattando una retribuzione al nero. Anche perché, con il regime previdenziale a carattere contributivo vigente, difficilmente l'assegno pensionistico di una lavoratrice, specie se poco qualificata e parttime, sarà superiore a quello sociale, che le verrà comunque riconosciuto al termine della vita lavorativa. Chi scrive non sottovaluta gli effetti negativi prodotti dall’evasione e dalla crescita in parallelo ed in simbiosi di un’economia irregolare diffusa, spesso a carattere marginale, che, specie nel Mezzogiorno, alimenta una vasta zona grigia caratterizzata da assenza di regole, in cui la criminalità organizzata prospera praticamente indisturbata. Ma non basta una finalità virtuosa accompagnata da buone intenzioni a trasformare la produzione alluvionale di disposizioni tributarie dell’ultimo anno e mezzo, molte delle quali inducono nel sistema costi maggiori dell’evasione che dovrebbero scoraggiare, in una politica tributaria. Occorre sottolineare che evasione ed economia irregolare sono realtà mobili, caratterizzate da molteplici interconnessioni, che si alimentano vicendevolmente e che rendono quindi poco efficaci misure di contrasto che dilatano in misura spesso irragionevole gli adempimenti amministrativi ed incidono esclusivamente sui controlli, senza modificare il quadro delle convenienze economiche che alimentano l’evasione, attraverso interventi mirati sulla normazione. D’altra parte, l’economia irregolare, che paga comunque una quota di imposte non trascurabile, per l’impossibilità di dedurre i costi, è un fenomeno più grave, perché non rappresenta, come l’evasione, una zona franca, in un sistema basato su regole, ma una realtà che sopravvive in quanto è fuori da qualsiasi sistema di regole. I due fenomeni, sostanzialmente diversi, ancorché in simbiosi, vanno quindi combattuti eliminando le cause che li alimentano. Sotto questo profilo, la richiesta ricorrente di una fiscalità di vantaggio per le aree economicamente deboli, pur essendo comprensibile, deve essere ribaltata. Non servono 11 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 regimi fiscali di favore, inseriti in un sistema che non è in grado di funzionare, perché troppo oneroso per tutti. Serve invece una riforma profonda del sistema tributario che gradualmente consenta all’Italia di liberarsi dell’attuale fiscalità di “svantaggio” ed assecondi la tendenza in atto da alcuni anni nell’economia italiana a ristrutturarsi in base a modelli organizzativi che ridimensionino le possibilità di evasione non alimentino l’economia irregolare, e consentano di attuare un modello di decentramento fiscale che contribuisca ad aumentare l’efficienza della spesa pubblica e la competitivitàdel sistema. In ogni caso, sembra evidente che la questione evasione, assai complessa, proprio per la sua diffusione, e per i risvolti sociali che la caratterizzano, non possa essere letta in chiave esclusivamente moralistica, o peggio ancora, classista. Aggredire l’evasione attraverso l’aumento degli adempimenti amministrativi e la tracciabilità dei pagamenti, che in economie caratterizzate da irregolarità diffuse ha il solo effetto di alimentarle ulteriormente, senza un’analisi approfondita del fenomeno, che evidenzierebbe l’esigenza di interventi sulla struttura delle imposte sul reddito, finalizzati innanzitutto a ridurre la convenienza ad evadere, può determinare qualche risultato in termini di gettito nel breve periodo, destinato ad essere rapidamente riassorbito. Ma non incidendo sulle cause dell’evasione anomala, non può né ridimensionarla, né tanto meno sconfiggerla. E questo, proprio perché basata sull’impiego di strumenti di controllo, immaginati per contrastare l’evasione “normale”. L’esperienza ci conferma che se non si analizzano le interdipendenze tra le diverse imposte in una logica di sistema, limitandosi ad interventi sui singoli tributi, il fenomeno della “fuga davanti alle imposte” trova al suo interno nuovi equilibri, ma non subisce ridimensionamenti sostanziali, mentre gli effetti di gettito delle politiche antievasione da un lato incidono negativamente sul ciclo, dall’altro tendono ad essere riassorbiti rapidamente e quindi ad essere effimeri. D’altra parte se non si affronta attraverso la riduzione della convenienza ad evadere il nucleo centrale dell’evasione anomala, anche il dare giusto rilievo ai profili etici nelle politiche di contrasto non condurrà agli esiti attesi. Comunque, se il problema dell'evasione "anomala" si limitasse ad una redistribuzione di risorse orientata dagli equilibri di mercato, si potrebbe pensare che essa di fatto assuma anche aspetti positivi, perché s'incaricherebbe di correggere, attraverso il mercato, almeno in parte, alcune distorsioni e i più evidenti limiti distributivi del nostro sistema di imposte sul reddito. 12 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Ma a parte la sostanziale inaccettabilità giuridica e di principio di equilibri fiscali di questo tipo, intrinsecamente anomali, gli effetti di questo modo di procedere, indotto da una struttura delle principali imposte inefficiente ed iniqua, sono tutt'altro che neutrali dal punto di vista della distribuzione degli oneri tributari, sia per i singoli contribuenti, sia sotto il profilo macroeconomico. All'eccesso di prelievo, per giunta mal distribuito, che caratterizza le imposte sul reddito, personale e societario, corrisponde infatti, sulla base del raffronto tra l’aliquota media del tributo ed il gettito rispetto al PIL registrato dall’IVA armonizzata nei principali Paesi dell’UE, un'evasione in Italia non inferiore ai 25-30 miliardi di euro. Un'evasione i cui effetti di reddito si distribuiscono, in misura difficilmente stimabile, su famiglie ed imprese che ne sono le principali destinatarie, ma che erode dall'interno la competitività del nostro sistema produttivo, penalizzando le esportazioni, ed alimenta un'economia irregolare che costringe le imprese alla frammentazione ed al nanismo, in sinergia con una legislazione in tema di lavoro indifferente al tema della crescita dimensionale delle aziende, e più in generale della loro competitività. E’ vero che negli ultimi anni anche il gettito dell’IVA ha avuto una dinamica più accentuata rispetto alla crescita dei consumi interni, dalla quale alcuni commentatori hanno tratto conclusioni forse troppo frettolose sul recupero di evasione nell’IVA. Innanzitutto l’IVA è un’imposta afferente ai consumi, il cui rapporto con il consumo è solo indiretto; basta pensare agli investimenti che riducono il gettito del tributo e quindi falsano il rapporto tra la dinamica dei consumi e quella effettiva dell’IVA, senza perdere di vista che il luogo di versamento dell’IVA spesso non coincide con quello in cui vengono effettuate le operazioni imponibili. Occorre poi considerare che ai fini del rapporto tra gettito del tributo aliquota standard e PIL utilizzato per i confronti in Europa, quello che conta non sono i versamenti lordi ma il gettito effettivo realizzato ciascun anno; e la forbice tra incassi e gettito effettivo dell’IVA in base ai dati disponibili evidenzia una tendenza a ridursi molto più lenta rispetto alla dinamica degli incassi. A questo risultato comunque positivo, non è stata certo indifferente la politica tributaria degli ultimi anni: si pensi ad esempio all’estensione degli studi di settore alle società di capitali introdotta nel 2005, o al reverse charge negli appalti nell’edilizia del 2006; ma non va neppure trascurata la forte crescita della grande distribuzione (+5,4 % in Campania nel 2007, più del doppio della media nazionale), che aumenta il grado di resistenza all’evasione dell’IVA, ma non è certo il frutto di scelte discrezionali del legislatore tributario. 13 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 La frammentazione delle imprese a sua volta alimenta l’evasione fiscale, per la maggiore difficoltà di determinare il reddito effettivo in sede di accertamento per questa tipologia di contribuenti; mentre la rigidità della legislazione in tema di lavoro rappresenta un ostacolo obiettivo di rilievo alla crescita dimensionale delle imprese che, ove realizzata, contribuirebbe a ricondurre gradualmente l’evasione entro margini di normalità. La questione delle origini anche fiscali della perdita di competitività del nostro sistema produttivo, sospinta da una legislazione che aumenta le imposte per tenere conto dell’evasione, alimentando una spirale perversa, è un tema incomprensibilmente ignorato sia dall'indagine economica sia da quella giuridica. Le ragioni sono molteplici. Da un lato vi è la tendenza degli economisti ad applicare all'analisi delle imposte, parametri elaborati in altre esperienze, che semplicemente non si prestano ad essere trasposti in un modello, quale quello italiano, che, sotto il profilo della parcellizzazione del sistema produttivo, è assai più vicino alla realtà turca che a quella tedesca, quindi di difficile interpretazione: ed in cui convivono imprese tecnologicamente avanzate e realtà produttive tipiche di economie in ritardo di sviluppo. La scarsa attenzione posta all’analisi dei profili distributivi della capacità economica che esprime attitudine alla contribuzione, in rapporto all’insieme dei tributi che incidono sui redditi da lavoro autonomo e di impresa minore, che riguardano non solo l’imposta personale ma anche gli oneri sociali, l’IRAP e l’IVA, ha avuto nel tempo come conseguenza quella di alimentare un’evasione all’IVA, il cui onere è normalmente scaricato a valle, indotta prevalentemente dalla necessità di ridurre il peso degli oneri contributivi e fiscali, considerati troppo onerosi per il contribuente. Dall'altro occorre sottolineare che quello che oggi può apparire uno scarso interesse della maggioranza dei giuristi agli effetti economici e distributivi dei tributi, ed in genere ai profili che sottendono alla normazione, è la conseguenza del fatto che nel primo quindicennio di applicazione della riforma tributaria, la Corte Cosituzionale, con il contributo determinante della dottrina tributarista, ha eliminato alcune delle più evidenti incongruenze introdotte dal legislatore nel 1977 (cumulo dei redditi nell’imposta personale; ILOR sui redditi da lavoro autonomo). Nel quindicennio successivo invece, le difficoltà della finanza pubblica che avevano condotto alla svalutazione della lira del 1992, hanno condotto ad una linea di politica tributaria molto condizionata dalla situazione economica contingente, con una generale disattenzione ai profili giuridici che si è 14 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 ripercossa da un lato in una evidente disorganicità del sistema tributario; dall’altro in un minore coinvolgimento della evoluzione della normazione in campo fiscale. Ex adverso si possono ad esempio richiamare i pertinenti rilievi di Raffaello Lupi sul tema ricorrente della riforma dell'imposizione delle rendite finanziarie e immobiliari che, nelle intenzioni del Governo Prodi, avrebbero dovuto essere tassate con un'aliquota proporzionale unica del 20%. Ora, che l'attuale tassazione dei redditi immobiliari sia particolarmente onerosa, mentre l'attività di trading dei titoli finanziari sia sottoposta ad un regime di evidente favore è cosa nota. Ma i rimedi che vengono proposti appaiono ancora peggiori degli inconvenienti che vorrebbero risolvere perché, anziché ridurre disparità di trattamento e privilegi, contribuiscono ad alimentarli ulteriormente. Non si vede perché gli effetti della progressività siano considerati eccessivi e quindi meritevoli di riduzione per i redditi immobiliari e non anche per quelli da lavoro; o cosa accomuni il reddito prodotto dal trading di titoli in borsa alla rendita finanziaria di un risparmiatore, tassata si al 12,5%, ma su una base imponibile che, per almeno i due terzi, sconta la svalutazione del capitale investito. In una visione sistematica dei tributi il peso eccessivo dell’imposizione sui redditi immobiliari può essere riequilibrato intervenendo sia sull’ ICI di cui potrebbe essere ammessa la deducibilità dall’ IRE/IRPEF, sia sulla base imponibile che potrebbe essere ulteriormente ridotta per gli immobili dati in locazione; riducendo la convenienza ad evadere senza scardinare ulteriormente l’IRPEF. Probabilmente la ragione principale del disinteresse ad affrontare in modo pertinente il tema della struttura del sistema tributario e dei suoi riflessi distributivi ed allocativi che minano la competitività fiscale del nostro sistema tributario, nasce proprio dalla frammentazione degli interessi che caratterizza la nostra economia e che ha contribuito a costruire nel tempo un modello a carattere accentuatamente corporativo. Vi è in molti il timore diffuso che una riforma incisiva in senso competitivo del sistema tributario comporti la perdita dei privilegi e benefici attuali, mentre non si è in grado di valutare i possibili futuri vantaggi; d’altra parte la vasta platea di contribuenti, che non gode di particolari privilegi o non raggiunge un livello di reddito tale da rendere conveniente un'organizzazione fiscale più complessa a fini elusivi, si arrangia come può, alimentando i mille rivoli dell'evasione di massa e dell’economia irregolare. Ora quindi, il primo e più urgente problema è quello di affrontare correttamente la questione tributaria, liberando il dibattito da profili moralistici e classisti, al cui riparo si è 15 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 consolidato il sistema vigente; ristabilendo le condizioni per il ripristino non solo formale dello Stato di diritto in campo tributario, il cui presupposto è costituito dalla parità di trattamento per tutti i contribuenti, in rapporto alla propria effettiva capacità contributiva e quindi con una particolare attenzione alle interrelazioni tra i diversi tributi che ne condizionano gli effetti distributivi. E' ben vero che l'evasione fiscale rappresenta un evidente elemento di distorsione distributiva, che oltre ad alimentare disparità di trattamento tra contribuenti, prive di qualsiasi supporto logico, ha effetti distorsivi sulla concorrenza e quindi sul corretto funzionamento del mercato. D’altra parte, questo è probabilmente l'aspetto più discutibile dell'attuale politica tributaria, la pretesa di operare una più energica politica di contrasto all'evasione, senza aggredire le cause strutturali che l'alimentano, segna la differenza tra l'aver conseguito alcuni risultati pur apprezzabili in singoli settori particolarmente critici, e l'avviare un coerente e razionale disegno riformatore finalizzato a contrastare l'evasione, attraverso una più equilibrata distribuzione degli oneri tributari tra le diverse imposte per l'insieme dei contribuenti, aumentando il grado di adesione dei contribuenti al dovere fiscale (tax compliance). Due esempi, tra i molti possibili, evidenziano questa assenza di una visione realistica dei problemi distributivi e di efficienza del sistema tributario e degli strumenti idonei a correggere tali problemi; questioni probabilmente non ignorate neppure dal Governo, ma in contrasto con i propri impellenti obiettivi di gettito. Il primo esempio si riferisce ai trasferimenti immobiliari: negli ultimi due anni una serie di interventi di razionalizzazione avevano esteso il modello di imposizione in base ai valori catastali avviato da Visentini (mai abbastanza benemerito per questa intuizione) oltre vent'anni fa a tutti i trasferimenti, generalizzando la separazione tra valore fiscale ai fini del trasferimento e valore contrattuale stabilito nell'atto. Inopinatamente, in parallelo con un processo di revisione delle rendite catastali che comporterà a regime incrementi anche molto considerevoli, la Finanziaria 2007 ha limitato l'applicazione della Visentini ai soli trasferimenti di abitazioni tra privati. Una scelta dettata da un fiscalismo non solo miope, ma anche poco intelligente. Vale la pena di ricordare che l'attuale regime delle imposte catastali è stato pensato quando gli immobili non erano sottoposti ad una imposta patrimoniale a carattere ordinario, come avviene oggi con l’ICI, e che comunque l'aumento delle rendite catastali in corso poteva essere accompagnato da una minore riduzione dell'aliquota dell'imposta di registro, con effetti positivi sul gettito. Senza ricorrere ad interventi che segmentano senza valide ragioni economiche il 16 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 mercato immobiliare e comportano la sottrazione di alcune migliaia di dipendenti a compiti più produttivi, con costi di gestione notevoli, ed alimenteranno un contenzioso di cui non si sentiva alcun bisogno. Una scelta assai discutibile anche dal punto di vista socio-economico, che comporterà un consistente aumento della quota di denaro liquido necessaria per l'acquisto di una abitazione con mutuo da parte di giovani coppie, con rinvio degli acquisti ed effetti depressivi sulla domanda di abitazioni di nuova costruzione. Ancora più discutibile e comunque priva di qualsiasi logica dal punto di vista del contrasto all'evasione, la serie di interventi a cascata sugli studi di settore prodotti nell’ultimo anno in cui convivono norme finalizzate a ridurre la possibilità di forzare il software Gerico, del tutto ragionevoli, con altre finalizzate ad aumentarne il gettito, che non intervengono sul meccanismo di funzionamento, migliorandone la capacità di valutazione media delle diverse realtà economiche sottoposte agli studi; ma guardano solo all’aumento degli imponibili con interventi sui parametri valutativi che contrastano, specie dopo la loro estensione alle società di capitali, con la funzione degli studi. Questi ultimi, introdotti nella seconda metà degli anni '90 sulla base della consolidata e positiva esperienza francese, ma con il limite di dovervi far rientrare un numero di contribuenti tre volte maggiore, non essendo previsto, nel nostro modello di imposizione personale, uno strumento deflativo paragonabile alla "déclaration contrôlée" francese, che separi nettamente il regime fiscale del maggior numero di contribuenti minori, rispetto a quello ordinario, hanno avuto un ruolo decisivo nello spingere l'insieme dei contribuenti a presentare dichiarazioni dei redditi meno irrealistiche, rispetto ad un recente passato. Il condono del 2003, finalizzato a favorire il passaggio dal sistema di detrazioni d’imposta, proprio dell'IRPEF, al nuovo modello di deduzioni allargate, previsto dalla nuova IRE, con l'obiettivo di ampliare in misura significativa gli imponibili dichiarati, senza sostanziali aggravi d'imposta per i contribuenti, e l'estensione degli studi alle società di capitali nel 2005, hanno ulteriormente amplificato questo processo, puntualmente osservabile ad un'analisi attenta dell'andamento del gettito dell'IRE e dell'IRES, e per trascinamento dell'IRAP e dell'IVA interna, negli ultimi quattro anni. Ma gli studi di settore non possono essere considerati un surrogato di un sistema di catastalizzazione dei redditi che, per l'ampiezza della platea dei soggetti coinvolti, sarebbe di assai difficile realizzazione e comporterebbe comunque una forbice di adattabilità ed avvicinamento alla realtà dei singoli, tale da renderli difficilmente compatibili con i principi di parità di trattamento e capacità contributiva. 17 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Gli attuali studi di settore costituiscono al contrario uno strumento di pianificazione fiscale p e r i contribuenti e di selezione delle posizioni da sottoporre a verifica da parte dell'Amministrazione, che richiedono per svolgere in modo efficace il loro ruolo, un affinamento continuo, specie dal punto di vista della diversificazione territoriale, ancora assai poco considerata. Non si comprende perché, ad esempio, gli studi non prendano in considerazione alcuni indicatori derivati dall’IRAP, imposta che, per il suo carattere reale, presenta un maggiore grado di resistenza all'evasione ed i cui elementi essenziali potrebbero essere utilizzati per un affinamento degli indici di congruità e coerenza. Ipotesi questa che consentirebbe di definire anche la questione dei limiti di applicabilità dell’IRAP alle attività di lavoro autonomo; il cui carattere di imposta che discrimina i redditi di lavoro sulla base di criteri opinabili è stato attenuato, ma non risolto, dalla giurisprudenza della Cassazione ed attende quindi una soluzione legislativa. La successione di interventi normativi sugli studi, nell’ultimo anno solo in parte corretti, attraverso un’interpretazione meno rigida da parte dell’Agenzia delle Entrate, dopo le proteste delle categorie interessate, evidenziano la loro irrazionalità ed arbitrarietà, ed un forte impulso verso il loro progressivo impiego quale strumento di catastalizzazione impropria dei redditi e di riserva di gettito. Una scelta doppiamente infelice, perché, aumentando in modo considerevole (l'Agenzia delle Entrate stima in 200 - 250 euro mensili per ciascun contribuente il complesso dei maggiori oneri medi conseguenti all'insieme delle misure adottate) ed indiscriminato il prelievo per tutti i contribuenti, non solo non inciderà neppure marginalmente sul nocciolo duro dell’evasione, ma concentrerà ulteriormente la gran parte dei maggiori oneri tributari sui redditi medi, tendenzialmente decrescenti, caratterizzati, nonostante una consistente evasione, da un’altrettanto elevata imposizione fiscale: con effetti distributivi inaccettabili. E' infatti un dato di comune esperienza che l'elasticità degli studi rispetto alla situazione economico-reddituale cresce all’ammontare del reddito. Alimentando ulteriormente una doppia curva di fatto della progressività dell'imposta personale, che penalizza in misura crescente i redditi medio-bassi da lavoro autonomo e d'impresa minore rispetto a quelli da lavoro dipendente. Al crescere del reddito la situazione invece si inverte, al punto che non solo la maggior parte dei contribuenti con reddito superiore ai 100.000 euro annui sono dipendenti, ma che il loro numero sul totale è appena lo 0,8%. E' in questo quadro che si inseriscono misure quali l'applicabilità degli studi fino dal primo anno di attività o per periodi inferiori all'anno solare; la possibilità per 18 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 l'amministrazione finanziaria di effettuare accertamenti per il semplice scostamento di un solo anno dagli indici degli studi; il carattere di presunzione di evasione per lo scostamento dagli indici, senza la necessità per l'amministrazione di integrare l'accertamento con elementi relativi alla realtà di fatto del contribuente, come richiesto dalla giurisprudenza tributaria, anche di legittimità; l'introduzione, senza alcun confronto con le categorie rappresentative e senza un minimo di pubblicità sui criteri adottati, di un nuovo indice di normalità, la cui attendibilità statistica, proprio in relazione alle novità introdotte, appare del tutto opinabile ed il cui unico effetto reale è stato quello di spingere comunque i contribuenti ad adeguarvisi, trasformando di fatto gli studi in un modello di catastalizzazione insieme zoppo ed iniquo. Intendiamoci, se l’obiettivo era quello di aumentare in misura consistente il gettito dell’imposta sul reddito a carico dei contribuenti assoggettati agli studi di settore, operando una redistribuzione dell’imposta interna alle diverse categorie di appartenenza dei contribuenti, il risultato è stato sicuramente conseguito. Quello che invece è inaccettabile per il giurista è che interventi di questo tipo, privi di qualsiasi selettività vengono contrabbandati come strumenti di contrasto all’evasione fiscale Ma l'aspetto più sconcertante è rappresentato dall'effetto a cascata di novità normative introdotte con atti ed in tempi diversi, ed applicabili, con effetto retroattivo, ai redditi 2006 non ancora dichiarati, ma già prodotti per alcuni milioni di contribuenti. Effetto che si è cominciato ad avvertire nella primavera 2007 quando i contribuenti assoggettati agli studi di settore hanno potuto quantificare, in termini di maggiori imposte dovute, le conseguenze delle novità decise nel corso del 2006 e nei primi mesi del 2007. In particolare, i precari equilibri intorno ai quali ruotano gli studi di settore sono saltati per effetto dei nuovi indici di normalità, la cui attendibilità, all'interno di un modello che ingloba oltre cinque milioni di contribuenti, appare scarsamente significativa; e comunque non assistita da alcuna evidenza empirica che colleghi uno scostamento dagli indici di normalità (per di più per un solo periodo d'imposta, come stabilito dalla Finanziaria 2007) ad un comportamento di evasione, specie per la loro applicazione retroattiva. Non meno discutibile appare poi il tentativo, da parte dell'Agenzia delle Entrate, di minimizzare gli effetti normativi delle modifiche legislative introdotte, e di porvi in qualche modo riparo, dopo le proteste delle categorie interessate, con interpretazioni riduttive che, ancorché apprezzabili, dilatano ulteriormente i margini di discrezionalità di una azione amministrativa che dovrebbe essere, al contrario, predeterminata per legge. 19 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Che l’applicazione retroattiva dei nuovi indici degli studi di settore abbia effetti di contenimento dell’evasione molto più modesti rispetto a quanto sostenuto dal Governo, è del resto dimostrato dalla crescita nel 2007 della voce relativa all’autotassazione a saldo, che si riferisce ai redditi prodotti nel 2006, prima delle modifiche introdotte dalla Finanziaria 2007, quasi doppia rispetto a quella in acconto. Per cui, a parte la evidente irragionevolezza dell’applicazione retroattiva della riforma degli studi a redditi prodotti nel 2006, tutto fa intendere che, in assenza di interventi strutturali sull’IRE/IRPEF, che riducano la convenienza ad evadere, gli effetti di gettito della riforma degli studi, evidenziati nel 2007, saranno gradualmente riassorbiti e l’evasione, premiata dall’aumento della progressività marginale, riprenderà a crescere. 3) Alcuni caratteri distintivi dell’evasione italiana, loro riflessi sul ciclo economico e limiti delle analisi previsionali; in particolare la riforma dell’IRE/IRPEF del 2007 Bisogna tuttavia riconoscere che l'azione del Governo ha evidenziato in questo settore del metodo; la lotta all'evasione ha rappresentato infatti, a partire dalle cifre iscritte nelle tabelle allegate alla Finanziaria, che prevedevano di incassare nel 2007, 3 miliardi e 200 milioni di curo di maggiori imposte, dal recupero dell'evasione nel solo settore dei contribuenti assoggettati agli studi di settore, e quasi 8 miliardi complessivi, il contenitore cui sono confluiti invece gli effetti dei due decreti Bersani — Visco e della riforma dell'IRE/IRPEF, attuata con la Legge Finanziaria. E' facile comprendere che l'assenza di qualsiasi selettività nella più forte delle misure "grandine" che hanno colpito i contribuenti nell'ultimo anno, e cioè la revisione degli studi di settore, avrà effetti modesti, quando non marginali, sul contenimento strutturale dell'evasione, si comporterà infatti sostanzialmente come una sovraimposta capitaria. Ma la determinazione con cui si è mascherato, a partire dalla Legge Finanziaria 2007, un ulteriore consistente aumento della pressione fiscale, come risultato della politica di contrasto all'evasione e quindi con effetti neutrali per i contribuenti corretti, susciterebbe ammirazione, se non avesse prodotto una serie di effetti collaterali, tutt'altro che positivi, che evidenziano quanto meno notevoli carenze nella comprensione del fenomeno evasione e più in generale dagli effetti economici della manovra delle imposte. Da un lato l'incremento del gettito rispetto alle previsioni della Finanziaria 2007 ha superato a consuntivo abbondantemente un punto di PIL (43,3% contro 42,1%), per effetto di un aumento generalizzato delle imposte per la quasi totalità dei contribuenti, 20 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 assai più che per il pur significativo recupero di evasione in alcuni settori a rischio come l'edilizia. Dall'altro la forte componente dell'incremento del prelievo legata alla riforma dell'IRE — IRPEF, ha già determinato un colpo di freno all'economia, ben superiore allo 0,3% di PIL stimato dal Governo, quale effetto delle proprie scelte di finanza pubblica per il 2007; offrendo la controprova che i maggiori introiti fiscali hanno inciso in larga prevalenza sulla capacità di spesa delle famiglie e di investimento delle imprese minori, piuttosto che sulle ampie sacche di reddito sottratte al fisco dall'evasione "normale", che alimenta la capacità di risparmio dei contribuenti a più elevato indice di evasione: paradossalmente i meno incisi dalle misure antievasione adottate dal Governo tra il 2006 e il 2007. Così, mentre l'economia francese tedesca e spagnola hanno registrato nella seconda metà del 2007 un significativo rallentamento della crescita, prontamente contrastato dai rispettivi Governi con politiche tributarie espansive (la Spagna ha ad esempio tagliato con la manovra di bilancio 2007 -18,5 miliardi di imposte), l'economia italiana, fortemente dipendente da quei mercati, che da soli assorbono circa un terzo delle nostre esportazioni, è oggetto, da luglio, di un aumento indiscriminato delle imposte a carico di famiglie ed imprese, che da sole comporteranno una riduzione della crescita prossima ad un punto di PIL nel 2008. Con effetti di trascinamento sul debito pubblico, la cui riduzione non è determinata soltanto dall'aumento del denominatore del gettito tributario, come sembra ritenere il Governo, ma dall'altrettanto importante numeratore rappresentato dalla crescita del PIL, bersaglio indiretto, ma purtroppo efficace della politica tributaria negli ultimi due anni. Vi è poi un altro profilo che merita di essere segnalato e che attiene alla perdita di competitività del sistema, di origine fiscale, che appare, se non ignorata, quanto meno rimossa dall’analisi economica. La questione non rileva soltanto per il livello della pressione fiscale, che peraltro è fra i più elevati tra i Paesi industrializzati; vi sono infatti Paesi come la Danimarca, l'Olanda e la Svezia, o la stessa Francia in cui la pressione fiscale, anche tenendo conto, dell'economia irregolare, che in Italia tende a sottostimare il peso reale del fisco, è superiore a quella italiana, ma con effetti meno negativi sulla competitività del sistema. In questi Paesi le imposte sul reddito sono molto meno onerose rispetto all'Italia, sia con riferimento alle famiglie, sia alle imprese, mentre una quota crescente del gettito viene assicurata da imposte sui consumi come l'IVA, che non incidono sulle esportazioni e quindi ne favoriscono l'espansione. 21 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Il problema del fisco italiano non è quindi solo o principalmente un problema di dimensione del prelievo, questione dai confini incerti, caratterizzata da profili politici che non si prestano ad essere oggetto di analisi giuridica, ma di qualità e di distribuzione del gettito fra le diverse componenti che caratterizzano l'economia italiana. Il cui carattere dualista tende ad essere ulteriormente divaricato da una politica tributaria poco attenta alle persone, alle famiglie e alle imprese, e più in generale ai problemi di competitività; una forbice che si è accentuata in modo esponenziale negli ultimi anni, e trae alimento dagli interessi, dai pregiudizi e dalle abitudini del nostro modello di economia, al tempo stesso irregolare, corporativa e assistita. Tuttavia il dato forse più sconcertante è rappresentato dalla mancanza di attendibilità del quadro previsionale relativo alla dinamica delle entrate degli ultimi due anni. Se nel 2006 l'aumento di quasi 23 miliardi di curo del gettito tributario, in aggiunta ai 15,5 previsti dalla Legge Finanziaria di quell’anno, era in parte giustificato da un andamento più favorevole della crescita del PIL rispetto alle previsioni (+1,9 rispetto al +1,3 stimato dalla Finanziaria) da misure una tantum, quali la rivalutazione dei beni aziendali ovvero ad effetto non facilmente predeterminabile, quale l'estensione degli studi di settore alle società di capitali, resta il fatto che almeno 12 miliardi di maggiori entrate sono stati il frutto, secondo il ministro dell'Economia Padoa Schioppa, di una maggiore "tax compliance" da parte dei contribuenti. Secondo il Governo Prodi, ma anche per molti commentatori (si veda ad esempio “La Finanza Pubblica italiana”, Rapporti 2006-2007, Il Mulino), sarebbero il frutto della propria politica di annunci di rigore fiscale (niente condoni e lotta all'evasione), che avrebbe prodotto un effetto anticipato di diciotto mesi rispetto all’azione del futuro Governo Prodi. Le opinioni sono evidentemente tutte rispettabili, ma queste, più che opinioni appaiono atti di fede. La realtà è un po' diversa e meno fantasiosa: basta confrontare i dati sull'andamento del gettito delle principali imposte tra il 2004 e il 2006 per comprendere che una parte consistente delle maggiori entrate nelle imposte dirette (IRE, IRES, IRAP) nei diversi comparti era stato determinato dagli effetti del secondo modulo della riforma dell'IRE e dai primi interventi di alleggerimento dell'IRAP per le imprese fino a cinque dipendenti, avviati con la Finanziaria 2005. Una conseguenza positiva delle misure di riduzione dell'imposizione sul reddito e sulle attività minori pari a oltre 6 miliardi di euro, adottate in quel periodo che non aveva 22 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 nulla di ideologico e che era stata fortemente sottovalutata anche dal Governo di centro destra che le aveva attuate. L’aumento generalizzato che si riscontra tra il 2005 e il 2006 sia nelle ritenute d'acconto per i redditi da lavoro autonomo, la cui dinamica è stata superiore a quella delle ritenute da lavoro dipendente del settore privato, sia più in generale nell'auto tassazione, evidenziano questo effetto virtuoso, che si riflette in parte anche sull’IVA e che non troverebbe altrimenti spiegazioni in un anno, il 2005 di crescita zero. Ma il dato più interessante per comprendere gli effetti sulla propensione ad evadere determinati dal secondo modulo della riforma tributaria è rappresentato dall’andamento dell’IRAP nel settore privato. Mentre nel 2004 l’IRAP, non sfiorata dal primo modulo della riforma tributaria, registra un calo di mezzo miliardo di euro, a partire dal 2005, e sino a tutt’oggi l’imposta è oggetto di una dinamica del gettito nel settore privato del +10,5% nel 2005, anno di economia stagnate; del + 9,3% nel 2006 e del + 6,3% nel 2007 (nonostante il taglio del cuneo fiscale). Data la maggiore resistenza dell’IRAP all’evasione, per il suo carattere d’imposta reale, sembra verosimile che una parte significativa del maggior gettito sia conseguenza delle riduzioni fiscali mirate decise tra il 2005 ed il 2006. Un comportamento quindi determinato in tutta evidenza non da maggiore attenzione da parte del Governo Prodi per le politiche antievasione (le condizioni, obiettivamente vantaggiose, per definire eventuali accertamenti non hanno subito infatti modifica alcuna negli ultimi anni, e quindi per i contribuenti il rischio da “evasione” è rimasto invariato) ma dalla minor convenienza ad evadere, per i redditi medi, in seguito all'allargamento dell'area delle deducibilità e alla riduzione della progressività marginale dell'imposta personale, decise nei due anni precedenti. Un dato che avrebbe meritato di essere valutato con maggiore attenzione non solo da parte del nuovo Governo e che avrebbe consigliato ulteriori interventi di razionalizzazione nella curva delle aliquote e di allargamento delle deduzioni a favore della famiglia e delle imprese minori, accompagnati dalle correzioni di alcune incongruenze nel sistema delle deduzioni decrescenti, ereditate dalla parziale attuazione della legge delega di riforma del sistema tributario 80/2003 in continuità con tale legge. Coniugando insieme obiettivi di equità, efficienza e razionalità. Una scelta equilibrata, di graduale riallocazione degli oneri tributari, che avrebbe probabilmente avuto, se perseguita con continuità, effetti redistributivi interni al sistema tributario, maggiori di quelli perseguiti nel 2006/07 dal governo Prodi, senza produrre gli effetti collaterali 23 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 evidenziati in precedenza. La riforma dell'IRE-IRPEF attuata con la Finanziaria 2007, strumento inidoneo rispetto all’adozione di riforme ordinamentali e quindi senza alcun confronto e valutazione seria sugli effetti economici e distributivi e con stime sul gettito errate, appariva a chi scrive, già alla luce di alcuni dati parziali relativi alle entrate tributarie del primo semestre 2007, come una riforma onerosa per i contribuenti sotto il profilo del gettito, ed iniqua dal punto di vista distributivo. Il confronto di tali primi dati con quelli del primo trimestre 2008, relativi ai redditi da lavoro dipendente del settore privato i soli comparabili, dopo il diverso accorpamento di quelli del settore pubblico operato dal mese di gennaio, cresciuti del 12,5%, in un periodo in cui l’aumento dell’occupazione si è arrestato e non risultano particolari distribuzioni di compensi arretrati, conferma il giudizio negativo sugli effetti distributivi e più in generale economici indotti dall’aumento della progressività per i redditi medio-bassi dalla riforma dell’IRE-IRPEF del 2007. Risultato peraltro prevedibile che anche in considerazione dell’inversione del ciclo a partire dall’autunno 2007 avrebbe richiesto una prima correzione con la finanziaria 2008, almeno per la componente relativa al drenaggio fiscale, cui si deve la maggior parte dell’ulteriore incremento delle ritenute sui redditi da lavoro dipendente nel primo trimestre 2008. L'arbitrarietà ed irrazionalità di un sistema di detrazioni d'imposta decrescenti che, oltre a mascherare evidenti aspetti di illusione finanziaria, perché aumenta la progressività implicita del tributo, penalizza a parità di reddito quelli con carichi familiari, è stata più volte sottolineata dai giuristi per i profili di incostituzionalità che essa riverbera sul nuovo modello di imposizione del reddito personale. Ma l'aspetto più critico dell'imposta sul reddito personale, versione 2007, è quello relativo al maggior gettito atteso, stimato dalla Finanziaria, al netto delle riduzioni, pari a 230 milioni di euro: un dato che, a consuntivo, occorrerà moltiplicare per dieci volte o forse più, e che evidenzia il carattere improvvisato di una riforma che ha avuto esiti distributivi molto meno favorevoli per i contribuenti minori rispetto a quanto affermato dai sostenitori della riforma. Per un lavoratore dipendente la soglia di indifferenza si colloca intorno ai 1.150 euro mensili netti, ad un livello cioè tre volte inferiore rispetto alle stime del Governo. Anche il riferimento all’aumento degli assegni familiari, sottolineato da qualche economista, per giustificare la riforma sotto il profilo distributivo, appare inconferente, perché mentre la crescita del prelievo investe la maggior parte dei contribuenti, l’aumento 24 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 degli assegni familiari riguarda solo una parte dei medesimi; d’altra parte anche gli assegni familiari hanno carattere decrescente e contribuiscono quindi ad aumentare la progressività marginale dell’imposta, con effetti distorsivi nella distribuzione dei redditi. Senza dire che se la sottostima del gettito, oltre precisi limiti di prudenza, appare sempre criticabile in quanto determina incrementi di prelievo non valutati nella loro effettiva portata dal Parlamento e quindi consentiti solo formalmente, essa diviene, francamente inaccettabile quando è il frutto di una riforma dell'imposta personale, i cui effetti di gettito apparivano, già al momento della presentazione delle tabelle allegate alle Finanziaria, frutto di un esercizio di fantasia; e la cui collocazione deve quindi trovare necessariamente spazio nella voce relativa al recupero di evasione, non a caso portata alla inverosimile cifra di 8 miliardi di euro. I quali ricomprendono quindi sia gli effetti della revisione retroattiva degli studi di settore, per 3.3 miliardi, sia quelli relativi alla riforma dell’IRE/IRPEF, che valgono almeno 4.5 miliardi, sia le misure di allargamento degli imponibili: tutti interventi che con il contenimento dell’evasione hanno una parentela incerta o lontana. 4) Il ruolo dei sostituti d’imposta per contenere l’evasione nelle imprese minori: funzione e limiti della cosiddetta tracciabilità L’analisi dell’andamento delle entrate negli ultimi 2 anni è comunque di notevole interesse per il giurista (nei tributi i numeri sono il risultato diretto delle norme) perché consente non solo di verificare se gli effetti attesi degli interventi di riforma abbiano trovato, e in che misura, corrispondenza nell’andamento del gettito dei principali tributi, ma anche di avere riscontri, sia pure indiretti, sul ruolo giocato dalla nuova IRE/IRPEF, sull’aumento del gettito del tributo riformato. Evidenzia inoltre la natura tendenzialmente effimera di misure cosiddette antievasione che, intervenendo senza alcuna selettività sugli imponibili, non rimuovono le cause che rendono poco attendibili le dichiarazioni dei contribuenti minori, che non operino in prevalenza in rapporto con soggetti di grandi dimensioni; e ne sottolineano quindi le finalità essenzialmente di gettito. Raffaello Lupi, in più occasioni, ha evidenziato con chiarezza i limiti, innanzitutto culturali, di un approccio al tema dell’evasione che pretende di ricostruirne i profili economici ricorrendo a categorie moralistiche e utilizza la figura dei grandi evasori come strumento di consenso e di coesione sociale, senza porsi il problema centrale del diverso 25 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 grado di valutabilità, intrinseco a ciascuna attività, del proprio valore rappresentato dal reddito. In particolare, osserva Lupi, il fisco da un lato non sempre utilizza le potenzialità relative alla grande massa di informazioni che provengono dalle aziende istituzionalizzate per affinare i controlli sui contribuenti minori; dall’altro “valuta” questi ultimi in base ai medesimi strumenti analitico-contabili che descrivono la realtà economica delle imprese istituzionalizzate, con il risultato di avere, nella maggior parte dei casi, una fotografia delle attività minori dai contorni sfumati; circostanza che ovviamente non si riscontra nelle realtà istituzionalizzate, in cui la numerosità dei dipendenti rappresenta un elemento che limita molto l’evasione fiscale, fino a renderla, almeno nel settore delle retribuzioni, praticamente irrilevante. In un’impresa di dimensione minore ad esempio, la quota variabile del salario può essere corrisposta ai dipendenti almeno in parte fuori busta, sulla base di reciproche convenienze tra proprietà e dipendenti; ma il fenomeno, quando il loro numero cresce ed il ruolo organizzativo dell’azienda tende a differenziarsi rispetto a quello della proprietà, inevitabilmente si contrae progressivamente, fino a sparire. Purtroppo, e questo è un altro aspetto che viene ignorato quando si analizza l’anomalia dell’evasione italiana, il fisco costituisce assieme alla legislazione sul lavoro un ostacolo decisivo alla crescita dimensionale delle imprese; ed infatti negli ultimi trentacinque anni il numero medio di addetti per impresa nell’industria manifatturiera si è ridotto del 40% (da 5,3 a 3,8 addetti per impresa), in controtendenza rispetto al resto dei Paesi industrializzati: insomma dimensione delle imprese e struttura distributiva del prelievo, che concentra la propria attenzione prevalentemente sui ricavi e sul valore aggiunto della produzione, costituiscono un elemento sinergico che contribuisce ad alimentare l’evasione e a distribuirla sull’intero sistema tributario. In questo senso deve essere riconsiderato anche l’eccesso di fiducia riposto dagli economisti negli strumenti di etero-determinazione delle imposte, attraverso la tracciabilità delle attività, specie minori, per garantire la fedeltà fiscale: l’impiego su larga scala della figura del “sostituto d’imposta” per assicurare il versamento dei tributi ha effetti molto meno certi dal punto di vista del contrasto all’evasione, quando le dimensioni dei soggetti coinvolti (minori) facilitano gli accordi bilaterali, ai danni del fisco. Fenomeno questo particolarmente evidente nella attività di lavoro autonomo, che si riverbera sul gettito dell’IVA, sia perché la maggior parte delle attività non viene fatturata, sia perché una quota dell’IVA è dedotta indebitamente. 26 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Ma il vero elemento di debolezza delle politiche di contrasto all’evasione, basate su analisi del fenomeno di tipo sociologico, o semplicemente economiche, è rappresentato dall’assenza di quella visione di insieme nell’apprezzamento della realtà economica che solo la sensibilità giuridica è in grado di assicurare; specie in relazione ad attività che, ancorché minori, tendono ad assumere, anche sotto il profilo organizzativo, una complessità inimmaginabile non più di dieci o quindici anni fa. E cosa, se non l’assenza di metodo giuridico, ha caratterizzato negli ultimi due anni la miriade di interventi normativi in campo tributario; l’obiettivo, va da sé condivisibile di contrastare l’evasione, non basta a caratterizzare la sommatoria di interventi nei settori più disparati, privi di qualsiasi visione di sistema, in una svolta capace di imprimere un indirizzo nuovo alla politica tributaria, migliorandone gli assetti distributivi. La scarsa propensione a stimare la capacità economica, evidente nel nostro modello di imposizione, si estende al sistema dei controlli, concentrati prevalentemente sulle attività maggiori, e orientati all’analisi degli effetti delle realtà economiche apparenti, piuttosto che alla scoperta ed alla valutazione di quelle eventualmente occultate. Una scelta questa comprensibile perché non espone i funzionari ai rischi propri delle attività valutative, che presentano sempre dei margini di discrezionalità piuttosto ampi, ma che certo non contribuisce ad aumentare la capacità di contrasto all’evasione. All’interno di questo quadro di riferimento la scelta da parte del governo Prodi, di moltiplicare gli adempimenti amministrativi a carico dei contribuenti, con l’obiettivo di aumentare la tracciabilità dell’attività per estendere il livello di adesione spontanea (taxcompliance) appare una scelta comprensibile ma, per le ragioni rappresentate in precedenza, poco efficace, e per alcuni versi controproducente. La non portabilità degli assegni, ad esempio, in aree caratterizzate da diffusa evasione e da economia irregolare, non aumenta la tracciabilità delle operazioni, ma solo un ampliamento delle operazioni definite per contanti: in un quadro di generale rallentamento delle attività economiche che non preclude ad un miglioramento del tessuto economico, ma solo ad una osmosi tra l’area dell’economia irregolare e quella dell’evasione. L’influenza delle scelte di politica tributaria sul sistema produttivo, non riguarda solo la struttura delle imposte, che possono essere più o meno orientate a favorirne la crescita, ma investe anche i profili che attengono ai costi amministrativi e burocratici che l’adempimento degli obblighi tributari comporta per il sistema produttivo; riguarda quindi direttamente anche il sistema dei controlli, che a sua volta è influenzato dalla struttura delle imposte. 27 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Sotto questo profilo i dati relativi al maggior gettito delle attività di controllo tra il 2006 e il 2008, offrono alcuni importanti spunti di riflessione. Il primo è che l’incremento dell’azione di contrasto all’evasione che si è manifestata sia attraverso una maggiore incisività dei profili normativi dell’attività di controllo, sia nell’aumento del numero delle verifiche, ha comportato una lievitazione degli incassi, tra ruoli e versamenti diretti pari a 2 miliardi di euro nel 2007 rispetto all’anno precedente (4,367 miliardi nel 2006 – 6,376 miliardi nel 2007). Nel primo quadrimestre del 2008 il trend si è mantenuto positivo con un delta di incremento del 24%, che sembra confermare l’andamento dell’anno precedente, con un rallentamento della crescita degli incassi in base a ruoli, che sconta lo smaltimento di una parte consistente degli arretrati, da parte della riscossione, in seguito ai più incisivi strumenti esecutivi introdotti da Tremonti a fine 2005. Si tratta di risultati complessivamente molto positivi, che richiedono tuttavia qualche elemento di valutazione integrativo. Il primo riguarda l’IVA: qui i dati relativi all’attività di accertamento evidenziano un significativo calo sia nelle grandi aziende (-36% rispetto al 2006), sia in quelle dei soggetti diversi, con ricavi fino a 25,822 milioni di euro. Ora, poiché il differenziale di evasione dell’IVA italiana rispetto agli altri partner europei è rimasto negli anni sostanzialmente invariato, e anche negli ultimi due il recupero, pur significativo del gettito dell’IVA ha evidenziato solo una modesta inversione di tendenza in questo campo, appare evidente, come il problema del contrasto all’evasione sia anche un problema di controlli più efficaci, ma non si esaurisce certo nei controlli. Anche perché, pur ammettendo che il trend di recupero dell’evasione si mantenga ai livelli attuali anche nei prossimi anni, il che è evidentemente almeno dubbio, ci vorrebbe circa un quarto di secolo per eliminare l’evasione anomala, per collocarci al livello degli altri Paesi avanzati. Senza perdere di vista che l’aggravio per i contribuenti del costo di gestione degli adempimenti amministrativi, è aumentato negli ultimi 2 anni, per la sola parte tributaria ad oltre 2 miliardi di euro, il che evidentemente incide sulla competitività del sistema. Questa conclusione, sia ben chiaro, non sminuisce affatto il risultato molto positivo della lotta all’evasione (quella vera) negli ultimi 2 anni. Vuole, nell’evidenziarne l’importanza, sottolineare le necessità accanto alle tradizionali politiche di contrasto all’evasione, basate su controlli, di integrare tali politiche con una serie di interventi complementari sulla struttura delle imposte finalizzati da un lato a ridurre la convenienza ad 28 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 evadere, dall’altro rendere il sistema tributario più attrezzato, sotto il profilo ordinamentale, a contrastare l’evasione fiscale. Sotto questo profilo l’avere, negli ultimi 2 anni, messo insieme misure di effettivo contrasto all’evasione, con altre finalizzate esclusivamente a fare cassa, costituisce un evidente limite di quelle politiche, che ne ha in larga misura minato la credibilità; e la cui sottovalutazione in termini di maggiore gettito della nuova IRPEF, e degli interventi sugli studi di settore (per la loro applicazione retroattiva) ha determinato in Italia, in una fase turbolenta dell’economia mondiale, una stretta fiscale di cui non si avvertiva alcun bisogno. In conclusione, e sulla base dell’esperienza degli ultimi anni, è possibile individuare, all’interno di un percorso finalizzato ad accrescere il grado di competitività fiscale del sistema, alcuni indirizzi normativi coerenti con questo obiettivo, idonei a ridurre gradualmente gli spazi e le convenienze che oggi alimentano l’evasione, contribuendo al tempo stesso a rendere più robusto il nostro sistema produttivo. Il tutto, si badi bene, lasciando al legislatore il pieno esercizio della discrezionalità legislativa in campo tributario; recuperando alla normazione il ruolo suo proprio di strumento tecnico insostituibile, per regolare gli interessi individuati dalla politica, secondo l’indirizzo politico che essa di volta in volta esprime. 5) Ricerca di un equilibrio tra contenimento dell’evasione e rilancio della competitività del sistema tributario: in particolare il regime delle imprese minori e quello dei redditi familiari. Una politica tributaria, finalizzata a migliorarne la coerenza sotto il profilo distributivo e ad aumentarne il grado di competitività internazionale, sulla base degli indirizzi analizzati in precedenza, attraverso l’individuazione di interventi normativi in sintonia con tali obiettivi, dovrebbe caratterizzarsi per alcune linee di fondo, chiaramente percepibili dall’insieme dei contribuenti, da attuare per gradi, nell’arco di alcuni anni. Un primo obiettivo dovrebbe essere finalizzato a realizzare una consistente riduzione del carico tributario, a favore delle famiglie e delle imprese, accompagnata da una redistribuzione del prelievo tra imposte dirette ed IVA di consistenza almeno pari. La tesi che solo il recupero dell’evasione rappresenti la condizione preliminare per una riduzione delle imposte, il che in presenza di un’elevata evasione costituisce spesso un alibi per ulteriori aumenti, non è nella realtà, specie italiana, sostenuta da dati di esperienza e va quindi capovolta. 29 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Ovviamente la scelta dei mezzi per attuare la riduzione delle imposte non è indifferente: deve essere cioè attuata con l’impiego accorto di strumenti tra loro coordinati, idonei a produrre un effetto clessidra virtuoso. Meno imposte sui redditi attraverso modalità che facilitino l’allargamento degli imponibili, per determinare un effetto di traboccamento che si rifletta positivamente sul gettito dell’IVA e sull’IRAP , incrementandolo. Se si analizzano le conseguenze delle riduzioni fiscali decise tra il 2001 e il 2005, questa tendenza al riequilibrio, sia nella distribuzione delle imposte sul reddito tra le diverse tipologie di contribuenti, sia tra le imposte sui redditi e quelle sul valore aggiunto (IRAP e IVA) appare ad una attenta analisi dell’evoluzione del gettito delle principali imposte evidente; e il dato risulta tanto più interessante perché questi effetti si sono prodotti all’interno di un contesto in cui le riduzioni fiscali rispondevano ad esigenze politiche contingenti, piuttosto che ad un disegno finalizzato ad un riequilibrio del gettito tra i diversi tributi. Al contrario lo slittamento di un anno nell’adozione del secondo modulo della riforma del IRE-IRPEF (nel 2005 anziché nel 2004, con effetti sul gettito prevalentemente nel 2006) ne ha probabilmente limitato parzialmente l’impatto, in termini di riduzioni attese delle imposte da parte dei contribuenti, ritardando di molti mesi l’inversione del ciclo. Ma la tesi che la politica tributaria, in quella legislatura, non priva di incertezze nel perseguire il disegno riformatore, sia stata lassista, quando non addirittura compiacente con l’evasione, per via dei condoni, ovviamente criticabili, non trova riscontri nella realtà. Basta guardare all’aumento a due cifre del gettito dell’IRES e dell’IRAP a partire dal 2005 ed al lento ma costante recupero del gettito effettivo dell’IVA interna in quegli anni, per cogliere indizi di segno opposto che occorre riprendere oggi, con maggiore determinazione ed una attenta analisi proprio sulla base di quella esperienza. Anche l’opinione, più volte ripresa da studiosi di economia pubblica, che i condoni alimenterebbero l’evasione appare, nella realtà italiana, poco convincente: Certo i condoni non giovano alla serietà dell’ordinamento che li adotta per fini di cassa spesso discutibili (vedi rottamazione delle cartelle esattoriali); ma il successo in termini di gettito e il conseguente allargamento delle basi imponibili determinato dagli ultimi condoni, taglia alla radice qualsiasi obiezione relativa al fatto che i condoni sottrarrebbero in futuro una parte consistente di imponibili evasi alla possibilità di accertamenti. In tutti i casi, non è affatto dimostrato che i contribuenti siano spinti ad evadere nell’attesa di un futuro condono, ma per le caratteristiche strutturali delle principali imposte che alimentano la convenienza ad evadere. 30 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Al contrario i condoni in quanto aumentano in una misura esponenziale il rischio dei controllo, operano in senso inverso; obbligano cioè il contribuente poco corretto ad aderirvi (per altro senza alcun entusiasmo). In una situazione ordinaria in cui un contribuente poco fortunato (non si esprime, ovviamente, alcun giudizio di valore) può concordare un eventuale accertamento dell’Ufficio con uno sconto medio del 50% e con sanzioni ridotte ad un quarto, l’idea che siano i condoni ad alimentare l’evasione, al di là di una critica politica convincente, rispetto al loro abuso, significa avere un’idea del fenomeno evasione in Italia quanto meno approssimativa. Anche questi esempi facilmente riscontrabili, nella realtà del sistema tributario, riconducono alla necessità di interventi normativi che riducendo la convenienza ad evadere, limitino il fenomeno all’origine, in maniera incomparabilmente più efficace rispetto a strumenti di controllo che operino ex post su una platea di soggetti amplissima. Un discorso analogo può essere sviluppato per l’andamento dell’IRAP di cui è evidente lo stretto collegamento con le imposte sui redditi, ed i cui effetti distorsivi nei confronti delle esportazioni ne richiederebbe in prospettiva l’assorbimento nell’IVA. Una sua riduzione, parallela a quella delle imposte sui redditi, che in una prima fase potrebbe vedere concentrati i benefici prevalentemente sul lavoro dipendente, favorirebbe anch’essa la graduale emersione di base imponibile nelle imposte dirette, con effetti positivi in termini non solo distributivi, ma di coerenza complessiva del sistema. Tra le diverse possibili opzioni per ridurre, in misura consistente, il peso dell’ IRAP per i contribuenti, senza incidere sul gettito delle Regioni, vi è quella di rendere deducibile l’IRAP dalle imposte sui redditi. Questione questa all’attenzione da tempo della Corte Costituzionale , per i palesi effetti distorsivi della parità di trattamento che essa determina tra i contribuenti, senza alcun collegamento con la capacità contributiva; e che, se non è stata ancora decisa dalla Corte, evidentemente per la difficoltà di trovare una motivazione convincente circa la legittimità dell’attuale regime di indeducibilità, ma anche per i riflessi che una eventuale decisione sfavorevole al fisco avrebbe sul bilancio dello Stato, potrebbe essere affrontata dal nuovo Governo con un riconoscimento graduale della deducibilità che risolverebbe in radice il problema dei rimborsi, perché consentirebbe alla Corte, sulla base del nuovo orientamento legislativo, di superare i problemi di costituzionalità tuttora irrisolti . La tesi, sostenuta dai non molti economisti che ancora sostengono le ragioni di questo tributo, tanto originale da non essere stato adottato in nessun altro Stato del pianeta, che la deducibilità sarebbe un falso problema perché, ove il tributo fosse deducibile 31 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 dall’imposta sul reddito, lo stesso gettito potrebbe essere assicurato attraverso l’adozione di un’aliquota più elevata, per cui il conto, finirebbe quindi in parità, è suggestiva. Dal punto di vista del fisco, l’osservazione è corretta; non lo è però per i diretti interessati, i contribuenti che, se assoggettati all’IRES, non possono riportare in avanti la perdita fiscale nel caso, tutt’altro che infrequente, di un’impresa il cui esercizio chiuda in perdita. La situazione per le persone fisiche, se possibile, è ancora più grave, perché sul valore dell’IRAP assolta e non deducibile dall’IRE-IRPEF, si applica un’aliquota progressiva: il che è coerente con le caratteristiche del tributo personale, ma è del tutto irragionevole, perché l’IRAP rappresenta un costo per il contribuente, e non una espressione del proprio reddito. Una soluzione potrebbe essere quella di realizzare la piena deducibilità dall’imposta sui redditi, in un arco di tre o quattro anni, coprendo i costi relativi (2,5-3 miliardi all’anno) con l’incremento del gettito tendenziale dell’IRAP del settore privato; il quale a partire dal 2004 presenta una dinamica superiore a quella delle altre principali imposte che evidenzia una tendenza al contenimento dell’evasione, che precede di alcuni anni il Governo Prodi, ed è stata sicuramente incoraggiata dall’introduzione a partire dal 2005 di una no tax area pari a 7.500 euro per i contribuenti IRAP, con 5 dipendenti o meno. In ogni caso, nell’arco di qualche anno, il peso dell’IRAP, quantomeno nel settore privato dovrebbe essere fortemente ridimensionato, in parallelo con il recupero dell’evasione all’IVA, la cui attribuzione del gettito alle Regioni potrebbe favorire questo processo virtuoso per la competitività del sistema, senza riflessi negativi sui bilanci delle Regioni. In connessione con la scelta di rendere deducibile l’IRAP, andrebbe affrontato anche il più ampio tema della disciplina delle deducibilità nelle imposte sui redditi e non solo. L’attuale modello, basato in larga prevalenza su deducibilità al tasso del 19%, risulta di dubbia legittimità, perché aumenta la progressività implicita delle imposte sui redditi in modo poco trasparente, mentre l’eccessivo peso delle aliquote rispetto alle deduzioni e alle detrazioni d’imposta per determinare la progressività implicita, ed il valore modesto della quota deducibile (19%) rispetto alla spesa sostenuta, ne annullano praticamente l’efficacia sotto il profilo del contrasto di interessi. La soluzione probabilmente più ragionevole è quella di riconsiderare le attuali deduzioni al 19%, sostituendole gradualmente con deduzioni piene relativamente ad alcune spese socialmente rilevanti (spese per la salute, la cultura e l’istruzione, i trasporti, i mutui ed in genere il risparmio di lunga durata). L’ampliamento dell’area della deducibilità, nella 32 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 prospettiva di un modello di imposizione a due scaglioni, simile a quello previsto dalla legge 80/2003, assicurerebbe la progressività del tributo, affiancando la no tax area e la family area; per queste ultime la deduzione potrebbe avere ancora carattere moderatamente decrescente, fino ad annullarsi al passaggio del reddito al secondo scaglione. L’esperienza degli interventi di riduzione delle imposte sul reddito e dell’IRAP tra il 2005 e il 2006 basata sull’allargamento dell’area della deducibilità, offre la conferma dell’utilità di strumenti di questo tipo per aumentare la tax-compliance; anche in questo settore tuttavia non ci si deve attendere miracoli. L’importante è che gli interventi di riduzione delle imposte sul reddito e dell’IRAP, su cui il Governo mantieme un’ampia discrezionalità nella scelta degli interventi, siano complementari e modulati all’interno di un quadro normativo finalizzato a favorire l’emersione di valore aggiunto ai fini dell’IVA, attraverso modelli impositivi che privilegino la progressività per deduzione rispetto a quella per aliquota. Il vantaggio di un percorso di questo tipo è evidente: da un lato, facilita l’emersione graduale di quella parte consistente dell’economia irregolare che fugge da imposte modulate sulla capacità economica della parte più sviluppata del Paese; tema questo che meriterebbe una maggiore attenzione da parte degli studiosi di economia pubblica, che in genere hanno, specie negli ultimi anni, sottovalutato gli effetti della fiscalità, in cui un’economia, quale quella italiana, che resta sostanzialmente dualista. Dall’altro sposta una quota del prelievo dalle imposte dirette all’IVA, aumentando la competitività fiscale dell’economia nazionale. Non è questa la sede per affrontare i complessi problemi collegati con il non più rinviabile avvio di un modello di decentramento fiscale, finalizzato da un lato a responsabilizzare maggiormente le politiche di spesa locali, attraverso una più ampia autonomia tributaria, percepibile dai cittadini. Mi sembra tuttavia evidente che, poiché la diversa capacità fiscale per abitante obblighi già oggi e vincolerà ancor più in futuro le aree economicamente più deboli ad avere una fiscalità locale relativamente più onerosa per assicurare ai cittadini diritti sociali comparabili su tutto il territorio della Repubblica, l’estensione della deducibilità delle imposte locali (IRAP, ICI) da quelle statali sul reddito, assicurerebbe, al contrario di quanto previsto dalla legge delega di attuazione dei principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, presentata nell’agosto 2007 dal Governo Prodi, un parziale riequilibrio, in piena coerenza con la funzione propria del sistema tributario dello Stato, che è quella di assicurare la perequazione e la tendenziale parità di trattamento nella distribuzione degli oneri fiscali. 33 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Ma l’intervento legislativo più sconcertante è quello stabilito dall’art.1 comma 43 della legge 244/07 (Finanziaria 2008). La disposizione stabilisce che a partire dal 1° gennaio 2009 l’IRAP è istituita con legge regionale, ma con tali limitazioni quanto alla manovrabilità del tributo da parte delle Regioni, da renderne quanto meno dubbia la qualificazione di tributo proprio. Viene poi ribadita l’indeducibilità dell’IRAP dalle imposte sui redditi: disposizione evidentemente inutile perché, come del resto ribadito anche dalla Corte Cosituzionale, il regime di indeducibilità dell’IRAP dalle imposte sui redditi; riverbera la sua possibile illegittimità sull’IRE/IRPEF e sull’IRES, non certo sull’IRAP. La disposizione in parola, in quanto rivolta al legislatore nazionale non ha pertanto valore neppure come principio di coordinamento, ai sensi dell’art.117 terzo comma Cost.. L’unica cosa che appare chiara, in questa fase che dovrebbe preludere all’avvio del federalismo fiscale è che nella delicata e complessa vicenda del decentramento tributario gli interessi del cittadino contribuente sono semplicemente ignorati. La scarsa attenzione alla famiglia che caratterizza il nostro sistema tributario, a partire dalle riforme degli anni ’70, ha, in parallelo con l’incremento della pressione fiscale, rilanciato l’attenzione verso modelli diversi, quali lo splitting allargato della Germania o il quoziente familiare francese, che determinano in quei Paesi una tassazione dei redditi familiari molto più generosa della nostra (in Francia ad esempio una famiglia di quattro persone con un reddito annuo complessivo di 75.000 euro paga 5.800 euro, ovvero poco più di un quarto di una sua omologa italiana). Il problema tuttavia non riguarda il mezzo (nell’esempio il quoziente familiare), ma il risultato. Se la scelta del legislatore andrà nel senso di una decisa riduzione della progressività per aliquota, come nel modello del 2003, il quoziente familiare è uno strumento del tutto inutile, perché il 98% dei contribuenti rientrerebbe nel primo scaglione e quindi il quoziente sarebbe ininfluente rispetto alla progressività per aliquota. Al contrario per i contribuenti con i redditi più elevati il quoziente determinerebbe una riduzione eccessiva del tributo con evidenti effetti regressivi, insostenibili sia dal punto di vista dei principi, sia sotto il profilo politico. L’obiettivo di ridurre il peso del fisco familiare potrebbe essere invece assicurato da un graduale ampliamento della family area con strumenti che non penalizzino il lavoro femminile, specie part-time, ed assicurino una ragionevole gradualità nella perdita degli sconti fiscali dal momento del raggiungimento della maggiore età da parte dei figli. L’elasticità positiva che caratterizza il sistema tributario italiano rispetto a riduzioni mirate delle imposte sul reddito e sull’IRAP, sperimentata tra il 2002 e il 2006 consente di 34 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 programmare una serie di ulteriori consistenti riduzioni dell’ imposta personale, finalizzata sia ad assecondare l’emersione delle attività irregolari, sia al riequilibrio tra imposte sui redditi ed IVA. L’intervento dal lato delle entrate per raggiungere questi obiettivi deve avere dimensioni consistenti e quindi ha senso solo se accompagnato da una riduzione della spesa che la stabilizzi in termini reali, accordandone la dinamica al tasso di inflazione; contribuendo così ad innescare un circolo virtuoso in cui il peso della spesa pubblica rispetto al PIL diminuirebbe tanto più velocemente quanto più una politica finanziaria virtuosa favorisca una maggiore e positiva dinamica del prodotto interno lordo. Un’altra linea guida dovrebbe riguardare le modalità di determinazione delle imposte per i redditi minori da lavoro autonomo o di impresa. Si tratta di un nodo cruciale del nostro sistema tributario sin qui irrisolto, sia per il numero dei contribuenti interessati (svariati milioni tra lavoratori autonomi ed imprese individuali) sia per la struttura del sistema tributario, che non prevede, se non in misura marginale (ad esempio le nuove iniziative), un regime differenziato rispetto a quello dei contribuenti maggiori; con evidenti riflessi sul funzionamento dell’IVA, per la difficoltà di limitare la deducibilità degli acquisti non strettamente inerenti l’attività svolta, dato l’elevatissimo numero di partite IVA. La strada da percorrere, a mio avviso, è quella di favorire la fuoriuscita dal regime di deducibilità dell’IVA per almeno un paio di milioni di lavoratori autonomi ed imprenditori individuali, riducendo gli adempimenti contabili, ma non fino al punto di lasciare il contribuente libero di dichiarare quel che gli pare, fidando solo sulla tracciabilità delle operazioni. Una scelta quest’ultima fatta propria dalla Finanziaria 2007, che di fatto sembra favorire le attività svolte a favore dei privati o caratterizzate da sottofatturazione elevata, ma non risolve il problema di come determinare il carico d’imposta per i singoli contribuenti, attraverso un collegamento meno evanescente all’attività economica effettivamente svolta da ciascuno. Ritengo che un ragionevole punto di equilibrio, tra riduzione dei costi gestionali e convenienza tributaria da un lato, ed un tendenziale maggior realismo delle dichiarazioni possa essere trovato attraverso un regime forfetario, magari a valenza biennale, che preveda comunque, sul modello francese, il filtro di un controllo preventivo, magari biennale, da parte dell’Amministrazione finanziaria, differenziato, a seconda che riguardi il lavoro autonomo o i redditi d’impresa minore (in questo caso il tetto potrebbe essere portato a 100.000 euro). Una soluzione, quindi che, in tema di semplificazione tenga conto dell’esperienza tedesca e del contributo di quella dottrina che ancora la legittimità di modelli 35 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 di semplificazione o di tipo forfettario, al fatto che questi siano attuati in modo da favorire l’estensione dell’eguaglianza tributaria, valorizzando il criterio di proporzionalità tra mezzi e risultati. Il nuovo regime forfetario dovrebbe essere comunque collegato ad una evoluzione degli studi di settore che consenta di ridurre lo scarto tra volume d’affari, reddito e relativo rango di coerenza con gli studi, privilegiando quegli elementi che consentano di non fare lievitare eccessivamente il reddito imponibile rispetto ai ricavi. In questo senso appare evidente il ruolo giocato dalle deduzioni, che rappresentano pur sempre un elemento significativo per risalire al volume di affari reale e la cui efficacia è tanto maggiore quanto minore è lo scarto tra aliquota media,che determina l’effetto distributivo implicito dei tributi, e quella marginale che costituisce il sovrappremio dell’evasione. Il che riconduce, quasi fatalmente, se si riconosce il carattere prioritario che riveste l’obiettivo di una maggiore e diffusa regolarità fiscale, a percorrere con determinazione la strada delle riduzioni fiscali mirate. In ogni caso gli studi di settore devono essere considerati uno strumento in continua evoluzione; il loro affinamento presuppone da una lato l’allargamento dei parametri di valutazione all’IRAP e all’IVA; dall’altro un recupero di flessibilità, che ne corregga gli sbandamenti dovuti ad alcuni interventi estemporanei del legislatore nel 2007. La tendenza dovrebbe essere quella di orientare gli studi verso modelli che privilegino la crescita dei ricavi e del valore aggiunto rispetto alla determinazione del reddito che potrebbe essere integrata con uno specifico indice di normalità territoriale. Favorendo una programmazione fiscale che renda meno conveniente l’occultamento di una parte dei costi, per aggirare il software GERICO. L’esperienza delle politiche di contrasto all’evasione, che per tanta parte hanno condizionato la politica tributaria nell’ultima legislatura fino al punto di far perdere di vista altri aspetti non meno importanti, quali ad esempio l’impatto delle decisioni di politica tributaria sulle aspettative delle famiglie e più in generale sull’economia, offre lo spunto per alcune considerazioni conclusive. La prima è che non basta porsi un obiettivo virtuoso (ad esempio la lotta all’evasione) per attuare una politica tributaria equilibrata sia sotto il profilo distributivo sia dal punto di vista economico L’abuso della retroattività ed una riforma dell’IRE-IRPEF nel 2007 con fini prevalentemente redistributivi hanno, probabilmente al di là delle stesse intenzioni del legislatore, colpito una platea così ampia di contribuenti da provocare una 36 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 frattura che si è dimostrata insanabile tra maggioranza del corpo elettorale e Governo, ed ha avuto un ruolo determinante nella conclusione anticipata della legislatura. Il cui lascito, per altro non certo irrilevante è che il contrasto all’evasione strutturale debba comunque rappresentare una priorità anche per il prossimo Governo. La seconda è che la gestione di realtà complesse come quella tributaria presuppone una accurata individuazione di strumenti giuridici di semplice gestione, coerenti con l’obiettivo di ridurre la convenienza ad evadere, non certo il loro sistematico snaturamento, o peggio l’idea che il diritto rappresenti un inutile orpello di cui sbarazzarsi alla prima occasione. La terza considerazione, connessa con la precedente, riguarda l’analisi degli effetti della politica tributaria: esame che, per le logiche di sistema proprie di tutti gli ordinamenti giuridici, non può certo limitarsi ad analizzare le singole disposizioni di legge, ma deve essere in grado di comprenderne le ricadute, indirette sull’intero ordinamento tributario, e di prevederne ragionevolmente le conseguenze economiche. Un metodo questo quanto meno sottovalutato, sia nell’approccio con cui sono state individuate e costruite le innumerevoli novità tributarie della legislatura appena conclusa, sia nell’analisi degli effetti delle disposizioni, che specie da parte di studiosi di economia pubblica, sono state in genere sopravvalutate negli effetti positivi, senza porre attenzione alle ricadute sul sistema, quanto meno problematiche, quando non prevedibilmente negative. Trovo ad esempio sorprendente la generale sottovalutazione delle conseguenze, sul terreno della crescita, di una concentrazione degli effetti delle misure fiscali, adottate dal Governo Prodi nel 2006 e con la Finanziaria 2007 anche per l’abuso di disposizioni retroattive,; un colpo di freno all’economia pari a 16,5 miliardi di euro in 5 mesi (tra luglio e novembre 2007) concentrato su famiglie e imprese, a cui vanno sommate almeno 4,3 miliardi di maggiori imposte (tra IRE-IRPEF e addizionali) a carico del lavoro dipendente (a partire da gennaio 2007): una stretta fiscale priva di senso anche in termini di politica di bilancio (ne è prova il rinvio al 2008 di versamenti a carico della riscossione previsti a dicembre per circa 5 miliardi di euro), che evidenzia una incredibile navigazione a vista nel Governo della finanza pubblica. Non ignoro che una parte del maggior gettito dei tributi sia stato utilizzato per finanziare interventi che a prima vista appaiono ragionevoli sotto il profilo distributivo e che avrebbero meritato di essere inseriti nel sistema in un diverso contesto. Resto invece perplesso rispetto ad esercizi di misurazione degli effetti distributivi della politica fiscale 37 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 (basati sull’applicazione di indici quali quello di Gini) che ovviamente non possono tener conto né dell’evasione né dell’economia irregolare. Mi sembra contraddittorio da un lato sottolineare il carattere anomalo, anche dal punto di vista dimensionale dell’economia irregolare in Italia. (20%- 25% del PIL) e farne dedurre da questo dato una stima dell’evasione pari a 120-150 miliardi di euro, come se l’economia irregolare non pagasse alcun tributo; e utilizzare poi quale indice di riduzione delle disuguaglianze, misure di sostegno diretto a favore dei contribuenti che risultino incapienti rispetto a nuove detrazioni fiscali, quando non vi è alcuna evidenza empirica che all’area dell’incapienza corrisponda nella maggior parte dei casi, un disagio, e non un comportamento fiscalmente irregolare. Insomma l’impiego di strumenti di imposizione negativa, ben noti anche alla cultura giuridica, appaiono nelle attuali circostanze, piuttosto un esercizio teorico, supportato da ottime intenzioni, che un tassello organico di una evoluzione delle imposte verso un sistema più razionale ed equilibrato ed attento alle persone. Il problema degli incapienti è determinato essenzialmente dal mancato raccordo tra il limite di reddito da non superare per essere considerato a carico di un altro familiare convivente (2.840 euro), limite al di sotto del quale il dichiarante ha diritto ad una detrazione di 800 euro ed il minimo imponibile fissato sia per i redditi da lavoro dipendente (8.000 euro), sia per quelli da lavoro autonomo (4.500 euro) ad un livello molto più elevato. Elemento questo che alimenta in molti casi il lavoro nero e, nelle detrazioni diffuse di redditi modesti ma superiori a 2.840 euro, l’incapienza delle detrazioni stabilite a sostegno della famiglia. IL solo percorso razionale è quindi quello di elevare la detrazione per carichi familiari al livello del minimo imponibile, conservandone il carattere decrescente. Probabilmente le misure a favore degli incapienti, introdotte con il decreto legge di accompagnamento alla Finanziaria, uno strumento, sia detto per inciso, giuridicamente abnorme, rispondevano alla motivazione inespressa di voler correggere l’aumento eccessivo del prelievo, determinato dalla riforma dell’IRE/IRPEF del 2007, per i contribuenti a basso reddito. Una toppa peggiore del buco, come si usa dire nella patria di Goldoni. Queste osservazioni sottolineano da un lato la complessità dei problemi, dall’altro l’importanza di affermare una tendenza a favorire comportamenti orientati ad una maggiore regolarità fiscale, come conseguenza di una struttura delle imposte meno aggressiva sulle realtà visibili, e più equilibrata verso le altre , che non possono godere, come spesso avviene oggi, di ampie zone franche. 38 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Una tendenza che va costruita gradualmente e che non si presta ad essere gestita con approssimazione, o peggio ancora con aumenti di imposta a pioggia su intere categorie di contribuenti, per di più con effetti retroattivi su redditi già prodotti, del tutto irragionevoli. In conclusione non mi nascondo i limiti di un approccio al tema dell’evasione che si basi essenzialmente sull’analisi tecnica dei profili giuridici dei principali tributi, sulla loro reciproca interdipendenza e su dati di gettito caratterizzati da disaggregazioni significative, ma pur sempre parziali; e che su questi elementi costruisca ipotesi di interventi normativi finalizzati ad aumentare il grado di effettività, sistematicità, eguaglianza distributiva e competitività dell’ordinamento tributario. D’altra parte è di tutta evidenza l’interconnessione tra l’obiettivo di avviare a compimento un moderno sistema di decentramento fiscale, e la necessità di una riforma complessiva del sistema tributario, funzionale a rendere possibile questo obiettivo. Sotto questo profilo,il progetto di legge di federalismo fiscale proposto dalla Regione Lombardia, rappresenta molto più di una provocazione, perché evidenzia l’impossibilità di finanziare con l’attuale sistema tributario, e con un trasferimento di funzioni, non parametrato alla stessa scala dimensionale (e di popolazione) delle Regioni, i costi del decentramento. Ben inteso, nessuno pensa di invadere il terreno della discrezionalità legislativa, ma poiché tutta la materia è coperta da riserva di legge ed in diverse circostanze investe anche principi di rilievo costituzionale, appare evidente l’urgenza, oltre che la necessità di affrontare le questioni che attengono al fisco con minore improvvisazione rispetto ad un passato recente, rivalutando il ruolo centrale svolto dalla normazione per perseguire gli obiettivi posti dalla discrezionalità politica. Naturalmente ho presenti i punti di vista, talvolta divergenti con le conclusioni qui espresse, offerti dall’analisi economica rispetto al tema dell’evasione e più in generale al tema degli effetti dei tributi. La mia impressione è che questo derivi non solo dalla diversità del metodo impiegato; quello economico in particolare sembra talvolta condizionato sia da esperienze di diversa origine, non facilmente trasferibili nella realtà italiana, sia più in generale dalla sottovalutazione degli aspetti giuridici dai quali, specie in campi come quello tributario, non è possibile prescindere! Si pensi, ad esempio, al tema delle deduzioni, in genere sottovalutato nei suoi effetti sul sistema tributario italiano, specie con riferimento all’evasione, dall’analisi economica. Non mi riferisco solo alle argomentazioni di tipo etico, per le quali il dovere di assolvere agli obblighi tributari dovrebbe valere a prescindere dai benefici che da questo 39 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 comportamento possano derivarne ai contribuenti, alle quali posso solo osservare che la mia analisi si muove su un piano diverso. Penso invece all’obiezione che il contrasto di interessi per essere efficace dovrebbe determinare per il fisco una perdita fiscale per via della deducibilità, pari all’imposta versata dal contribuente che ha diritto alla deduzione. Tesi questa non convincente perché si limita ad analizzare le conseguenze della deducibilità nella sola imposta sul reddito, senza considerare gli effetti positivi che l’allargamento degli imponibili comunque comporta sul gettito delle altre imposte collegate all’attività svolta dal contribuente, quali l’IRAP e l’IVA. Né il fatto che l’allargamento dell’area della deducibilità rappresenta un ottimo indicatore per sottoporre a verifica la valutazione reddituale dell’attività dichiarata avvicinandola a quella effettiva. Questa opinione conferma i limiti di un approccio esclusivamente economico all’analisi del tributo e delle sue vicende che, anche per lo scarso interesse manifestato dai giuristi ai temi della normazione, è sempre più considerato nell’opinione corrente una questione di interesse strettamente economico. Con il risultato che la vicenda dei tributi appare sempre meno orientata ad essere analizzata con riguardo agli effetti che essa determina in fatto: parametro quest’ultimo obbligato dell’analisi giuridica. Questo limite intrinseco all’analisi dei tributi oggi prevalente in Italia è ben evidenziato dal tema della capacità contributiva , tautologico per gli economisti; parametro di riferimento per definirne la legittimità, per l’analisi giuridica. Ma forse la conseguenza più paradossale di questa condizione squilibrata nell’approccio all’analisi dei tributi è che i temi degli effetti economici reali e della competitività del sistema tributario sono oggi, in Italia, se non ignorati quanto meno molto sottovalutati; per la buona ragione che di norma si parla di tributi in maniera del tutto generica senza conoscerne i delicati meccanismi di funzionamento. I quali evidentemente sono tutt’altro che indifferenti sia rispetto agli effetti distributivi sia a quelli economici. La conclusione che si può trarre dall’esame degli indirizzi della politica tributaria degli ultimi due anni è che, al di là dell’ingegno nel contrasto all’evasione che ha accompagnato l’azione del Governo Prodi, sia purtroppo mancata quella visione organica, intrinseca alla metodologia giuridica che sola consente di coordinare a sistema l’insieme di misure a carattere settoriale, all’interno di un’architettura normativa coerente. In questa prospettiva l’analisi economica dei tributi rappresenta, a mio modo di vedere, uno strumento complementare di sicura utilità rispetto al metodo giuridico, per orientare la disciplina delle imposte. Ma non possa costituire come nel recente passato il solo parametro 40 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 di riferimento per affrontare la complessa realtà tributaria italiana, largamente insoddisfacente anche per l’eclissi del diritto che da troppo tempo ne rappresenta un elemento caratterizzante. 41 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Bibliografia Baldini M.- Bosi P., L’equità in tre riforme, in www.lavoce.info; Bernasconi M. , La Pecorella F. I condoni nel sistema tributario italiano p. 377 in “La Finanza Pubblica Italiana Rapporto 2006” a cura di M.C. Guerra e A. 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Zanardi Il Mulino 2006 Tremonti G., La fiera delle tasse, Il Mulino, 1991, p. 159. 44 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Los derechos fundamentales de los extranjeros a la luz de la jurisprudencia del Tribunal Constitucional por Nicolás Pérez Sola1 I.- Los pronunciamientos iniciales del Tribunal Constitucional Creemos que un elemento imprescindible para conocer el estatuto jurídico del inmigrante en nuestro país lo constituye la jurisprudencia constitucional, en la que se aprecia una evolución significativa en la materia. Si bien esta lectura debe ser complementada con otros pronunciamientos del Alto Tribunal respecto al contenido esencial de los derechos fundamentales o el valor hermenéutico de los tratados internacionales, en los que se contiene un reconocimiento expreso de los mismos, a tenor de la falta de homogeneidad que preside la proclamación constitucional de la titularidad de los derechos fundamentales por los extranjeros. Es por ello que la interpretación de la Constitución (en adelante CE), en el ámbito de la titularidad de los derechos fundamentales, queda abierta a un amplio margen de apreciación que pasa, inicialmente, por una aproximación a los términos del artículo 13 de esta Norma Fundamental. Como ya destacara la doctrina, el enunciado literal del artículo 13 CE permite una gradación en las condiciones de ejercicio de los derechos por los extranjeros, insistiendo el constituyente en la configuración legal de los mismos. No cabe duda que el mandato del artículo 13 CE nos remite al legislador para configurar los términos exactos del ejercicio de los derechos de los extranjeros2. Pero, sin cuestionar este extremo, debemos recordar que el legislador de los derechos fundamentales no goza de una absoluta libertad para regular las condiciones del ejercicio de los mismos, aun cuando sus titulares no sean nacionales. De una parte, el propio contenido esencial del derecho fundamental actuará como un límite insalvable para el legislador, de otro, los tratados internacionales completan el marco de referencia en el que debe operar el legislador orgánico. 1 Universidad de Jaén (España); El presente trabajo se ha desarrollado en el marco del Proyecto de Investigación SEJ2005-05368 El estatuto jurídico y los derechos de los inmigrantes dirigido por E. Aja. Una versión actualizada aparecerá próximamente en el número 17 de la Revista de Derecho Migratorio y extranjería. 2 “Los extranjeros gozarán en España de las libertades públicas que garantiza” la Constitución española “en los términos que establezcan los tratados y la ley”. 45 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 En todo caso las sucesivas reformas legales en la materia evidencian la inexistencia de una orientación clara en la regulación de la inmigración. Así cabe recordar que desde el año 2000 se han llevado a cabo las siguientes regulaciones: Ley Orgánica 4/2000 sobre derechos y libertades de los extranjeros en España y su integración social, reformada por la Ley Orgánica 8/2000, cuya reforma se ha producido a través de la Ley Orgánica 11/2003 de medidas concretas en materia de seguridad ciudadana, violencia domestica e integración social de los extranjeros y por la Ley Orgánica 14/2003, sin olvidar el vigente Reglamento de extranjería contenido en el Real Decreto 2393/20043. . En esta “configuración legal” el Tribunal Constitucional fundamentó, en su temprana sentencia 107/1984, un primer intento de sistematización, a través de una clasificación tripartita de los derechos fundamentales susceptibles de titularidad por los extranjeros. Así, el Tribunal Constitucional, lejos de extraer una conclusión homogénea, afirmaba en dicha sentencia que “la igualdad en el ejercicio de los derechos, (...) depende, pues, del derecho afectado”, por lo que el propio Tribunal reconocía la existencia de derechos que corresponden “por igual a españoles y extranjeros y cuya regulación ha de ser igual para ambos”, otros de los que estarían excluidos los extranjeros y, finalmente “aquéllos que pertenecerán o no a los extranjeros según lo dispongan los tratados y las leyes, siendo entonces admisible la diferencia de trato con los españoles en cuanto a su ejercicio”. Retomando brevemente los términos de aquella resolución encontramos una referencia incompleta en la STC 107/1984 a la ubicación de los distintos derechos proclamados en el Título I CE en cada una de estas categorías. En cuanto a los derechos incluidos en este primer grupo, señalaba el Tribunal Constitucional, cabe prescindir “para modular el ejercicio del derecho” de la nacionalidad de sus titulares y, por tanto, afirmar así “una completa igualdad entre españoles y extranjeros”, como ocurre respecto de derechos que pertenecen a la persona en cuanto tal y que son “imprescindibles para la garantía de la dignidad humana”, que fundamenta nuestro sistema político. Aunque 3 La sentencia de la Sala de lo Contencioso–administrativo del Tribunal Supremo de 20 de marzo de 2003 declaró nulos 12 artículos del Real Decreto 864/2001por el que se aprobaba el Reglamento de ejecución de la Ley Orgánica 4/2000, ante la que el gobierno decidió la elaboración y aprobación del citado Real Decreto 2393/2004. 46 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 esta afirmación queda matizada ya que, dicha proclamación contenida en el artículo 14 de la CE4 se refiere “con exclusividad a los españoles”, sin que quepa deducir de la Constitución dicha igualdad a los extranjeros. Pero la inexistencia de declaración constitucional que proclame la igualdad de los extranjeros y españoles no es un argumento indiscutible, sino que la interpretación del artículo 13 CE debe aportar los instrumentos necesarios para determinar el alcance de este mandato constitucional (STC 107/84). Es precisamente en este ámbito en el que la indeterminación pesa aún sobre el legislador orgánico y constituye uno de los elementos más polémicos del debate actual sobre extranjería. En efecto, como hemos apuntado en otro lugar5, el legislador orgánico no ha sido ajeno a esta cuestión, si bien ha recogido de modo distinto la regulación de las condiciones de igualdad en el ejercicio de los derechos por los extranjeros en los dos textos aprobados en el año 2000. A nuestro entender, la clave que permite un fundamento diferenciado entre ambos textos no es otra que el diverso entendimiento de la extranjería que se deriva de las redacciones sucesivas del artículo 3 de la Ley Orgánica. Es en este precepto, en nuestra opinión, donde se ubica el elemento esencial de análisis por cuanto marca la pauta que luego de forma individualizada para los diferentes derechos se concretará a lo largo del articulado de la norma. Inicialmente se precisaba en la Ley Orgánica 4/2000 que “los extranjeros gozarán en España, en igualdad de condiciones que los españoles, de los derechos y libertades reconocidos en el Título I de la Constitución y en sus leyes de desarrollo, en los términos establecidos en esta Ley Orgánica”. Pero esta redacción ha sufrido una clara modificación en la Ley Orgánica 8/2000 al prescindir expresamente el legislador de referencia alguna a la “igualdad de condiciones que los españoles”. Además, el segundo párrafo incorporado al texto anterior si en principio recupera la igualdad, lo hace en un sentido claramente restrictivo que invita desde la propia ley a llevar a cabo una lectura restringida del alcance de la igualdad, frente al “efecto irradiador”6 respecto de todos los derechos que permitía el artículo 3,1 en la redacción anterior de la que se derivaba un “fuerte 4 “Los españoles son iguales ante la ley” Sobre las dudas de constitucionalidad de algunas limitaciones al ejercicio de derechos fundamentales ver Pérez Sola, N., en Comentario a la Ley y Reglamento de Extranjería e Integración social, Monereo Pérez y Molina Navarrete, Comares, Granada 2001 pags, y ss. 6 Aja, E.,(Coord.), La nueva regulación de la inmigración en España, Institut de Dret Public, Tirant lo blanch, 2000, pág. 76. 5 47 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 contenido simbólico”7. De la redacción de la Ley Orgánica 4/2000 se deducía con claridad que la invocación de la igualdad estaba destinada a operar sobre los derechos y libertades reconocidos en el Título I de la CE, mientras que la incorporación como criterio interpretativo de la igualdad en la Ley Orgánica 8/2000 tiene como destinatario a los derechos en ella reconocidos8. Así en la vigente norma se afirma que “como criterio interpretativo general, se entenderá que los extranjeros ejercitan los derechos que les reconoce esta ley en condiciones de igualdad con los españoles”. En otras ocasiones, ha señalado el Tribunal Constitucional, puede recaer en la nacionalidad el elemento esencial para la determinación de los titulares de los derechos y por ello no resultaría de aplicación el principio de igualdad, como sucede con la participación en los asuntos públicos. Aunque esta afirmación fue matizada por el Tribunal Constitucional en su Declaración de 1 de julio de 1992 que propició la única reforma constitucional acaecida a nuestra Carta Magna de 1978. La Declaración de 1 de julio de 1992 del Tribunal Constitucional marca, sin ningún género de dudas, un punto de inflexión en el tratamiento de la extranjería. En esta Declaración se contiene la afirmación de que el Tratado de la Unión Europea configura una “naciente ciudadanía europea”, en orden a una “parcial superación del tradicional binomio nacional/extranjero por la vía de la creación de aquel tercer status común”, que ha posibilitado a través de la reforma constitucional, el reconocimiento de derechos de participación política inicialmente reservados a los nacionales9, en favor de los extranjeros comunitarios más allá de la estricta aplicación del criterio de la reciprocidad10.Tras esta afirmación, parece necesaria la reconsideración de la titularidad de los derechos de participación política, tradicionalmente los más estrechamente vinculados con la nacionalidad y en la actualidad dotados de gran dinamismo. Pero también se deduce de esta Declaración una apuesta 7 Santaolaya Machetti, P., (Coord.), Comentarios a la nueva Ley de Extranjería, Lex Nova, Madrid, 2000, pág. 51. 8 Balaguer Callejón, F., “Derechos de los extranjeros e interpretación de las normas ( art. 3)", en Moya Escudero, M., (Coord.) Comentario Sistemático a la Ley de Extranjería, Comares, Granada 2000, pág. 481. 9 Recordemos que en la redacción de la primera ley de extranjería, la Ley Orgánica 7/1985, expresamente se señalaba que los extranjeros no podrían ser titulares de los derechos de sufragio activo o pasivo ni acceder al desempeño de cargos públicos, si bien se matizaba más adelante que se podría reconocer el derecho de sufragio activo en las elecciones municipales a los extranjeros residentes “en los términos y con las condiciones que, atendiendo a criterios de reciprocidad”, se estableciesen en tratados o por ley para los españoles “residentes en los países de origen de aquellos” (art. 5). 10 Así podemos señalar con antelación a la reforma constitucional el Acuerdo entre España y los Países Bajos por el que se reconoce el derecho a votar en elecciones municipales con carácter reciproco (BOE 8 de agosto de 1990), el Acuerdo entre España y Dinamarca (BOE 30 noviembre 1990) y los Acuerdos entre España y Noruega y España y Suecia (BOE 27 junio 1991). 48 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 del Tribunal Constitucional en favor de una concepción-percepción superadora de las categorías tradicionales de nacionalidad y extranjería aunque con un alcance por el momento limitado. Finalmente, existiría a la luz de esta jurisprudencia constitucional, un grupo de derechos constitucionalizados que, de conformidad con el artículo 13.1 CE, su goce por los extranjeros se realizará en los “términos de la ley”. No ha habido, sin embargo, por parte del Tribunal Constitucional una invocación expresa de qué derechos fundamentales serían incardinables en este grupo. Es, por tanto, en la concreción de los derechos incluibles en el tercer grupo donde se planteaba bastante incertidumbre que el propio Tribunal, consciente de ello, pretendía salvar señalando que el artículo 13.1 CE no deja abierto el camino hacia la “desconstitucionalización” de la “posición jurídica de los extranjeros” respecto de los derechos y libertades constitucionalizados, en la medida en que el origen del reconocimiento de estos derechos no está en las libertades que les atribuyan los tratados y la ley sino en la propia Constitución. Respecto de este tercer grupo de derechos es cierto que desde la doctrina se señaló en un primer momento como derechos incluibles en él los derechos de reunión y asociación junto a otros como la libertad de residencia, el derecho a la enseñanza, a la sindicación y a la huelga11. Más tarde, algún autor ha optado por excluir de este ámbito a los referidos derechos de asociación y reunión apuntando su ubicación entre los que deben predicarse por igual de todas las personas12. La incertidumbre sobre la identidad de los derechos incluibles en este grupo quedó despejada tras la aprobación de la Ley Orgánica 8/2000 y solo con la STC 236/2007, 259/2007 y siguientes ha sido matizada y concretada, como más tarde se verá. En esta norma se reconoce a los extranjeros un conjunto de derechos pero su ejercicio quedaba sujeto a la regularidad de su situación administrativa en nuestro país y/o al contrato de trabajo, convirtiendo en una ficción su titularidad ya que no era posible su ejercicio para los extranjeros que se encontrasen en una situación irregular. Por otra parte, para Aragón Reyes la constatación que realiza el Tribunal Constitucional en la Sentencia 107/1984 no es otra que el origen constitucional de los derechos fundamentales de los extranjeros y de ahí su consideración como “verdaderos” 11 Cruz Villalón, P., “Formación y evolución de los derechos fundamentales”, Revista Española de Derecho Constitucional, Núm. 25, enero-abril 1989. 12 Massó Garrote, M. F., Los derechos políticos de los extranjeros en el Estado nacional. Los derechos de participación política y el derecho de acceso a funciones públicas, Colex, 1997. 49 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 derechos fundamentales, sin perjuicio de su configuración legal. Ahora bien, la diversa consideración de los derechos fundamentales de los extranjeros realizada por nuestro Tribunal se fundamenta para este autor en la mayor conexión con la dignidad humana de la vida o la integridad física, del derecho a la libertad ideológica, a la intimidad y a la libertad personal como a la tutela judicial efectiva. Sin embargo, otros derechos constitucionalizados cuya “conexión no es directamente inmediata”, permite al legislador introducir diferencias de trato siempre que respete el contenido esencial del derecho y responda a criterios de “razonabilidad y proporcionalidad”13. Es cierto que aquella inicial posición del Tribunal Constitucional ha sido matizada, pues en la STC 115/1987 se declaró la inconstitucionalidad de algunos preceptos de la Ley Orgánica 7/1985 sobre derechos y libertades de los extranjeros en España14. Recodando brevemente algunas de las afirmaciones vertidas en aquella sentencia recogemos los precisos términos en los que el Tribunal Constitucional centró aquél debate: “una cosa es, en efecto, autorizar diferencias de tratamiento entre españoles y extranjeros y otra es entender esa autorización como una posibilidad de legislar al respecto sin tener en cuenta los preceptos constitucionales”. Por tanto, aunque el Tribunal parte del reconocimiento al legislador de la posibilidad de establecer condicionamientos adicionales al ejercicio de derechos fundamentales por parte de los extranjeros (art. 13.1 CE), en todo caso debe respetar “las prescripciones constitucionales, pues no se puede estimar aquel precepto permitiendo que el legislador configure libremente el contenido mismo del derecho cuando éste ya haya venido reconocido por la Constitución directamente a los extranjeros”. A tenor de este pronunciamiento del Tribunal los derechos de reunión y manifestación así como del de asociación son predicables también de los extranjeros. II.- La jurisprudencia sobre los derechos fundamentales de los extranjeros 13 Aragón Reyes, M., “Es constitucional la nueva ley de extranjería”, Claves de Razón Práctica, núm. 112, pág. 14. 14 Brevemente expuesto el contenido de aquella Sentencia, el Tribunal Constitucional consideró contraria a la CE la sujeción a autorización administrativa para el ejercicio de los derechos de reunión y asociación de los extranjeros, así como la imposibilidad de que los jueces y tribunales pudieran suspender la ejecución de las resoluciones administrativas que afectaran a los extranjeros, reconociendo que éstos eran titulares del derecho a la tutela judicial efectiva. 50 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Con posterioridad, y con un alcance más limitado, se han sucedido pronunciamientos relativos a la protección de los derechos de los extranjeros que, si bien reflejan una cierta evolución en la doctrina del Tribunal, no permiten extraer una jurisprudencia sólida a tenor de los concretos ámbitos de garantía cuestionados. En una breve enumeración por su significación podemos recordar un pequeño bloque de Sentencias relativas a las cautelas que deben ir unidas a la expulsión en las que el Tribunal ha matizado las garantías que deben presidir los procedimientos de expulsión administrativa de los extranjeros ( SSTC 94/199315, 116/1993 y 242/1994). En esta misma línea y por la trascendencia de su afirmación vale la pena recordar que en la STC 242/1994 el Tribunal Constitucional dejó formulada la posibilidad de que los extranjeros “pueden ser titulares de los derechos fundamentales” salvo la excepción constituida por el artículo 23 CE en los términos establecidos por la Declaración del Tribunal Constitucional de 1 de julio de 1992. Pero a esta matizada evolución jurisprudencial no le ha seguido, al menos con la intensidad que en otros Estados, el necesario debate doctrinal en torno a la conveniencia 16 fundamentales como derechos humanos” de reforzar “la validez de los derechos de toda persona. Posteriormente la jurisprudencia constitucional ha ido matizando el alcance del derecho de los extranjeros al habeas corpus (SSTC12/1994, 21/1996, 66/1996, 86/1996, 174/1999, 179/2000), así como respecto a la tutela judicial efectiva (SSTC181/1994, 96/19995, 182/1996, 203/1997, 5/1998, 24/2000, 207/2000) y a la vulneración del derecho a la libertad personal (SSTC 71/2000, 147/2000) que analizaremos más tarde. 1.- La dignidad humana La sentencia 13/2001 dictada en un recurso de amparo por la Sala Segunda del Tribunal Constitucional vuelve a reiterar los términos de la jurisprudencia anterior al considerar “admisible (...) que se fijen diferencias respecto a los nacionales” en ámbitos como el de los requerimientos policiales de identificación. Aunque en esta ocasión se 15 El Tribunal Constitucional consideró arbitraria una expulsión de un extranjero ya que “la licitud de su expulsión no pudo ser enjuiciada con todas las garantías antes de llevar a cabo su ejecución” (STC 94/1993). 16 Hesse, C., “Significado de los derechos fundamentales”, en VVAA, Manual de Derecho Constitucional, IVAPMarcial Pons, Madrid 1996, pág. 115. Este debate se ha avivado por Ferrajoli con invitaciones a la reflexión en torno a la internacionalización de los derechos fundamentales en orden a la superación de la antinomia igualdad y ciudadanía, entre el universalismo de los derechos y sus confines estatalistas, a través de “la superación de la ciudadanía” y “la desnacionalización de los derechos fundamentales”. Ferrajoli, L., Derechos y garantías, Editorial Trotta, 1999. 51 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 trataba de determinar la adecuación a la Constitución de una actuación policial en la que se “usó el criterio racial como meramente indicativo de una mayor probabilidad de que la interesada no fuera española”, la formulación de un voto particular discrepante del parecer de la Sala pone en evidencia la necesidad de encontrar respuestas a numerosas cuestiones relativas a la extranjería, sobre las que aún pesa un elevado nivel de indeterminación, si bien es cierto que la resolución del citado recurso de amparo no era con toda probabilidad la sede adecuada para alcanzar dicha respuesta. En las escasas ocasiones en las que se han planteado ante el Tribunal Constitucional cuestiones sobre discriminación racial o étnica se ha reiterado por éste su “carácter odioso” como “perversión jurídica” (STC 126/1986), sin que quepa fundamentarla en la libertad ideológica o en la libertad de expresión por resultar contrarios a la dignidad humana (STC 214/1991), siendo incompatible cualquier mensaje racista con los principios de un sistema democrático de convivencia pacífica (STC 176/1995). Pero la polémica surge cuando criterios como la raza o étnia pueden estar en el fondo de una actuación policial. Para el Tribunal Constitucional “es forzoso reconocer que” cuando los controles policiales sirven a la finalidad de acreditar la identidad “determinadas características físicas o étnicas pueden ser tomadas en consideración en ellos como razonablemente indiciarias del origen no nacional de la persona que las reúne”. Ello no supone desconocer que dicha actuación de identificación se lleve a cabo de forma “proporcionada, respetuosa, cortés” al objeto de limitar al máximo su incidencia “en la esfera del individuo”. El parecer mayoritario de la Sala se contiene en la afirmación de que “lo discriminatorio hubiera sido la utilización de un criterio (en este caso el racial) que careciese de toda relevancia en orden a la individualización de las personas para las que el ordenamiento jurídico ha previsto la medida de intervención administrativa”. Frente a esta consideración de la actuación policial acorde al marco constitucional, el voto particular del Magistrado González Campos suscita algunas interesantes interrogantes que trascienden de los términos en los que fue planteado el recurso de amparo17. Para el Magistrado discrepante del parecer de la Sala “aun admitiendo que no cabe pretender la igualdad en la ilegalidad”, es controvertido afirmar que “determinadas características físicas o étnicas puedan ser tomadas en consideración” en actuaciones 17 Entre otras cuestiones formuladas por el Magistrado recurrente recogemos aquí la interrogante sobre la constitucionalidad del “control general de los extranjeros”, la admisibilidad de un control “no discriminatorio de los extranjeros ante una diversidad de situaciones” reales como las que están presentes en nuestra sociedad o “¿Cómo puede llevarse a cabo ese control sin que su práctica afecte a la dignidad de la persona?”. 52 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 policiales de control “como racionalmente indiciarias del origen no nacional de la persona que las reúne”18. Ciertamente cabe deducir del fallo del Tribunal una minoración del alcance del mandato constitucional contenido en el artículo 14 CE, en la medida en la que la actuación policial encuentra en la raza una “justificación adicional”. En el mismo sentido, como se señala en el voto particular, quedaría devaluada la proclamación de la dignidad humana al estimar la Sala la actuación policial fundada en la raza “como criterio de selección en el control”. Además, se habría omitido el juicio de proporcionalidad necesario para determinar si tales medidas son acordes con la finalidad de la seguridad ciudadana. En resumen, concluye este Magistrado, la utilización del criterio étnico dado el carácter multirracial de nuestra sociedad puede conllevar la discriminación “entre nacionales por razón de la raza”, con el consiguiente atentado a la dignidad personal, a través de los requerimientos policiales de identificación. En efecto, de conformidad con la jurisprudencia constitucional la dignidad humana se proyecta “sobre los derechos individuales, (...) en cuanto <<valor espiritual y moral inherente a la persona”(STC 53/1985), por lo que la dignidad “ha de permanecer inalterada cualquiera que sea la situación en que la persona se encuentre (...) constituyendo, en consecuencia un minimum invulnerable que todo estatuto jurídico debe asegurar>>” (STC 120/1990 y 57/1994). Ahora bien, esta conocida jurisprudencia constitucional posteriormente ha sido matizada por nuestro Alto Tribunal en conexión con el entendimiento del contenido esencial de los derechos fundamentales. Si en la jurisprudencia anterior se había afirmado que los poderes públicos españoles se hallan vinculados de “modo incondicionado ad intra por los derechos fundamentales en tanto en cuanto esté en juego el <<contenido esencial>> de los mismos”, en la Sentencia 91/2000 el Tribunal Constitucional se cuestiona el alcance del “contenido vinculante de los derechos fundamentales cuando se proyectan ad extra, esto es, el, en virtud de su validez universal, pudiéramos denominar <<contenido absoluto>>”. Para llevar a cabo esta operación el Tribunal Constitucional toma como punto de partida la dignidad de la persona y los derechos inviolables que le son inherentes, para afirmar a continuación que la Constitución “salvaguarda absolutamente aquellos derechos y aquellos contenidos de los derechos <<que pertenecen a la persona en cuanto tal y no como ciudadano (...) 18 En opinión del Magistrado González Campos la Sala debiera haber realizado una “interpretación excluyente o, cuando menos, restrictiva y sujeta a estrictas condiciones del control general de los extranjeros en cualquier lugar del territorio nacional”. 53 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 aquéllos que son imprescindibles para la garantía de la dignidad humana” (STC 242/1994). Asumir con todas sus consecuencias la afirmación de nuestro Alto Tribunal de que “sólo el núcleo irrenunciable del derecho fundamental inherente a la dignidad de la persona puede alcanzar proyección universal”, podría llevar a concluir que “hay un núcleo absoluto de los derechos fundamentales” (STC 91/2000). La relevancia de los derechos que analizamos deriva de su relación con la dignidad de la persona y de la “imprescindibilidad” de los mismos en un sistema democrático. Son, en efecto, la proyección inmediata y positiva de la dignidad de la persona y “las posibilidades de desarrollo de la misma dependen de su reconocimiento y ejercicio” como ha señalado Solozabal19 . Ahora bien, somos conscientes de los riesgos que se derivan de la afirmación anterior de nuestro Alto Tribunal, que debe ser ponderada, ya que para considerar que se ha vulnerado la Constitución será necesario el menoscabo del contenido esencial del derecho “de un modo que afecta a la dignidad humana” (STC 91/2000), pues cualquier restricción que a su ejercicio se imponga no deviene necesariamente en un estado de indignidad (STC 120/1990). Por tanto, cabría deducir de la jurisprudencia constitucional que la titularidad y ejercicio de los derechos fundamentales por los extranjeros quedaría sujeta a la mayor o menor intensidad de estos en relación con la dignidad de la persona20, aunque persiste la duda respecto a su identificación a tenor de la jurisprudencia aquí comentada. 2.- El beneficio de justicia gratuita Se ha cuestionado la conexión entre el derecho a la asistencia jurídica gratuita y el derecho a la tutela judicial efectiva (art. 24 CE)21. Como ya señalara el Defensor del Pueblo en el recurso de inconstitucionalidad planteado contra el artículo 2 de la Ley 1/1996 de asistencia jurídica gratuita, la sujeción de los extranjeros a determinadas 19 Solozabal Echevarría, J.L., “Algunas cuestiones básicas de la teoría de los derechos fundamentales”, Revista de Estudios Políticos, núm, 71, 1991 posteriormente desarrolladas en otros trabajos. 20 A modo de ejemplo por lo que a “la libertad de circulación respecta a través de las fronteras del Estado y el derecho a residir dentro de ellas, no son derechos imprescindibles para la garantía de la dignidad humana, ni por consiguiente pertenecen a todas las personas en cuanto tales al margen de su condición de ciudadano (...) es pues lícito que las leyes y los tratados modulen el ejercicio de sus derechos en función de la nacionalidad de las personas, introduciendo tratamientos desiguales entre españoles y extranjeros en lo que atañe a entrar y salir de España y a residir en ella” (STC 94/1993). 21 “Todas las personas tienen derecho a obtener la tutela efectiva de los jueces y tribunales, en el ejercicio de sus derechos legítimos, sin que, en ningún caso, pueda producirse indefensión”. 54 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 causas para poder ser beneficiario de dicha asistencia22 pudiera tener difícil adecuación constitucional. Esta situación además se ha agravado con el tratamiento que de la asistencia jurídica gratuita se contiene en la Ley Orgánica 8/2000. Para el recurrente de inconstitucionalidad, la exigencia legal de permiso de residencia o estancia para el ejercicio efectivo del derecho fundamental a la tutela judicial, a través de la asistencia jurídica gratuita, planteaba dudas sobre su razonabilidad y proporcionalidad al sacrificio que impone, esto es, la imposibilidad de ejercer un derecho fundamental por quien carece de dicha residencia legal fuera de los supuestos tasados por la Ley. Una interpretación sistemática de los artículos 14, 24.2 y 119 CE, así como de la jurisprudencia emanada del Tribunal Constitucional y del Tribunal Europeo de Derechos Humanos, debería conducirnos a afirmar que con el derecho a la asistencia jurídica gratuita se persigue garantizar el acceso a la justicia. Por tanto, los impedimentos y obstáculos para acceder a la justicia conducirían a desconocer o privar del derecho a la tutela judicial a los extranjeros en situación irregular que carecieran de recursos económicos fuera de los supuestos legalmente reconocidos. La resolución de este recurso por el Tribunal Constitucional ha zanjado definitivamente esta cuestión al afirmar en la STC 95/2003 la inconstitucionalidad en la exigencia del requisito de la legalidad de la residencia, por tanto “los extranjeros que se encuentren en España y reúnan las condiciones requeridas legalmente para ello podrán acceder a la asistencia jurídica gratuita en relación con cualquier tipo de proceso a efectos del cual gocen de la precisa legitimación”23. La fundamentación de esta resolución descansa en que si el extranjero no reside legalmente en España y carece de recursos suficientes para procurarse la asistencia de Procurador y Abogado tendrá impedido su acceso a la jurisdicción y, por tanto, no podrá “someter al control” de los Tribunales la legalidad de actuaciones administrativas que le afectan directamente como permiso de residencia, trabajo, exenciones de visado, etc., que pueden acarrear finalmente su expulsión del territorio español. Por tanto, la especial conexión entre la tutela judicial efectiva y la asistencia jurídica gratuita de quienes carecen de recursos económicos para litigar –también los 22 En principio tendrían derecho a la asistencia jurídica gratuita “los nacionales de los Estados miembros de la Unión Europea y los extranjeros que residan legalmente en España, cuando acrediten insuficiencia de recursos para litigar” (art.2 a) si bien se introducen dos excepciones en cuanto se acredite insuficiencia de recursos para litigar aun cuando no residan legalmente en territorio español: en el orden jurisdiccional penal y en el contencioso-administrativo en los procesos relativos al derecho de asilo (art. 2 e y f). 23 Según el Tribunal Constitucional la exigencia de residencia legal en España “habrá de entenderse referida a la situación puramente fáctica de los que se hallan en territorio español, sin que quepa atribuir a la referida expresión un significado técnicamente acuñado de residencia autorizada administrativamente”. 55 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 extranjeros no residentes legalmente en España- conlleva la inconstitucionalidad del citado precepto. 3.- El procedimiento de Habeas Corpus Con objeto de precisar la interpretación constitucional relevante respecto del objeto de protección del procedimiento de habeas corpus24, recordemos que la pretensión del constituyente no fue otra que la de propiciar “un medio de defensa” del derecho a la libertad, al objeto de poner fin con celeridad a situaciones que constituyesen privaciones “irregulares” de libertad, con la consiguiente puesta a disposición judicial de quien hubiese sufrido dicha privación (STC 98/1986). Por tanto, debe considerarse el habeas corpus como una “garantía fundamental del derecho a la libertad” y un instrumento orientado a determinar en “qué medida puede verse vulnerado el derecho (a la libertad) por resoluciones judiciales de inadmisión a trámite de la solicitud de habeas corpus” (SSTC 94/2003 y 23/2004). En suma la labor del Tribunal Constitucional se limitará a constatar que no se haya producido una valoración errónea de la situación de supuesta privación de libertad por parte del Juez que ha conocido del procedimiento de habeas corpus y pueda ratificar “una situación de privación de libertad, efectiva al tiempo de dictarse la resolución judicial” por considerarla conforme a derecho a tenor del artículo 8.1 de la Ley Orgánica 6/1984 reguladora del Habeas Corpus (en adelante LOHC). Nos encontramos pues ante “una garantía reforzada del derecho a la libertad para la defensa de los demás derechos sustantivos establecidos en el resto de los apartados del artículo 17 CE“ al objeto de hacer posible “el control judicial a posteriori de la legalidad y de las condiciones en las cuales se desarrollan las situaciones de privación de libertad” que se han producido sin intervención judicial para la puesta a disposición judicial de quien entienda que ha sido privado de libertad de forma ilegal (SSTC 94/2003 y 23/2004). De la jurisprudencia constitucional cabe resumir, al objeto de caracterizar el procedimiento de habeas corpus, que aun cuando se trata de un proceso de “cognición limitada”, ello no impide que estemos ante la necesidad de un control judicial de la privación de libertad “plenamente efectivo”, que en ningún caso suponga “un menoscabo 24 “La ley regulará un procedimiento de habeas corpus para producir la inmediata puesta a disposición judicial de toda persona detenida ilegalmente. Asimismo, por le se determinará el plazo máximo de duración de la prisión provisional” (art. 17.4 CE). 56 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 en la eficacia de los derechos fundamentales y, en concreto, de la libertad” (STC 122/2004). El énfasis del Tribunal Constitucional recae sobre la necesidad de examinar “la legalidad de las circunstancias” de la situación de privación de libertad, aun cuando dicha privación haya sido acordada en resolución administrativa por órgano competente (SSTC 86/1996, 224/1998 y 174/1999). El alcance del enjuiciamiento a realizar por el juez del habeas corpus no debe ofrecer dudas, las circunstancias que han de ser objeto de examen son las relativas a la detención preventiva, y en ningún caso analizar “la procedencia de la expulsión” (STC 21/1996, 86/1996 y 174/199925), siempre susceptible de recurso ante la jurisdicción contencioso-administrativa. Ahora bien, junto a las previsiones de la LOHC, la Ley Orgánica 8/2000 también ha previsto otro mecanismo que afecta a la garantía de la libertad (art. 17.1 CE)26. El Tribunal Constitucional ha tenido que pronunciarse sobre este procedimiento y su compatibilidad o redundancia con el de habeas corpus al invocarse este último procedimiento por el afectado por la limitación de libertad y la aplicación de la normativa de extranjería. En efecto con la STC 303/2005 comienza una serie de sentencias relativas a la inadmisión o admisión a trámite de la solicitud de habeas corpus formuladas por ocupantes de pateras, tras haber sido interceptados cuando arribaban a las costas españolas, en la que se impetra ante el Alto Tribunal la supuesta vulneración de los derechos de libertad personal y del habeas corpus por inadmisión del mismo acordado en auto judicial. A partir de aquí y, en función de la valoración de las secuencias temporales del procedimiento seguido para el control judicial de la limitación de la libertad, se derivará la formulación de votos particulares en sucesivas sentencias27. 25 En esta ocasión el juez inadmitió a trámite la solicitud de habeas corpus por un doble motivo, en primer lugar por considerar que del retraso en la expulsión era responsable el solicitante de habeas corpus que había intentado la admisión de la solicitud de asilo para evitar la expulsión y, en segundo lugar porque la privación de libertad se había acordado "en cumplimiento de una resolución fundada y en el ejercicio del poder de policía que tienen atribuidas las autoridades administrativas y en cumplimiento de la legislación vigente". El Tribunal Constitucional entendió sin embargo que el Juez, “en el trámite previo de admisibilidad, y, por tanto, sin que el que instó este procedimiento fuera puesto en su presencia, efectuó un enjuiciamiento de fondo de la legalidad de la situación de privación de libertad padecida por el que instaba ese procedimiento, que, a tenor de la doctrina expuesta, debe considerarse lesivo del derecho que consagra el art. 17.4 CE.”. 26 “Toda persona tiene derecho a la libertad y a la seguridad”. 27 La conclusión que se alcanza es que “aun cuando la autoridad judicial prevé que, en virtud de la legislación de extranjería, va a tener que intervenir en breve para la decisión de internamiento del extranjero solicitante de habeas corpus, esta institución esta configurada en nuestro ordenamiento jurídico de manera absolutamente independiente de cualquier otro mecanismo de garantía de la libertad personal y únicamente en los casos en los que por mera coincidencia temporal, se ha llevado a cabo el control judicial de la situación del detenido con anterioridad a la decisión de admisión o no del procedimiento de habeas corpus podrá entenderse constitucionalmente legítima la decisión de inadmisión de plano de dicho procedimiento”. 57 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Es en este sentido en el que el Alto Tribunal se ha manifestado inicialmente en la STC 303/2005 y después en sucesivas resoluciones, pues si en virtud de las previsiones de la Ley Orgánica 8/2000 “con carácter previo al internamiento en el centro correspondiente por un tiempo máximo de cuarenta días se le tomó declaración al detenido en el Juzgado de Instrucción, no cabe nada que objetar a la inadmisión liminar del procedimiento de habeas corpus interpuesto, ya que la privación de libertad se acordó por órgano judicial, resultando carente de sentido un nuevo control judicial de la privación judicial de la liberad (art. 62.1 y 2 de la Ley Orgánica 8/2000)”28. Supuestos posteriores que presentan cierta analogía con la citada STC 303/2005, han propiciado consideraciones discrepantes por parte de algunos de los propios Magistrados del Alto Tribunal, no tanto en torno a la previsible duplicidad de controles judiciales sobre la limitación de la libertad del extranjero vía habeas corpus o legislación de extranjería, sino sobre el momento procesal en el que se considera efectuado el referido control judicial sobre la limitación de la libertad. Como consecuencia mediata de esta situación, la efectividad del procedimiento de habeas corpus quedaría abierta a la discusión en torno a su operatividad, especialmente en aquellos casos en los que con anterioridad a la impetración del mismo se hubiese operado el control judicial de la privación de libertad en aplicación del artículo 62 de la Ley Orgánica 8/2000 y, por tanto, haría innecesario el planteamiento del habeas corpus en aplicación de la citada Ley Orgánica. En efecto, pese a la aparente analogía con la STC 303/2005 aparece una discrepancia entre los magistrados integrantes de la Sala como se acredita inicialmente en la resolución del recurso de amparo contenida en la STC 169/2006 y luego se ha reproducido en resoluciones posteriores en los votos particulares formulados por éstos en sucesivas sentencias con idéntica problemática29. La discrepancia esencial suscitada en los últimos pronunciamientos del Alto Tribunal sobre el tema descansa sobre la eficacia que se deriva de la puesta a 28 Nada acredita una situación de riesgo para la integridad de dicho derecho. Y es que el procedimiento de habeas corpus queda manifiestamente fuera de lugar cuando, como es el caso, la intervención judicial ya se ha producido con la aplicación de la Ley de extranjería, sin que todavía hubiera transcurrido el plazo que para la duración del internamiento se había fijado por el Juez” (STC 303/2005). 29 “las garantías que para la libertad personal se derivan del régimen de control judicial que señala el citado art. 62.1 y 2 de la Ley Orgánica 4/2000, equivalen, desde el punto de vista material y de eficacia, a las que pueden alcanzarse por medio del habeas corpus, lo que haría redundante la posibilidad añadida de este remedio excepcional, sólo justificable en el plazo de la estricta detención cautelar gubernativa (durante las primeras setenta y dos horas) o, en su caso, superado el plazo acordado por la autoridad judicial para el internamiento, si el extranjero continúa privado de libertad”. 58 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 disposición judicial, aun cuando no se haya formalizado expresamente la comparecencia ante éste. La razón fundamental aquí suscitada es la de estar ante “un supuesto límite”, ya que en el momento en el que se resuelve por parte del órgano judicial la inadmisibilidad de la solicitud de habeas corpus “no queda acreditado, al contrario de lo que sucedía en el supuesto de hecho de la STC 303/2005, que el Juez hubiera oído con anterioridad a dicha decisión al recurrente, asistido de Abogado e intérprete al amparo del art. 62.1 y 2 de la Ley Orgánica 8/2000. Por tanto, en el momento de rechazo del habeas corpus solicitado, no consta que existiera un control judicial de la situación de detención del demandante. En suma, “la supuesta legalidad de la situación de detención del solicitante,(..) esa es la cuestión a dilucidar en la fase plenaria del procedimiento de habeas corpus”. Sin embargo, frente a la anterior fundamentación se plantea un Voto particular que formula el Magistrado Rodríguez-Zapata Pérez que se reiterará en sucesivos votos particulares entre otras en las SSTC 316/2005, 319/2005 y STC 169/2006, así como un voto concurrente que formula el Magistrado don Roberto García-Calvo y Montiel que se materializa en el entendimiento de que "el procedimiento de habeas corpus queda manifiestamente fuera de lugar cuando la intervención judicial ya se ha producido con la aplicación de la Ley de extranjería, sin que todavía hubiera transcurrido el plazo que para la duración del internamiento se había fijado por el Juez" (STC 303/2005). La doctrina mayoritaria que se reproduce en sucesivas resoluciones es que lo relevante no es que la audiencia del recurrente y el control judicial de su situación de privación de libertad como consecuencia de la aplicación de la legislación de extranjería, tuvieran lugar el mismo día, sino que “a partir de la vista de las actuaciones y muy significativamente del tenor del Auto impugnado, no puede afirmarse que el demandante estuviera efectivamente a disposición judicial con anterioridad al momento en que se inadmitió de plano y por motivos de fondo el procedimiento de habeas corpus (SSTCE 201 y 213/2006). Es evidente que una nueva perspectiva cobra el procedimiento de habeas corpus con ocasión de la concurrencia de éste con la aplicación del control judicial sobre el extranjero sujeto a limitación de libertad, sin embargo la efectividad del control operado en aplicación del artículo 62 de la Ley orgánica 8/2000 puede afectar a la operatividad de este instrumento en el ámbito de la aplicación de la legislación de extranjería. 3.- El derecho de entrada y residencia en el territorio nacional 59 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 También el Tribunal Constitucional ha tenido ocasión de pronunciarse sobre el alcance y contenido del derecho a entrar en España (art. 19 CE)30 y ejercer el derecho de elegir en ella el lugar de residencia, si bien en este segundo aspecto ya afirmó que en tanto no se haya entrado no cabe ejercer este derecho. La cuestión que se ha planteado ante el Alto Tribunal ha sido la relativa a la existencia de un derecho fundamental de los extranjeros a entrar en España pues ya se había pronunciado sobre el alcance de la protección del art. 19 CE para los extranjeros que por disposición legal, tratado o autorización tuvieren derecho a residir en España. Para la resolución de esta cuestión se ha considerado que “el derecho a entrar en España, con el carácter fundamental, solo corresponde a los españoles y no a los extranjeros” (STC 72/2005). III.- Las recientes sentencias del Tribunal Constitucional relativas a la inconstitucionalidad de la Ley Orgánica 8/2000 La jurisprudencia más reciente en materia de extranjería se encuentra en la STC 236/2007 que resuelve el recurso de inconstitucionalidad interpuesto por el Parlamento Navarro y la STC 259/2007 que resuelve el recurso de inconstitucionalidad interpuesto por la Junta de Andalucía relativos ambos a la impugnación de diversos artículos de la vigente regulación de extranjería. Sin embargo, como es notorio, la reforma de la Ley Orgánica 4/2000 sobre Derechos y Libertades de los Extranjeros en España y su Integración Social introducida por la Ley Orgánica 8/2000, fue objeto de diferentes recursos de inconstitucionalidad también resueltos por el Tribunal Constitucional, si bien estas resoluciones posteriores han reiterado en términos generales los aspectos sobre los que ya se había pronunciado el Tribunal en las citadas resoluciones31. La formulación de diversos recursos de inconstitucionalidad contra algunos preceptos de la Ley Orgánica 8/2000 ha requerido por parte del Tribunal Constitucional un esfuerzo de concreción respecto de la adecuación constitucional de los límites al 30 “los españoles tienen derecho a entrar y salir libremente de España”. Nos referiremos en concreto no sólo a la STC 236/2007 y la STC 259/2007, sino también a la STC 260/2007 que resuelve el recurso de inconstitucionalidad interpuesto por el Parlamento Vasco, STC 261/2007 que resuelve el recurso de inconstitucionalidad interpuesto por sesenta y cuatro Diputados del Grupo Parlamentario del PSOE en el Congreso, STC 262/2007 que resuelve el recurso de inconstitucionalidad interpuesto por la Junta de Comunidades de Castilla-La Mancha, STC 263/2007 que resuelve el recurso de inconstitucionalidad interpuesto por la Comunidad de Aragón, STC 264/2007 que resuelve el recurso de inconstitucionalidad interpuesto por la Junta de Extremadura, STC 265/2007 que resuelve el recurso de inconstitucionalidad interpuesto por el Principado de Asturias. 31 60 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 ejercicio de determinados derechos incorporados por aquella norma, por la situación de irregularidad en la que se encuentren los extranjeros, ya que su ejercicio queda restringido a situaciones de regularidad administrativa. De un lado, esta limitación alcanza, entre otros, al ejercicio de los derechos de reunión, asociación, educación, huelga y sindicación. Por otra parte, también han sido objeto de impugnación preceptos que a la luz de la vigente regulación, presentan una serie de situaciones administrativas en las que la privación de la libertad acordada por la autoridad gubernativa pudieran entrar en contradicción con el texto constitucional, en cuanto a las garantías derivadas de la tutela judicial, que puedan ser obviadas por la inexistencia de un efectivo control judicial sobre las resoluciones administrativas que afectan a los extranjeros. Dos son pues las cuestiones que nos suscitan un mayor interés en este comentario a la reciente jurisprudencia constitucional en materia de la vigente regulación de la extranjería: las restricciones a los extranjeros por su situación irregular para el ejercicio de derechos constitucionalizados y los supuestos de indefensión que se puedan derivar de la ausencia de control judicial efectivo de los actos administrativos acordados en materia de extranjería, que no podrán ser abordadas en este trabajo por razones de extensión. Sin perjuicio de todo ello habrá que hacer alguna consideración respecto de otros preceptos relativos a reagrupación familiar y denegación de visado no motivada que completan el conjunto de preceptos impugnados ante el Tribunal Constitucional. La fundamentación esencial en la que descansa el posterior análisis y resolución del Alto Tribunal es la dignidad humana y su mayor o menor grado de conexión con ella de los derechos afectados por la impugnación de inconstitucionalidad. Es pues el propio Tribunal el que reconoce que “el criterio fijado en su día (…) para determinar si un concreto derecho pertenece o no a este grupo ofrece algunas dificultades por cuanto todos los derechos fundamentales, por su misma naturaleza, están vinculados a la dignidad humana”. En efecto, el criterio determinante para el Tribunal será “el grado de conexión con la dignidad humana que mantiene un concreto derecho” puesto que el legislador no goza de una ilimitada libertad de configuración al regular los derechos “imprescindibles para la garantía de la dignidad humana”. Por tanto, el legislador no puede en la elaboración de la norma, “modular o atemperar su contenido (STC 99/1985), ni por supuesto negar su ejercicio a los extranjeros, cualquiera que sea su situación, ya que se 61 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 trata de derechos <<que pertenecen a la persona en cuanto tal y no como ciudadano>>”. Es decir, “aquéllos que son imprescindibles para la garantía de la dignidad humana” (STC 242/1994)32. Reiterando criterios establecidos por el Tribunal en anteriores pronunciamientos jurisprudenciales se afirma la necesidad de llevar a cabo un análisis individualizado de cada derecho para determinar “en qué medida” nos encontramos ante un derecho inherente a la dignidad humana (STC 91/2000). Por tanto, la dignidad de la persona se erige en un límite a la libertad del legislador orgánico para llevar a cabo la tarea de regular los derechos y libertades de los extranjeros. Ahora bien, será necesario en cada caso concretar “el grado de conexión” del derecho analizado con la dignidad, atendiendo esencialmente al contenido y naturaleza del mismo, para “precisar en qué medida es imprescindible para la dignidad de la persona” como titular de derechos de conformidad con la Declaración Universal de Derechos Humanos (en adelante DUDH), los tratados y acuerdos internacionales a tenor de los dispuesto en el art. 10.2 CE33. A partir de aquí se hace una distinción a los efectos de determinar la libertad del legislador a la hora de conformar el reconocimiento y ejercicio de los derechos por los extranjeros. Así, de un lado se afirma que el legislador estará “limitado” al regular aquellos derechos que “la Constitución reconoce directamente a los extranjeros”, frente a la “mayor libertad” de la que goza para la regulación de los derechos de los que serán titulares los extranjeros en la “medida y condiciones que se establezcan en los Tratados y las Leyes”, es decir “aquellos derechos no son atribuidos directamente por la Constitución a los extranjeros pero que el legislador puede extender a los no nacionales <<aunque no sea necesariamente en idénticos términos que los españoles>>”. Es en la regulación de estos derechos donde el legislador cuenta con mayor libertad puesto que “puede modular las condiciones de ejercicio <<en función de la nacionalidad de las personas, introduciendo tratamientos desiguales entre españoles y extranjeros>>”, si bien aquella libertad “no es en modo alguno absoluta” (STC 94/1993). Por tanto, estas “restricciones y 32 “proyectada sobre los derechos individuales, la regla del art. 10.1 CE implica que, en cuanto valor espiritual y moral inherente a la persona la dignidad ha de permanecer inalterada cualquiera que sea la situación en que la persona se encuentre (…) constituyendo, en consecuencia un minimum invulnerable que todo estatuto jurídico debe asegurar” (STC 91/2000). 33 “Las normas relativas a los derechos fundamentales y a las libertades que la Constitución reconoce se interpretarán de conformidad con la Declaración Universal de Derechos Humanos y los tratados y acuerdos internacionales sobre las mismas materias ratificados por España”. 62 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 limitaciones” no resultan ilimitadas ya que en ningún caso pueden afectar a “aquellos derechos que <<son imprescindibles para la garantía de la dignidad humana>>”34. En resumen, si bien del artículo 13 CE cabe deducir que se otorga una amplia libertad al legislador para llevar a cabo la regulación de los derechos de los extranjeros incluso con la fijación de condiciones para su ejercicio, lo cierto es que para su regulación se ha de observar “el grado de conexión” de cada derecho con la “garantía de la dignidad humana”, atendiendo también al “contenido preceptivo del derecho tratándose de derechos reconocidos “directamente” a los extranjeros en la Constitución. Se debe atender también al “contenido delimitado” para el derecho por la CE y los Tratados Internacionales. La cuestión a cerca de si los tratados internacionales ratificados por España a tenor del art. 10.2 CE “se convertirían en canon de la constitucionalidad de las leyes españolas” también es objeto de consideración por el Tribunal, pese a que contamos ya con algunos pronunciamientos del mismo sobre este precepto constitucional y su correcta interpretación. La precisión del Tribunal ayuda a situar los citados tratados indicando que “el significado de la <<interpretación>> contenida en el art. 10.2 CE <<no convierte a tales tratados y acuerdos internacionales en canon autónomo de validez de las normas y actos de los poderes públicos desde la perspectiva de los derechos fundamentales”35. Pues bien al objeto de la correcta interpretación del art. 10.2 CE cabe recordar que, como señalara el Tribunal, este precepto “<<no da rango constitucional a los derechos y libertades internacionalmente proclamados en cuanto no estén también consagrados por nuestra propia CE, pero obliga a interpretar los correspondientes preceptos de ésta de acuerdo con el contenido de dichos tratados o convenios>>”. ¿En qué radica pues la operatividad de los tratados y acuerdos para resolver la inconstitucionalidad de la norma?, la respuesta no es otra que la de llevar a cabo un juicio al objeto de “determinar si el legislador ha respetado los límites impuestos ex art. 10.2 CE por las normas internacionales que le obligan a interpretar de acuerdo con ellas 34 En este grupo se encontraría según el Tribunal Constitucional el derecho al trabajo, a la salud, a la percepción de una prestación por desempleo así como el derecho de residencia y desplazamiento si bien con algunas puntualizaciones. 35 “no puede haber duda de que la validez de las disposiciones y actos impugnados en amparo debe medirse sólo por referencia a los preceptos constitucionales que reconocen los derechos y libertades susceptibles de protección en esta clase de litigios, siendo los textos y acuerdos internacionales del art. 10.2 una fuente interpretativa que contribuye a la mejor identificación del contenido de los derechos cuya tutela se pide a este Tribunal Constitucional” (STC 64/1991). 63 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 los derechos y libertades consagrados” en la CE. La operatividad de los tratados internacionales para determinar la inconstitucionalidad de los preceptos impugnados de la Ley Orgánica 8/2000 es pues objeto de acotación: dichos tratados “no se convierten en si mismos en canon de constitucionalidad de los concretos preceptos recurridos”. Por tanto, corresponde al Tribunal llevar a cabo un ejercicio de contraste de los preceptos impugnados con los preceptos constitucionales que declaran los derechos y libertades de los extranjeros, eso sí “interpretados de acuerdo con el contenido” de los tratados y convenios ratificados por España. En todo caso, el recurso al tratamiento en los tratados internacionales de cada derecho objeto de impugnación de inconstitucionalidad permitirá hacer un análisis más detenido de su concepción, alcance y jurisprudencia internacional sobre el mismo. Una vez precisado el alcance del art. 10.2 CE el procedimiento desarrollado por el Tribunal para constatar la vulneración del contenido constitucionalmente declarado de estos derechos pasa, en una primera fase, por examinar el contenido esencial del derecho y, posteriormente, analizar “su vinculación” con la dignidad de la persona con el objeto de constatar “si la condición establecida por el legislador para su ejercicio es constitucionalmente admisible” de conformidad con lo preceptuado en la DUDH, así como en los tratados y acuerdos internacionales ratificados por España. 1.- Derecho de Reunión (art. 7)36 Los recurrentes fundamentan la inconstitucionalidad del precepto en la ausencia de cobertura constitucional para distinguir entre españoles y extranjeros a efectos del ejercicio de este derecho que entienden derivado de la dignidad humana. En cambio la Abogacía del Estado considera que la distinción introducida por el legislador orgánico con la exigencia de la autorización de estancia o residencia tiene “un significado constitutivo de un derecho de configuración legal”. El Tribunal ha reiterado en diversas sentencias “el relieve fundamental que este derecho-cauce del principio democrático participativo- posee, tanto en su dimensión subjetiva como en la objetiva, en un Estado social y democrático de Derecho”. También 36 “Los extranjeros tendrán el derecho de reunión y manifestación, conforme a las leyes que lo regulan para los españoles y que podrán ejercer cuando obtengan autorización de estancia o residencia en España”. 64 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 se ha hecho eco nuestro Alto Tribunal de la jurisprudencia del Tribunal Europeo de Derechos Humanos (en adelante TEDH) que ha destacado “la conexión entre el derecho de reunión y la libertad de expresión”. En esta dimensión y atendiendo a la DUDH como al Pacto Internacional de Derechos Civiles y Políticos (en adelante PIDCP), así como al Convenio Europeo de Derechos Humanos (en adelante CEDH) parece concretarse la conexión del derecho de reunión con la dignidad. En todo caso el Tribunal considera que “la definición constitucional del derecho de reunión realizada por nuestra jurisprudencia, y su vinculación con la dignidad de la personas, derivada de los textos internacionales, impone al legislador el reconocimiento de un contenido mínimo de aquel derecho a la persona en cuanto tal, cualquiera que sea la situación en que se encuentre”. En concreto, el Tribunal admite que el legislador orgánico establezca condiciones para el ejercicio del derecho de reunión por parte de los extranjeros que carecen de autorización de estancia o residencia, “siempre y cuando respete un contenido del mismo que la Constitución salvaguarda por pertenecer a cualquier persona, independientemente de la situación en que se encuentre”. Sin embargo, el legislador orgánico en la reforma operada por la Ley Orgánica 8/2000 no ha llevado a cabo “una modulación del derecho de reunión” al objeto de precisar cuales son las condiciones para ejercerlo, sino que ha negado el derecho de reunión a los extranjeros que carecen de autorización de estancia o residencia. La conclusión pues no puede ser otra que la de constatar que la regulación efectuada vulnera el art. 21 CE37 y por ello se acuerda su inconstitucionalidad. 2.- Derecho de Asociación (art. 8)38 Cabe recordar que sobre el derecho de asociación de los extranjeros ya se pronunció el Tribunal en la STC 115/1987, su nivel de protección no admite duda a la luz del art. 11 del CEDH y permite concluir al Alto Tribunal la vinculación del derecho de asociación con la dignidad humana y el libre desarrollo de la personalidad, ya que “protege el valor de la sociabilidad como dimensión esencial de la persona y en cuanto elemento necesario para la comunicación pública en una sociedad democrática”. Atendiendo pues a que estamos en presencia “de un derecho cuyo contenido está unido a esa dimensión esencial”, entiende el Tribunal que no resulta “constitucionalmente 37 “Se reconoce el derecho de reunión pacífica y sin armas”. “Todos los extranjeros tendrán el derecho de asociación, conforme a las leyes, que lo regulan para los españoles y que podrán ejercer cuando obtengan autorización de estancia o residencia en España”. 38 65 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 admisible la negación de su ejercicio” a aquellos extranjeros que no dispongan de autorización de estancia o residencia. Por tanto, se declara la inconstitucionalidad del art. 8 de la Ley Orgánica 8/2000, ya que “al excluir cualquier ejercicio de este derecho por parte de los extranjeros que carecen de autorización de estancia o residencia en España ha vulnerado el art. 22 CE39 en su contenido constitucionalmente declarado por los textos a los que se refiere el art. 10.2 CE”. 3.- Derecho a la Educación (art. 9) 40 El objeto de impugnación de inconstitucionalidad recae sobre el impedimento de acceso a la enseñanza no obligatoria a los extranjeros menores de 18 años que no dispongan de residencia legal en nuestro país. La fundamentación de los recurrentes recae en la consideración de que para alcanzar el libre desarrollo de la personalidad debiera ser inherente a toda persona el derecho a la educación sin limitación a la etapa obligatoria, sino atendiendo a criterios de mérito y capacidad académica. No existirían pues razones para justificar la continuidad de diferencias “razonables” en el contenido del derecho a la educación del menor establecidas por el legislador entre nacionales y extranjeros sin regularizar. El proceso analítico que desarrolla el Alto Tribunal principia por el examen del contenido esencial del derecho a la educación, “específicamente en su dimensión prestacional”, para constatar con posterioridad si resulta conforme al mandato constitucional recogido en el artículo 27 CE “la exclusión” de la educación no obligatoria establecida por el legislador para los menores extranjeros que carezcan de la condición de residentes. El reconocimiento del derecho fundamental a la educación y su conexión con el pleno desarrollo de la personalidad y de la dignidad humana está plenamente recogido en las diferentes normas internacionales tales como la DUDH (art. 26), el PIDCP (art. 18.4), el Protocolo Adicional del CEDH (art. 2), la Convención relativa a la lucha 39 “Se reconoce el derecho de asociación”. “Los extranjeros residentes tendrán derecho a la educación de naturaleza no obligatoria en las mismas condiciones que los españoles. En concreto, tendrán derecho a acceder a los niveles de educación y enseñanza no previstos en el apartado anterior y a la obtención de las titulaciones que correspondan al caso, y al acceso al sistema público de becas y ayudas”. 40 66 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 contra la Discriminación en la Enseñanza (art. 5) y el Pacto Internacional de Derechos Económicos, Sociales y Culturales en su art. 13 (en adelante PIDESC). Este último texto internacional además vincula el pleno ejercicio del derecho a la educación con el proceso de adquisición de la formación que capacita a las personas para su participación plena en la sociedad (art. 13). En efecto, el Tribunal constata “la inequívoca vinculación” de este derecho con “la garantía de la dignidad humana”, su carácter imprescindible para la consecución del desarrollo de la personalidad, como instrumento de integración en la sociedad, en el que se incluye el conocimiento de “los valores democráticos y el respeto a los derechos humanos, necesarios para <<establecer una sociedad democrática>> avanzada”. Se trata sin duda de un derecho fundamental sobre cuyo contenido ya se ha pronunciado el Tribunal indicando que incorpora “junto a su contenido primario de derecho de libertad, una dimensión prestacional” que obliga a los poderes públicos a “procurar” su efectividad. La conclusión a la que se llega por el Alto Tribunal en atención a la interpretación del art. 27 CE41 a la luz de los textos internacionales de conformidad con el art. 10 CE, es que forma parte del contenido esencial del derecho a la educación el acceso a la educación no obligatoria de los extranjeros menores de edad sin autorización para residir, y su ejercicio solo puede quedar sujeto a los requisitos de mérito y capacidad. 4.- Libertad Sindical (art.11) 42 Según los recurrentes no sería respetuoso con el reconocimiento del derecho a la libertad sindical (art. 28.1 CE)43 la exigencia de autorización de trabajo para su ejercicio por un extranjero. Por el contrario, el Abogado del Estado entiende que la carencia de autorización para residir conlleva la imposibilidad de disponer de autorización para realizar cualquier actividad laboral y, por ello, también a ejercer cualquier otro derecho conectado con dicha actividad laboral. Ciertamente el criterio interpretativo ex 41 “Todos tienen el derecho a la educación”. “Los extranjeros tendrán derecho a sindicarse libremente o a afiliarse a una organización profesional, en las mismas condiciones que los trabajadores españoles, que podrán ejercer cuando obtengan autorización de estancia o residencia en España”. 43 “Todos tienen derecho a sindicarse libremente”. 42 67 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 art. 10.2 CE es decir de la DUDH (art. 23), PIDCP (art. 22), PIDESC (art. 8), CEDH (art. 11), la Carta Social Europea (art. 5), el Convenio núm. 87, sobre la libertad sindical y protección del derecho de sindicación de la Organización Internacional del Trabajo (art. 2) y el Convenio núm. 98 relativo a la aplicación de los principios de derecho de asociación y negociación colectiva de la citada OIT, reiteran la ausencia de distinción respecto de la libertad sindical y la protección del derecho de sindicación. El Tribunal Constitucional ha reiterado en su jurisprudencia como el derecho a la actividad sindical forma parte del contenido esencial de este derecho fundamental. Por tanto a juicio del Tribunal no debe prosperar una interpretación restrictiva del contenido del precepto impugnado ya que de conformidad con el contenido esencial del derecho a la libre sindicación concretado por el Alto Tribunal, “no resulta constitucionalmente admisible la exigencia de la situación de legalidad (…) para su ejercicio por parte de los trabajadores extranjeros aún cuando si resulte exigible la situación de regularidad administrativa para, considerar validamente celebrado un contrato de trabajo”. En parecidos términos a los anteriores pronunciamientos del Tribunal se reitera por éste que es perfectamente factible el establecimiento por el legislador orgánico de limitaciones o excepciones a su ejercicio, pero en ningún caso “la exclusión total” del derecho de libertad sindical de los trabajadores extranjeros que carezcan de autorización de estancia o residencia en España. La decisión final del Tribunal se concreta en la afirmación según la que no se corresponde el reconocimiento constitucional del derecho de libertad sindical con su ejercicio restringido exclusivamente a los trabajadores que se encuentran en situación legal ya que la titularidad de este derecho posibilita, entre otras finalidades posibles “la defensa de los intereses de los trabajadores, para llegar a ostentar tal condición jurídico-formal”. Por tanto, el legislador orgánico podrá estipular en la norma “condiciones específicas para el ejercicio del derecho de sindicación” respecto del extranjero carente de la prescriptiva autorización de estancia o residencia, pero en todo caso ha de ser respetuoso con el contenido constitucionalmente garantizado de este derecho “a cualquier persona independientemente de la situación en que se encuentre”. Aquí se matiza por el propio Tribunal la inconstitucionalidad de ese inciso “viene referida exclusivamente al derecho a sindicarse libremente, pero no al derecho a afiliarse a una organización profesional”. 68 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 5.- Derecho de huelga (art. 11.2) 44 La impugnación se dirige contra este precepto por considerar que se somete a la condición de disponer de la autorización para trabajar o el permiso de residencia para el ejercicio del derecho de huelga45. La argumentación del Abogado del Estado se limita a cuestionar el sentido del recurso ya que “quien no esta autorizado a trabajar pudiera gozar del derecho de huelga”. Nuevamente el proceder del Tribunal sigue las pautas establecidas para concretar cual sea el contenido constitucionalmente declarado del derecho de huelga, para, a continuación, valorar si la limitación impuesta por el legislador orgánico resulta constitucionalmente lícita a la luz del contenido esencial del derecho, “teniendo en cuenta el criterio interpretativo derivado del art. 10.2 CE, que obliga a interpretar los derechos y libertades consagrados en la CE de acuerdo con los tratados y acuerdos internacionales ratificados por España”. Como tuvo ocasión de señalar de forma temprana el Alto Tribunal nos encontramos ante un derecho subjetivo del trabajador “necesario para la afirmación de los intereses de los trabajadores en los conflictos soioeconómicos, conflictos que el Estado social no puede excluir, pero a los que sí puede y debe proporcionar los adecuados cauces constitucionales” (STC 123/1992). Además el criterio interpretativo ex art. 10.2 CE en atención a lo proclamado en el PIDESC (art. 8.d) y la Carta Social Europea que contemplan este derecho confirman la relevancia del mismo. La conclusión que alcanza el Tribunal es que nos encontramos ante un derecho reconocido a la persona en razón de su condición de trabajador y, por tanto, no se adecua a la Constitución la exigencia de una determinada nacionalidad y situación administrativa en el territorio nacional para poder ejercer este derecho. Por tanto concluye el Tribunal “no resulta constitucionalmente admisible que se prive al trabajador de una protección cuya razón de ser es la propia defensa de sus intereses”. 6.- Intimidad familiar y reagrupamiento familiar (arts. 16.2, 17,2 y 46 18,4) 44 “Los extranjeros tendrán derecho a sindicarse libremente o a afiliarse a una organización profesional, en las mismas condiciones que los trabajadores españoles, que podrán ejercer cuando obtengan autorización de estancia o residencia en España”. 45 “Se reconoce el derecho a la huelga de los trabajadores para la defensa de sus intereses”. 46 “el cónyuge que hubiera adquirido la residencia en España por causa familiar y sus familiares con él agrupados conservarán la residencia aunque se rompa el vínculo matrimonial que dio lugar a la adquisición. 69 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 La doctrina ya ha evidenciado la errónea formulación de este precepto, así como el equívoco al que conduce su inadecuada redacción. La distinción por tanto es evidente entre el derecho a la intimidad familiar (art. 18 CE)47 y la protección de la familia que tiene su encaje en el art 39 CE48 y no admite una consideración conjunta. La impugnación de inconstitucionalidad se dirige frente a la remisión reglamentaria que realizó el legislador orgánico que, en opinión de los recurrentes, supondría una vulneración de la reserva de ley orgánica. Al objeto de determinar la procedencia de dicha impugnación el Alto Tribunal constata que las remisiones reglamentarias se producen respecto de la reagrupación familiar que no en relación con la intimidad. Frente al criterio de los recurrentes, el Tribunal pues considera que los preceptos impugnados no regulan ni desarrollan las condiciones de ejercicio del derecho fundamental a la intimidad familiar, ya que la remisión a desarrollo reglamentario se dirige a “la posibilidad de conservar la residencia por parte del cónyuge que la adquirió en virtud de reagrupación, y sus familiares” una vez que ha finalizado el vínculo matrimonial. Entiende el Tribunal que el “derecho de reagrupación familiar, sin embargo no forma parte del contenido del derecho consagrado en el art. 18 CE que regula la intimidad personal”. Según el Tribunal este derecho conlleva “la existencia de un ámbito propio y reservado frente a la acción y conocimiento de los demás, necesario para mantener una calidad mínima de la vida humana”(STC 231/1988). En todo caso y más allá de las consideraciones que se puedan derivar del art. 8 del CEDH y de la jurisprudencia del TEDH coincidiendo con la opinión del Abogado del Estado se señala que “nuestra Constitución no reconoce un <<derecho a la vida Reglamentariamente se podrá determinar el tiempo previo de convivencia en España que se tenga que acreditar en estos supuestos” (art. 16.2). “El extranjero residente tiene derecho a reagrupar con él en España a los siguientes familiares: d) Los ascendientes del reagrupante o su cónyuge, cuando estén a su cargo y existan razones que justifiquen la necesidad de autorizar su residencia en España. 2. Reglamentariamente, se determinarán las condiciones para el ejercicio del derecho de reagrupación y, en especial, del que corresponda a quienes hayan adquirido la residencia en virtud de una previa reagrupación (art. 17 1 y 2). “Reglamentariamente se determinarán las condiciones para el ejercicio del derecho de reagrupación por quienes hayan adquirido la residencia en virtud de una previa reagrupación” (art. 18.4). 47 “Se garantiza el derecho al honor, a la intimidad personal y familiar y a la propia imagen”. 48 “Los poderes públicos aseguran la protección social, económica y jurídica de la familia”. 70 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 familiar>> en los términos en que la jurisprudencia del TEDH ha interpretado el art. 8.1 CEDH, y menos aún un derecho fundamental a la reagrupación familiar, pues ninguno de dichos derechos forma parte del contenido del derecho a la intimidad familiar garantizado por el art. 18.1 CE”. La conclusión final a la que llega el Tribunal es que no ha de prosperar la impugnación de inconstitucionalidad por cuanto los preceptos impugnados no afectan a las condiciones de ejercicio del derecho fundamental a la intimidad familiar, ni por tanto opera en este ámbito la reserva de ley orgánica. 7.- Denegación de visado (arts. 20.2 y 27.5)49 En la definición del Estado de derecho destaca indudablemente el sometimiento de los ciudadanos y los poderes públicos a la ley, de tal forma que todos los actos de los poderes públicos puedan ser objeto de un control por los órganos jurisdiccionales. En síntesis, esta idea se completa con la interdicción de la arbitrariedad de los poderes públicos y el sometimiento de todos los actos administrativos al control jurisdiccional (art. 106 CE). Es en este sentido en el que los recurrentes de inconstitucionalidad han señalado como la adecuación entre ambos preceptos constitucional y orgánico presentan dificultades, ya que la omisión de motivación de actos administrativos denegatorios de solicitudes de visado impiden conocer las causas esgrimidas por la Administración para alcanzar tal resolución denegatoria. Por esta razón, no es posible determinar si el proceder de la Administración se ha ajustado a derecho en ese caso concreto, al igual que repercute en la tutela judicial efectiva del interesado, en la media en que desconoce frente a que razonamientos o argumentaciones de la administración puede plantear un recurso. Este precepto pues podría colisionar con la jurisprudencia constitucional y del Tribunal Supremo, que de modo reiterado ha venido afirmando la necesidad de la motivación para el conocimiento y defensa de sus derechos del administrado también respecto de las resoluciones administrativas. 49 “Los procedimientos administrativos que se establezcan en materia de extranjería respetarán en todo caso las garantías previstas en la legislación general sobre procedimiento administrativo, especialmente en lo relativo a publicidad de normas, contradicción, audiencia al interesado y motivación de las resoluciones, salvo lo dispuesto en el art. 27 de esta Ley” (art. 20.2). “La denegación de visado deberá ser motivada cuando se trate de visados de residencia para reagrupación familiar o para el trabajo por cuenta ajena. Si la denegación se debe a que el solicitante del visado está incluido en la lista de personas no admisibles prevista en el Convenio de aplicación del Acuerdo de Schengen de 14 de junio de 1990, se le comunicará así de conformidad con las normas establecidas por dicho Convenio. La resolución expresará los recursos que contra la misma procedan, órgano ante el que hubieran de presentarse y plazo para interponerlos” (art. 27.5). 71 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Por tanto, las impugnaciones de inconstitucionalidad descansan en que esta nueva regla introducida por la Ley Orgánica impide que se pueda llevar a cabo el mandato constitucional de revisión jurisdiccional de los actos administrativos, para constatar la adecuación a derecho de dicha resolución alejada de cualquier sombra de arbitrariedad o discriminación. Entienden pues los recurrentes que existirían serias dificultades para poder adecuar a la Constitución la redacción introducida en la Ley Orgánica 8/2000 respecto de la denegación de visados en determinados supuestos en los que la Administración no queda obligada a motivar la denegación de la solicitud de visado (art. 27). Existiría un riesgo real para el ejercicio material del derecho fundamental a obtener una resolución motivada y razonada en Derecho sobre la pretensión ejercitada, porque se puede sufrir indefensión a través de una restricción legal. Como es notorio “cualquier restricción en el ejercicio de un derecho fundamental necesita basarse en una causa especifica prevista por la ley y que el hecho o la razón que la justifique debe explicitarse para hacer cognoscible los motivos que la legitiman”. La motivación es un requisito indispensable del “acto limitativo del derecho, y el contenido necesario de ésta” (STC 146/1997). Los recurrentes consideran que la indefensión se caracteriza por suponer una privación o una limitación del derecho de defensa que, en este caso, se produce por vía legislativa y sobrepasa el límite del contenido esencial de la tutela judicial prevenido en el art. 53 (STC 48/1984). Los argumentos esenciales del Abogado del Estado son, de un lado, la inexistencia en nuestro ordenamiento jurídico de un derecho del extranjero a la obtención del visado ya que se trata de un instrumento de política de inmigración ejercitable por el Estado soberano y, de otro, porque el legislador solo ha exigido a la administración la necesidad de motivar la denegación en tres supuestos concretos, por lo que el legislador tampoco impone la no motivación, sino que como compartirá el Tribunal “simplemente no se exige” en el resto de los supuestos. En efecto, el Tribunal Constitucional señala que la fundamentación de la inconstitucionalidad descansa en la “exoneración del deber de motivación referido no a un resolución judicial, sino a una resolución administrativa denegatoria de un visado, con las excepciones mencionadas”. Coincidimos con el Tribunal en que el precepto que se impugna “no contempla propiamente la restricción de un derecho, pues la obtención del visado no es un derecho reglado del extranjero”, ya que como se ha indicado por el Tribunal “el derecho a entrar en España no es un derecho fundamental del que sean titulares los extranjeros” ex art. 19 (STC 75/2005). A juicio del Tribunal “la exoneración 72 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 del deber de motivación de los actos administrativos denegatorios del visado establecida en aquellos preceptos no debe reputarse contraria al art. 24.1 CE puesto que se trata de actos que no imponen sanción alguna ni limitan el ejercicio de ningún derecho fundamental”. Respecto a la alegada contradicción de este precepto con la interdicción de la arbitrariedad de los poderes públicos (9.3 CE) y con el obligado control de la actuación administrativa por parte de los Tribunales” (art. 106.1), se considera que no existe ninguna incompatibilidad. Concluye el Tribunal desestimando este motivo de inconstitucionalidad ya que pese a los términos en que está redactado el precepto impugnado “nada impide que se pueda llevar a cabo el correspondiente control jurisdiccional de estos actos administrativos quedando garantizada la exigencia del art. 106 CE”. Diversos son otros preceptos de la regulación de extranjería sobre los que se ha formulado alguna impugnación de inconstitucionalidad en la medida en que pueden propiciar, desde la estricta aplicación literal de sus términos, la indefensión del extranjero que se encuentre de modo irregular en el interior o en la frontera de nuestro territorio. Ciertamente, aun cuando una primera afirmación sobre la titularidad de la tutela judicial efectiva se contiene en el artículo 20 de la vigente Ley Orgánica 8/2000, la regulación contenida en diversos preceptos de aquélla plantea desde la perspectiva de los recurrentes un indudable debilitamiento de la eficacia del control judicial de las actuaciones administrativas previas que pudiera desdibujar la eficacia de la tutela judicial efectiva, e incluso generar supuestos de indefensión. En este sentido, la aplicación literal de algunos de estos preceptos de la norma de extranjería, a juicio de los recurrentes, conlleva un elevado riesgo de debilitamiento del control judicial sobre actos administrativos de los que son destinatarios los extranjeros con gravosas consecuencias para ellos. Brevemente expuestos cabe recordar que se ha impugnado el principio non bis in idem: expulsión de los extranjeros condenados (art. 57). También se han recurrido las limitaciones a la libertad relativas a la residencia obligatoria como medida cautelar previa a la expulsión (art. 61.b), retorno (art. 60), ingreso en el centro de internamiento (art. 62.2) así como la ejecutividad inmediata de las resoluciones administrativas de expulsión (art. 63.2). Pese a las anteriores argumentos que han sido objeto de consideración por el Alto Tribunal y sobre los que descansan las objeciones esenciales formuladas por los 73 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 recurrentes el Alto Tribunal ha considerado que este procedimiento es compatible con la tutela judicial efectiva y, por tanto, ha desestimado este motivo de impugnación. IV.- Consideraciones Finales En cuanto a los efectos de las sentencias objeto de este comentario por parte del Tribunal se ha señalado una doble consecuencia de la aceptación de aquellos motivos de impugnación de inconstitucionalidad que han prosperado. De un lado, para el Alto Tribunal cabe recordar que “no siempre es necesaria la vinculación entre inconstitucionalidad y nulidad; así ocurre cuando <<la razón de la inconstitucionalidad del precepto reside, no en determinación textual alguna de éste, sino en su omisión”. Por tanto, no se resuelve la obtener cuando nulidad de los preceptos relativos al inciso “y que podrán obtengan autorización de estancia o residencia en España” correspondiente a los derechos de reunión, asociación y sindicación al objeto de evitar “un vacío legal”. Por el contrario procede acordar la inconstitucionalidad y la nulidad respecto del inciso “residentes” de los preceptos relativos a la educación de naturaleza no obligatoria y el derecho de asistencia jurídica gratuita de los extranjeros. Idéntico razonamiento se esgrime respecto de la declaración de inconstitucionalidad que conlleva también la nulidad del inciso “cuando estén autorizados a trabajar” en relación con el reconocimiento del derecho de huelga. Baste por último brevemente indicar que las sucesivas resoluciones del Tribunal que contienen varios votos particulares se centran esencialmente en la discrepancia respecto de la interpretación del art. 13 CE que consideran los magistrados discrepantes “supone una diferenciación” entre las posiciones de los españoles y extranjeros. También se discrepa del fallo del Pleno en la apreciación de la apelación a la dignidad humana que se entiende insuficientemente “consistente” en los términos de “generalidad” con que es utilizado a su criterio en dichas sentencias. Por último, constituiría una exageración para los Magistrados discrepantes la consideración de inherentes a la dignidad humana de los derechos de reunión, asociación y sindicación. Evidentemente a lo largo de los siete años que han transcurrido desde la aprobación de la Ley Orgánica 8/2000 hasta las resoluciones del Tribunal Constitucional hemos asistido a un escenario complejo, en el que la no intervención del legislador 74 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 orgánico, o quizá por la exclusión llevada a cabo por el legislador orgánico de esas personas, se ha iniciado una línea de actuación de intervención de las administraciones autonómicas respecto de la inmigración en el contexto de sus competencias en materia de prestaciones sociales. Así, instrumentos como el padrón municipal y su inclusión en él, o la institución del arraigo en la población han operado como cauces para recibir prestaciones de la administración local y para posibilitar una intervención decidida de los Ayuntamientos en la atención a la población inmigrada. Los diferentes planes de integración de la inmigración de las Comunidades Autónomas han dado paso a la incorporación de competencias en materia de extranjería e integración de los inmigrantes en los nuevos Estatutos de Autonomía de Cataluña y Andalucía. Tras los recientes pronunciamientos del Tribunal Constitucional parece necesario llevar a cabo una reforma legislativa para adecuar la actual normativa a dicha jurisprudencia así como formular las bases de la gobernanza de la integración, que exige que los distintos actores implicados en la integración de los inmigrantes pudieran definir conjuntamente los instrumentos más adecuados para su consecución. Se hace necesario pues que el legislador plasme en una nueva norma sobre inmigración e integración la necesidad de coordinar las actividades de integración, así como la evaluación para la elaboración de las políticas y programas de inserción de la inmigración. También se tiene que abordar en una próxima norma de extranjería de forma coherente la gestión de los recursos y el papel de los distintos actores públicos y privados en la financiación de políticas y prácticas de integración. La síntesis deseable de este conjunto de circunstancias, condicionantes, regulaciones y planes autonómicos de integración no debiera ser otra que una mayor concertación entre el Estado, las Comunidades Autónomas y las administraciones locales. 75 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 La sussidiarietà a livello orizzontale nell’esperienza italiana di decentramento fiscale di Chiara Fontana Sommario: 1. Premessa; 2. Origine e funzioni della sussidiarietà fiscale; 3. Il principio di sussidiarietà orizzontale nella Costituzione e nella legislazione statale italiana; 4. Il principio di sussidiarietà fiscale a livello orizzontale; 5. Sussidiarietà orizzontale, decentramento fiscale e vincoli di sistema Premessa Le trasformazioni demografiche e sociali degli ultimi decenni hanno coinvolto molti dei principi cardine elaborati dalla scienza politica e giuridica, determinandone, in alcuni casi, il declino. In special modo, l’accelerazione conseguita dai processi di mondializzazione ha posto in discussione, sotto diversi aspetti, l’antica formula dello Stato nazione, sollecitando, contestualmente, l’evoluzione di una nuova progettualità istituzionali. Tale situazione risulta, peraltro, più evidente, laddove il modello statale risulti costruito sulle coordinate dell’accentramento; dello statalismo; e del consociativismo. I processi in corso, originatisi a partire da una crisi del principio di sovranità statale, investono, infatti, principalmente, i modelli di civil law, storicamente più rigidi di quelli di common law, a fronteggiare le sfide lanciate dall’emergere di un diritto cosmopolita, che tende a riaffermare il primato della prassi sulle geometrie legali.1 In siffatto conteso, non solo il tradizionale monopolio delle fonti del diritto, e la stessa decisione politica, hanno smarrito la propria capacità di legittimarsi all’interno di un principio di sovranità incontrollato e autoreferenziale2; ma finanche il controllo politico 1 2 Cfr. GENTILE, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, Padova, 2001, p. 53. Cfr. ANCONA, Alle origini della sovranità, Padova, 2004, p.7. 76 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 sull’economia nazionale, tradizionalmente centrata sul mercato interno, risulta oscurata dall’emergere di un sistema economico globale, che elude il controllo statale. Tale fenomeno impatta, con forza, anche il diritto fiscale, le cui coordinate, radicate sulla statualità e sulla materialità della ricchezza, risultano rivoluzionate dai nuovi processi socio-economici; e dall’incalzare dello sviluppo tecnologico. La stessa formula no taxation without rapresentation, frequentemente, presentata, nella letteratura giuridica, come la più alta espressione dell’imprescindibile legame esistente tra “questione fiscale”e principio democratico, risulta, per questa via, spogliata di una parte considerevole del suo significato3. Gli urti della globalizzazione, infatti, hanno posto in discussione la reale portata di quello che viene abitualmente considerato come il paradigma di fondo della democrazia fiscale; e che impone la coincidenza, nel medesimo soggetto, delle figure dell’elettore, del beneficiario della spesa pubblica e del contribuente. Lo stesso cittadino, infatti, è in condizione di scegliere, autonomamente, dove pagare almeno una quota dei tributi, in qualità di investitore finanziario o di imprenditore, pur esercitando il diritto di voto e usufruendo della spesa pubblica nel suo Paese di appartenenza La ricchezza, per la prima volta in età moderna, si sottrae, dunque, al vincolo territoriale4, ponendo, così, in discussione il principio che lega tassazione e rappresentanza politica.5 Nel nuovo contesto mondializzato, lo Stato sociale, infatti, con la graduale perdita del controllo dell’economia, ha abdicato ad una quota rilevante della propria sovranità fiscale e rischia di diventare, paradossalmente, un “peso” proprio per i soggetti più deboli, che sarebbe tenuto a tutelare6. Mentre, dunque, le classi più abbienti dispongono dei mezzi funzionali ad esportare la propria ricchezza in Paesi fiscalmente più vantaggiosi, la pressione fiscale 3 Cfr. ANTONINI , La sussidarietà fiscale. La frontiera della democrazia, Milano, 2005, p. 25. Non è più lo Stato che stabilisce come tassare la ricchezza, ma è la ricchezza che sceglie dove essere tassata. 5 Cfr. TREMONTI., Il futuro del fisco, in Galgano-Cassese-Tremonti-Treu, Nazioni senza ricchezza e ricchezza senza nazioni, Bologna, 1993, p. 60 6 Cfr. ANTONINI, Oltre il Welfare State: verso nuovi diritti sociali fondati sulla sussidiarietà, Intervento al Convegno .Autonomie, cooperazione e raccordi interistituzionali nell’evoluzione del sistema italiano,Roma, 22 febbraio 2006, nel quale, l’Autore evidenzia come, in buona sostanza, la globalizzazione ha messo in crisi la tradizionale formula politica ed istituzionale dello Stato nazione ed ha naturalmente sollecitato l’evoluzione verso una nuova progettualità. Tale crisi, peraltro, secondo tale dottrina appare tanto più evidente quanto più il modello statale è stato costruito sulle coordinate dell’accentramento e dello statalismo: così il pianeta di civil law, con la sua pretesa di catturare il diritto, si trova a fronteggiare sfide che lo rendono senz’altro più obsoleto ed inadeguato rispetto a quello di common law. 4 77 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 nazionale finisce per mortificare i redditi che non sono in condizione di godere di mobilità internazionale; e i beni al sole. All’interno di questa crisi, il principio di sussidiarietà fiscale sembra, non solo ad una autorevole dottrina7, ma, anche al legislatore dell’ultimo decennio, l’unico in condizione di recuperare, in formule nuove, i presupposti e le prestazioni di democrazia sostanziale racchiusi nel principio che lega tassazione e rappresentanza. Esso, infatti, strutturando una forma alternativa di concorso alle spese pubbliche,8 (ex art. 53 Cost.), da realizzarsi, non solo, pagando tributi erariali, ma, anche, partecipando, più generalmente, alla crescita ed al benessere della comunità,9 si pone quale correttivo del modello tradizionale “burocratico-impositivo” teorizzato ed edificato sotto l’egida dello Stato centralista. In base al suddetto principio, è possibile rivalutare la capacità democratica della sovranità popolare, fino ad enucleare una nuova generazione di diritti sociali,10 edificati sullo schema delle libertà negative, ma sostenuti da un valore assiologico, che ne sottolinea il nesso con i valori sociali.11 Il protagonismo fiscale dello Stato centralista, risolto il vincolo che univa Stato territorio e ricchezza, si presta, quindi, ad essere riconsiderato alla ricerca di una inedita conciliazione tra diritti di libertà, sovranità popolare e imposizione fiscale. Quest’ultima, infatti, risulta delegittimata, sia dal punto di vista delle prestazioni sociali erogate, sia da quello della democraticità sostanziale che la sostiene. 7 Il riferimento attiene, in primo luogo ad ANTONINI , op. cit.,2005; ma, anche, a numerosi altri Autori, quali COTTURI, Potere sussidiario. Sussidiarietà e federalismo in Europa e in Italia, Roma, 2001; ALBANESE, Il principio di sussidiarietà orizzontale: autonomia sociale e compiti pubblici, in Dir. Pubbl., 2002, p. 51; RESCIGNO, Principio di sussidiarietà e diritti sociali, in Dir. Pubbl., 2002, p. 13 ss. 8 A tale riguardo, fondamentali, tra gli altri, gli studi condotti da: I. MANZONI, Il principio di capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965; F. MAFFEZZONI, Il principio di capacità contributiva nel diritto italiano, Torino, 1970; F. MOSCHETTI, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973; F. GAFFURI, L’attitudine alla contribuzione, Milano, 1969; E. GIARDINA, Le basi teoriche del principio della capacità contributiva, Milano, 1961; S. LA ROSA, Eguaglianza tributaria ed esenzioni fiscali, Milano, 1968; G. MARONGIU, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria, Torino, 1991; F. MOSCHETTI F. (a cura di), La capacità contributiva, in Trattato di diritto tributario, (diretto da) A. Amatucci, vol. I, tomo I, Padova, 1994; E. DE MITA, Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 2000; Id., Fisco e Costituzione, vol. I, Milano, 1987; Id., Fisco e Costituzione, vol. II, Milano, 1993. 9 Siffatta teoria trova la sua legittimazione nella circostanza che l’art. 53 Cost., che rappresenta la base del sistema fiscale italiano, pur sancendo l’obbligo di concorso alla spesa pubblica da parte di tutti i cittadini in ragione della loro capacità contributiva, nulla specifica circa le modalità di adempimento dell’obbligazione tributaria. 10 È il caso, ad esempio, del diritto all’esenzione fiscale dei minimi familiari, il quale, certamente, opera quale diritto costituzionale sui generis, dato che risulta caratterizzato tanto da un contenuto sociale, quanto da una struttura analoga a quella delle libertà negative: il Familienexistenzminimum elaborato dalla Corte di Karlsruhe si struttura, infatti, nella pretesa ad una assenza di interferenza fiscale statale sui presupposti economici minimi per un’esistenza dignitosa. 11 Cfr. ANTONINI, 2005, p. 20. 78 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 È logico che la sussidiarietà fiscale non sarà mai in grado di sostituirsi allo Stato fiscale o alla democrazia rappresentativa nella funzione impositiva; vi sono, certamente, funzioni che in alcun caso potrebbero essere delegate alla società civile o alle realtà sub statali; tuttavia, innegabilmente, il ruolo da esse svolto potrebbe essere ottimizzato, attraverso una efficace applicazione del principio di sussidiarietà. Si profila, per questa via, una possibile “metamorfosi concettuale”12 degli istituti, diretta ad attualizzare le potenzialità democratiche dell’antico principio che lega la tassazione alla sovranità popolare, consentendo di recuperarne, almeno parzialmente, i presupposti e le prestazioni di democrazia sostanziale.13 Date tali premesse, le finalità delle seguenti riflessioni consistono nel fornire un’interpretazione del principio di sussidiarietà fiscale a livello orizzontale, che risulti coerente, non solo, con il preesistente assetto normativo, ma, anche, con l’evoluzione legislativa originatasi dalla legge n. 3 del 2001, di riforma del Titolo V della Costituzione, che ha riformulato l’art. 118, prevedendo, espressamente, al IV comma, il principio di sussidiarietà orizzontale. L’indagine condotta, muoverà, pertanto, dall’analisi circa le origini e le funzioni di tale principio, per concentrarsi, successivamente, sull’esperienza di sussidiarietà maturata nell’ambito del più vasto processo di decentramento, che sta interessando il nostro Paese, nell’ultimo decennio. Ovviamente, chi scrive non ha alcuna pretesa di riuscire a trattare in maniera esaustiva, un argomento approfondito da una ben più autorevole dottrina, che si presta, peraltro, a diverse chiavi di lettura, in alcuni casi, anche molti diverse fra loro. Tale breve contributo è da intendersi, pertanto, come un primo passo compiuto all’interno di un più vasto percorso di studio che si intende condurre su uno dei principali nodi del dibattito politico e culturale italiano sulle istituzioni della finanza pubblica. 2. Origine e funzioni della sussidiarietà fiscale 12 Il termine è mutuato da ANTONINI , op. cit, 2005. In tal senso, CALAMANDREI, La funzione della giurisprudenza nel tempo presente, in Studi sul processo civile, vol. IV, Padova, 1957, p. 89; e, più tardi, BERTOLISSI, Rivolta fiscale, federalismo, riforme costituzionali, Padova, 1997, p. 21, il quale, riprendendo le tesi espresse dal Calamandrei, evidenzia la centralità della questione fiscale e la necessità di affrontarla seguendo un approccio diretto a coinvolgere gli istituti fondamentali della forma di Stato cui si riporta il “patto fiscale”. 13 79 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Fornire una definizione unitaria del più vasto principio di sussidiarietà, entro il quale si colloca la sussidiarietà fiscale, risulta alquanto difficile, a causa della densità del contesto culturale, della stratificazione del dato storico e del sovraccarico ideologico dal quale risultano segnate le ricostruzioni teoriche che ne sono state rese; tanto più laddove tale principio venga considerato in senso “orizzontale”, coinvolgendo la complessa questione del rapporto tra pubblici poteri ed autonomia dei privati.14 Ordinariamente, si conviene sul fatto che tale principio abbia più matrici culturali, risalenti e diversificate. Tralasciando le origini filosofiche più antiche15, le componenti ancora oggi più significative di questa nozione, possono essere individuate nel pensiero liberale, nel pensiero socialista e nella dottrina sociale della Chiesa. Nella prima accezione, la formulazione più radicale della sussidiarietà si fonda, essenzialmente, sull’affermazione della riduzione dell’intervento statale al minimo necessario per garantire la libertà e la convivenza degli individui; e discende, come conseguenza necessitata, della asserzione della prevalenza e precedenza della libertà degli individui sull’attività dello Stato. L’intervento di quest’ultimo è, infatti, considerato, nell’ottica liberale, come intrinsecamente minaccioso per l’autonomo dispiegarsi della libertà individuale e come potenzialmente conflittuale con essa; esso pertanto, è ritenuto legittimo solo se “sussidiario”, ossia, quando risulti espletato in funzione suppletiva, ogniqualvolta la libera 14 Un’ accurata ricostruzione storica circa la complessità delle radici culturali di tale principio è stata resa da STAIANO, La sussidiarietà orizzontale: profili teorici, in federalismi.it, n.5/2006. In questa sede, Egli sottolinea l’opportunità di rinunciare ad un’impossibile “neutralità” definitoria, muovendo, piuttosto, da un concetto aperto di sussidiarietà. Per tale via, quanto al designatum essa si riferisce ad una relazione tra livelli territoriali di governo, come sussidiarietà verticale; tra Stato latamente inteso e società civile, anch’essa latamente intesa, come sussidiarietà orizzontale. Quanto alla funzione, la sussidiarietà privilegia l’intervento dei soggetti nell’ambito più vicino possibile agli interessi coinvolti. Sulla sussidiarietà come “principio relazionale”, D’ATENA, Il principio di sussidiarietà nella Costituzione italiana, in Riv. it.dir. pubbl. com., 1997, p. 609. Dello stesso autore, cfr. Costituzione e principio di sussidiarietà, in Quaderni cost., n.1/2001, p. 17. 15 Il principio di sussidiarietà affonda le sue radici nel pensiero di Aristotele e di Tommaso d’Aquino, proponendosi come “rapporto tra lo Stato e la sua collettività”. Il primo riteneva che in un organismo complesso, l’individuo, la famiglia, il villaggio e la città assumevano le sembianze di contenitori concepiti come matriosche, sicchè la mancanza di autosufficienza del più piccolo comportava l’interno della grandezza immediatamente superiore.in tale contesto, il potere politico doveva gestire la difesa, l’ordine pubblico, la giustizia, etc…..Tommaso d’Aquino, nel rispetto della dignità umana, le affiancava, quale aspetto imprescindibile, la libertà e la responsabilità del proprio agire. Tale autonomia comportava una necessità di non ingerenza nelle attività che dal singolo potevano essere autonomamente svolte, di modo che l’intervento dell’autorità superiore fosse giustificabile solo ove l’autonomia del singolo si dimostrasse inidonea a raggiungere da sola la piena felicità.Per un’approfondita analisi si rimanda a DURET, La sussidiarietà orizzontale: le radici e le suggestioni di un concetto, in Jus, 2000, p. 95; RINELLA, op. cit., p. 8; BERTI, Considerazioni sul principio di sussidiarietà, in Jus, 1994, p. 405. 80 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 iniziativa dei soggetti privati si riveli, in concreto, inidonea a conseguire le finalità che si propone16. Ne discende, per questa via, una visione del principio di sussidiarietà fondata su una concezione antagonistica del rapporto tra Stato e società, che assume una funzione prevalentemente di delimitazione dell’intervento statale e di difesa nei confronti di quest’ultima. Si contrappone allo “Stato minimo,” la corrente che predilige lo “statalismo pianificatore”, la quale reputa che lo Stato non possa abbandonare il campo: vi sono, infatti, dei bisogni che non possono essere che soddisfatti dall’Amministrazione. In quest’ottica occorrono, dunque, sia una redistribuzione del reddito, sia adeguati sistemi di sicurezza sociale, atti a contrastare la povertà e la disuguaglianza. Da una parte si contrappone, quindi, la libertà all’uguaglianza, l’individuo allo Stato, l’iniziativa privata alla garanzia pubblica; dall’altra, si spinge troppo verso uno Stato fortemente assistenzialista. Ne discendono due valenze di sussidiarietà, l’una intesa in senso negativo, come astensione dell’intervento pubblico a favore della libertà del singolo; l’altra in senso positivo, come dovere di intervento da parte dello Stato.17 Vi è, poi, una posizione intermedia, quella della dottrina sociale della Chiesa, che si connota, sia di una posizione di tipo negativo (non ingerenza da parte dello Stato per quanto possa essere fatto dal singolo); sia di una posizione di tipo positivo (in cui lo Stato, nel riconoscimento di quanto a lui spetta, interviene per favorire tali iniziative).18 Il nucleo fondamentale di tale dottrina può essere rinvenuto, come ben noto, nelle Encicliche Rerum novarum, del 1891 e Quadragesimo anno, del 193119. In quest’ultima, in particolare, si afferma che “…non è lecito sottrarre ai privati per affidarlo alla comunità, ciò che essi possono compiere con le proprie iniziative e la propria industria, così com’è un ingiustizia, un grave danno ed un turbamento del giusto ordine attribuire ad una società maggiore più elevata quello che possono compiere e produrre le comunità minori ed inferiori. Infatti qualsiasi opera sociale in forza della sua natura deve aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già 16 Si veda, in particolare, JELLINEK, Allgemeine Staatlehre, Leipzig, 1913, p.230. ALBANESE, Il principio di sussidiarietà orizzontale: autonomia sociale e compiti pubblici, in Dir. pubbl., n. 1/2002, p. 66. 18 Cfr. ALBANESE, op. cit., 2002, p 62. 19 Nel magistero della Chiesa si è poi consolidata l’affermazione del principio di sussidiarietà, come dimostra la Lettera Enciclica Deus Caritas Est, data da Benedetto XVI, il 25 dicembre 2005, nella quale non solo si conferma il menzionato principio, ma si individua e si esplicita un filo conduttore unitario nella dottrina della Chiesa che ad esso si richiama. 17 81 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 distruggerle ed assorbirle. Perciò è necessario che l’autorità suprema dello Stato rimetta ad associazioni minori ed inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe più che mai distratta; ed allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei solo spettano, perché essa sola può compierle; di direzione cioè, di vigilanza, di incitamenti, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità”. La funzione dell’organizzazione statale, in quest’ottica, diventa quella di “aiutare in maniera suppletiva”20 le strutture sociali inferiori nell’assolvimento dei compiti da esse svolti. Inteso in tal senso, il principio di sussidiarietà, se, da una parte, ribadisce l’imperativo dell’astensione, da parte dello Stato, da qualsivoglia ingerenza nelle attività che possono essere svolte dai singoli o dai gruppi sociali minori, autonomamente; dall’altra, si completa di una valenza positiva, derivante dal riconoscimento dell’utilità di un’azione statale finalizzata a sostenere e a promuovere l’attività dei privati. Sebbene le diversità tra tali matrici siano radicali, derivando dal diverso fondamento cui ciascuna di esse si richiama, le previsioni normative e la considerazione preliminare circa la funzione che il principio di sussidiarietà svolge nell’ordinamento, si caratterizzano per un certo sincretismo, che coglie un comune atteggiamento di diffidenza rispetto al potere statale e, nel rapporto con quest’ultimo, una preminenza valoriale del singolo e dell’autonomia dei soggetti intermedi, su base comunitariaterritoriale. Del resto, una certa bivalenza è insita nello stesso significato del menzionato principio, che, da un lato, tutela l’autonomia del singolo e dell’organismo minore dall’invadenza di quelli maggiori; e, dall’altro, implica l’eventualità dell’intervento ausiliario di questi ultimi, quando gli organismi minori si rivelino inadempienti o inadeguati nello svolgimento dei propri compiti. Adottato in un ordinamento giuridico articolato secondo una pluralità di autonomie sociali e territoriali, esso può comportare, quindi, per il potere pubblico, un dovere di astensione, quanto uno di intervento. In ambito fiscale, l’idea che tassazione e rappresentanza dovessero essere necessariamente collegate è stata, frequentemente, presentata, nella letteratura giuridica, come il denominatore comune della prima teoria giuridica liberale sulle imposte. La previsione della riserva di legge in materia tributaria, contenuta nelle carte costituzionali ottocentesche ha, infatti, determinato l’erronea convinzione di un 20 Il termine sussidiarietà deriva, appunto dalla locuzione subsidium afferre. 82 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 generalizzato riconoscimento, negli ordinamenti dell’epoca, del principio di autoimposizione21. Principio che, invero, non può farsi coincidere con la semplice previsione formale, in ambito costituzionale, della necessità di una consenso parlamentare alle imposte. Si è trattato, in realtà, di un significativo equivoco storico che ha legittimato, nei secoli successivi, una retorica persuasa a determinare, con eccessivo semplicismo, nella riserva di legge, la garanzia dell’autoimposizione, prescindendo dall’effettivo livello di rappresentanza in esso realizzato. A ben vedere, infatti, il concetto di autoimposizione sembra essere stato proprio solo dell’utilitarismo anglosassone, nell’ambito del quale, l’interesse comune era rappresentato come la somma degli interessi dei singoli cittadini22. Nella dottrina mitteleuropea del tempo, invece, le chimere della metafisica statalistica condussero a teorie e prassi alquanto divergenti nei diversi ordinamenti tributari. Nell’ordinamento giuridico italiano, una previsione generica della riserva di legge in materia tributaria è contenuta nello Statuto Albertino, ai sensi del cui art. 30, nessun tributo poteva essere imposto o riscosso, se non consentito dalla Camera e sanzionato dal Re. L’art. 10 del medesimo Statuto disponeva, inoltre, che le leggi di imposizione dovessero essere presentate, in via preventiva, alla Camera dei deputati, evidenziando, in tal modo, l’inadeguatezza del Senato, di nomina regia e privo di rappresentatività, ad esercitare la funzione legislativa nel settore tributario. Nella concreta evoluzione legislativa, tuttavia, l’ideologia costituzionale dei diritti pubblici soggettivi, finì, rapidamente, per determinare una impostazione della dinamica impositiva meno rispettosa del principio di legalità di quanto originariamente previsto; che culminò nella prassi dei decreti legge in materia tributaria. Tale orientamento condizionò, anche, la dottrina successiva, tanto che, ormai quasi cinquanta anni dopo, A.D. Giannini, si interrogava circa l’opportunità di definire il rapporto tributario come rapporto giuridico, piuttosto che come rapporto di potere.23 21 Cfr. BARTOLINI, Il principio di legalità in materia di imposizione, Padova, 1957, p. 3. Al di là di indebite generalizzazioni, il concetto di autoimposizione si realizzò pienamente nell’ideologia anglosassone, dove appariva come declinazione particolare del più ampio principio della liberty and property 22 clause. 23 GIANNINI, Il rapporto giuridico d’imposta, Milano, 1937, p. 27. 83 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Per il recupero dei presupposti legati al principio di autoimposizione si dovè, pertanto, attendere, la Costituzione del 1948, nella quale, prevalse la necessità di rovesciare la tradizione costituzionale dei diritti pubblici soggettivi. Lo sviluppo della persona, la posizione che essa occupa nella società civile ed il rapporto che intercorre tra Stato e cittadino, risultano, infatti, nelle intenzioni del costituente, illuminati dal principio di solidarietà sociale. In quest’ottica, l’individuo e le formazioni sociali trovano tutela, non in quanto tali, ma in quanto atti a perseguire degli interessi generali.24 Le potenzialità insite in tale impostazione normativa, tuttavia, furono avvertite in ritardo e solo parzialmente dalla dottrina italiana; diversamente, dalla Corte costituzionale che le utilizzò per razionalizzare lo sviluppo dell’ordinamento nazionale e per liberarlo dai limiti che affievolivano sia il principio di legalità, sia la tutela giurisdizionale. Se, quindi, la tematica del consenso delle imposte è stata rapidamente ricondotta all’interno del principio di cui all’art. 23 Cost.; tuttavia, l’evoluzione normativa che ne è seguita non è stata sufficiente a restituire al principio di autoimposizione le originali virtù democratiche che lo caratterizzavano25. In questo senso, la necessità di assicurare un fondamento legislativo all’imposizione di prestazioni patrimoniali si è giustificata, essenzialmente, per l’esigenza che le scelte fondamentali, in merito alla ripartizione dei carichi tributari, siano assunte nell’ambito di un più vasto processo politico, che tenga conto della tutela delle minoranze e della ponderazione tra esigenze pubblicistiche e privatistiche. Un ruolo emblematico, in tale direzione, è stato svolto dalla sentenza n. 134/82, in cui il giudice delle leggi ha chiarito, riferendosi alla misura delle detrazioni dall’imposta sul reddito, che il punto d’incontro e di contemperamento delle esigenze finanziarie dello Stato e dei contribuenti varia a seconda dell’evoluzione economica, finanziaria e sociale del Paese e spetta al legislatore ordinario di determinarlo alla luce di tali necessità. Ne discende che, nel collegamento con il principio di autoimposizione, la qualità democratica della riserva di legge in materia tributaria, ha subito una profonda trasformazione, che coinvolge la sua stessa attitudine a fungere da manifestazione di sovranità popolare. 24 In proposito, giova ricordare che la Costituzione ha prestato, tuttavia, grande attenzione all’esigenza di evitare che i corpi intermedi perseguano interessi di classe, creando un neocorporativismo, di per se stesso contrario al principio di solidarietà sociale. 25 Al riguardo è d’obbligo sottolineare come l’evoluzione della nozione stessa di riserva di legge si debba all’intuizione di ABBAMONTE, Principi di diritto finanziario, Napoli, 1975, che per primo sottolineò l’ancoraggio dell’art. 23 con la sovranità ed il sindacato di legittimità. 84 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 La giurisprudenza costituzionale, infatti, ha interpretato estensivamente la nozione di prestazione patrimoniale imposta, finendo con il mortificare le esigenze di democraticità a vantaggio di quelle di garanzia26; peraltro con una forte autolimitazione in relazione alle previsioni di tipo quantitativo, nei confronti delle quali si è sempre dimostrata alquanto prudente.27 Tale interpretazione giurisprudenziale, del resto, si accompagna e, contestualmente, giustifica un’evoluzione normativa, in materia tributaria, di stretta origine governativa, nella quale, la legislazione per decreti ha dettato l’abdicazione della legislazione parlamentare, la cui centralità era proprio una delle principali coordinate del principio di autoimposizione. In estrema sintesi, l’evoluzione intercorsa, non solo, ha depauperato di gran parte del suo significato, la riserva di legge relativa, di cui all’art. 23 Cost., ma ha anche identificato nei decreti legislativi e nei decreti legge, gli strumenti ordinari di produzione normativa in materia tributaria. Questo assetto, la cui origine è riconducibile ai difetti che segnarono i decreti legislativi che furono emanati in base alla legge delega n. 825/71 per la riforma tributaria è stato, ulteriormente, consolidato dalla recente tendenza a rafforzare i poteri del Governo. Si comprende, pertanto, l’urgenza avvertita da certa Dottrina28 di recuperare le virtù democratiche del principio di autoimposizione, rivalutando ruolo e funzioni della sovranità popolare. Da questo punto di vista, considerando che lo Stato –soggetto si propone come strumento concorrente, attraverso il quale, il popolo esercita la sovranità di cui resta titolare nei mutati contesti sociali, il principio di sussidiarietà sembra porsi come derivazione della sovranità popolare, tendenzialmente idonea, a colmare il deficit democratico che affligge l’antica formula no taxation without rapresentation. 26 Si ricordi, in proposito, la sentenza n. 236/94, nella quale la Corte ha stabilito che il carattere relativo delle riserva di legge è rispettato anche in assenza di una esplicita indicazione legislativa dei criteri, dei limiti e dei controlli sufficienti a circoscrivere l’ambito di discrezionalità assicurato alla Pubblica Amministrazione. 27 L’atteggiamento della Corte si self restreitment è da ritenersi comprensibile laddove essa si trovi a dovere bilanciare interessi del legislatore ed interessi che essa stessa ritenga conformi allo spirito costituzionale. L’adesione a tale orientamento, tuttavia, incontra il limite che ci si muova all’interno dei principi costituzionali, poiché, in presenza di comportamenti irragionevoli del legislatore, il richiamo alla discrezionalità di quest’ultimo sembra più il rifugio della Corte che non un limite reale al sindacato costituzionale. A contrario, un giudizio estremamente positivo deve attribuirsi alla Corte con riferimento alle sentenze additive di prestazioni, alle quali può, indubbiamente, riconoscersi una funzone maieutica. 28 Il riferimento attiene, in primo luogo ad ANTONINI op. cit., 2005, il quale, ha profusamente illustrato, in numerosi scritti, l’esigenza di recuperare il significato più profondo del principio di sovranità popolare in materia fiscale attraverso la sussidiarietà. 85 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Su questo crinale, appare utile calare il suddetto principio nel contesto normativo in cui deve operare. 3. Il principio di sussidiarietà orizzontale nella Costituzione e nella legislazione statale italiana Le considerazioni appena svolte consentono di concludere che la sussidiarietà fiscale ha radici antiche, in questa sede solo parzialmente evocate. In Italia, tali radici affondano, come accennato, nello statalismo tardo ottocentesco, rispetto al quale, la Costituzione repubblicana segnò una considerevole evoluzione29. Il Testo venne, infatti, approvato a larghissima maggioranza, nell’ambito di una straordinaria convergenza delle principali forze politiche presenti in Parlamento, che consentì la cristallizzazione di principi come la libertà di associazione (art. 18 Cost.); e la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali dove svolge la sua personalità (art. 2 Cost.)30 Tale evoluzione, per quanto apprezzabile, tuttavia, non riuscì a valorizzare, adeguatamente, le menzionate formazioni, il cui, maggiore riconoscimento civilistico e fiscale avrebbe contribuito a non disperdere la tradizione di Welfare Society che aveva rappresentato l’humus dello sviluppo socio-economico-culturale italiano. Le conseguenze che ne sono derivate assumono connotati paradossali, che hanno avvilito le capacità della società civile di organizzare risorse per rispondere ai bisogni sociali;31consolidando, contestualmente, una distribuzione centralistica del potere. 29 Al riguardo, FROSINI, Profili costituzionali della sussidiarietà in senso orizzontale, in Riv. giur.mezzogiorno, 2000, p. 15. 30 L’art. 2, implicitamente, sancisce la rottura del monopolio statale rispetto alla definizione dell’interesse comunitario a favore del riconoscimento ai soggetti sociali del compito di perseguire gli obiettivi propri dell’intera collettività statale. Nelle intenzioni del costituente, la norma in parola avrebbe dovuto rinsaldare dimensione individuale ed interesse generale, superandone la tradizionale contrapposizione. La consonanza tra il principio pluralistico di cui all’art. 2 Cost. e il principio di sussidiarietà deriva, pertanto, dalla valorizzazione della capacità e dell’autonomia del singolo cittadino, accanto a quella dei gruppi sociali e delle società minori, nell’ambito della società generale e delle strutture in cui essa organizza il potere. Tale concezione è stata fatta propria anche dalla Corte di Cassazione la quale ha sostenuto che il fondamento giuridico del diritto all’identità personale vada individuato direttamente nell’art. 2 Cost., inteso nella sua ampia dimensione di clausola generale, aperta all’evoluzione dell’ordinamento e suscettibile di apprestare copertura costituzionale ai nuovi valori emergenti della personalità ( Cass. sez. Un., n. 978/1996, in CIAN TRABUCCHI, Commentario breve al codice Civile, Padova, 2001, p. 94. 31 Si ricordi, a conferma di tale affermazione, che solo nel 1997 è stato abrogato l’art. 17 del Codice Civile che prevedeva l’autorizzazione governativa all’accettazione, da parte di associazioni e fondazioni, di lasciti e donazioni. 86 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Solo negli anni ’90, si è assistito ad un progressivo riassetto dei pubblici poteri che ha portato, per esempio, alle misure di liberalizzazione adottate a partire dalla l. 142/199032; ed alle privatizzazioni formali di alcune strutture pubbliche erogatrici di servizi. All’interno di questo complesso processo di sviluppo dell’ordinamento italiano, in cui, peraltro, spesso, la valorizzazione delle potenzialità espresse dalla società civile è avvenuta in maniera meno intensa di quella auspicata da parte della dottrina, le prime formulazioni esplicite del principio di sussidiarietà, anche nella sua valenza orizzontale33 hanno avuto luogo all’interno della riforma delle autonomie locali. Il riferimento attiene, innanzitutto, all’art. 4, co. 3, lett. a), della l. 59 del 1997 (c.d. prima legge “Bassanini”), secondo il quale, il conferimento di funzioni agli enti territoriali deve osservare, tra gli altri, il principio di sussidiarietà (…) attribuendo le responsabilità pubbliche, anche al fine di favorire l’assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati.;34e al Testo Unico sugli enti locali (d.l.vo.18 agosto 2000, n. 267, art. 3, co. 5), ai sensi del quale, i Comuni e le Province svolgono le loro funzioni anche attraverso le attività che possono essere adeguatamente esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali. Successivamente35, la legge costituzionale n. 3 del 2001, di riforma del Titolo V, ha riformulato l’art 118 Cost. 36, prevedendo, espressamente, al IV comma, il principio di sussidiarietà orizzontale. 32 Legge 8 giugno 1990, n. 142 di ordinamento delle Autonomie locali. La sussidiarietà orizzontale riguarda la distribuzione tra privati, da un lato, e pubblici poteri, dall’altro, dei compiti di erogazione di servizi e benefici. È verosimile, pertanto, che l’espressione “orizzontale”, che abitualmente si associa al termine sussidiarietà, si giustifichi, proprio, presumendo che l’intera vita associata sia suddivisa, orizzontalmente, tra azioni dei privati e azioni dei pubblici poteri. Applicando questo principio, di conseguenza, ogni iniziativa che rientri nel dominio del principio medesimo, spetta prioritariamente agli individui (in forma singola o associata) e, solo suppletivamente, alla Repubblica ed alle sue articolazioni. È verosimile, pertanto, che l’espressione “orizzontale”, che abitualmente si associa al termine sussidiarietà, si giustifichi, proprio, presumendo che l’intera vita associata sia suddivisa, orizzontalmente, tra azioni dei privati e azioni dei pubblici poteri. Applicando questo principio, di conseguenza, ogni iniziativa che rientri nel dominio del principio medesimo, spetta prioritariamente agli individui (in forma singola o associata) e, solo suppletivamente, alla Repubblica ed alle sue articolazioni. 34 In proposito giova osservare che proprio con la legge n. 59/97, il dibattito dottrinale sul principio di sussidiarietà si è spostato dalla sussidiarietà verticale a quella orizzontale, come dimostra un esame della letteratura giuridica sull’argomento, ma, anche il dibattito sviluppatosi dentro e fuori la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali della XIII legislatura, a proposito della formulazione dell’art. 56. 35 Sebbene non richiami, espressamente, il principio di sussidiarietà si può ritenere che, anche la Legge 27 luglio 2000, n. 212, contenente Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente, possa essere inserita all’interno del più vasto filone legislativo caratterizzato dalla ricerca di un nuovo rapporto tra amministrazione ed amministrati improntato a principi di leale collaborazione e di valorizzazione delle istanze dei singoli cittadini. 33 87 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Tale articolo dispone, infatti, che Stato, Regioni, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà. È chiaro che tale formulazione non è l’unica alla quale si possa fare riferimento, ciò nonostante, per il solo fatto di essere una norma costituzionale, essa assume un peso superiore a tutte le altre disposizioni in materia, rappresentando la base di partenza scientifica per l’attuazione, nel nostro Paese, del principio di sussidiarietà orizzontale. In proposito, la prima questione da esaminare attiene alla precettività di tale norma; in particolare, sotto il profilo giuridico, il problema da porsi riguarda l’enunciato normativo; giova chiedersi, infatti, se la disposizione in commento sia sufficientemente chiara, nella sua formulazione, per essere immediatamente applicata o richieda, piuttosto, ulteriori interventi legislativi e regolamentari, funzionali all’attuazione del principio introdotto nel nostro ordinamento dal legislatore costituzionale. La risposta affermativa, nel senso dell’immediata applicabilità dello stesso, si fonda sulla constatazione che l’art. 118 u.c. non enuncia un principio, rinviando al legislatore ordinario per la sua definizione37, bensì, prevede una fattispecie fondata su un principio che si realizza nella fattispecie medesima, la cui formulazione risulta sufficientemente chiara da consentirne una graduale quanto immediata applicazione. Non si tratta, dunque, di interpretare un concetto astratto, ma, piuttosto, di realizzare una fattispecie concreta in cui, soggetti, azioni ed obiettivi sono già stati 36 La letteratura sul principio di sussidiarietà in riferimento all’ordinamento costituzionale è molto vasta. Fra i lavori più recenti, in ordine cronologico, ex multis, RINELLA, Il principio di sussidiarietà: definizioni, comparazioni e modello d’analisi, in RINELLA-COEN-SCARCIGLIA ( a cura di), Sussidiarietà e ordinamenti costituzionali, Padova, 1999, p. 8.; RIDOLA, Il principio di sussidiarietà e la forma di Stato di democrazia pluralista, in CERVATI-PANUNZIO-RIDOLA (a cura di), Studi sulla riforma costituzionale, Torino, 2001, .13; RESCIGNO, Principio di sussidiarietà e diritti sociali, in Dir. Pubbl., 2002, p. 6; MOSCARINI, Competenza e sussidiarietà nel sistema delle fonti, Padova, 2003, p. 13. 37 Il legislatore costituzionale si è limitato ad enunciare l’obbligo, per i soggetti pubblici da esso indicati, di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, trascurando, per tale via, di fornire una definizione puntuale del contenuto e della portata di tale principio. Ne discende che sarebbe inesatto sostenere che il principio di sussidiarietà si esaurisca nel favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini per attività di interesse generale, dato che, se, da un lato, la norma afferma che lo Stato e gli altri enti territoriali favoriscono l’iniziativa privata; dall’altro, impone che, nel farlo, debbano attenersi al medesimo principio. Per stabilire il significato esatto e la portata da attribuire alla norma in commento, pertanto, è necessario esaminare il contesto storico e normativo dal quale essa ha avuto origine. In tal senso, può sostenersi che la concezione del principio di sussidiarietà orizzontale recepita dall’art.118 Cost. risente, prioritariamente, delle formulazioni che, del medesimo principio, sono state elaborate, dalla legislazione statale. La letteratura sul principio di sussidiarietà in riferimento all’ordinamento costituzionale è molto vasta. Fra i lavori più recenti, in ordine cronologico, ex multis, RINELLA, Il principio di sussidiarietà: definizioni, comparazioni e modello d’analisi, in RINELLA-COEN-SCARCIGLIA ( a cura di), Sussidiarietà e ordinamenti costituzionali, Padova, 1999, p. 8.; RIDOLA, Il principio di sussidiarietà e la forma di Stato di democrazia pluralista, in CERVATIPANUNZIO-RIDOLA (a cura di), Studi sulla riforma costituzionale, Torino, 2001, .13; RESCIGNO, Principio di sussidiarietà e diritti sociali, in Dir. Pubbl., 2002, p. 6; MOSCARINI, Competenza e sussidiarietà nel sistema delle fonti, Padova, 2003, p. 13. 88 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 precisati; anche perchè, l’eventuale attesa che il legislatore, la dottrina e la giurisprudenza esplicitino, ulteriormente, contenuti e funzioni della sussidiarietà orizzontale contrasterebbe con lo spirito dell’art. 118, u.c., i cui profili operativi trovano realizzazione nell’attività non delle istituzioni, ma dei cittadini38. Spetta, infatti, a questi ultimi assumere l’autonoma iniziativa, in virtù di quell’ interesse generale, che rappresenta il nucleo essenziale della disposizione. Anche da questo punto di vista, quindi, il principio in parola manifesta la sua forza rinnovatrice, invertendo il flusso del potere dalle amministrazioni verso i cittadini. L’art. 118 u.c., d’altra parte, non fa che costituzionalizzare un orientamento consolidato, in sede dottrinale, quanto istituzionale, secondo il quale, dal tessuto sociale e civile di cui è ricco il nostro Paese, può scaturire un contributo rilevante nell’affrontare temi cruciali per la nostra democrazia.39 L’evoluzione che tale disposizione normativa ha subito, assume, pertanto, un’importanza accresciuta dal fatto di rendere giustizia alla tradizione italiana, implementando quella rete di democraticità, data dal protagonismo della società civile, che costituisce una risorsa indispensabile in un sistema bipolare “virtoso”.40 Risulta, in tal modo, ancora più significativo, il fatto che le prime innovazioni verso una formula moderna di Welfare Society, siano state introdotte a livello regionale, laddove si avvertono, maggiormente, le istanze dei cittadini. Peraltro, anche la diversa intensità con cui le Regioni hanno affermato il principio di sussidiarietà deve essere positivamente apprezzata; rispecchiando la complessità della società civile italiana, contraddistinta da una distribuzione disomogenea, sul territorio nazionale, di cittadini in grado di assumere responsabilità sociali. Non è una caso, quindi, che, mentre in alcune Regioni si osserva una spiccata tendenza verso meccanismi di cash regolato (i vouchers), associati ad una forte apertura alla concorrenza tra produttori di servizi, volta ad accrescere la scelta delle famiglie; in altre, si rilevi la tendenza a costruire un mercato sociale, caratterizzato da uno spiccato municipalismo. 38 Così, ARENA, Il principio di sussidiarietà orizzontale nell’art. 118 u.c. della Costituzione, in ARENA (a cura di), Studi in onore di Giorgio Berti, Milano, 2005, p. 177; 39 Al riguardo, giova rilevare come tale orientamento sia stato sposato dallo stesso Presidente della Repubblica, Giorgio Napoletano, il quale, nel messaggio inviato in occasione del Convegno “Bipolarismo mite e sussidiarietà”, tenutosi a Roma, il 29 marzo 2007, ha espresso il suo pieno e convinto apprezzamento per il prezioso potenziale di sussidiarietà presente nel Paese, indispensabile per muovere verso quel bipolarismo mite, da intendersi come tempo della maturità per la democrazia dell’alternanza, che rappresenta un obiettivo imprescindibile per lo sviluppo del confronto politico in Italia. 40 Cfr. ANTONINI, op. cit., 2005, p.81. 89 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Più specificamente, in tema di politiche di sostegno alla famiglia, i modelli regionali hanno integrato il tradizionale approccio lib/lab, (caratterizzato dal tentativo di contemperare il risvolto privatistico della tutela della libertà di autodeterminazione della famiglia, con il risvolto pubblicistico dell’ingerenza statale a tutela di una sia pure relativa eguaglianza di opportunità); con interventi di tipo “societario”41, come i “nidi-famiglia” o le “banche del tempo”. Politiche innovative sono state sviluppate, anche, nel settore dell’assistenza sociale e della tutela della salute, dove la spinta verso il federalismo si è intrecciata con le innovazioni introdotte, nell’ultimo decennio, nell’assetto della sanità pubblica. Le motivazioni che hanno condotto a questa diffusa tendenza dei sistemi regionali verso l’applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale sono diverse e attengono, da un lato, alla favorevole contingenza politica; e, dall’altro, alla necessità di riorganizzare le funzioni trasferite dallo Stato, senza mutuarne le disfunzioni. In ogni caso, i nuovi modelli regionali di Welfare sono potenzialmente in condizione di interferire, positivamente, nell’evoluzione del sistema di protezione sociale del nostro Paese, riducendo il gap di tutele-servizi e opportunità offerte ai cittadini, che ancora separa l’Italia dai principali Paesi europei. 4. Il principio di sussidiarietà fiscale a livello orizzontale Le considerazioni svolte nelle pagine che precedono, pur nella loro sommarietà, consentono di cogliere la sopravvenuta inadeguatezza del principio di autoimposizione ad individuare, in modo esauriente, la sede reale delle decisioni fiscali. In quest’ottica, il principio di sussidiarietà appare idoneo a ricomprendere la molteplicità dei cambiamento intervenuti, rivalutando, a fronte della crisi delle sedi tradizionali della sovranità statale, la sovranità personale, anche in relazione al concorso alla spesa pubblica.42 Un esempio concreto delle possibili applicazioni che esso può avere è ravvisabile in disposizioni normative che implichino la precedenza del risparmio fiscale rispetto all’assistenza pubblica; o, ancora, nel riconoscimento al contribuente della facoltà di 41 In tal senso: GENNUSA, Le politiche a sostegno della famiglia in Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, in VIOLINI (a cura di), Sussidiarietà e decentramento, Milano, 2003, p. 350. 42 Così, ANTONINI, op. cit, 2005, p. 112. 90 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 destinare una quota delle proprie imposte a beneficio di soggetti ritenuti meritori, ottenendo, contestualmente, la detassazione delle relative donazioni, riconosciute come forma alternativa di contribuzione. In questo modo, infatti, parte del controllo della spesa pubblica torna al contribuente, senza dovere passare per il circuito della rappresentanza. È logico che siffatti meccanismi pretendono gradualità ed elaborazioni rivolte, tra l’altro, a superare le c.d. asimmetrie informative; ma lo è altrettanto che essi possono rappresentare un passo in avanti verso nuove forme di tutela dei diritti sociali. Da una diversa angolazione, non può, del resto, tacersi la tendenza del legislatore italiano ad applicare misure fiscali che valorizzano, unicamente, la dimensione positiva del principio di sussidiarietà orizzontale, enfatizzando il ruolo svolto dai soggetti pubblici a sostegno dell’attività dei cittadini43. La stessa formulazione dell’art. 118,u.c., Cost., si rivela, infatti, priva delle indispensabili specificazioni normative e del tutto svincolata dalla previsione di meccanismi giuridici che ne definiscano gli strumenti di attuazione, introducendo criteri di riparto delle sfere di competenza fra soggetti pubblici e privati44. A conferma di ciò si rammenti come la necessità di favorire l’autonoma iniziativa dei privati, a partire dalle c.d. leggi sul federalismo, sia stata sempre enunciata parallelamente all’attribuzione di funzioni agli enti pubblici territoriali.45 Ne discende una nozione di sussidiarietà fiscale orizzontale che, anziché tendere a limitare l’intervento pubblico a favore delle organizzazioni sociali, mira ad indirizzare tale intervento, postulando la necessità di una collaborazione tra poteri pubblici e soggetti privati, in vista del perseguimento dell’interesse generale46. In tal senso, il significato più profondo dell’art.118, co.4, Cost. è quello che sancisce un’alleanza tra amministrazione ed amministrati47 in vista dell’interesse comune, sottintendendo il riconoscimento di un ruolo ancora centrale e necessario dell’autorità statale, seppure non più esclusivo ed imperativo48. 43 Il legislatore costituzionale si è, dunque, allontanato dalla concezione classica del principio di sussidiarietà articolata in due componenti: negativa e positiva. 44 In tal senso, FORMICA, op. cit., p. 6. 45 V. art. 4, l. 15 marzo 1997, n. 59. 46 Sul significato della nozione di interesse generale nell’ordinamento comunitario si veda: Commissione europea, Libro verde sui servizi d’interesse generale, 2003, COM(2003) 270 def. ed. Id., Libro bianco sui servizi d’interesse generale, 2004, COM(2004)374def. 47 In questa direzione si è orientata anche la giurisprudenza costituzionale come sottolinea il dettato della sentenza 17 ottobre 2006, n. 303. 48 Sull’interpretazione dell’art. 118 Cost., ex multis, ARENA, Il principio di sussidiarietà orizzontale nell’art. 118 u.c. della Costituzione, in ARENA (a cura di), Studi in onore di Giorgio Berti, Milano, 2005, p. 177; BOLOGNINO, 91 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 L’idea di fondo è quella di creare un nuovo rapporto, di tipo reticolare tra istituzioni e privati49, che, da un lato, imponga alle prime di assicurare la rimozione degli ostacoli, sostenendo le iniziative che realizzano interessi generali; e, dall’altro, legittimi i cittadini ad attivarsi per perseguire fini che attengono all’interesse generale non perché da essi stessi definiti tali, ma perché già così qualificati da norme di legge50. In quest’ottica, i singoli diventano la misura di riferimento per l’allocazione delle funzioni da assegnare ai livelli territoriali che più possano favorire l’espandersi del ruolo dei cittadini; e, la democrazia stessa, passa da un modello democratico fondato sulla rappresentanza della volontà popolare e sul potere della maggioranza, ad uno fondato sulla egemonia della libertà e dell’autonomia della società (salvo i principi di giustizia e solidarietà sociale).51 5. Sussidiarietà orizzontale, decentramento fiscale e vincoli di sistema Alla luce delle considerazioni precedentemente svolte, la remissione alla totale discrezionalità del legislatore, dei profili dell’imposizione fiscale legati agli artt. 2, 53 Cost., sembra essere stata superata, a beneficio di un’interpretazione costituzionale più moderna, volta a ridimensionare i margini di discrezionalità concessigli in omaggio ad una concezione del principio di democraticità più ampia di quella meramente rappresentativa. Il principio di sussidiarietà fiscale tende, infatti, a rivalutare l’aspetto personale della sovranità popolare; poiché, da un lato, configura un diritto al non intervento fiscale dello Stato, per consentire ai cittadini di assolvere, (innanzitutto con risorse proprie), i compiti di portata generale, relativi al sostentamento delle formazioni minime del tessuto sociale; e dall’altro, restituisce una quota di sovranità al singolo individuo, consentendogli di decidere di destinare parte dei propri tributi al finanziamento di finalità che egli stesso reputi meritevoli di tutela. Tale orientamento normativo ha trovato una prima formulazione nella Legge 7 aprile 2003, n. 80 di "Delega al Governo per la riforma del sistema fiscale statale", il cui Il principio di sussidiarietà www.amministrazioneincammino.it. nell’art. 118, 49 comma 4, Cost.: un’interpretazione, in In dottrina si è fatta avanti una nuova nozione di sussidiarietà c.d. circolare, intesa come una cooperazione tra cittadini ed istituzioni, in cui, senza rapporti di supremazia e gerarchia si coamministra, assicurando lo sviluppo della persona umana. 50 ARENA, op. cit., p. 30. 51 Così PIZZETTI, Il ruolo delle istituzioni nel quadro della “democrazia della cittadinanza”, Comunicazione al Convegno Cittadini attivi per una nuova amministrazione, tenutosi a Roma il 7-8 febbraio 2003. 92 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 art. 2, co. 1, lett. n) concerneva, appunto, l’introduzione di norme che ordinano e disciplinano istituti giuridici tributari destinati a finalità etiche e di solidarietà sociale. Una versione specializzata di questo principio era, inoltre, contenuta nell’art. 5, co.1, della stessa legge, che identificava tra i principi ed i criteri direttivi della riforma dell’IVA, “la previsione di norme che consentano (…) di escludere dalla base imponibile dell’imposta sul valore aggiunto e da ogni altra forma di imposizione a carico del soggetto passivo, la quota del corrispettivo destinato dal consumatore a finalità etiche ( lett. h). Come è noto, la delega in oggetto ha trovato solo parziale attuazione, dato che, nella XIV legislatura, tale principio fu declinato, con una sorta di anticipazione normativa di frammenti del disegno riformatore, nelle forme della “de-tax” e del 5 per mille in favore del volontariato e della ricerca. La prima variante legislativa di questo modello volontario, connotato dalla non fiscalità, è stato previsto dall’art. 19 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269 (convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, n. 326) come strumento non coattivo di finanziamento dello sviluppo, destinato a funzionare allo stadio del consumo. Tale disposizione normativa prevedeva che “Il consumatore che acquisti prodotti (…) in esercizi commerciali convenzionati con associazioni, organizzazioni ed enti che svolgono attività etiche ha facoltà di manifestare l’assenso alla destinazione nei loro riguardi, da parte dello Stato, di una quota pari all’1 per cento dell’imposta sul valore aggiunto, relativa ai prodotti acquistati”. Mentre, una seconda variante del medesimo modello, originariamente concepita nella proposta di legge n. 5564 del 27 gennaio 2005, come “un secondo 8 per mille”52 dell’Irpef, è stata introdotta dall’art. 1, co. 337, della legge n. 266/2005, che stabilisce che “per l’anno finanziario 2006 ed a titolo iniziale e sperimentale, una quota pari al 5 per mille53 dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è destinata, in base alla scelta del contribuente, alle seguenti finalità: a) sostegno del volontariato e delle altre organizzazioni non lucrative di utilità sociale di cui all’art. 10 del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, e successive modificazioni, nonché delle associazioni di promozione sociale iscritte nei registri nazionale, regionali e provinciali previsti dall’art. 7, commi 1, 2, 3, 4, della legge 7 dicembre 2000, n. 383, e delle associazioni e fondazioni 52 Un primo 8 per mille è destinato allo Stato. In proposito giova rammentare che tra la proposta di legge e la legge approvata in Parlamento vi è una significativa differenza, che consiste nella sostituzione dell’originario 8 per mille, con la nuova formula del 5 per mille, voluta per evitare gli effetti duplicativi, dovuti alla ripetizione di percentuali analoghe destinate a finanziare istituti diversi. 53 93 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 riconosciute che operano nei settori di cui all’art. 10, co. 1, lett. a), del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460; b) finanziamento della ricerca scientifica e dell’università; c) finanziamento della ricerca sanitaria; d) attività sociali svolte dal comune di residenza del contribuente” Quest’ultimo modello di de-tax, particolarmente apprezzato dai contribuenti italiani è stato, successivamente, ritoccato dalle norme sul 5 per mille, dell’art. 1, commi 1234-1237, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 ( legge finanziaria 2007). Tale disposizione ha previsto, in particolare, la ridefinizione delle categorie beneficiarie, nelle quali non sono più presenti i Comuni e ha introdotto un "tetto" massimo di spesa che ha suscitato numerose critiche nei confronti del Governo, da parte del Terzo settore e non solo.54 La legge 24 Dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria per il 2008), ha, poi, rifinanziato la misura in parola con un incremento di 150 milioni di euro55; e, per il 2009, ha riproposto la disciplina del 5 per mille Irpef, autorizzando una spesa massima di 380 milioni di euro. All’interno della finanziaria 2008 sono, inoltre, contenute una serie di detrazioni volte a porre un limite alla pressione fiscale avvertita, in special modo, dalle famiglie. Due nuove tipologie di detrazioni riguardano i canoni di locazione La prima spetta ai titolari di contratti di locazione di unità immobiliari adibire ad abitazione principale, stipulati o rinnovati ai sensi della legge 431/1998: si tratta di 300 euro se il reddito complessivo annuo non supera i 15.493,71 euro e di 150 euro se il reddito complessivo supera 15.493,71 euro ma non 30.987,41 euro. La seconda spetta a giovani tra i 20 e i 30 anni che stipulano un contratto di locazione, ai sensi della legge 431/1998, per l'unità immobiliare da destinare a propria abitazione principale, sempre che sia diversa da quella dei genitori o di coloro ai quali sono affidati per legge: per i primi 3 anni spetta una detrazione di 991,6 euro se il reddito complessivo non supera i 54 Questo tetto, originariamente fissato in 250 milioni di euro è stato successivamente portato a 400 milioni; ciò nonpertanto, la somma effettivamente redsitribuita dal Governo è risultata inferiore a quella effettivamente destinata dai contribuenti. 55 Per l'anno 2008 le finalità del 5 per mille sono: a) sostegno alle Onlus, alle associazioni di promozione sociale iscritti nei registri nazionale, regionale e provinciale, alle associazioni riconosciute che senza scopo di lucro operano in via esclusiva o prevalente nei settori indicati dalla lettera a), comma 1, dell'articolo 10 del Dlgs 460/1997 (assistenza sociale e socio-sanitaria, assistenza sanitaria, beneficenza, istruzione, formazione, sport dilettantistico, tutela, promozione e valorizzazione delle cose d'interesse artistico e storico, tutela e valorizzazione della natura e dell'ambiente, con esclusione dell'attività, esercitata abitualmente, di raccolta e riciclaggio dei rifiuti urbani, speciali e pericolosi; promozione della cultura e dell'arte; tutela dei diritti civili; ricerca scientifica di particolare interesse sociale svolta direttamente da fondazioni o da esse affidata a università, enti di ricerca e altre fondazioni che la svolgono direttamente); 2) enti della ricerca scientifica e dell'università; enti della ricerca sanitaria. Disposizioni per una tempestiva gestione dell'erogazione del 5 per mille. 94 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 15.493,71 euro56. Risulta, inoltre, estesa la detraibilità del 19% del canone di locazione pagato per l'alloggio degli studenti universitari fuori sede, ai canoni relativi ai contratti di ospitalità e agli atti di assegnazione in godimento o in locazione stipulati con enti per i diritto allo studio, università, collegi universitari legalmente riconosciuti ed enti senza fine di lucro e cooperative (per un importo non superiore a 2.633 euro)57. Ancora, è stata prorogata al periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2007, la detrazione Irpef del 19% delle spese documentate, sostenute dai genitori per il pagamento di rette relative alla frequenza di asili nido, per un importo complessivamente non superiore a 632 euro annui per ogni figlio ospitato58. Il legislatore ha, inoltre, introdotto ulteriori detrazioni per carichi di famiglia e redditi di lavoro;59 per le famiglie numerose;60 e per il pagamento dell’Ici sulla prima casa61. Nell’ottica di chi scrive, si tratta, indubbiamente, di misure meritorie, che contribuiscono ad allentare, seppure in misura insufficiente, il “peso” fiscale avvertito dalle famiglie italiane. Ciò che, tuttavia, sembra sfuggire al legislatore è che un’imposizione fiscale elevata come quella prevista nel sistema tributario italiano finisce con il ledere la dignità stessa dei cittadini-contribuenti, poiché prima li priva dei mezzi necessari a sostenere spese inevitabili e poi gli riconosce detrazioni o gli concede sussidi dei quali in un contesto di fiscalità più ordinato non avrebbero bisogno62. 56 N.B. Tali detrazioni non sono cumulabili e il contribuente può scegliere di fruire di quella più favorevole. L'alloggio deve trovarsi in un Comune diverso da quello di residenza, distante almeno 100 chilometri da casa e, comunque, in provincia diversa. 58 L'importo massimo della detrazione è, dunque, di 120,08 euro. 59 Ai fini del riconoscimento delle detrazioni per carichi di famiglia e per tipologie di reddito, il percipiente deve indicare annualmente di avervi diritto e il codice fiscale dei soggetti per i quali usufruisce della detrazione. Le detrazioni per carichi di famiglia e per redditi di lavoro si calcolano sul reddito complessivo, al netto della rendita dell'immobile adibito ad abitazione principale e delle relative pertinenze. La norma si applica a partire dal periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2007. 60 In presenza di almeno 4 figli ai genitori è, infatti, riconosciuta una ulteriore detrazione di 1.200 euro, ripartita al 50% fra i genitori. In caso di genitori separati o divorziati la detrazione spetta in proporzione agli affidamenti stabiliti dal giudice. In caso di coniuge fiscalmente a carico dell'altro la detrazione compete a quest'ultimo per l'importo totale. In caso di incapienza è riconosciuto un credito di ammontare pari alla quota di detrazione che non ha trovato capienza. 61 Si tratta di un’ulteriore riduzione per abitazione principale pari all'1,33 per mille della base imponibile, con un tetto di 200 euro. Dall'agevolazione sono esclusi castelli, ville e case di lusso, che si somma alla detrazione in vigore (103,29 euro). Il legislatore, inoltre ha previsto che la delibera comunale possa fissare a decorrere dal 2009 un'aliquota Ici agevolata inferiore al 4 per mille per i soggetti passivi che installano impianti a fonte rinnovabile per la produzione di energia elettrica o termica per uso domestico (per 3 anni per gli impianti termici solari e per 5 per tutte le altre fonti rinnovabili). 62 Una ricostruzione sistematica di tale contesto è stata fornita da PERRONE CAPANO, Aumento strutturale delle 57 imposte e politiche redistributive che ignorano il diritto tributario e avvantaggiano il fisco; intanto l’economia si avvita su se stessa e gli italiani si impoveriscono, in newsletter 08/2003, di Innovazione e Diritto. 95 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 In questa direzione, grande importanza va attribuita alla giurisprudenza costituzionale tedesca, la quale, da anni, sostiene la necessità di tutelare il reddito come strumento di libertà personale; e di anteporre il risparmio fiscale alla assistenza sociale. Più specificamente, il Tribunale costituzionale tedesco ha affermato il principio della non assoggettabilità a imposizione del reddito minimo necessario al contribuente ed alla sua famiglia per il fabbisogno vitale;63 evidenziando, contestualmente, l’incongruenza di quelle disposizioni legislative attraverso le quali lo Stato priva i cittadini dei mezzi necessari al sostentamento, per ridistribuire successivamente tali mezzi sotto forma di assegni familiari. Tale orientamento, chiaramente indirizzato a principi di sussidiarietà fiscale, appare pienamente riproponibile al conteso italiano64 ed ha ispirato non solo il testo della delega fiscale, ma anche, in epoca più risalente, il giudice costituzionale italiano, che, con sent. n. 97/1968 ha dichiarato che il legislatore non può non esentare dall’imposizione quei soggetto che percepiscano redditi tanto modesti da essere appena sufficienti a soddisfare elementari bisogni della vita. Ciò che, tuttavia, appare insoddisfacente è che nel medesimo decisum il giudice delle leggi abbia sancito la libertà del legislatore di stabilire, in riferimento a complesse valutazioni economiche e sociali, quale sia la misura al di sopra della quale sorge la capacità contributiva, con il risultato di consentirgli, in astratto, di tassare nella stessa misura spese voluttuarie e spese indispensabili. La remissione alla piena discrezionalità del legislatore dei profili dell’imposizione fiscale legati ai minimi vitali, andrebbe, piuttosto, superata alla luce di un interpretazione volta a ridimensionarla in forza di una concezione del principio di democraticità più ampio di quello meramente rappresentativo. In questo senso, un ruolo cardine potrebbe essere svolto dalla legislazione regionale; cioè da quel livello di governo più vicino alle istanze dei cittadini e, pertanto, naturalmente più preparato a riconoscere, custodire e valorizzare le risorse presenti sul territorio. Tralasciando, volutamente, ogni valutazione circa i limiti e le diseconomie insite nella lettera dell’art. 117 Cost., novellato, può certamente salutarsi con favore quell’apertura dimostrata dai poteri regionali verso soggetti diversi da quelli strutturati 63 Cfr. sent. n. 82/60 del 29 maggio 1990. In tale contesto, infatti, i diritti sociali tutelati a livello costituzionale non assumono una connotazione paternalistica e l’intero sistema è incentrato sul valore della dignità umana. 64 96 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 nella forma burocratica convenzionale, che ha poi fatto da volano a un’analoga evoluzione, a livello della legislazione nazionale, culminata nei “buoni scuola”; nei “buoni vacanze” per le famiglie meno abbienti e nei “titoli d’acquisto dei servizi sociali”. Ciò che si vuole sottintendere, e che costituirà oggetto di più ampi studi in seguito, è che un’interpretazione “virtuosa” dei principi contenuti in nuce, nel nuovo Titolo V della Costituzione, potrebbe completare in maniera ordinata ed efficiente il processo di federalismo fiscale, nell’ottica di una gradualità e di una solidarietà responsabilizzante, certamente abile a liberare risorse per affrontare, attraverso l'innovazione nei settori strategici della scuola, della ricerca, della logistica delle infrastrutture a rete e della specializzazione produttiva, le sfide di una mondializzazione che non si esorcizza promettendo protezioni ed alimentando paure ma cogliendo le opportunità che essa offre ad un paese che sappia raccoglierne la sfida65. 65 Il corsivo è da attribuirsi a PERRONE CAPANO, La perdita di competitività dell'Italia tra vincoli internazionali, limiti strutturali e indirizzi di Finanza pubblica: riflessioni di un giurista. In Innovazione e Diritto, n. 6/2005. 97 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Il processo civile telematico di Wanda D’Avanzo 1. Introduzione. - 2. Il documento informatico e la firme digitale. - 3. Il dominio giustizia e il sistema informatico civile. - 4. La posta elettronica certificata. - 5. Il fascicolo informatico nel processo telematico. - 6. La tenuta dei registri informatizzati. - 7. La postazione dell’avvocato. - 8. Conclusioni. 1. - Il progetto di digitalizzazione del processo costituisce un approccio, nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, dei principi relativi all’informatizzazione delle attività della pubblica amministrazione. Lo svolgimento telematico del processo ha trovato la sua prima regolamentazione organica nel DPR del 13 febbraio 2001, n. 123 (Gu n. 89 del 17 aprile 2001), recante la disciplina dell’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile, amministrativo e quello dinanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei Conti. Le modalità del progetto di automazione del processo sono state, successivamente, descritte nel Decreto Ministeriale del 14 ottobre 2004 (Gu n. 272 del 19 novembre 2004, So 167), recante regole tecnico-operative per l’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile, e nei suoi allegati, conformemente con quanto previsto dal comma 3 dell’art. 3 del DPR 123/2001. Il processo telematico ruota intorno a quattro elementi fondamentali. I primi due sono rappresentati dal documento informatico e dalla firma digitale. Ai sensi del primo comma dell’art. 4, DPR 123/2001, “tutti gli atti e provvedimenti del processo possono essere compiuti come documenti informatici sottoscritti con firma digitale […]”. Qualora non fosse possibile procedere alla sottoscrizione nel modo indicato, gli atti e i provvedimenti saranno “redatti o stampati su supporto cartaceo, sottoscritti nei modi ordinari e allegati al fascicolo cartaceo” (art. 4, comma 2). Gli altri due elementi del processo telematico sono il dominio giustizia e il sistema informatico civile. Per dominio giustizia si intende, ex art. 1, lett. e), DPR 123/2001, “l’insieme delle risorse hardware e software, mediante il quale l’amministrazione della giustizia tratta in via informatica e telematica qualsiasi tipo di attività, di dato, di servizio, 98 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 di comunicazione e di procedura”; il sistema informatico civile, invece, è “il sottoinsieme delle risorse del dominio giustizia mediante il quale l’amministrazione della giustizia tratta il processo civile” (art. 1, lett. f). 2. - Il percorso legislativo seguito dalla regolamentazione del documento informatico e della firma digitale è stato, inizialmente, tracciato, dalla L. del 15 marzo 1997, n. 59 (Gu n. 63 del 17 marzo 1997, So 57/L), che all’art. 15, comma 2, stabilisce che “gli atti, dati e documenti formati dalla pubblica amministrazione e dai privati con strumenti informatici e telematici, i contratti stipulati nelle medesime forme, nonché la loro archiviazione e trasmissione con strumenti informatici, sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge”. A seguito della L. 59/1997, sono stati emanati il DPR del 10 novembre 1997, n. 513 (Gu n. 60 del 13 marzo 1998), recante criteri e modalità per la formazione, l’archiviazione e la trasmissione di documenti con strumenti informatici e telematici; il DPCM del 8 febbraio 1999 (Gu n. 87 del 15 aprile 1999), recante regole tecniche per la formazione, la trasmissione, la conservazione, la duplicazione, la riproduzione e la validazione, anche temporale dei documenti informatici, il DPR del 28 dicembre 2000, n. 445 (Gu n. 42 del 24 febbraio 2000, So 30/L), testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione, successivamente modificato dal D.Lgs. del 23 gennaio 2002, n. 10 (Gu n. 38 del 15 febbraio 2002) 1; il DPR del 7 aprile 2003, n. 137 (Gu n. 138 del 17 giugno 2003), recante disposizioni di coordinamento in materia di firme elettroniche; ed infine, il D.Lgs. del 7 marzo 2005, n. 82 (Gu n. 112 del 16 maggio 2005, So 93), recante codice dell’amministrazione digitale, modificato dal D.Lgs. del 4 aprile 2006, n. 159 (Gu n. 99 del 29 aprile 2006, So 105). Il codice dell’amministrazione digitale ha affrontato, per la prima volta, in modo organico e sistematico, le problematiche inerenti all’applicazione dei fondamentali principi giuridici ai processi di digitalizzazione della PA. Il documento informatico è, secondo la definizione data dal DPR 513/97, e, da allora, rimasta inalterata, “la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”. 1 Il D.Lgs. 10/2002, emanato in attuazione della Direttiva europea 1999/93/CE (Guce n. L 13 del 19 gennaio 2000), relativa ad un quadro comunitario per le firme elettroniche, è stato abrogato dalla data di entrata in vigore del codice dell’amministrazione digitale. 99 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 La firma digitale, invece, è definita, dall’art. 1 del codice dell’amministrazione digitale come “un particolare tipo di firma elettronica qualificata basata su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare, tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità del documento informatico o di un insieme di documenti informatici”. La chiave privata, nel sistema di firma digitale, è conosciuta dal solo soggetto titolare e l’algoritmo che la genera è contenuto in un dispositivo di smartcard. 2 I dispositivi e le procedure utilizzate per la generazione delle firme, oltre ad essere sicuri, devono garantire l’integrità dei documenti informatici cui la firma si riferisce. La corrispondente chiave pubblica consente la verifica della sottoscrizione apposta al documento informatico dal titolare della firma. Affinché possa essere garantita la corrispondenza biunivoca tra la chiave pubblica e il soggetto titolare cui essa appartiene, occorre che il certificatore rilasci un certificato elettronico qualificato, cioè un attestato elettronico che collega i dati, utilizzati per verificare le firme elettroniche, ai titolari. L’art. 20, comma 2, D.Lgs. 82/2005, stabilisce che il documento informatico, sottoscritto con firma digitale “formato nel rispetto delle regole tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 71, che garantiscano l’identificabilità dell’autore, l’integrità e l’immodificabilità del documento, si presume riconducibile al titolare del dispositivo di firma ai sensi dell’articolo 21, comma 2, e soddisfa comunque il requisito della forma scritta, anche nei casi previsti, sotto pena di nullità, dall’articolo 1350, primo comma, numeri da 1 a 12 del codice civile”. Secondo l’art. 21, comma 2, il documento informatico, sottoscritto con firma digitale ha l’efficacia probatoria prevista dall’art. 2702 cod. civ. e l’utilizzo del dispositivo di firma si presume riconducibile al titolare, salvo che questi dia prova contraria. Quindi, in questo caso, il documento fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni di chi lo ha sottoscritto.3 2 Cfr., l’art. 1, Titolo I, dell’allegato tecnico del DPCM del 8 febbraio 1999. Per una disamina delle diverse tipologie di firme elettroniche e della diversa validità ed efficacia probatoria del documento informatico, a seconda che sia sottoscritto con firma elettronica semplice, con firma elettronica qualificata o con firma digitale, si rinvia a W. D’AVANZO, L’e-government, Movimedia, Lecce, 2007, pp. 33-34 e pp. 45 ss. 3 100 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 3. - Nella prospettiva del DPR 123/2001 è ammessa la formazione, la comunicazione e la notificazione di atti del processo civile mediante documenti informatici; la trasmissione, comunicazione o notificazione dei documenti informatici sono effettuate per via telematica attraverso il sistema informatico civile (art. 2, commi 1 e 2). 4 La struttura del sistema informatico civile consente di: individuare l’ufficio giudiziario e il procedimento, individuare il soggetto che inserisce, modifica o comunica l’atto, assicurare l’avvenuta ricezione della comunicazione dell’atto, nonché l’automatica abilitazione del difensore e dell’ufficiale giudiziario (art. 3, comma 1, DPR 123/2001). Il DM del 14 ottobre 2004 ha indicato, specificamente, i soggetti abilitati ad accedere al sistema informatico civile. In linea generale, sono definiti soggetti abilitati tutti coloro ai quali è consentito fruire dei servizi di consultazione delle informazioni e trasmissione di documenti informatici relativi al processo. Prosegue, poi, l’art. 2, lett. i), DM 14 ottobre 2004, distinguendo i soggetti abilitati in interni ed esterni, e, tra quelli esterni, i soggetti privati e pubblici. Soggetti interni sono i magistrati, il personale degli uffici giudiziari e dell’UNEP (ufficio notifiche, esecuzioni e protesti); soggetti esterni pubblici sono gli avvocati, i procuratori dello Stato e gli altri dipendenti di amministrazioni statali; soggetti esterni privati sono, infine, i difensori delle parti private, gli avvocati iscritti negli elenchi speciali, gli esperti e gli ausiliari del giudice. Al fine di rendere possibile il compimento delle operazioni processuali informatizzate, descritte dal DPR 123/2001, il decreto ministeriale regolamenta il funzionamento delle strutture tecniche di cui si compone e secondo cui è organizzato il sistema informatico civile mediante le quali vengono gestiti i flussi informatici. Il gestore centrale è l’unico punto di interazione, a livello nazionale, tra il sistema informatico civile e i soggetti abilitati esterni, attivo presso il Ministero della Giustizia, ed è definito come la “struttura tecnico-organizzativa che, nell’ambito del dominio giustizia, […], fornisce l’accesso al sistema informatico civile ed i servizi di trasmissione telematica dei documenti informatici processuali” tra questo e i soggetti abilitati (art. 2, lett. b). 4 La previsione della trasmissione dei documenti informatici per via telematica segue l’orientamento costante del legislatore, il quale, fin dal 1993, ha previsto modalità alternative ai tradizionali mezzi di trasmissione dei documenti cartacei. Secondo il dettato della L. del 7 giugno 1993, n. 183 (Gu n. 137 del 14 giugno 1993), gli avvocati possono trasmettere copia di documento processuale ad altro avvocato tramite telefax. Il DPR 513/1997 ha, poi, disciplinato le modalità di trasmissione, per via telematica, del documento informatico, che si intende inviato e pervenuto al destinatario se trasmesso all’indirizzo elettronico da questi dichiarato. Il D.Lgs. del 17 gennaio 2003, n. 5 (Gu n. 17 del 22 gennaio 2003, So 8), sul nuovo rito societario, prevede la possibilità, per le parti costituite, di effettuare tutte le comunicazioni e notificazioni a mezzo fax o per posta elettronica. Cfr. F. MIRABELLI, Il processo civile telematico, in G. RIEM, A. SIROTTI GAUDENZI, La giustizia telematica e la procedura informatizzata, Maggioli, Rimini, 2005, p. 54. 101 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Il punto di accesso, a sua volta, è la struttura che “fornisce ai soggetti abilitati, esterni al sistema informatico civile, i servizi di connessione al gestore centrale e di trasmissione telematica dei documenti informatici relativi al processo, nonché la casella di posta elettronica certificata” (art. 2, lett. e). Il punto di accesso può essere attivato e gestito, secondo il dettato dell’art. 6, DM del 14 ottobre 2004, esclusivamente dai consigli dell’ordine degli avvocati, limitatamente ai propri iscritti; dal Consiglio Nazionale Forense, limitatamente ai propri iscritti e agli iscritti dei consigli dell’ordine degli avvocati; dal Consiglio Nazionale del Notariato, limitatamente ai propri iscritti; dall’Avvocatura dello Stato, dalle amministrazioni statali o equiparate e dagli enti pubblici, limitatamente ai propri iscritti e dipendenti; dal Ministero della Giustizia, ma solo per i soggetti abilitati interni ed in via residuale. Il punto di accesso può anche essere attivato e gestito da soggetti privati, purché, però, questi abbiano forma di società per azioni e rispondano ai requisiti di onorabilità previsti dall’art. 25, comma 1, del D.Lgs. del 1 settembre 1993, n. 385. I soggetti abilitati esterni, quindi, accedono al sistema informatico civile, tramite un punto di accesso, ossia il servizio di interfacciamento del dominio giustizia, che, connette i soggetti stessi direttamente al gestore centrale. Per consentire l’accesso al sistema informatico civile è necessario procedere, previamente, alla autenticazione dei soggetti abilitati, cioè alla loro identificazione in rete che avviene secondo le specifiche previste dalla carta nazionale dei servizi (art. 30, DM 14 ottobre 2004). Le connessioni tra i punti di accesso e il gestore centrale, quindi le comunicazioni con l’esterno del dominio giustizia, avvengono mediante collegamento diretto alla Rete Unitaria della Pubblica Amministrazione (RUPA). 5 5 Le Rete Unitaria della Pubblica Amministrazione (RUPA) è stata istituita dell’art. 5, comma 1, della L. 59/1997e può essere definita come l’insieme dei domini, ciascuno inteso come l’insieme delle risorse hardware, di comunicazione e di software di competenza di una determinata amministrazione, organizzato in un interdominio centrale, costituito da una dorsale, cioè da un sistema di routers o nodi, “in grado di instradare i vari messaggi, e dotato di tante porte di rete quanti sono i domini delle amministrazioni connesse”; v., F. BUFFA, Il processo civile telematico. La giustizia informatizzata, Giuffrè, Milano, 2002, p. 40. Scopo della RUPA è quello di garantire a qualunque utente della rete, purché autorizzato e in condizioni di sicurezza, “di poter accedere ai dati e alle procedure dei sistemi informativi automatizzati della propria e delle altre amministrazioni, indipendentemente dalle reti attraversate e dalle tecnologie utilizzate dai singoli sistemi informativi”; sul punto, M. IASELLI, La rete unitaria della P.A., in G. CASSANO (a cura di), Diritto delle nuove tecnologie informatiche e dell’Internet, Ipsoa, Milano, 2002, p. 1278. I livelli applicati della RUPA sono stati ridefiniti dal D.Lgs. del 28 febbraio 2005, n. 42 (Gu n. 73 del 20 marzo 2005), che ha istituito il Sistema Pubblico di Connettività (SPC) e la Rete Internazionale della Pubblica Amministrazione (RIPA). Questo decreto è confluito nel codice dell’amministrazione digitale a seguito della modifica al codice intervenuta con il D.Lgs. 159/2006 che ha previsto, peraltro, un termine per la cessazione dell’operatività della RUPA e la sua sostituzione con il SPC. 102 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Diversamente, i soggetti abilitati interni accedono al SIC tramite la Rete unica della Giustizia (RUG) e tramite il punto di accesso del Ministero della Giustizia. Il gestore locale, invece, è il “sistema informatico che fornisce i servizi di accesso al singolo ufficio giudiziario o all’UNEP, ed i servizi di trasmissione telematica dei documenti informatici processuali tra il gestore centrale ed il singolo ufficio giudiziario o UNEP” (art. 2, lett. c). Il gestore locale fornisce servizio di consultazione del sistema informatico dell’ufficio giudiziario, per i soggetti abilitati esterni, collegati attraverso il gestore centrale, nei limiti dei privilegi di accesso dell’utente (art. 22, commi 1 e 2, DM 14 ottobre 2004). Inoltre, gestisce la trasmissione dei documenti tra i sistemi informatici dell’ufficio giudiziario o dell’UNEP ed il gestore centrale. Il gestore centrale ed i gestori locali comunicano, tra loro, esclusivamente mediante la Rete Unica della Giustizia (RUG). La RUG è collegata alla RUPA e ciò consente “le operazioni di trasporto, interoperabilità e cooperazione applicativa tra il sistema informativo giustizia ed i sistemi informativi di amministrazioni pubbliche diverse”; inoltre, “il collegamento alla RUPA consente nuovi sistemi di accesso ad informazioni, documentazione e servizi, e ciò sia per gli accessi dell’amministrazione della giustizia, sia viceversa per gli accessi agli archivi della stessa […]”. Infatti, il fatto di adottare il “paradigma ipertestuale, analogo a quello su cui si basano i servers della rete Internet, consente di affiancare poi, alla disponibilità in linea dei documenti, la possibilità di interrogazioni semplici di archivi di documenti tra loro indipendenti, attraverso consultazioni ipertestuali contemporanee di più banche dati […], con il valore aggiunto che deriva dalla correlazione dei dati”. 6 Tra le funzioni principali del gestore centrale rientrano, in particolare, quella di attestare temporalmente l’evento di ricezione dei documenti informatici che vi pervengono e quella di inoltrarli automaticamente verso il gestore locale e da questo verso l’esterno, alla casella di posta elettronica certificata dei soggetti abilitati. 4. - Le comunicazioni con biglietto di cancelleria e la notificazione dei documenti informatici del processo può avvenire, oltre che tramite sistema informatico civile, anche tramite posta elettronica (art. 6, DPR 123/2001). L’indirizzo del difensore, tramite il quale avvengono le comunicazioni e le notificazioni, è unicamente quello che l’avvocato avrà comunicato al consiglio dell’ordine di appartenenza. 6 F. BUFFA, cit., pp. 46-47. 103 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Un particolare tipo di posta elettronica disciplinata nell’ambito del processo telematico dal DM del 14 ottobre 2004 è la posta elettronica certificata. 7 Il DM del 14 ottobre 2004 dispone che per utilizzare i servizi di trasmissione telematica dei documenti informatici, e quindi per poter inviare e ricevere dati e comunicazioni attinenti al processo e per effettuare notificazioni, occorre che i soggetti abilitati esterni dispongano di un indirizzo elettronico e della relativa casella di posta elettronica certificata, che vengono forniti dal punto di accesso. Ogni casella di posta elettronica certificata del processo telematico è abilitata a ricevere messaggi provenienti unicamente da altri punti di accesso e dal gestore centrale (art. 11, DM 14 ottobre 2004). L’utilizzo della posta elettronica certificata consente, oltre alla conoscibilità certa della casella mittente e quindi del titolare, anche la possibilità di legare la trasmissione con il documento trasmesso. Gli indirizzi elettronici e la relativa casella di posta elettronica certificata vengono attivati da ogni punto di accesso, su richiesta scritta di registrazione dell’interessato, il soggetto abilitato esterno, cui deve essere allegato certificato, rilasciato dal consiglio dell’ordine di appartenenza, attestante l’iscrizione all’albo. Lo stesso vale per gli esperti e gli ausiliari del giudice, che, al momento della registrazione, presentano il certificato di iscrizione all’albo dei consulenti tecnici o la copia della nomina del giudice, da cui deve risultare che l’incarico non sia esaurito. Gli indirizzi e le informazioni sui richiedenti vengono conservati in un apposito registro che ogni punto di accesso deve attivare, in cui sono contenuti, oltre agli indirizzi emessi, anche quelli revocati o sospesi (art. 16, DM 14 ottobre 2004). I singoli registri attivati dai punti di accesso, e le informazioni in essi contenute, confluiscono nel registro generale degli indirizzi elettronici, attivo presso il gestore centrale (art. 13, DM 14 ottobre 2004). Le copie dei registri locali e di quello nazionale sono consultabili per via telematica, ai sensi degli artt. 18 e 19 del decreto ministeriale, garantiscono la veridicità delle informazioni contenute e sono, costantemente, aggiornate dal personale autorizzato; i registri originali, invece, rimangono inaccessibili dall’esterno. 7 A partire dal riferimento primario costituito dall’articolo 15, comma 2, della L. 15 marzo 1997, n. 59, il quadro normativo di riferimento relativo alla posta elettronica certificata è costituito dal DPR del 11 febbraio 2005, n. 68 (Gu n. 97 del 28 aprile 2005), regolamento recante disposizioni per l’utilizzo della posta elettronica certificata, a norma dell’articolo 27 della L. del 16 gennaio 2003, n. 3; dal DM del 2 novembre 2005 (Gu n. 265 del 14 novembre 2005), recante le regole tecniche per la formazione, la trasmissione e la validazione, anche temporale, della posta elettronica certificata; dalla Circolare CNIPA CR/49 del 24 novembre 2005 (Gu n. 283 del 5 dicembre 2005), che ha disciplinato le modalità per la presentazione delle domande di iscrizione all’elenco pubblico dei gestori di posta elettronica certificata; dal codice dell’amministrazione digitale. 104 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 La casella di posta certificata, è definita, nell’Allegato B del DM in esame, come una “casella di posta elettronica alla quale è associata una funzione che rilascia delle ricevute di avvenuta consegna al ricevimento di messaggi di posta certificata”. La necessità di assicurare la sicurezza degli scambi di comunicazioni impone un sistema di verifica e controllo dei messaggi inviati. Le operazioni di verifica sono effettuate dal gestore centrale, mentre il punto di accesso ha il compito di mantenere in linea i documenti informatici inviati fino a quando non riceve avviso di consegna dal gestore centrale o dal punto di accesso del destinatario. Al momento dell’invio di un messaggio di posta certificata, il sistema verifica, preliminarmente, l’identità del mittente e dei dati di certificazione, che descrivono il messaggio originale; è necessario, poi, controllare che il messaggio non contenga virus informatici e che sia formalmente valido e privo di anomalie. Una volta che siano stati compiuti i controlli necessari ed il messaggio risulti validamente formato, il mittente riceve, nella sua casella di posta, una ricevuta di accettazione, cioè a dire che il sistema ha accettato il messaggio. L’accettazione garantisce la correttezza formale del messaggio originale. Se, invece, il messaggio contiene degli errori o è privo dei dati necessari per essere instradato nella casella di posta del destinatario, il mittente riceverà un messaggio di errore contenente l’avviso del rifiuto del messaggio e l’indicazione degli elementi mancanti. Il documento informatico, inviato dal soggetto abilitato esterno, è ricevuto dal sistema informatico civile nel momento in cui il gestore centrale lo accetta ed attesta il momento temporale della ricezione. Contestualmente, il gestore centrale fornisce un servizio di inoltro automatico, previo controllo, di tutti i documenti informatici ricevuti dall’interno del sistema informatico civile verso l’indirizzo elettronico di destinazione. La ricezione effettiva dal destinatario del messaggio viene attestata con una ricevuta di avvenuta consegna, nel momento in cui il messaggio stesso è inserito nella casella di posta certificata del destinatario.8 La casella di posta certificata permette, anche, di effettuare i servizi di notificazione degli atti processuali informatici che avviene secondo le modalità descritte dall’art. 45 del decreto ministeriale del 2004. Le richieste di notifica dei difensori pervengono all’UNEP mediante inoltro del documento dal punto di accesso del mittente, tramite intermediazione e controllo del gestore centrale. Le richieste di notifica che 8 Si veda l’Allegato B del DM del 14 ottobre 2004. 105 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 provengono, invece, dagli uffici giudiziari, sono inoltrate, tramite la RUG, verso il sistema informatico dell’UNEP. Ad avvenuta notificazione dell’atto, il sistema informatico dell’UNEP invia, a chi ha richiesto il servizio, il documento informatico corredato di relata di notifica, costituita dalla ricevuta elettronica, sottoscritta dall’ufficiale giudiziario con firma digitale. Le notifiche tra difensori consistono, invece, in uno scambio di messaggi tramite le rispettive caselle di posta certificata, mediato dal gestore centrale che provvedere a corredare i messaggi e le ricevute di avvenuta consegna delle necessarie attestazioni temporali. 5. - Gli artt. 9 ss. del DPR 123/01 disciplinano la costituzione in giudizio delle parti, il deposito degli atti e l’iscrizione a ruolo della causa, nonché la formazione del fascicolo informatico. Sia la procura alle liti sia la nota di iscrizione a ruolo possono essere trasmesse per via telematica e sottoscritte con firma digitale. La parte che procede alla iscrizione a ruolo o alla costituzione in giudizio trasmette per via telematica i documenti probatori come documenti informatici o le copie informatiche dei documenti probatori su supporto cartaceo (art. 9). Il difensore che si costituisce per via telematica trasmette la copia informatica della procura alle liti, nel caso in cui sia stata conferita su supporto cartaceo, e ne attesta la conformità all’originale sottoscrivendola con la propria firma digitale (art. 10). Anche la nota di iscrizione a ruolo può essere trasmessa per via telematica come documento informatico sottoscritto con firma digitale (art. 11). La cancelleria che riceve i documenti informatici del processo procede, con essi, alla formazione informatica del fascicolo d’ufficio e, contestualmente, anche alla formazione del medesimo fascicolo su supporto cartaceo. Nel fascicolo informatico sono inseriti anche i documenti probatori comunque acquisiti al processo (art. 12). I fascicoli informatici ricevono la stessa numerazione dei fascicoli cartacei e l’indice informatico degli atti contiene, anche, l’indicazione dei documenti conservati solo nel fascicolo cartaceo; è, inoltre, redatto in modo tale da consentire la diretta consultazione degli atti e dei documenti informatici in esso elencati. Il fascicolo informatico contiene, altresì, apposite sezioni, ciascuna contenente l’indicazione del giudizio e della parte cui si riferiscono, nelle quali vengono inseriti gli atti e i documenti probatori depositati dalle parti, contestualmente alla costituzione in giudizio o 106 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 successivamente. Il fascicolo informatico è consultabile dalla parte, oltre che per via telematica, anche nei locali della cancelleria attraverso un videoterminale (art. 13). Ogni successivo atto del processo, documento probatorio e la sentenza del giudice vengono redatti come documenti informatici sottoscritti con firma digitale, trasmessi e depositati per via telematica. In particolare, il processo verbale d’udienza, redatto come documento informatico, viene sottoscritto con firma digitale dal giudice e dal cancelliere; nel caso in cui esso contenga le dichiarazioni rese dai testimoni o dalle parti in udienza sarà sottoscritto con la firma digitale di ciascuno. Se non è possibile procedere alla sottoscrizione digitale, il processo verbale viene redatto e stampato su supporto cartaceo, sottoscritto nei modi ordinari e allegato al fascicolo cartaceo. La copia informatica del processo verbale viene, però, comunque allegata al fascicolo informatico (art. 5, commi 1 e 2). Il consulente tecnico d’ufficio trasmette la sua relazione, come documento informatico sottoscritto con firma digitale, e, con lo stesso mezzo, allega ad essa i documenti e le osservazioni delle parti, o la copia informatica di questi se sono stati prodotti su supporto cartaceo. Gli originali dei documenti, forniti dalle parti su supporto cartaceo, devono essere depositati dal consulente tecnico, prima della udienza successiva alla scadenza del termine per depositare le sua relazione (art. 15). Dopo la precisazione delle conclusioni, il responsabile della cancelleria appone al fascicolo informatico la sua firma digitale. La sentenza, redatta come documenti informatico e sottoscritta con firma digitale, viene trasmessa per via telematica al presidente del tribunale e al presidente della sezione di cui fa parte l’estensore, ed al cancelliere per il deposito. Ai fini del deposito, il cancelliere appone sulla sentenza la sua firma digitale.9 Il sistema di gestione del fascicolo informatico è, quindi, la parte del sistema dell’ufficio giudiziario dedicata all’archiviazione ed al reperimento di tutti i documenti informatici, prodotti sia all’interno che all’esterno dell’ufficio giudiziario. Oltre ai documenti informatici e agli allegati, sono inserite nel fascicolo informatico, anche, le ricevute brevi di avvenuta consegna e le attestazioni temporali degli scambi di messaggi intercorsi tra i soggetti abilitati esterni e gli uffici (art. 50, DM 14 ottobre 2004). I vari 9 Per quanto riguarda le sentenze, particolare importanza rivestono le procedure informatiche di redazione degli atti, con notevoli vantaggi specie per quanto riguarda la semplificazione dell’attività giurisdizionale. I sistemi esperti, la giurimetrica, il deposito e la trasmissione della sentenza costituiscono una evoluzione delle tecnologie a servizio dell’amministrazione della giustizia. Per una completa disamina della sentenza telematica, si veda F. BUFFA, cit., pp. 143-162. 107 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 fascicoli informatici dei procedimenti giudiziari in corso sono conservati, per tutta la durata del procedimento, nell’archivio in linea dell’ufficio. Una volta conclusosi il procedimento i fascicoli vengono conservati presso gli uffici giudiziari competenti. Il fascicolo informatico può essere trasmesso ai soggetti abilitati esterni, in tutto o in parte, e, in questo caso, il gestore locale provvederà a cifrarlo mediante un meccanismo di crittografia basato sulla chiave pubblica di cifratura del destinatario. Nel caso di richiesta di copia conforme del fascicolo, la conformità all’originale è attestata dal cancelliere e sottoscritta con la propria firma digitale. 6. - Dopo una lunga evoluzione normativa10, nel 2000 è stato emanato il regolamento di disciplina della tenuta informatizzata dei registri di cancelleria con DM del 27 marzo n. 264 (Gu n. 225 del 26 settembre 2000). Al regolamento ha fatto seguito il DM del 24 maggio 2001 (Gu n. 128 del 5 giugno 2001) che ha indicato, a norma degli artt. 1, comma 1, lett. f), e 3 del DM 264/2000, le regole procedurali relative ai registri informatizzati tenuti, a cura delle cancellerie o delle segreterie, presso gli uffici giudiziari, ovvero dei registri previsti da codici, leggi speciali o da regolamenti, comunque connessi all’espletamento delle attribuzioni e dei servizi svolti dalla amministrazione della giustizia. Oggetto del DM del 2001 è il sistema informativo, ossia “l’insieme delle risorse umane, delle regole organizzative, delle risorse hardware e software (applicazioni e dati), dei locali e della documentazione (sia in formato cartaceo, sia elettronico) che, nel loro complesso, consentono di acquisire, memorizzare, elaborare, scambiare e trasmettere informazioni inerenti i registri informatizzati degli uffici” (art. 1, comma 1). Il sistema informativo è, dunque, l’intera struttura adibita alla gestione e alla utilizzazione dei registri informatizzati11; esso deve essere organizzato in modo da garantire la disponibilità e l’integrità delle informazioni e dei servizi da parte degli utenti del sistema, l’autenticità dei dati, nonché il controllo degli accessi. Infatti, le informazioni possono essere fruite, e quindi create, modificate o cancellate, solo ed esclusivamente dalle persone autorizzate a compiere tali operazioni e secondo modalità predefinite (art. 2). 10 Sul punto, v., ivi, pp. 177 ss. P. VINCENZOTTO, La riservatezza e la sicurezza del sistema informativo negli uffici giudiziari, in G. RIEM, A. SIROTTI GAUDENZI, cit., p. 138. 11 108 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Responsabile della tenuta dei registri è il dirigente amministrativo dell’ufficio che è tenuto a produrre e mantenere aggiornato un dettagliato inventario di tutti gli elementi facenti parte del sistema informativo di sua competenza (art. 6). È cura del responsabile della tenuta dei registri, con l’ausilio dell’amministratore del sistema, redigere il piano della sicurezza del sistema informativo (art. 3). L’art. 7 del DM del 2001 indica le informazioni che il piano per la sicurezza deve contenere. Oltre all’inventario delle risorse, devono esservi indicate le misure adottate per la protezione del sistema, in specie quelle per garantire la continuità degli applicativi relativi ai registri informatizzati in caso di malfunzionamento dei server, le misure adottate per la protezione fisica delle aree e dei locali interessati e quelle per la protezione dei dati e delle informazioni, nel rispetto anche delle norme in tema di trattamento dei dati personali. Nel piano per la sicurezza devono, altresì, essere descritte le misure di monitoraggio del sistema, ossia le procedure di controllo e verifica della corretta esecuzione delle attività di utilizzo e gestione del sistema informativo, le modalità delle procedure di archiviazione ottica e di copia storica dei dati e, infine, il piano di adeguamento degli applicativi. 7. - Per poter usufruire dei servizi offerti dalle strutture del processo telematico, i soggetti abilitati esterni devono avere delle postazioni di lavoro che gli consentano l’accesso al sistema informatico civile. Il DM del 14 ottobre 2004, all’art. 36, descrive la postazione di lavoro come l’insieme delle risorse hardware, software e di rete utilizzate direttamente dai soggetti abilitati per la formazione dei documenti informatici, per l’inoltro e la ricezione dei messaggi e per la consultazione del sistema informatico civile. La postazione di lavoro, inoltre, deve essere dotata delle risorse hardware e software necessarie alla gestione della firma digitale su smartcard e alla autenticazione per la connessione al punto di accesso.12 12 L’avvocato può scegliere il proprio sistema informatico e il suo Internet service provider che gli assicuri la connessione al dominio giustizia. In particolare, gli avvocati utilizzano ambienti software integrali che consentono le funzionalità di gestione dello studio legale e la comunicazione interattiva con altri ambienti con piena integrazione tra i vari momenti dell’attività legale. Inoltre, l’avvocato connesso on line può operare direttamente presso gli uffici giudiziari; v. F. BUFFA, cit., pp. 199 ss. 109 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 I soggetti del processo telematico dispongono, poi, di un certificato di crittografia necessario per la cifratura degli atti e, inversamente, per decifrare quelli crittati; allo stesso modo, gli uffici giudiziari automatizzati fruiscono della chiave e del certificato di cifratura con i quali possono cifrare gli atti depositati sul client dei soggetti abilitati. Quindi, gli atti e i documenti redatti dai soggetti abilitati esterni, dalla postazione di lavoro, devono essere firmati e crittati per l’ufficio giudiziario di destinazione. Il gestore locale decifra i documenti crittografati che riceve e provvede a cifrare i documenti in uscita dai singoli uffici giudiziari o dall’UNEP. Inoltre, il gestore locale verifica automaticamente la firma digitale, apposta sul documento, e l’autenticità e l’integrità dei documenti informatici ricevuti. Controlla, a sua volta, il rispetto dei formati e l’assenza di virus, e, successivamente, rende disponibili i documenti ricevuti al sistema informatico di gestione delle cancellerie o dell’UNEP, associandovi le informazioni dell’attività di verifica, per valutarne la ricevibilità (art. 22, DM 14 ottobre 2004). Il sistema informatico di gestione dell’UNEP funziona nel modo su descritto, acquisendo i documenti da notificare e restituendoli, completi di relata di notifica, a notificazione eseguita. Il sistema informatico di gestione delle cancellerie, invece, cura l’accettazione del documento ricevuto aggiornando i registri ed il fascicolo informatico. Quando il difensore invia all’ufficio giudiziario del ruolo generale del tribunale un atto per la iscrizione della causa a ruolo, il sistema informatico di gestione comunica, per via telematica, una comunicazione recante il numero di ruolo del procedimento assegnato dall’ufficio competente a conoscere la causa. 8. - Come si può osservare dalla lettura delle norme sul processo telematico e le relative regole tecniche, non si assiste ad alcuna modificazione delle procedure giudiziarie, ma soltanto alla automazione delle fasi processuali.13 Il progetto di automazione del processo ha trovato avvio, in via sperimentale, in alcuni tribunali italiani tra cui quelli di Bari, Lamezia Terme, Bergamo, Bologna, Catania, Genova e Padova. In particolare, il gruppo di lavoro di Bologna ha messo a punto, dal 1993, un progetto denominato ‘Polis’, nell’ambito del quale è stato realizzato il primo sistema informativo per la produzione, archiviazione e consultazione delle decisioni, che consiste nella memorizzazione informatica del testo integrale di tutte le sentenze emesse dal Tribunale di Bologna, consultabili per via telematica da magistrati e avvocati. 13 M. CAMMARATA, “Tutti gli atti e i provvedimenti del processo...”, in Interlex (www.interlex.it). 110 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 La sperimentazione ha avuto avvio, informatizzando completamente le procedure d’urgenza relative ai ricorsi per ingiunzioni di pagamento e decreti ingiuntivi. E dopo la fase di sperimentazione, di recente, il Tribunale di Milano ha avviato la fase operativa del processo civile telematico. Inoltre, nel corso del 2004 sono state collaudate, nell’ambito del progetto di automazione, la consultazione a distanza dei registri di cancelleria e degli archivi dei documenti e la automazione delle attività di cancelleria e del giudice delle esecuzioni mobiliari e immobiliari. 14 Ulteriormente, per quanto riguarda la realizzazione di servizi on line sono stati collaudati: il portale di accesso agli uffici giudiziari, il sistema per la pubblicità telematica delle aste giudiziarie il progetto Norme in rete, punto di accesso alla documentazione normativa pubblicata dalle amministrazioni pubbliche sul web, dal quale è possibile anche l’accesso al patrimonio normativo del CED della Corte Suprema di Cassazione.15 Una serie di iniziative sono state intraprese anche relativamente ai sistemi informatici dell’area penale e della giustizia amministrativa.16 14 Si veda il Piano Triennale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione 2005-2007, a cura del CNIPA, in www.cnipa.gov.it. 15 Si veda il Piano Triennale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione 2006-2008, a cura del CNIPA, in www.cnipa.gov.it. 16 Le iniziative hanno come obiettivo, in ambito penale, migliorare l’efficienza del sistema penale nelle varie fasi processuali, dalla attività investigativa fino al momento della esecuzione penale. I principali progetti correlati alla automazione della fase investigativa riguardano la riorganizzazione dei centri per le intercettazioni telefoniche, finalizzata alla costituzione di un sistema unitario che preveda la registrazione e la gestione computerizzata dell’archiviazione; il progetto EPOC (European Pool against Organized Crimes) per il supporto alla raccolta, analisi, uso e scambio di informazioni di interesse per le indagini di criminalità organizzata eseguite in paesi diversi e presso diversi uffici investigativi. L’automazione del processo penale prevede, poi, la riorganizzazione del Sistema Integrato Esecuzione e Sorveglianza (SIES), per la condivisione del patrimonio informativo degli uffici giudiziari e la gestione documentale e archiviazione delle sentenze. Ulteriori azioni sono correlate alla automazione ed integrazione delle banche dati e dei flussi informativi strumentali alle azioni di contrasto alla criminalità organizzata, tra cui, ad esempio, l’acquisizione telematica delle notizie di reato e la comunicazione elettronica delle notizie di reato; la realizzazione del sistema per la gestione delle misure cautelari personali, per consentire il monitoraggio dei termini di scadenza e prevenire il rischio di scarcerazioni. I nuovi progetti riguardano il Sistema informativo dibattimentale, per la gestione multimediale del dibattimento attraverso la realizzazione di un sistema di archiviazione digitale multimediale, sincronizzazione e information retrieval degli atti del dibattimento penale, e la realizzazione del Sistema Integrato dell’Area Penale (SIAP), per la condivisione del patrimonio informativo digitale delle procure e la piena integrazione con i sistemi di casellario, della Cassazione e dell’amministrazione penitenziaria. Per quanto riguarda l’ambito della giustizia amministrativa, il cittadino, che ne abbia interesse, e le parti, gli avvocati e le amministrazioni centrali e locali, possono consultare sul sito dell’amministrazione lo status dei ricorsi dal deposito iniziale fino alla emissione del provvedimento. È consentito, inoltre, consultare i provvedimenti emessi sui singoli ricorsi a partire dall’ottobre del 2000. Vengono infine rese disponibili informazioni sulla normativa e sul funzionamento del processo amministrativo. Le iniziative e i progetti su menzionati sono descritti nei Piani triennali per l’informatica nella PA, 2005-2007 e 2006-2008, cit., curati dal CNIPA. 111 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Fiscalità e finanza pubblica a confronto nei programmi elettorali: in particolare l’attuazione del federalismo fiscale e la misura del quoziente familiare di Maria Debora Cioffi1 Sommario. 1. Le misure finanziarie e fiscali programmate: una visione d’insieme; 2. Finanza pubblica e federalismo fiscale; 3. Il quoziente familiare. 1. Le misure finanziarie e fiscali programmate: una visione d’insieme Nelle pagine che seguono sono descritti per grandi linee gli interventi di natura fiscale e finanziaria delineati nei programmi dei due maggiori schieramenti elettorali. Il programma del Popolo della libertà2 è articolato in sette missioni dedicate rispettivamente al rilancio dello sviluppo, al sostegno della famiglia, alla sicurezza e giustizia, ai servizi ai cittadini, al Sud, al federalismo ed infine alla finanza pubblica. Secondo l’ideologia che contraddistingue lo schieramento, l’ impresa è vista come punto nevralgico di ogni qualsivoglia politica di sviluppo economico; per essa occorre un fisco più leggero e meno oppressivo. Motivo per cui nella prima missione intitolata al rilancio dello sviluppo, una apposita sezione è dedicata ad un nuovo fisco per le imprese. Le misure fiscali agevolative programmate nel programma del Pdl sono essenzialmente le seguenti. Sul versante delle imposte dirette sul lavoro dipendente, si propone la detassazione del lavoro straordinario, delle mensilità aggiuntive nonché di premi ed inventivi legati al risultato, prevedendo per esse una aliquota secca del 10%; contemporaneamente la graduale abolizione, nei cinque anni, dell’ Irap a partire da quella sul costo del lavoro. La detassazione degli straordinari, condivisibile come misura sperimentale per aumentare la produttività, non appare idonea sotto il profilo congiunturale a rilanciare la produzione in una fase in cui il primo problema è quello di sostenere la domanda interna. Il modello, più in linea con politiche che hanno caratterizzato l’orientamento politico dello schieramento avverso, tende a ridistribuire 1 2 Dottore di ricerca presso l’Università degli studi di Napoli, “Federico II”. Cfr. in Il nostro Programma – sette missioni per il futuro dell’Italia, Il Popolo della libertà, in ilsole24ore.it. 112 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 risorse dal sistema delle piccole imprese, poco interessate a misure di questo tipo, alle grandi imprese; motivo per il quale ci si chiede quali effetti sulla congiuntura e sul ciclo economico possa avere una misura siffatta, in un sistema economico caratterizzato da imprese di piccole dimensioni e dalla prassi degli straordinari pagati fuori busta. In merito all’ imposizione indiretta, oltre alla progressiva riduzione dell’IVA sul turismo per rilanciare il settore da tempo sofferente, si programma di introdurre il principio del versamento dell’IVA successivo all’effettivo incasso della fattura e il rimborso dell’IVA a credito per il contribuente entro tempi ragionevoli stimati in 60, 90 giorni contro gli attuali. Ad avviso di chi scrive le misure descritte nel programma non costituiscono né grandi novità in campo fiscale nè forti misure a sostegno dell’impresa. Nella seconda missione, dedicata alla famiglia, la principale misura fiscale ivi prevista a sostengo del nucleo è rappresentata dall’introduzione del quoziente familiare. Sul punto si rinvia a quanto sarà successivamente detto infra al § 3. Gli altri interventi di natura fiscale per la famiglia contemplati dal programma sono: la totale eliminazione dell’ICI sulla prima casa, senza oneri per i Comuni; la graduale e progressiva tassazione separata per i redditi da locazione con aliquota unica del 20%, ciò favorirebbe la concessione in locazione ma consentirebbe, secondo i promotori, anche l’emersione di redditi; l’ abolizione delle imposta sulle successioni e donazioni, misure già attuate dal precedente governo di centro-destra e poi reintrodotte dal governo Prodi. Si osserva che il primo intervento, sostanziandosi in una misura fiscale agevolativa orizzontale, sarebbe accolto con favore in quanto volto alla generalità dei contribuenti e facilmente percepibile dall’intera collettività con un costo in termini di gettito non eccessivo (1,4 miliardi); parallelamente qualche dubbio si manifesta in merito alla circostanza che il mancato gettito dell’ICI, principale fonte di finanziamento dei Comuni, debba essere posto a carico della fiscalità generale. Comunque si tratta di materia, quella della finanza locale che necessita di una riflessione più ampia, nella prospettiva di una riforma generale del sistema tributario. Una ipotesi potrebbe essere quella di aumentare di qualche decimo di punto la possibilità di variare l’aliquota da parte dei Comuni, rendendo contemporaneamente deducibile il tributo locale patrimoniale dalle imposte sul reddito. Non convincente sembra essere anche la previsione della tassazione secca al 20% dei redditi da locazione laddove essa avvantaggerebbe in misura maggiore i 113 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 percettori di redditi più facoltosi che vedrebbero sottratti alla progressività dell’ Irpef una parte del proprio reddito. Condivisibile, invece, la detrazione per il fitto pagato, proposta dal programma del Pd, di cui si dirà più avanti, quale misura di supporto alla costituzione di una famiglia o comunque di una qualsivoglia forma di convivenza. La medesima missione contiene anche la previsione di una serie di misure finalizzate a consentire ai giovani sia l’inserimento nel mondo del lavoro sia il mantenimento del posto di lavoro. Gli interventi programmati a tal fine sono la sperimentazione di un periodo no tax per le nuove iniziative imprenditoriali e professionali dei giovani; l’introduzione del credito d’imposta per le imprese che assumono giovani e per quelle che trasformano i contratti di lavoro a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, infine la concessione di garanzie pubbliche per i prestiti d’onore e per il finanziamento d’avvio a favore di giovani che iniziano la loro attività d’impresa. In considerazione della precarietà del lavoro giovanile e della quasi certezza circa l’assenza di una forma previdenziale che possa ai giovani di oggi garantire una pensione superiore ai livelli di sussistenza all’atto dell’uscita dal mondo del lavoro, è prevista la progressiva totalizzazione dei periodi contributivi e l’introduzione di un sistema di mutue che attraverso il sostegno pubblico e privato possano garantire assistenza sociale e sanitaria in caso di non lavoro e di bisogno. In definitiva, l’obiettivo della legislatura sarebbe quello di arrivare ad una pressione fiscale al di sotto del 40%. La parte senz’altro più innovativa ed interessante del programma di cui si discute è rappresentata dalla sesta missione, dedicata al federalismo fiscale, di cui si tratterà nel prosieguo. Il programma presentato dal Pd3, scandito in 12 azioni di governo, prevede relativamente alle misure fiscali un taglio dell’Irpef di un punto l’anno per 3 anni partendo dai redditi bassi, ovvero 15.000 – 25.000 euro; in particolare per i redditi da lavoro dipendente, si prevede una detrazione ai fini Irpef più alta, nonchè minore imposizione fiscale sulla quota di salario derivante dalla contrattazione di secondo livello. Circa l’aspetto della precarietà del lavoro, il Pd prevede di sperimentare un compenso minimo legale pari a 1.000 – 1.100 euro netti mensili per i precari, la concessione di forti incentivi in caso di assunzione a tempo indeterminato, la previsione della durata massima di un biennio per le forme contrattuali atipiche e, contemporaneamente, di una contribuzione più alta di quella a tempo indeterminato, ed 3 Cfr. in Adesso una Italia nuova. Si può fare, il Partito democratico in www.partitodemocratico.it. 114 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 ancora, l’estensione a tutti i lavoratori delle tutele fondamentali. Il pacchetto giovani precari prevede infine la misura della formazione permanente e la costituzione di fondi di credito e microcredito che offrano prestiti a condizioni agevolate per sostenere progetti imprenditoriali nei settori dell’innovazione tecnologica, dello sviluppo sostenibile, nei servizi di utilità sociale ed impegno civile. Anche questo schieramento è favorevole all’introduzione di un’aliquota fissa sul fitto percepito, propone inoltre una detrazione per l’affitto pagato. Le misure a sostegno delle imprese, consistono nel migliorare il sistema del forfettone e nel favorire la capitalizzazione delle imprese con sconti di imposta. Si auspica inoltre la sostituzione del sistema dei contributi a fondo perduto con degli strumenti automatici e il credito di imposta su ricerca e sviluppo. Anche il Pd ha inserito nel suo programma l’attuazione del federalismo fiscale ex art. 119 della Costituzione. Sul tema ci soffermeremo più ampiamente nel prosieguo della trattazione. Per quanto concerne la finanza pubblica, il suddetto programma propone come obiettivo strategico la riduzione del volume globale del debito pubblico per portarlo sotto quota 90% del Pil e l’obiettivo del pareggio del bilancio con il rigore della gestione della finanza pubblica e con misure straordinarie come la valorizzazione della quota non demaniale del patrimonio pubblico. Viene proposta la ridefinizione delle norme civilistiche per restringere la nozione di demanio pubblico e allargare la quota di immobili da valorizzare. Gli interventi finanziari e fiscali contemplati da entrambi i programmi elettorali mancano di un vero contenuto innovativo. Ambedue i programmi elettorali hanno un contenuto fiscale molto poco propositivo: nei termini di cui si dirà appresso solo l’introduzione del quoziente familiare quale misura fiscale a sostegno della famiglia costituisce un’ innovazione rispetto all’attuale sistema delle detrazioni e deduzioni ai fini Irpef, con tutti i limiti di cui si dirà in prosieguo; gli altri interventi fiscali programmati si sostanziano in diminuzioni di punti percentuali alle aliquote attualmente in vigore per l’Irpef o addirittura la soppressione di imposte attualmente in vigore, quali l’ICI e l’ Irap come affermato nel programma del PDL senza peraltro indicare i mezzi per far fronte al mancato gettito. Genericamente è detto nei programmi elettorali che alla riduzione della pressione fiscale corrisponderà una pari riduzione della spesa corrente, mentre non vi è alcun accenno ai profili distributivi del sistema vigente, il cui assetto appare tutt’altro che soddisfacente 115 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Sul versante della finanza pubblica, è nostra intenzione tratteggiare le caratteristiche del federalismo come proposto dal PDL che essenzialmente riproduce la proposta contenuta nei documenti approvati dal Consiglio Regionale Lombardo, sottolineando da parte di scrive l’esigenza preliminare di emanare la legge di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Per tale motivo in queste pagine soffermeremo la nostra attenzione sulle due misure sopramenzionate: una di natura prettamente fiscale, prevista nel programma del Pdl, nota come quoziente familiare, sistema di tassazione del reddito del nucleo familiare, mutuato da esperienze d’oltralpe, ove già sperimentato, sebbene con profili differenti, e l’ altra, di natura finanziaria, consistente nell’attuazione del federalismo fiscale, voluto ed auspicato, oltre che dalle forse politiche, dalla gran parte della dottrina, sia pure con molti significativi distinguo. 2. Finanza pubblica e federalismo fiscale Una parte interessante di entrambi i programmi elettorali è quella dedicata alla finanza pubblica. Ambedue gli schieramenti politici concordano sui seguenti punti: 1. l’attuazione del federalismo fiscale ex art. 119 Cost.; 2. i tagli alla spesa pubblica; 3. la riduzione del debito pubblico. Si è detto che la parte senz’altro più innovativa ed interessante del programma del Pdl è rappresentata dalla sesta missione, dedicata al federalismo fiscale. I promotori sottolineano come la riforma del Titolo V abbia posto le premesse per avviare un ampio processo di trasferimento di poteri dal centro alla periferia. Per tale motivo, ai fini di un riconoscimento di un’effettiva autonomia delle Regioni e degli Enti Locali occorre realizzare il federalismo fiscale, che comporta il trasferimento di risorse finanziarie dal centro alla periferia, a parità di spesa pubblica e di pressione fiscale complessiva. Il federalismo proposto dal Pdl4 sottolinea in maniera incisiva come, relativamente al coordinamento della finanza pubblica, debba procedersi, ai fini della perequazione, alla riduzione ma non l’annullamento delle differenze di capacità fiscale premiando le Regioni a minore evasione fiscale e incentivando i comportamenti finanziari virtuosi (rat. 1, comma 2); in tema di coordinamento del sistema tributario, tra i principi e i criteri direttivi, il Pdl sostiene la correlazione tra il prelievo fiscale ed il beneficio connesso alle funzioni esercitate sul 4 territorio (art. 1, comma 3); infine, si auspica Come da Proposta di legge al Parlamento approvata dal Consiglio regionale lombardo il 19 giugno 2007, n. 40. 116 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 l’attribuzione di risorse ed imposte in base all’effettivo gettito tributario ed la premialità dei comportamenti virtuosi ed efficienti nell’esercizio della potestà tributaria. Quanto programmato dal PDL era stato sostanzialmente già formalizzato dalla Regione Lombardia nella relativa richiesta di approvazione da parte del Parlamento della proposta di legge “Nuove norme per l’attuazione dell’art. 119 della Costituzione”, adottata dal Consiglio regionale il 19 giugno 2007. Il documento suddetto prevedeva: - una compartecipazione regionale all’IVA pari all’80%, commisurata al gettito riscosso riferibile al territorio di ciascuna regione, ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. B) della proposta citata; - l’istituzione dell’Imposta Regionale sul Reddito Personale con aliquota iniziale uniforme per tutte le regioni e contestuale diminuzione nella stessa misura delle aliquote sull’ Irpef erariale (art. 2, comma 2, lett. d) della proposta di legge); l’aliquota uniforme sarebbe stata stabilita in misura non inferiore al 15 per cento e le regioni avrebbero potuto variare liberamente l’aliquota e le detrazioni per i familiari a carico ma non determinare la base imponibile; - l’istituzione dell’ Imposta Locale sui Redditi Fondiari quale tributo locale proprio (art. 2, comma 2, lett. g) della medesima proposta); - l’ assegnazione alle regioni dell’intero gettito delle accise sulla benzina, dell’imposta sui tabacchi e quella sui giochi, riferibile al territorio di ciascuna regione come previsto dall’ art. 2, comma 3, lett. c), della proposta); Trattasi di un “pacchetto” di risorse stimabile per la sola Regione Lombardia, limitatamente ad Iva ed Irpef in quasi 15 miliardi di euro5. Infine, per quanto concerne la perequazione, il documento approvato dalla regione Lombardia prevede che l’istituendo fondo sia alimentato con quote di gettito di tributi e quote di compartecipazioni delle Regioni a maggiore capacità fiscale, anche se si 5 L’Assemblea Regionale lombarda promuove la riforma in senso federale. A tal fine approva due documenti : una Risoluzione del Consiglio in data 3 aprile 2007 e una Proposta di legge al Parlamento; dodici le materie su cui esercitare maggiori competenze. Il 1 luglio 2007 il Consiglio ha approvato a larghissima maggioranza una mozione per sollecitare il Governo ad avviare il negoziato. A partire da questi documento Regione e Governo si sono trovati il 30 ottobre 2007 a Roma per dare ufficialmente il via al negoziato per il trasferimento alla Regione di competenze sulla base del III comma dell’art. 116 cost. per l’applicazione del c.d. “federalismo differenziato”. Sono seguiti ulteriori incontri in data 15.11.2007, 20.11.2007. Alla fine del lavoro di approfondimento, verrà predisposto un documento finale unico con le valutazioni su ogni singola materia che dovrà essere condiviso tra Governo e Regione e quindi trasmesso al Parlamento che dovrà votarlo con la maggioranza degli aventi diritto, quindi con una maggioranza qualificata. 117 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 sottolinea come la perequazione non deve eliminare più del 50% delle differenze di capacità fiscale per abitante. Parlare di percentuali in una realtà in cui non siano state predeterminate le funzioni non ha senso. La questione va affrontata proprio dal versante delle funzioni che in base ad una corretta visione del principio di sussidiarietà, possono essere decentrate solo se la loro gestione a livello locale non comporti diseconomie di scala; al cittadino non si possono chiedere maggiori imposte per finanziare funzioni decentrate che, se esercitate ancora dallo Stato costerebbero meno. La finalità perequativa, com’è noto, è quella di integrare le risorse finanziarie degli enti con minore capacità fiscale, avendo particolare riguardo al finanziamento degli oneri derivanti dalle prestazioni inerenti i livelli essenziali ex art. 117, comma 2, lett. m) della Costituzione. E’ pertanto evidente che o la perequazione, come in Germania (98%) tendenzialmente annulla le differenze tra le capacità fiscali, oppure il trasferimento di funzioni alle Regioni con minore capacità fiscale per abitante dovrà essere solo parziale. In ogni caso vale la pena di ricordare che l’Alta Commissione sul federalismo fiscale aveva fissato nel suo rapporto del 2005 una soglia perequativa del 95%. Oltre al fondo perequativo nazionale, è prevista l’istituzione di un fondo perequativo interno a ciascuna Regione al fine di offrire sostegno agli enti locali minori con ridotta capacità fiscale. Ciò a parere di chi scrive non comporterà l’ uniformità su tutto il territorio nazionale del livello minimo essenziale di ciascuna prestazione relativa a diritti costituzionalmente protetti perché quanto sopra, secondo il progetto lombardo, va commisurato al costo della vita di ciascuna Regione e all’evasione fiscale. La perequazione da realizzarsi ai sensi del V comma del 119 della Cost. fa riferimento ad un modello perequativo verticale; il nostro sistema per reggere abbisogna di una elevata percentuale perequativa vicina al 100%, e tanto perché il modello delineato dall’art.119 Cost. si riferisce ad una fiscalità regionale che deve riuscire a finanziare non solo alcuni servizi predeterminabili nei costi, ma anche una serie di materie stabilite nell’art.117 III comma che attengono in senso ampio alla politica economica. Mentre le Regioni autonomamente possono coprire il costo dei servizi sulla base di costi standard cui sono ricollegati i diversi strumenti fiscali a loro disposizione, la stessa cosa non può dirsi per i costi degli interventi di politica economica demandati alle stesse, per i quali in assenza di una perequazione tendenzialmente livellatrice delle capacità fiscali, 118 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 mancherebbero le risorse necessarie a finanziarli, in violazione dell’art.119 IV comma Cost. Si vuole precisare che il nostro, più che federale, è un modello unitario decentrato, ed al fine di assicurare un avanzato decentramento è necessario procedere a differenziazioni tra Comuni e Regioni. Cosa non semplice a causa delle differenze dimensionali di queste ultime. Una soluzione potrebbe essere quella di devolvere maggiori risorse alle Regioni più grandi per le materie trasferite, alcune delle quali invece potrebbero rimanere centralizzate per le piccole Regioni, che beneficerebbero del fatto che lo Stato in prima persona se ne continuerebbe a fare carico. La previsione di un’aliquota regionale del 15% dell’imposta sul reddito, come proposto dalla Lombardia nulla dice e nulla aggiunge alla finalità federale, mentre incide in modo indebito sul principale tributo statale, la cui riforma è necessariamente demandata al Parlamento. E’ invece urgente procedere a riformare l’imposta sul reddito, evitando norme pretestuose, vedi quella contenuta nell’art.1 comma 43 della legge finanziaria 2008, che vietino la deduzione delle imposte regionali dalle erariali. In un sistema caratterizzato da un ampio decentramento fiscale il riconoscimento di tale deducibilità appare al contrario necessitato, per ridurre le disuguaglianze con effetto perequativo, per cui sarebbe ovviamente lo Stato a doversene assumere l’onere. Certamente non saremo in presenza di una misura compensativa totale ma di certo la deducibilità delle imposte locali dall’imposta personale sul reddito assicurerebbe la finalità di riequilibrare il sistema tra imposte statali e regionali. Inoltre anche la previsione di una deduzione delle imposte patrimoniali locali dalle imposte sul reddito statale, che a sua volta presuppone una sua riforma complessiva, sarebbe saggia in quanto pienamente idonea a realizzare l’ autonomia tributaria, in un quadro di tendenziale perequazione. Più volte si è detto che la proposta di legge qui in commento sottolinea la necessità di premiare i comportamenti virtuosi: il che tradotto in termini di gettito vuol significare erogare agli enti c.d. virtuosi una maggiorazione di aliquota di un tributo erariale, commisurata allo scostamento tra i risultati programmati e gli obiettivi realizzati. La proposta seppur suggestiva nella sua formulazione, si scontra con la realtà: ci si chiede infatti come i promotori del progetto di federalismo, che qui si commenta pensano, al fine di premiare le Regioni virtuose di calcolare l’evasione fiscale su base regionale? A parere di chi scrive se non è ravvisabile un collegamento diretto tra gettito e territorio per la più parte dei tributi, basti pensare a titolo di esempio alle società con sedi secondarie in altre regioni, localizzare l’evasione è ancora più difficile; senza dire che una 119 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 distribuzione delle imposte locali parametrato all’evasione, contrasterebbe prima ancora che con il principio di eguaglianza, con il buon senso. Una parte degli interventi previsti nella proposta di legge formulata dalla Regione Lombardia sono stati essenzialmente recepiti dallo schema di disegno di legge, approvato dal Consiglio dei Ministri il 28 giugno 2007, per il conferimento al Governo della delega a disciplinare la riforma in senso federale della finanza di Regioni ed enti locali, ai sensi dell’art. 119 Cost.. Più in dettaglio, lo schema approvato definisce i principi e i criteri direttivi per la disciplina del sistema di finanziamento delle istituzioni regionali e locali nel rispetto dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa garantita a comuni, città metropolitane, province e regioni, nonché dei principi di solidarietà e di coesione sociale, in maniera da sostituire gradualmente, per tutte i livelli istituzionali, il criterio della spesa storica. In sintesi, sono state dettate regole per il coordinamento della finanza pubblica, stabiliti criteri per l’istituzione e l’applicazione di tributi propri da parte degli enti territoriali ai fine di garantire armonia e coerenza al sistema tributario, disciplinati criteri di riparto delle risorse da assegnare agli enti locali con finalità perequative e di efficienza delle amministrazioni, indicati i criteri per l’attribuzione di risorse aggiuntive e infine definiti criteri di finanziamento di Roma capitale della repubblica. Relativamente al punto sub 2), il Pdl prevede un taglio delle imposte di pari portata e parallela al taglio della spesa corrente, che a sua volta andrebbe ridotta di un punto all’anno per portare al termine della legislatura la pressione fiscale al sotto del 40%.. Inoltre, con una manovra choc in giugno, verrebbe destinato l’extragettito fiscale alla riduzione del deficit, per poi far seguire un consolidamento con la finanziaria 2009. Parimenti anche il Pd programma un taglio di mezzo punto della spesa corrente il primo anno, e quindi un punto l’anno nei due successivi. Ai fini della riduzione del debito pubblico di cui al punto sub 3), il Pd si propone di scendere al di sotto del 90%, attraverso misure straordinarie come la valorizzazione della quota non demaniale del patrimonio pubblico. A tal fine è necessaria la ridefinizione delle norme civilistiche per restringere la nozione di demanio pubblico e allargare la quota di immobili da valorizzare. Lo schieramento opposto, per gli interventi straordinari sulla finanza pubblica, ha stilato un piano che prende le mosse da un nuovo patto tra Stato, Regioni, Province, Comuni, risparmiatori ed investitori per ridurre il debito dello Stato. Nel medesimo Patto è prevista anche la piena attuazione del federalismo fiscale solidale. In altre parole la 120 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 proposta è immettere sul mercato una quota di patrimonio pubblico, offrendo a risparmiatori ed operatori economici maggiori e migliori opportunità di investimento. Secondo le stime inserite nel programma il patrimonio pubblico è superiore al debito. L’attivo che potrebbe essere collocato sul mercato e valorizzato ha un valore di 700 miliardi di euro, di cui 2/3 è delle Regioni e degli Enti Locali. La riduzione del debito avrebbe come conseguenza una riduzione degli oneri per interessi; l’effetto cumulato atteso delle due misure è stimato in termini di un punto di PIL. 3. Il quoziente familiare Il quoziente familiare rappresenta una forma di tassazione del reddito familiare alternativa a quella attualmente in vigore nel nostro Paese. Il modello impositivo vigente dell’imposta personale perviene alla determinazione dell’ imposta lorda applicando le relative aliquote progressive al reddito imponibile, dato dal reddito complessivo, abbattuto da una serie di deduzioni o oneri deducibili (quali ad es., assegni periodici corrisposti al coniuge, contributi previdenziali ed assistenziali, etc.); l’imposta lorda così determinata è diminuita delle detrazioni per carichi di famiglia, delle detrazioni sostitutive delle spese di produzione (quali ad es. le somme corrisposte ai dipendenti, chiamati a ricoprire incarichi elettorali) ed infine delle detrazioni per oneri (quali ad es. spese sanitarie, spese funebri, spese di istruzione, premi di assicurazione sulla vita, etc.). La scelta tra deduzioni e detrazioni dipende dall’effetto che si vuole realizzare: le prime avvantaggiano a parità di importo i possessori di redditi più elevati, soggetti ad aliquota progressiva marginale più alta; al contrario, le seconde, incidendo sull’imposta dovuta con percentuale fissa, consentono un risparmio quantitativamente identico per tutti i contribuenti, ma non equivalente sotto il profilo qualitativo: lo stesso onere di mille euro consente un risparmio di 190 euro uguale per tutti, ma sicuramente più significativo per chi è titolare di un reddito basso rispetto ad un contribuente con un reddito elevato. La delega per la riforma del sistema fiscale approvata con l. n. 80/2003 prevedeva la progressiva sostituzione delle detrazioni in deduzioni; la tutela delle classi più disagiate avrebbe dovuto tuttavia essere assicurata attraverso la concentrazione delle deduzioni sui redditi bassi e medi al fine di meglio garantire la progressività dell’imposta. 121 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 La riforma in esame in parte attuata con l. n. 311/2004 è stata oramai abbandonata6. Qualsiasi forma di imposizione sul reddito personale può esser strutturata diversamente a seconda che il presupposto da colpire sia rappresentato dal reddito individuale o dal reddito familiare. Nel primo caso l’unità impositiva alla base dell’imposta sul reddito è l’individuo, nel secondo la famiglia. L’adozione del secondo criterio è dettata dalla circostanza che il benessere del singolo e la sua attitudine a partecipare alla spesa pubblica dipendono effettivamente dal reddito a disposizione della famiglia e dalla composizione di quest’ultima. Un buon modello di imposizione dovrebbe dunque opportunamente integrare sia il criterio della tassazione del reddito personale che quello del reddito familiare7, cosa che del resto già avviene per fruire di una serie di benefici a carico della spesa pubblica, che sono parametrati al reddito familiare. La tassazione familiare a sua volta può concentrarsi o sul cumulo dei redditi, nel qual caso, l’aliquota media è una funzione del reddito dei familiari, o per parti, ove l’aliquota è una funzione della somma dei redditi del nucleo divisa per un certo numero di parti8. Il sistema della tassazione per parti conosce storicamente due varianti: lo splitting e il quoziente familiare. Il quoziente familiare in rassegna è ispirato al modello francese: esso è basato sul presupposto teorico delle scale di equivalenza, ovvero richiede di sommare i redditi di tutti i componenti e di dividere il risultato per un quoziente, che si ottiene dalla somma di opportuni coefficienti assegnati a ciascun componente familiare, prima di applicare al valore risultante la scala delle aliquote. Al pari delle altre tipologie di tassazione per parti, il quoziente familiare comporta l’equiparazione del trattamento delle famiglie monoreddito a quelle bireddito, rispondendo ad esigenze di equità orizzontale. Esso produce inoltre un’attenuazione della progressività, di cui beneficiano le famiglie ad alto reddito, soprattutto quelle dove esiste un forte differenziale di reddito tra i coniugi e quindi finisce col porre un problema di equità verticale. 6 Per maggiori approfondimenti si veda più ampiamente TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, parte spec., Torino, 2007, p. 241 e ss..; FALSITTA G., Manuale di diritto tributario, parte speciale, Padova, 2008, p. 93 e ss.. 7 Per maggiori approfondimenti sul tema cfr., LECCISOTTI, PATRIZII (a cura di), Il trattamento fiscale della famigli anei paesi industrializzati, Giappichelli, 2002. 8 LONGOBARDI, PATRIZII (a cura di), La tassazione dei redditi familiari, in La crescita ineguale, 1981 – 1991, il Mulino. 122 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Con il metodo dello splitting, sul modello tedesco e statunitense, il reddito complessivo familiare è dato dalla somma del reddito dei due coniugi o di tutti i componenti il nucleo familiare, che va diviso per due, ed ad esso applicate le aliquote; moltiplicando l’imposta così ottenuta per due, si ottiene l’imposta che il nucleo familiare deve versare. Sinteticamente è stato valutato che un sistema di tassazione per parti, sia esso sotto forma di splitting che di quoziente, incentiva il matrimonio, è neutrale rispetto all’elusione, attribuisce un maggior vantaggio che cresce al crescere del reddito, tiene conto della struttura dei bisogni al crescere del nucleo, incorporando, come si è detto, una vera e propria scala di equivalenza, disincentiva, infine, rispetto al lavoro del secondo coniuge9. Quest’ultima affermazione tuttavia non può essere generalizzata perché è funzione di una serie di variabili quali l’aliquota marginale e il riconoscimento di detrazioni d’imposta per i carichi familiari. La proposta italiana di tassare a quoziente i redditi familiari10 fino a 73.000 euro nasce proprio dall’esigenza di favorire le famiglie a reddito basso e medio. Ma la tassazione a quoziente familiare può anche avere un effetto collaterale negativo: quello di ridurre l’offerta di lavoro femminile, che in Italia è la minore d’Europa, spostando in capo al coniuge con reddito più basso (di solito la moglie) parte dell’onere fiscale, ed allontanerebbe ancor di più il nostro paese dal raggiungimento di uno degli obiettivi dell’Agenda di Lisbona, che punta ad un tasso di partecipazione femminile alla forzalavoro pari almeno al 60 per cento (attualmente l’Italia è poco sopra il 40 per cento). Su questo versante dovrebbero quindi essere previsti quanto meno dei correttivi. Focalizziamoci ora sul modo in cui il quoziente familiare italiano dovrebbe essere costruito per affrontare i due problemi caratteristici del nostro paese: la ridotta partecipazione femminile alla forza-lavoro e la ridotta natalità. Per incentivare la prima, occorrerebbe assegnare al coniuge a carico un basso valore del coefficiente individuale, il che ridurrebbe il beneficio fiscale per le famiglie monoreddito. 9 Per maggiori approfondimenti in merito agli effetti distributivi di un’ipotetica riforma della tassazione familiare italiana ispirata al modello descritto si veda più ampiamente RAPALLINI, Il quoziente familiare: valutazione di un’ipotesi di riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche in Working Paper, n. 475, Società italiana di economia pubblica, Dipartimento di economia pubblica e territoriale, Università di Pavia. 10 Va precisato che il reddito familiare che confluiscono nella tassazione per parti con il metodo del quoziente deve essere originato dal lavoro dal lavoro dipendete e/o autonomo, con l’esclusione dei figli che fino alla maggiore età restano in famiglia. 123 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Per incentivare la natalità invece occorrerebbe invece assegnare un elevato valore (pari all’unità) al coefficiente attribuito dal secondo figlio in poi che accrescerebbe il beneficio fiscale per le famiglie che scelgono di non fermarsi al figlio unico. Facendo un confronto con la Francia, dove il quoziente familiare rappresenta l’architrave della politica familiare, il beneficio fiscale aumenta per le coppie che scelgono di avere almeno tre figli (coefficiente pari a 1 per il terzo e quarto erede, solo 0.5 per il primo e secondo), mentre il coefficiente assegnato al coniuge (pari a 1) non incentiva la partecipazione femminile al mercato del lavoro, che evidentemente viene perseguita con altri strumenti di policy. In definitiva, una proposta che preveda un coefficiente sufficientemente basso (0.65) per il coniuge a carico, e che aumenti il beneficio fiscale a partire dal secondo figlio (coefficiente 1), andrebbe nella giusta direzione. Resta l’incertezza sulla effettiva copertura finanziaria di una tale manovra, che i proponenti non dettagliano, e sembrano invece rinviare alle virtù taumaturgiche della lotta all’evasione fiscale. Ma il tema è meritevole di approfondimento, se effettivamente si desidera tutelare la famiglia come unità fondamentale della società, anche senza assumere problematici orientamenti pronatalisti. Il quoziente familiare è uno strumento per tassare il reddito fino a 73 mila euro con un risparmio stimato tra i 2.500 e i 3.000 euro per famiglia, sulla base dell’IRPEF in vigore dal 2007. L’introduzione del quoziente familiare implica un complessivo riaggiustamento del meccanismo Irpef del tutto incongruente con l’Irpef a 2 aliquote (23% fino a 100.000 € e 33% oltre i 100.000 €) disegnata nella riforma approvata dalla Cdl nel 2003 che viene tuttavia riproposta. Al di là della notevole perdita di gettito che determinerebbe l’introduzione del quoziente familiare, oltre 15 md di euro, poco meno di quanto costerebbe il sistema a due aliquote a regime, il quoziente è essenzialmente un modo per ridurre la progressività dell’imposta a vantaggio principalmente delle famiglie con redditi medio alti. In tutti i casi ove il Pdl mantenesse l’obiettivo di un’imposta personale a due scaglioni, l’adozione del quoziente familiare non avrebbe più alcun senso; mentre attraverso il gioco delle deduzioni, un’imposta sul reddito a due scaglioni, potrebbe essere formulata in modo da assicurare un grado ragionevole di progressività, senza premiare, come farebbe il quoziente familiare, quelli più elevati. 124 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Non a caso, per evitare questo risultato, nel sistema francese il quoziente familiare per l’ Irpef si accompagna all’imposta sulle Grandi Fortune, come strumento per un recupero di progressività accettabile. Il sistema del quoziente familiare come immaginato nel modello che si vuole introdurre nel nostro Paese funziona come di seguito: a. si sommano i redditi dei coniugi; b. ai fini della determinazione dell’imponibile cui applicare le aliquote si divide il reddito complessivo familiare per il numero dei componenti della famiglia, attribuendo al contribuente e al coniuge un coefficiente 1, e ad ogni figlio un coefficiente 0,5; sicchè in assenza di figli il reddito complessivo viene diviso per due; in presenza di un figlio 2,5 etc.; c. determinato così il reddito medio familiare imponibile, ad esso si applicano le aliquote in vigore; il risultato viene successivamente moltiplicato per 2; 2,5; 3, etc., al fine di ottenere l’imposta che le famiglie devono versar al fisco. Gli effetti sono evidenti: se le aliquote sono progressive, il vantaggio rispetto al sistema oggi in vigore (tassazione separata + deduzioni per carichi di famiglia) è tanto maggiore quanto più elevato è il reddito complessivo dei coniugi, in quanto si abbattono le aliquote più alte e si finisce per applicare un’aliquota più ridotta. Si ottiene in tal modo una forte riduzione della progressività e del prelievo. E’ ovvio che una famiglia a basso reddito collocata nel primo scaglione dell’ Irpef e quindi a livello delle aliquote più basse, non avrebbe nessun vantaggio dal nuovo sistema perché la riduzione convenzionale del reddito imponibile assicurata dal meccanismo del quoziente non fornirebbe alcuna riduzione dell’aliquota applicabile, diversamente a quanto avviene per gli altri contribuenti. Al contrario questi contribuenti potrebbero risultare svantaggiati dal momento che verrebbero meno le deduzioni per carichi di famiglia. Analogamente nessun vantaggio dall’attuazione della proposta trarrebbero i soggetti incapienti, cioè coloro che hanno un reddito così basso da essere già al di sotto del minimo imponibile. Infatti l’applicazione del quoziente ai dati italiani mostra che esso porterebbe vantaggi molto modesti al primo 70% dei contribuenti, concentrando metà dei 14 miliardi di minor gettito sul 30% più ricco, mentre al 20% più povero non arriverebbe nulla. Si ripete inoltre che le famiglie che ottengono il vantaggio maggiore dalla divisione del reddito sono quelle in cui il reddito di uno dei coniugi è uguale a zero in quanto si dimezza in questo caso il reddito imponibile. 125 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 In altri termini il nuovo meccanismo, come tutti i sistemi di splitting, rappresenterebbe senza correttivi un disincentivo al lavoro femminile: il contrario di quanto sarebbe necessario e di quanto richiesto dalla strategia di Lisbona. Infine non va sottovalutato il fatto che ciascun figlio contribuisce alla riduzione del reddito imponibile per lo 0,5; ciò significa che per il fisco il figlio ricco vale più di un figlio povero. In conclusione il quoziente va in direzione opposta a quello di cui c’è bisogno nel nostro Paese: un sostegno effettivo alle famiglie con redditi bassi e medi, che concentri su di loro le risorse da mettere in campo. L’aspetto più sorprendente della proposta del Pdl è che essa contrasta in modo evidente con la riforma dell’IRE, approvata dal centro destra nel 2003, che nella sua parziale attuazione aveva mostrato grande attenzione ai contribuenti minori e alla famiglia attraverso la creazione della family area e il forte allargamento della no – tax area. Ai redditi minori guarda invece il centrosinistra con l’ “Assegno per il sostegno delle responsabilità familiari” che riunificherebbe, incrementando i trattamenti, l’attuale assegno al nucleo familiare e la deduzione Irpef per figli a carico. L’Assegno avrebbe carattere universale, rivolgendosi sia ai lavoratori dipendenti sia agli autonomi, e verrebbe fruito anche dagli incapienti, introducendo così nel nostro Paese una prima forma di “imposta negativa” (trasferimento a favore degli incapienti da parte dello Stato). Concentrando le risorse sui redditi bassi e medi, l’onere risulta molto più contenuto: meno di 5 miliardi di euro a regime, ossia un terzo dell’onere del quoziente familiare. La conclusione che si può trarre dai programmi fiscali dei due maggiori partiti è che si è raggiunta una maggiore consapevolezza della necessità di porre un freno alla crescita della pressione fiscale, apparsa nel periodo 2006-7 fuori controllo. Manca tuttavia nell’insieme delle forze politiche la percezione della scarsa competitività fiscale del nostro Paese e quindi della necessità ed urgenza di una riforma tributaria, che da un lato assicuri le risorse indispensabili alla modernizzazione del Paese, dall’altro ne aumenti la competitività internazionale. 126 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 INDICE BIBLIOGRAFICO 1. CONTE – PAPUZZI, Il meccanismo trova il proprio fondamento nel sistema generale di imposizione per la famiglia tipico dell’ordinamento transalpino, in Fisconelmondo.it; 2. LECCISOTTI, PATRIZII (a cura di) , Il trattamento fiscale della famigli anei paesi industrializzati, Giappichelli, 2002. 3. LONGOBARDI, PATRIZII (a cura di), La tassazione dei redditi familiari, in La crescita ineguale, 1981 – 1991, il Mulino. 4. RAPALLINI, Il quoziente familiare: valutazione di un’ipotesi di riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche in Working Paper, n. 475, Società italiana di economia pubblica, Dipartimento di economia pubblica e territoriale, Università di Pavia. 5. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, parte spec., Torino, 2007. 6. FALSITTA G., Manuale di diritto tributario, parte speciale, Padova, 2008. 7. Adesso una Italia nuova. Si può fare, il Partito democratico in www.partitodemocratico.it 8. Il nostro Programma – sette missioni per il futuro dell’Italia, Il Popolo della libertà, in ilsole24ore.it 9. Proposta di legge elaborata dal Consiglio regionale della Lombardia in data 3 aprile 2007 10. Risoluzione del Consiglio Regionale della Lombardia del 3 aprile 2007 11. Schema di disegno di legge, approvato dal Consiglio dei Ministri il 28 giungo 2007, per il conferimento al Governo della delega a disciplinare la riforma in senso federale della finanza di Regioni ed enti locali, ai sensi dell’art. 119 Costituzione 127 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 128 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 GIURISPRUDENZA CASI PRATICI DOCUMENTAZIONE 129 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 130 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 L’Italia ancora nel mirino della Corte di Giustizia Europea: la distinzione tra rifiuto e sottoprodotto si fonda sul riutilizzo «certo, senza trasformazione preliminare e nello stesso processo di produzione» (Nota alla sentenza della Corte di Giustizia Europea, Sez. III, 18 dicembre 2007, Causa C-194/05) di Filomena Daniela Piccolo Sommario: 1. Premessa. 2. I “rifiuti” nell’ordinamento comunitario tra disposizioni normative ed interventi interpretativi della Corte di Giustizia Europea. 3. La nozione di “rifiuto” nell’ordinamento nazionale: dal D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915 all’articolo 14 della l. 8 agosto 2002 n. 178 (interpretazione autentica della definizione di rifiuto, di cui all’articolo 6 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n.22 – Decreto Ronchi). 3.1Legge delega in materia ambientale e d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 sulla stessa scia dell’articolo 14: il tentativo del non rifiuto non si ferma neanche dopo la bocciatura dell’articolo 14 della l. 8 agosto 2002 n. 178. 4. Corte di Giustizia Europea, Sez.III, 18 dicembre 2007, Causa C-194/05: nessuna norma può escludere, a priori ed in via generale, le terre e rocce da scavo dal novero dei rifiuti. Un altro caso di incompatibilità tra legislazione nazionale e normativa comunitaria. 5. Conclusioni. 1. Premessa L’attuazione di politiche ambientali efficaci e strategiche è condizionata dalla risoluzione di una questione preliminare, la c.d. questione nozionistica, a garanzia di un’esatta e puntuale demarcazione concettuale dell’espressione “ambiente” e di ogni altra espressione afferente agli specifici settori che compongono l’ecosistema. La definizione concettuale dell’espressione ambiente ha originato vivaci dibattiti, coinvolgendo autorevoli ed insigni giuristi ed attraendo l’attenzione della giurisprudenza, chiamata a svolgere un ruolo significativo nella vicenda, di cui essa stessa ha evidenziato, oltre la rilevanza dogmatica, l’importanza pratica rivestita ed unanimemente riconosciutale. A partire dalla metà degli anni 70, la problematiche legate all’ambiente hanno cominciato ad affacciarsi sullo scenario comunitario e poi su quello nazionale, occupando, gradualmente, una posizione di sempre maggiore centralità, diventando 131 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 impellente l’esigenza di conferire un significato univoco ed esatto al termine ambiente, al fine di assicurare un’applicazione omogenea ed uniforme della relativa disciplina1. Le stesse motivazioni e l’identico o forse maggiore livello di coinvolgimento e partecipazione hanno alimentato la querelle sulla nozione di rifiuto, la quale, al contrario di quella concernente l’ambiente, ad oggi ancora non ha trovato una definitiva collocazione concettuale, stagnando in una situazione di incertezza e confusione aggravata dalla discrasia che si registra tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale in merito ad essa, sia sotto il profilo legislativo che sotto quello giurisprudenziale. In generale, un contributo determinante, a fini chiarificatori, è provenuto dalla giurisprudenza, che ha profuso un notevole impegno nella risoluzione di spinose questioni interpretative riguardanti l’ambiente e nella elaborazione di criteri orientativi, di agevole ed immediata utilizzazione da parte di tutti gli operatori del diritto. Considerata, infatti, la genericità, l’indeterminatezza nella formulazione delle disposizioni e la polivalenza delle espressioni (Robert Delors e Francois Walter hanno evidenziato le difficoltà interpretative che riguardano l’ambiente, cui sono stati attribuiti, in occasione di alcuni studi condotti in Francia, ben 750 significati diversi)2, si è reso obbligatorio l’apporto della giurisprudenza, con risultati apprezzabili ed anzi appaganti relativamente alla questione nozionistica dell’ambiente. Al contrario, la nozione di rifiuto, nonostante i molteplici interventi della Corte di Giustizia Europea e della giurisprudenza nazionale, continua a costituire oggetto di pronunce giurisprudenziali e a dividere la giurisprudenza comunitaria da quella nazionale. Si registrano, ad oggi, infatti, con una certa frequenza, contrasti tra giudice comunitario e giudice nazionale, che impediscono di approdare ad una definitiva soluzione e di dirimere tutti i nodi interpretativi concernenti il concetto di “rifiuto”. Se, quindi, la giurisprudenza, attraverso un’eloquente e raffinata attività ermeneutica, è riuscita a colmare la lacuna legislativa segnalata a proposito della definizione 1 La doverosità di politiche ambientali si afferma, innanzitutto, in sede comunitaria, quando, a seguito di interventi modificativi e riformatori del Trattato di Roma del 1957, la questione ambientale finisce per occupare uno spazio significativo nell’ambito delle politiche comunitarie. Con l’Atto Unico Europeo del 1987, infatti, viene inserito nel Trattato un nuovo e autonomo titolo, specificamente dedicato alla tutela dell’ambiente (Art. 130 R,S,T poi diventati art. 174-176); con il trattato di Amsterdam del 1997, ulteriore valorizzazione riceve la tutela dell’ambiente. L’approvazione di 6 programmi d’azione da parte del Consiglio (dal 1973, a partire dal 1 programma d’azione) per l’attuazione delle politiche comunitarie in materia ambientale, è una evidente dimostrazione della crescente importanza assunta dall’ambiente. Per una sintesi breve ma efficace del percorso evolutivo della tutela ambientale a livello comunitario, v.di F. Marchello. M. Perrini, S. Serafini, Diritto dell’Ambiente, VII Ed., Napoli, Simone, 2007, 39 e ss. Sul punto c.fr anche B. Caravita, Diritto dell’ambiente, III ed., Bologna, Il Mulino, 2005, 71 e ss. 2 Il riferimento agli autori ed all’opera “Historie de l’envoirnment european” Presses Univ. De France, 2001 è in F. Marchello e A.A.V.V., op. cit 132 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 dell’espressione ambiente, affermandone, unanimemente, una nozione “unitaria e totalizzante”, comprensiva di tutte le risorse naturali e culturali3, sembra ancora lontana dal traguardo rispetto alla nozione di rifiuto. 2. I “rifiuti” nell’ordinamento comunitario tra disposizioni normative ed interventi interpretativi della Corte di Giustizia Europea. La disciplina sui rifiuti ha avuto, nel nostro ordinamento, vita particolarmente tormentata, per la difficoltà di coniugare esigenze contrapposte ovvero quelle della produzione, da un lato, e quelle della tutela dell’ambiente e della salute, dall’altro lato. Ne è derivata una normativa frastagliata, disorganica e confusa, caratterizzata, spesso, più dall’intenzione di risolvere le urgenze di determinate categorie di produttori di rifiuti che dallo scopo di offrire un sistema regolamentare nitido e completo. Personalismi e scopi egoistici hanno, quindi, guidato il legislatore nazionale sollecitandolo ad intervenire nella materia, che, al contrario, per la rilevanza delle questioni che ha da sempre intercettato, avrebbe meritato un assetto normativo più stabile, più ordinato e, soprattutto, volto ad un’effettiva protezione dell’ambiente. Nel settore dei rifiuti, l’ostinazione con cui il legislatore è intervenuto, al fine di sottrarre quante più sostanze possibili dal novero dei rifiuti4, sembra proprio non aver avuto eguali, pur essendosi l’attività legislativa ambientale, nel nostro Paese, connotata in tal senso; come attività, cioè, incapace di apprestare congegni veramente idonei a scongiurare i rischi per l’ambiente, mancando, storicamente, una cultura ambientale sensibile e matura. Proprio sulla nozione di rifiuto, si è, infatti, registrata (ed ancora si registra, a dire il vero) una certa disomogeneità tra normativa nazionale e normativa comunitaria, per la diversa portata con cui nazionale, infatti, ha essa è stata accolta nel nostro ordinamento. Il legislatore recepito più formalmente che sostanzialmente l’indirizzo comunitario, sposando una teoria restrittiva della nozione di rifiuto, inidonea, perciò 3 Ad. es:. Corte Costituzionale 28 maggio 1987, n. 210 “l’ambiente, quale bene unitario, comprende la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni naturali (aria, acqua, suolo e territorio e di tutte le sue componenti), l’esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso vivono allo stato attuale ed in definitiva la persona umana in tutte le sue estrinsecazioni” 4 Così L. Ramacci, La nuova disciplina dei rifiuti, Piacenza, la Tribuna, 2006, 17 e ss. 133 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 stesso, a soddisfare esigenze di salvaguardia dell’ambiente e di protezione della salute, sancite come prioritarie dal Trattato CE. Il quadro normativo per il trattamento dei rifiuti, a livello comunitario, è stato stabilito, innanzitutto ed in via principale, dalla direttiva comunitaria del 15 luglio 1975, la 75/442/CEE (poi modificata dalla direttiva del 18 marzo 1991, la 91/156/CEE), sostituita, di recente, dalla direttiva 2006/12/CE del 5 aprile 2006, ad oggi, principale riferimento normativo comunitario. La nuova direttiva, però, non ha stravolto l’impostazione della precedente, riproducendo, al contrario, il dispositivo e non introducendo, quindi, alcuna significativa innovazione5, almeno secondo quanto sostenuto da una parte degli interpreti. Essa è nata dall’esigenza di eliminare incertezze ed ambiguità della normativa sui rifiuti, fonte principale di divergenze nella interpretazione da uno Stato ad un altro, proponendosi, il legislatore comunitario, proprio l’obiettivo di chiarire la distinzione tra ciò che è rifiuto e ciò che rifiuto non è e di distinguere il recupero dallo smaltimento, sollevando, una volta e per sempre, la Corte di Giustizia da questo arduo compito, per anni al centro delle sue maggiori preoccupazioni. Un proposito innovativo, di certo, serpeggiava, nel disegno del legislatore comunitario ma pur sempre di tipo formale, ovvero finalizzato alla razionalizzazione, alla semplificazione, al riordino della normativa e non di tipo sostanziale, non essendo stata, in alcun modo, palesata l’intenzione di rompere con la tradizione normativa pregressa, la quale ha plasmato la nozione di rifiuto su criteri oggettivi, rifuggendo da ogni impostazione di tipo personalistico e soggettivistico. Al di là di una sostituzione, intesa come meramente lessicale, nessun cambiamento apprezzabile ha riguardato la nozione di “rifiuto”, nessuno che si ponga in rotta di collisione con gli indirizzi consolidatisi nella Comunità Europea, almeno secondo la interpretazione corrente fino ad oggi sostenuta. Con questo lavoro, si intende tracciare l’orientamento formatosi in sede comunitaria relativamente alla nozione di rifiuto, per evidenziare la frattura con 5 Nella nuova direttiva l’epressione “abbia deciso” è sostituita dall’espressione “abbia l’intenzione”. Così recita l’articolo 1, comma 1, lettera a della direttiva 2006/12/CE rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate all’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l’obbligo o abbia l’intenzione di disfarsi. Potrebbe, di certo, attribuirsi alla sostituzione una valenza anche sostanziale e non solo lessicale, in quanto a voler interpretare letteralmente si dovrebbe aver rifiuto già quando il detentore abbia solo mostrato l’intenzione di disfarsi, quando abbia solo espresso un proposito, che ben potrebbe non essere accompagnato da una volontà concreta di realizzarlo, con una conseguente dilatazione del concetto di rifiuto. Resta chiaro, comunque, anche a voler accogliere una interpretazione letterale delle espressioni utilizzate (criterio non da tutti privilegiato) che il legislatore comunitario va a confermare l’indirizzo formatosi in sede comunitaria relativamente alla nozione di rifiuto, proponendo una nozione ancora più ampia e giammai restrittiva. V.di, a tal proposito, il commento di V. Vattani, Pubblicata in Gazzetta la nuova direttiva comunitaria sui rifiuti che va a sostituire la precedente direttiva 75/442/CE. Apportate modifiche alla nozione di rifiuto, in www.dirittoambiente.com, 2 maggio 2006. 134 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 l’ordinamento nazionale, a riprova che il settore ambientale sembra proprio essere il prescelto dall’ordinamento nazionale per violare la normativa comunitaria e per non allinearsi alle posizioni della Corte di Giustizia Europea6. La direttiva 75/442/ CEE (il richiamo ad essa non va considerato anacronistico, in quanto pur essendo di fatto superata dalla direttiva del 2006, in realtà rivive nelle disposizioni di quest’ultima) è stata, da sempre, letta alla luce delle interpretazioni fornite dalla Corte di Giustizia Europea. L’articolo 1 della direttiva ha definito “rifiuto” qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate all’Allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di difarsi”. L’allegato ha precisato tale definizione attraverso un elenco di sostanze o di oggetti qualificabili come rifiuti, al quale è stato riconosciuto un valore indicativo, discendendo la qualifica del rifiuto, innanzitutto, dal comportamento del “detentore” e dal significato dell’espressione “disfarsi”. I termini “detentore” e “disfarsi”, quindi, hanno delimitato l’ambito operativo della normativa e sono stati interpretati secondo i criteri forniti dalla Corte di Giustizia Europea, la quale ha prediletto una nozione “oggettiva” di rifiuto, fondata su una valutazione obiettiva della condotta del detentore o di un obbligo cui lo stesso è tenuto. Nella nota sentenza Niselli (Corte di Giustizia 11 novembre 2004, C-457/02), si è fatto obbligo di interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto, per ridurre i danni inerenti alla loro natura; già prima,con la sentenza Palint Granit (Corte di Giustizia 18 aprile 2002, C 9/00, ove si precisa che i detriti provenienti dall’attività estrattiva di una cava di granito, che non si configurano come produzione principale ricercata mediante tale sfruttamento, rientrano, in via principale, nella categoria dei rifiuti) sono stati indicati i criteri elaborati per interpretare il verbo “disfarsi”7. Esso, ha sostenuto la Corte, va letto alla luce delle finalità della normativa comunitaria ovvero nell’ottica di tutela della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito di rifiuti in attuazione dei principi di precauzione e di prevenzione8. Le affermazioni contenute nella sentenza Palint Graint sono apparse ambigue e hanno suscitato, infatti, in un primo momento polemiche e dubbi circa l’esatta portata del termine rifiuto. 6 V.di, a tal proposito, A. Gratani, L’ambiente: il settore prescelto dall’ordinamento italiano per violare la normativa comunitaria, in Riv. Giur. Amb., 2/2007, 289 e ss., v.di A. M. Camerani, La Commissione procede nei confronti dell’Italia per alcune violazioni della normativa ambientale, in Amb. e Sviluppo, 3/2007, 197 e ss., ove si passano in rassegna cinque procedimenti di infrazione intrapresi nei confronti dell’Italia dalla Commissione, tutti riguardanti la violazione della normativa comunitaria per la protezione dell’ambiente e della salute umana. 7 Nel senso che il termine disfarsi e la nozione rifiuto devono essere interpretati estensivamente, anche Corte di Giustizia Europea, 15 giugno 2000, cause riunite C-418/97 e C-419/97, ARCO Chemie Nederland. 8 Cfr. L. Ramacci, op. cit., 43 e ss. 135 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 D’obbligo, nella ricostruzione della vicenda è il passaggio sulla categoria giuridica del “sottoprodotto”, categoria coniata dalla Corte di Giustizia Europea, nell’intento di meglio decifrare l’espressione “rifiuto”. Esso compare, per la prima volta, nella sentenza Palint Graint e riceve tale definizione un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinata a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale l’impresa non ha intenzione di disfarsi, ai sensi dell’articolo 1, lettera a, 1 comma della direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni ad essa favorevoli, in un processo successivo, e sempre che tale riutilizzo sia certo, non richieda trasformazioni preliminari e intervenga nel corso del processo di produzione o di utilizzazione. Il contrasto interpretativo è sorto dalla indeterminatezza del pensiero espresso dalla Corte, ricavato da due passaggi importanti della sentenza, in cui la stessa, pur riferendosi ad un concetto, ha utilizzato espressioni diverse, giustificando una lettura ora restrittiva ora estensiva. Essa, infatti, prima ha adoperato l’espressione nel corso del processo di produzione, avallando un’interpretazione restrittiva, perché alludente al solo ciclo tecnologico da cui proviene il residuo; in seguito, poi, ha adottato l’espressione in un processo successivo, a favore di una più estensiva lettura. La questione ha ruotato intorno ad un punto ben preciso: cosa intendere per processo produttivo, al fine di sottrarre dal novero dei rifiuti determinate sostanze. L’ambiguità della Palint è stata superata alla luce di altri brani della medesima sentenza che hanno optato per un’interpretazione restrittiva del processo produttivo, intendendolo come medesimo processo di produzione. La questione è approdata, comunque, ad una definitiva sistemazione teorica in Corte di Giustizia 8 settembre 2005, causa C 416/02, ove, in maniera inconfutabile, si è considerato riutilizzo solo quello effettuato nell’ambito del ciclo produttivo di origine9. Chiarita la portata del sottoprodotto ed individuate le condizioni della sua configurabilità, la Corte ha espressamente dichiarato, in più di un’occasione, che il fatto che una sostanza o un oggetto siano suscettibili di riutilizzazione 9 C.fr V. Paone, I rifiuti tra presente e futuro, nota a Cassazione, ord., 14 dicembre 2005, Rubino e sentenza 14 aprile 2005, Colli, in Foro Italiano, 4/2006, 214 e ss. Altra questione, di indubbia importanza al fine di un’esatta ricostruzione della vicenda, è quella relativa alla distinzione tra recupero e smaltimento. Il recupero, e questo va sottolineato, pur distinguendosi dallo smaltimento va riferito sempre e comunque ai rifiuti, come evidenziato da G. Garzia., La nozione giuridica del “recupero” dei rifiuti: il quadro vigente e le prospettive di riforma, in Ambiente e Sviluppo, 1/2008; 34 e ss, le sostanze utilizzate mantengono la qualificazione giuridica di rifuto fino al momento in cui il processo di recupero non è del tutto terminato. 136 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 economica non valeva ad escludere necessariamente la loro natura di rifiuto, essendo indispensabile a tal fine: • un riutilizzo certo e non eventuale; • riutilizzo non preceduto da trasformazione preliminare ovvero da una modificazione di carattere chimico o merceologico; • riutilizzo nell’ambito dello stesso processo produttivo. 3.1 La nozione di “rifiuto” nell’ordinamento nazionale: dal D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915 all’articolo 14 della l. 8 agosto 2002 n. 178 (interpretazione autentica della definizione di rifiuto, di cui all’articolo 6 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 – Decreto Ronchi). Primo intervento significativo nel settore dei rifiuti risale al D.P.R. 10 settembre 1982 n. 915, con il quale il legislatore italiano recepisce le tre direttive comunitarie di base sui rifiuti: la 442 del 15 luglio 1975 (sui rifiuti in generale), la 76/403 (sullo smaltimento dei policlorodifenili e policlorotrifenili) e la 319 del 20 marzo 1978 (sui rifiuti tossici e pericolosi). Si inaugura, da questo momento, una fervida attività interpretativa che porta in sé i segni evidenti di contrasti tra regolamentazione comunitaria e disciplina nazionale. L’articolo 2 del D.P.R. non riproduca fedelmente il testo delle direttive, sollevando problemi di coordinamento con le disposizioni in esso contenute e prestandosi a non univoche interpretazioni. Definendo, infatti, rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto derivante da attività umane e da cicli naturali, abbandonato o destinato all’abbandono”, crea una frattura concettuale con la disciplina comunitaria, affiancando al criterio oggettivo uno soggettivo che sembra assumere ruolo principale e determinante nell’attività ermeneutica. Con l’espressione destinato all’abbandono viene inserito accanto ad un parametro di valutazione oggettivo, privilegiato in sede comunitaria, uno di tipo squisitamente soggettivo, che affida alla volontà del detentore il destino di una sostanza o di un oggetto10. Sorge, quindi, una contrapposizione tra disciplina comunitaria e disciplina nazionale e si formano due correnti di pensiero in seno alla stessa dottrina: 10 Illustra in maniera chiara e puntuale il dibattito sulla nozione di rifiuto sorto tra oggettivisti e soggettivisti, M.G.Mancini, La nozione di rifiuto, I Rifiuti – Legislazione Comunitaria e Legislazione Italiana – a cura di A. Mazzetti, Giuffrè, 1992 – Quaderni della Rivista Giuridica dell’Ambiente, 5, 89 e ss. 137 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 parte di essa si rende promotrice e fautrice della teoria soggettiva, altra minoritaria difende la teoria oggettiva. Mentre la prima esalta l’importanza del processo volitivo, la seconda, nell’ottica di una effettiva garanzia della salute e dell’ambiente, considera rifiuto quella sostanza non più utilizzabile, misurando l’utilizzabilità con il criterio della continuità. Esclude dal novero dei rifiuti, perciò, solo il sottoprodotto o il materiale riciclato all’interno dello stesso insediamento produttivo che lo genera, in conformità agli insegnamenti della Corte di Giustizia Europea. E’ l’utilità che la sostanza conserva per chi la detiene a dover determinare la sua qualificazione giuridica e non l’intenzione del detentore-produttore non potendosi ancorare alla sua intima ed insondabile volontà la sorte della sostanza11. La complessa vicenda si avvia ad assumere connotati più nitidi, almeno apparentemente, con l’ entrata in vigore del c.d. Decreto Ronchi (d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22), di attuazione di tre direttive comunitarie, la n. 91/156/CEE sui rifiuti, la n. 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e la 94/62/CEE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio, che, eliminando buona parte della normativa esistente, scolpisce una diversa nozione di rifiuto, su modello di quella comunitaria; perviene ad una combinazione di criterio oggettivo e criterio soggettivo, che, però, non situa al centro della scena quest’ultimo, come in precedenza. L’articolo 6 del decreto Ronchi così recita “rifiuto è qualsiasi sostanza od oggetto, che rientra nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”, imponendo, di conseguenza, all’interprete una duplice valutazione: verificare l’appartenenza all’allegato e sondare la volontà del detentore. Con il Decreto Ronchi, tra l’altro, il legislatore, a differenza del passato, esalta la potenzialità merceologica del rifiuto, non concependolo più solo nell’ottica negativa, cioè quale scarto da smaltire, bensì valorizzando la ricchezza che può offrire, prevedendo come alternativa allo smaltimento il recupero. Il Ronchi sembra inserirsi nel solco interpretativo tracciato dalla Corte, sia per l’accezione positiva che conferisce al rifiuto, sia perché più propenso ad accogliere una nozione meno restrittiva del rifiuto, non delimitabile solo in base ad elementi psicologici e soggettivi ma dall’innesto di più fattori concomitanti. I dibattiti continuano nei loro toni 11 In molte decisioni si evidenziato che la nozione di rifiuto, vuoi per il dritto nazionale vuoi per il diritto comunitario, non può dipendere dalla sola volontà del soggetto di riutilizzare o meno il materiale, ma è necessario che la destinazione emerga da elementi oggettivi, concretamente riscontrabili e forniti dalla parte di chi li adduce; in questo senso Cassazione 5 aprile, n.16879, Chiovolone; Cassazione 7 aprile 2005, n. 18195, Conoscenti, inedita; Cass. 5 aprile 2005, n. 16613, Coppetta, inedita; Cassazione 14 gennaio 2005, n. 5472, Capone, inedita; Cass. 22 marzo 2005, n. 17621, Barone, inedita. In altre pronunce, la Cassazione sembra non conformarsi all’indirizzo comunitario, escludendo per molte sostanze la qualificazione giuridica di rifiuto; vedi Cass. 27 ottobre 2004, Sollo; Cass. 10 febbraio 2005, Montanaro, Cass. 19 aprile 2005, n.18229, Toriello, inedita. Queste pronunce sostengono la tesi per cui una sostanza residuale che possegga tutte le caratteristiche di una materia prima e possa essere reimpiegata in un nuovo processo produttivo, non sarebbe rifiuto. 138 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 accesi tanto da spingere il legislatore ad intervenire per chiarire, con esattezza e puntualità, le espressioni adottate dal Decreto Ronchi e garantire un’applicazione uniforme ed omogenea della normativa, scongiurando il rischio di un’attuazione diversificata in ragione della diversa accezione ermeneutica scelta di volta in volta. Il legislatore mostra una certa sensibilità alla problematica, affidando ad un’apposita disposizione normativa, l’articolo 14, contenuta nella l. 8 agosto 2002, n. 178, di conversione del d.l 8 luglio 2002, n. 138, (recante interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate) la sua risoluzione, perpetrando, però, una grave violazione dello spirito della normativa ambientale comunitaria. Per “disfarsi”, secondo l’articolo 14, deve intendersi qualsiasi comportamento attraverso il quale, in modo diretto o indiretto, una sostanza è avviata o sottoposta ad attività di smaltimento o recupero, secondo gli allegati B e C del Ronchi; per “abbai deciso di disfarsi” la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento o recupero, secondo gli allegati B e C del Ronchi, sostanze o materiali; per “abbia l’obbligo”l’obbligo di avviare un materiale ad operazioni di recupero o smaltimento stabilito da legge, da provvedimento o imposto dalla natura stessa del materiale, dalle sostanze o dal fatto che i medesimi siano compresi nell’elenco rifiuti pericolosi di cui all’allegato D del Ronchi. Si esclude l’integrazione delle fattispecie di cui alle lettere b e c del comma 1 per beni o sostanze e materiali residuali di produzioni o di consumo, alla condizione che essi siano oggettivamente utilizzati senza subire alcun intervento preventivo ed altresì le si esclude quando, pur in presenza di un trattamento preventivo, non si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle di cui all’allegato C del Ronchi. Dalla Commissione UE, nell’ottobre 2002, parte una procedura di infrazione contro l’Italia, per il generato contrasto, originato dalla disposizione testè citata, con la normativa europea e con la giurisprudenza comunitaria, in totale dispregio e compromissione dei valori ambientali, prioritari nell’ambito delle politiche comunitarie. La Commissione Europea, nell’articolo 14, intravede un chiara violazione della normativa comunitaria ed un’abile escamotage per sottrarre aziende, industrie e quanti altri alle regole imposte dalla disciplina sui rifiuti a difesa dell’ambiente. Subordinando, infatti, la qualificazione giuridica di rifiuto alle sole operazioni di smaltimento o di recupero, escludendo i casi di riutilizzo anche a seguito di processi di trasformazione preliminare, si presta il fianco ad un’elusione vera e propria della normativa, restringendo, in maniera ingiustificata, l’ambito operativo della disciplina. Si ha residuo e non rifiuto quando si garantisce una riutilizzazione tal quale dello stesso, senza necessità di alcun tipo di 139 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 trattamento (dal più elementare al più complesso). Desta allarme l’intervento del legislatore nazionale attuato con l’articolo 14, in quanto tradisce i principi sanciti a livello comunitario, i quali distinguono il “riutilizzo diretto”dal “recupero”: il primo si riferisce al residuo, il secondo al rifiuto. Con l’articolo 14, insomma, si realizza una dilatazione della categoria dei residui, ricomprendendosi al suo interno non solo le ipotesi di una sostanza riutilizzata nello stesso o in un altro processo produttivo o di consumo, senza sottoposizione ad alcun trattamento preventivo ma anche l’ipotesi di riutilizzazione a seguito di un “trattamento preventivo” senza la sottoposizione ad alcuna operazione di recupero12. Quello spirito anticomunitario, volto alla compressione dell’ambito operativo delle normativa sui rifiuti, che nella “’interpretazione autentica” fornita dall’articolo 14 d.l. 8 luglio 2002 n. 138, convertito in legge 8 agosto 2002 n. 178, trova la sua adeguata collocazione, sembra rivivere nel disegno di legge delega in materia ambientale approvato a soli quattordici giorni dalla pubblicazione della sentenza Niselli della Corte di Giustizia Europea (Sez. II, 11 novembre 2004, C – 457/02), che sconfessa quella interpretazione autentica. Il disegno di legge in materia ambientale contiene tutta una serie di disposizioni di diretta ed immediata applicazione in materia di rifiuti, il cui comma 26 dell’articolo 1 esordisce “Fermo restando quanto disposto dall’articolo 14 del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito in l…”; è fatto salvo proprio l’articolo dichiarato, dalla Corte di Giustizia Europea, contrastante con la normativa comunitaria. 3.1 Legge delega in materia ambientale e il d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 sulla stessa scia dell’articolo 14: il tentativo del “non rifiuto” non si ferma neanche dopo la bocciatura dell’articolo 14 della l. 8 agosto 2002 n. 178. La legge delega 308 del 15 dicembre 2004, recante disposizioni per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione si propone, teoricamente, l’ambizioso quanto auspicato obiettivo di razionalizzare, risistemare e semplificare la normativa ambientale, in sintonia con i 12 Di fronte all’articolo 14, non si è registrata unanimità di posizioni nella giurisprudenza nazionale. La tendenza maggioritaria era a restringere al massimo il ricorso all’articolo 14, pur non mancando un atteggiamento opposto in alcune sentenze della 3 sezione penale della Cassazione. V.di, a tal proposito, G. Amendola, Rifiuto: non era autentica l’interpretazione italiana, nota a sentenza Corte di Giustizia Europea 11 novembre 2004, causa C-457/02, in Foro Italiano, 1/2005, Parte Quarta, 17 ess. Sulla questione, consulta anche V. Paone, La nozione di rifiuto tra diritto comunitario e diritto penale, in Foro Italiano, 1/2005, Parte Quarta, 19 e ss. 140 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 principi comunitari. Concretamente, essa non realizza tale risultato ma va, anzi, a creare ulteriori occasioni di polemiche e scontri tra gli interpreti per le anomalie e le contraddizioni che porta in sé. La scelta di una legge delega per attuare una riforma così importante, la portata della delega stessa, che per la genericità ed indeterminatezza dei criteri è stata bollata come delega in bianco, l’ampiezza della stessa, l’inserimento di disposizioni attuative in materie tanto disparate hanno fatto elevato un coro di polemiche, i cui toni si sono accentuati e non placati con l’entrata in vigore del decreto legislativo di attuazione della delega, il d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale. Non è questa la sede più adatta per soffermarsi sulle ambiguità con cui si è pervenuti alla redazione del testo unico ambientale, per approfondire i tanti motivi di dissenso manifestati da varie associazioni ambientaliste, le argomentazioni poste a base dei giudizi espressi dalla Conferenza delle Regioni, la quale ha lamentato l’inosservanza dello spirito di “leale collaborazione” che avrebbe dovuto permeare tutti i lavori e le attività strumentali all’adozione del testo unico. Oggetto della disamina è, infatti, la nozione di rifiuto e tutte le modifiche apportate, la nozione di sottoprodotto13, complementare a quella di rifiuto, come banco di prova di un atteggiamento di contrasto assunto dal legislatore nazionale nei confronti della disciplina comunitaria e dei principicardine in materia ambientale dettati a livello europeo. Si ripropongono in egual misura se non con qualche accentuazione in più le difficoltà interpretative che, già sotto la vigenza della vecchia normativa, ne hanno ostacolato la uniforme applicazione (la maggiore accentuazione delle difficoltà interpretative è dovuta alla introduzione dell’espressione sottoprodotto e all’ampio novero di casi di esenzione introdotti dal testo unico ambientale). In dispregio agli obiettivi sanciti ovvero la maggior chiarezza e precisione nella formulazione di norme, l’articolo 183 del testo unico ripropone una definizione di rifiuto, incentrata ancora una volta sul significato da attribuire al termine “disfarsi”, senza fornire criteri e regole per agevolare e rendere omogenea la relativa interpretazione. Le incertezze nella individuazione della nozione hanno lo stesso sapore di quelle emerse in precedenza, serpeggiando nel testo unico lo stesso intento che aveva supportato l’emanazione dell’articolo 14 d.l. 8 luglio 2002 n. 138, convertito in legge 8 agosto 2002 n. 178, ovvero ampliare l’elenco delle sostanze da sottrarre alla categoria dei rifiuti, calpestando e mortificando obiettivi e propositi della legislazione comunitaria. Il 13 Cfr. L. Ramacci, op. cit, 20 e ss. 141 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 legislatore nazionale, oltre a disattendere, con il testo unico, i criteri elaborati dalla giurisprudenza comunitaria, mostra di non volersi allineare a quel filone della giurisprudenza nazionale schierato dalla parte dei giudici comunitari (es:. Cass. Pen., Sez. III, 14 aprile 2005, n. 746, Colli; Cass. Sez. III penale, 4 novembre 2005, n. 01180/2005, Zuffellato), secondo il quale la nozione di rifiuto va interpretata in sintonia con la normativa europea. Nella sentenza Colli della III sezione penale, la Cassazione sostiene la doverosità di una interpretazione estensiva della nozione di rifiuto, essendo la stessa indicata, dalla Corte di Giustizia Europea, quale chiave unica di lettura della normativa comunitaria. Quando una sentenza della Corte di Giustizia Europea interviene per precisare il significato di una disposizione, lo fa autoritariamente, come riconosciuto anche dalla nostra Corte Costituzionale, e non può e non deve essere ignorata o contraddetta dagli Stati membri. Secondo la Cassazione, quindi, un residuo di produzione può essere escluso dalla disciplina dei rifiuti solo se coincide con il sottoprodotto, cioè solo se trattasi di situazioni in cui il riutilizzo del residuo sia certo, senza trasformazione preliminare e nel corso del processo di produzione14, senza recare pregiudizio all’ambiente15. L’impianto normativo costruito dal legislatore nazionale sembra essere fedele proprio a quei principi e criteri tanto stigmatizzati a livello comunitario e da buona parte della giurisprudenza nazionale, in un’ottica di restrizione dell’ambito operativo della normativa sui rifiuti. Al centro di dissidi, stavolta, non si situa solo la portata dell’espressione disfarsi, ma la stessa nozione di “sottoprodotto”16, di “materia prima secondaria”, di “combustile”, insomma tutte le formule utilizzate dal legislatore per sottrarre i rifiuti, soprattutto quelli industriali, alla relativa disciplina. Secondo la definizione ex articolo 183, lett. n, sono sottoprodotti quelli dell’attività d’impresa che, pur non costituendo oggetto dell’attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell’impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo. La norma specifica che tra i sottoprodotti sottratti alle disposizioni sui rifiuti rientrano anche le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro…ecc, suscitando non poche 14 A questo proposito resta un punto da chiarire. La Corte Europea richiede, per il sottoprodotto, il riutilizzo nello stesso processo di produzione, mentre la Cassazione, pur riportando fedelmente il pensiero della Corte Europea, lascia aperta la possibilità che esso possa intendersi come processo produttivo diverso. 15 Il contenuto della sentenza è brevemente sintetizzato da G. Amendola, Anche la Cassazione disapplica la famigerata interpretazione autentica della nozione di rifiuto? in Diritto all’ambiente, www. dirittoambiente.com. 16 Sulle caratteristiche della nuova categoria di “sottoprodotto” si è soffermata anche parte delle giurisprudenza nazionale, aderendo all’impostazione comunitaria ; a tal proposito, v.di Corte di Cassazione, Sez. III penale, 11/04/2007, n. 14557; da ultimo v.di anche Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, 21 gennaio 2008, sentenza n. 2 che, applicando principi e criteri ermeneutici forniti dalla giurisprudenza comunitaria, qualifica quali rifiuti le vinacce residuate dalla vinificazione. 142 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 perplessità per la sottrazione di alcune sostanze dalla disciplina sui rifiuti, avvenuta con tanta disinvoltura, aprioristicamente ed in assenza di un’analisi concreta (come vuole la Corte di Giustizia Europea). La genericità nella formulazione della disposizione sul sottoprodotto e la qualificazione in tal senso di alcuni sostanze costituiscono i due aspetti nodali della questione, i quali, segnalati a più riprese da parte della dottrina e da quella giurisprudenza rivisitazione. uniformata ai giudici comunitari, necessitano di un’opportuna Il d.lgs. 152/2006 non testimonia, di certo, il momento di svolta nella vicenda normativa ambientale, né da un punto di vista formale, in quanto non acquisisce linearità e coerenza l’impianto normativo, né da un punto di vista sostanziale, non risultando lo stesso conforme a quello comunitario. La valanga di critiche e polemiche da cui è travolto il testo unico ambientale ne impone una revisione attraverso decreti correttivi predisposti dal Governo e adottati, però, con un ritardo notevole. Il primo decreto correttivo ed integrativo del c.d. Codice dell’ambiente, d.lgs. 8 novembre 2006, n. 284, non introduce alcuna significativa innovazione17; con il secondo decreto correttivo, d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, entrato in vigore lo scorso 13 febbraio, si realizza, almeno parzialmente, quell’opera di assestamento tanto auspicata ma che rappresenta solo una tappa del processo riformatore della disciplina dell’ambiente. Novità interessanti riguardano la prima parte del testo unico, la disciplina sulle acque (parte terza), la disciplina sui rifiuti (parte quarta); relativamente a quest’ ultimo aspetto, vengono introdotti i principi previsti dal Trattato UE in materia di tutela ambientale, tra cui quello di gerarchia nella gestione dei rifiuti, viene riformata la nozione di sottoprodotto e materie e prodotti secondari; sono precisate le modalità di riutilizzo delle terre e rocce da scavo. Viene inserito un articolo ad hoc sulle materie prime secondarie ovvero quelle materie, sostanze o prodotti secondari da individuarsi con decreto ministeriale, non ascrivibili alla categoria dei rifiuti. Interessante appare anche la definizione di sottoprodotto, maggiormente aderente a quella elaborata in sede comunitaria ed articolata in maniera più puntuale e dettagliata, in modo da garantire il rispetto dei canoni interpretativi dettati dalla normativa comunitaria. Sono fissate, a tal fine, le condizioni da rispettare : 1) impiego certo della sostanza e direttamente nel corso del processo di produzione o di utilizzazione preventivamente individuato e definito, 2) 17 Il primo decreto correttivo modifica gli articoli 59, 160, 170 e 224 del testo unico ambientale. Oltre a questi cinque articoli, le uniche modifiche intervenute fino al secondo decreto correttivo sono l’effetto di altri provvedimenti legislativi, come ad esempio la legge 12 luglio 2006, n. 228, il d.l. 262 del 3 ottobre 2006, conv. in legge 286 del 24 novembre 2006, la legge 296 del 27 dicembre 2006 che abroga il comma 6 dell’articolo 229 in materia di cdr e pochi altri. 143 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 verifica dei requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non di luogo ad emissioni e impatti diversi da quelli autorizzati per l’impianto dove sono destinati ad essere utilizzati, 3) nessuna sottoposizione a trattamenti preventivi o di trasformazione preliminare, 4) valore di mercato18. Un segnale di cambiamento è stato lanciato ma il cammino è ancora lungo e arduo. 4. Corte di Giustizia Europea, Sez. III, 18 dicembre 2007, Causa C-194/05: nessuna norma può escludere, a priori ed in via generale, le terre e rocce da scavo dal novero dei rifiuti. Un altro caso di incompatibilità tra legislazione nazionale e normativa comunitaria. Le tre pronunce della Corte di Giustizia della Comunità Europea del 18 dicembre 2007 (C- 194/05, C-195/05 e C-263/05) confermano l’adesione della giurisprudenza comunitaria all’indirizzo ormai consolidatosi in materia di rifiuti19 e l’accoglimento, quindi, dei criteri ermeneutici elaborati per distinguere rifiuti da sottoprodotti. Ancora una volta, la Corte di Giustizia è costretta ad intervenire per richiamare l’Italia all’osservanza della normativa comunitaria adottata nel settore ambientale e all’obbligo, ex articolo 174 del Trattato CEE, dell’elevato standard di tutela ambientale. Adducendo le argomentazioni costantemente sostenute, la Corte censura gli articoli 10 della legge 23 marzo 2001, n. 93, recante disposizioni in campo ambientale e l’articolo 1, commi 17 e 19 della legge 21 dicembre 2001, n. 443, recante delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive, segnalandone la difformità con la direttiva comunitaria 75/442 CEE, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE. In pari data, con le sentenze C-195/05 e C-263/05, condanna l’Italia per aver violato la medesima direttiva, escludendo dalla nozione di rifiuto gli scarti alimentari 18 Sul secondo decreto correttivo del testo unico ambientale, cfr. S. Maglia, Alcune considerazioni in merito al secondo decreto correttivo del testo unico ambientale, in Amb. e Sviluppo 11/2007, 969 e ss. 19 Sulla nozione di rifiuto, sui criteri distintivi, sul fatto che una sostanza non può essere esclusa automaticamente dalla categoria dei rifiuto solo perché suscettibile di riutilizzazione economica, tra le altre, v.di Corte di Giustizia della Comunità Europea, 25 giugno 1997, cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94, C225/95); Corte di Giustizia della Comunità Europea, 18 dicembre 1997, C-129/96; Corte di Giustizia della Comunità Europea, 15 giugno 2000, C-418/97 e C-419/97; Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 8 settembre 2005, C-121/2003. 144 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 destinati alla produzione di mangimi e, in generale, quei residui di produzione che possono essere riutilizzati. Ci soffermeremo, in questa sede, sulla prima pronuncia, la quale desta particolare interesse per la spinosa questione trattata ovvero quella della qualificazione giuridica delle terre e delle rocce da scavo e dei criteri utilizzabili per dirimere i relativi dubbi interpretativi. L’atteggiamento del legislatore nazionale, come opportunamente evidenziato dalla Corte di Giustizia, è fortemente contrastante con lo spirito che pervade la normativa comunitaria e con gli obiettivi che guidano l’attività ermeneutica della giurisprudenza comunitaria, attenta alle esigenze di tutela ambientale e, quindi, favorevole ad un’interpretazione ampia della nozione di rifiuto. Il sistema normativo comunitario non esclude le terre e rocce da scavo a priori ed in via generale dal novero dei rifiuti, operando una presunzione che, al contrario, fa figurare queste sostanze come rifiuti, in ossequio alla tradizione legislativa e giurisprudenziale spiccatamente orientata alla salvaguardia dell’ambiente, quale valore fondante dell’ordinamento comunitario. A livello nazionale, al contrario, il regime di presunzioni è costruito in senso inverso, escludendo dalla categoria dei rifiuti terre e rocce da scavo, nell’errata convinzione che i residui, in quanto materiali recuperabili, si sottraggono, perciò solo, alla qualificazione giuridica dei rifiuti e quindi alla disciplina dettata per il trasporto e la gestione20. Per come organizzato, strutturato ed interpretato, l’impianto normativo nazionale sembra fondarsi su un sistema di automatiche presunzioni di esclusioni in materia di terre e rocce da scavo, causa di effetti nocivi e pregiudizievoli per l’ambiente in misura anche irreparabile. Dal confronto tra normativa comunitaria e normativa nazionale, è agevole evincere la dissonanza dell’una rispetto all’altra, emergendo, in modo palese, la diversità di obiettivi che animano i due ordinamenti e i diversi, contrapposti, parametri di valutazione adoperati per individuare rifiuti e sottoprodotti. La Commissione, conformemente all’articolo 1 della direttiva 75/442/CEE, adotta una decisione che istituisce un elenco di rifiuti, denominato catalogo europeo dei rifiuti. Tale catalogo, più volte rinnovato in forza di successive decisioni della Commissione ( la prima modifica si è avuta con decisione 3 maggio 2000, 200/532/CE ; l’ultima avvenuta con decisione del 21 luglio 2001, 2001/573/CE) contiene una sezione 17 05, intitolata terra, rocce e fanghi di 20 G. Pizzolante, La possibilità di un nuovo uso dei materiali va dimostrata nella singola circostanza, commento alla sentenza della Corte di Giustizia Europea, 18 dicembre 2007, Causa C-194/05, in Guida al Diritto, 4/2008; 106 e ss. 145 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 dragaggio, nell’ambito della quale figurano le rubriche 17 05 03 terre e rocce contenenti sostanze pericolose e 17 05 04 terre e rocce diverse da quelle di cui alla voce 17 05 03. La normativa italiana, in totale dispregio di quella comunitaria, con l’articolo 8 del d.lgs. 22/1997, esclude dal suo campo di applicazione determinate sostanze e materiali, in quanto disciplinati da altre specifiche disposizioni di legge. Il punto b dell’articolo indica i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall’estrazione, dal trattamento, dall’ammasso di risorse naturali e dallo sfruttamento di cave. All’elenco si aggiungono i materiali introdotti dall’articolo 10 della legge 93/2001 (f-bis) terre e rocce da scavo destinate all’effettivo utilizzo per i reinterri, riempimenti, rilevanti e macinati, con esclusione di materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabilita dalle norme rifiuti. Lo scopo di un ambito operativo sempre maggiormente ridotto della normativa sui rifiuti si palesa in tutta la sua intensità con l’articolo 1, comma 17, della legge 443/2001, che offrendo una chiave di lettura dell’articolo 8, comma 1, lettera f-bis del Decreto Ronchi, determina un’automatica fuoriuscita di terre e rocce da scavo dalla categoria dei rifiuti. Secondo quanto disposto da detta disposizione, l’articolo 8, comma 1, lett. f-bis deve essere interpretato nel senso che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, perciò, escluse dall’ambito di applicazione del medesimo decreto legislativo, anche quando contaminate durante il ciclo produttivo da sostanze inquinanti derivanti dalla attività di escavazione, perforazione e costruzione, semprechè la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti. Il comma 19 del medesimo articolo stabilisce, inoltre, che per i materiali di cui al comma 17 si intende per effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati anche la destinazione a differenti cicli di produzione industriale, ivi incluso il riempimento delle cave coltivate, nonché la ricollocazione in altro sito, a qualsiasi titolo autorizzata dall’autorità amministrativa competente, a condizione che siano rispettati i limiti di cui al comma 18 e la ricollocazione sia effettuata secondo modalità di rimodellazione ambientale del territorio interessato. Nonostante le modifiche a queste disposizioni apportate dal Governo italiano, la Commissione, ritenendo ancora persistente ed insuperabile il contrasto con la normativa comunitaria, avvia ricorso contro la Repubblica Italiana, richiamando l’attenzione, innanzitutto, sul catalogo europeo dei rifiuti al cui interno compaiono le terre e rocce da scavo e sui criteri ermeneutici elaborati dalla giurisprudenza comunitaria per qualificare una sostanza come rifiuto o meno. L’elenco dei rifiuti costituisce elemento utile per l’inquadramento giuridico di una 146 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 sostanza ma esso possiede valore puramente indicativo a tal fine, incentrandosi la questione sul comportamento del detentore e sul termine disfarsi. Uniformandosi pienamente all’indirizzo giurisprudenziale consolidato, questa Corte fonda la distinzione tra rifiuto e sottoprodotto sul riutilizzo certo, senza trasformazione preliminare e nel corso del processo di produzione21 o di utilizzazione, bocciando ogni disposizione normativa nazionale che, in via generale ed aprioristicamente, in assenza, cioè, di un’analisi condotta caso per caso, escluda terre e rocce da scavo dal novero dei rifiuti. Si ha sottoprodotto, secondo le conclusioni cui perviene questa Corte, quando il detentore non cerca di disfarsi della sostanza ma intende sfruttare o commercializzare a condizioni ad esso favorevoli, in un processo successivo, sempre che tale riutilizzo sia certo, non richieda trasformazioni preliminari ed intervenga nel processo di produzione o utilizzazione. L’elevato grado di probabilità del riutilizzo, senza trasformazione preliminare, costituisce un significativo indice di valutazione, secondo quanto espressamente chiarito dalla Corte, ed ove il detentore consegua un vantaggio economico nel farlo, la probabilità del riutilizzo aumenta. La pronuncia in esame è espressione di quella tendenza giurisprudenziale volta a garantire un’effettiva tutela dell’ambiente, sostenitrice di una nozione ampia di rifiuto, che, proprio per tal motivo, non può ammettere un’esclusione aprioristica di terre e rocce da scavo dal novero dei rifiuti. Il legislatore nazionale ha l’obbligo di rispettare la normativa comunitaria, di adeguarsi ad essa, di recepirla secondo la lettura che ne offre la giurisprudenza comunitaria; tal dovere avrebbe potuto assolvere con l’emanazione dei decreti correttivi del Codice dell’ambiente, riformando completamente la disciplina delle terre e rocce da scavo. In realtà le aspettative sono state deluse. Conclusioni 21 Sul punto G. Amendola, L’Italia conferma il suo primo posto nella classifica degli Stati inadempienti verso la normativa comunitaria sui rifiuti, in Diritto dell’ambiente, www.dirittoambiente.com, che chiarisce i dubbi originati da alcuni passaggi della sentenza relativamente al processo di produzione, che, per le espressioni utilizzate, sembrerebbe non per forza riferirsi allo stesso processo di produzione. In realtà, nota l’autore, presto possono essere dissipati i dubbi se solo si leggono le conclusioni dell’Avvocato generale presso la Corte Europea di Giustizia proprio riferite alle cause in esame. Si precisa, infatti, che è fondamentale che la sostanza venga riutilizzata dal detentore nello stesso processo di produzione. 147 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 L’anno 2007 si è chiuso con tre pronunce della Corte di Giustizia che dimostrano la persistente inosservanza dello Stato Italiano della normativa comunitaria nel settore ambientale. La questione affrontata dalla Corte nel caso di specie, ovvero quella delle terre e rocce da scavo, rappresenta nient’ altro che l’ennesima occasione per il legislatore nazionale per riproporre una nozione restrittiva di rifiuto ed una conseguente dilatazione di quella di sottoprodotto, mortificando l’impegno per anni profuso dal legislatore comunitario per affermare una nozione ampia di rifiuto. La contrapposizione tra le due correnti di pensiero non ha solo il sapore di una disquisizione teorica, non riveste solo un’importanza dogmatica, rilevando, al contrario, concretamente per gli effetti distorsivi che possono conseguire dall’accoglimento della teoria restrittiva. Essa mira a comprimere fortemente l’ambito operativo della disciplina sui rifiuti, sollevando una particolare categoria di soggetti (operanti nel settore industriale e produttivo) dall’osservanza di regole e norme poste a presidio dell’ambiente e della salute. Il legislatore nazionale mostra di strumentalizzare la categoria del sottoprodotto, coniata dalla giurisprudenza comunitaria per distinguere ciò che rifiuto è da ciò che effettivamente non lo è, per perseguire le finalità che da sempre, dall’adozione del D.P.R. 915/1982, plasmano i suoi interventi legislativi. La bocciatura da parte della Corte di Giustizia Europea dell’articolo 14 della l. 8 agosto 2002 n. 178, che fornisce un’interpretazione autentica della nozione di rifiuto contenuta nel Decreto Ronchi, non costituisce un deterrente per il legislatore nazionale, il quale continua imperterrito a non allinearsi ai parametri comunitari, come dimostrato dalla legge-delega 308/2004 e dal d.lgs. 152/2006, c.d. Codice dell’ambiente, di attuazione della delega. Immediatamente, il c.d. Codice dell’ambiente balza al centro di feroci polemiche per aver disatteso, con tutta evidenza, le aspettative di razionalizzazione e semplificazione della normativa e per non aver mostrato cenni di adesione ai principi comunitari. Si impone una revisione dello stesso, la quale, però, attuata con ritardo non colma le lacune del testo, non lo rinnova effettivamente, non lo adegua ai criteri elaborati in sede comunitaria nello specifico settore dell’ambiente. Mentre il primo decreto correttivo del Codice dell’ambiente non offre interessanti spunti di riflessione, non apportando alcuna significativa innovazione, il secondo decreto correttivo del Codice ambientale lancia un primo segnale di cambiamento relativamente alle terre e rocce da scavo; non opera, infatti, il nuovo articolo 186 un’esclusione automatica di esse dal novero dei rifiuti, prescrivendo, a tal fine, l’accertamento di fattori e condizioni che possano determinare una simile esclusione. 148 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Si auspica che a questo primo tentativo di modernizzazione della disciplina nazionale in senso più conforme a quella comunitaria, seguano altri necessari mutamenti, al fine di offrire un quadro normativo efficace e concretamente orientato a garantire elevati standards di tutela ambientale, come sancito dal Trattato CEE. 149 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 BIBLIOGRAFIA Amendola G, L’Italia conferma il suo primo posto nella classifica degli Stati inadempienti verso la normativa comunitaria sui rifiuti, in Diritto dell’ambiente, www.dirittoambiente.com Amendola G., Rifiuto: non era autentica l’interpretazione italiana, nota a sentenza Corte di Giustizia Europea 11 novembre 2004, causa C-457/02, in Foro Italiano, 1/2005, Parte Quarta; Amendola G., Anche la Cassazione disapplica la famigerata interpretazione autentica della nozione di rifiuto? in Diritto all’ambiente, www. dirittoambiente.com; Caravita B., Diritto dell’ambiente, III Ed., Bologna, Il Mulino, 2005; Camerani A. 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III penale, 11 aprile 2007, n. 14557; Corte di Cassazione, 19 aprile 2005, n.18229, Toriello, inedita; Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14 aprile 2005, Colli e altri; Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 8 settembre 2005, C 416/02; Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 8 settembre 2005, C-121/2003; Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 4 novembre 2005, Zuffellato; 151 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Corte di Cassazione, Sez. III penale, ordinanza 14 dicembre 2005, Rubino e altri; Corte di Cassazione, 5 aprile 2005, n. 16879, Chiovoloni, inedita, Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, 21 gennaio 2008, n.2. 152 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 P.JANNI, L’Occidente plurale. Gli Stati Uniti e l’Europa nel XXI secolo. Collana di Studi Diplomatici a cura del Circolo di Studi Diplomatici, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, pp.162, € 12. di Leonardo Saviano “L’Occidente esiste ancora, ma è tornato a essere plurale come era stato nel passato, salvo la parentesi 1941-1989. America ed Europa sono le due parti di uno stesso Occidente, ma in un rapporto ineguale, nel quale le ambizioni, gli interessi globali e la supremazia militare degli Stati Uniti contrastano con gli istinti postmoderni degli Europei”. Questo è l’assunto del volume intitolato L’Occidente plurale. Gli Stati Uniti e l’Europa nel XXI secolo che Paolo Janni ha pubblicato presso l’editore Rubbettino di Soveria Mannelli nella Collana di Studi Diplomatici a cura del Circolo di Studi Diplomatici valendosi per la sua impostazione della propria duplice esperienza di diplomatico di carriera al servizio della Repubblica Italiana ora di docente alla Catholic University of America di Washington. L’autore, nella stesura della sua opera, ricostruisce il cammino percorso dagli Stati Uniti nell’arco di tempo compreso fra la prima e la seconda guerra mondiale sino alla successiva crisi della società americana parallela alla differente esperienza vissuta dal vecchio Continente e illustra la parte avuta dall’America nel favorire con il piano Marshall il processo d’integrazione europea contemporaneo all’affermarsi della supremazia americana la quale ha finito con l’assumere caratteri imperiali. Egli passa in rassegna le novità introdotte dalla conclusione della guerra fredda e dal manifestarsi degli imprevisti rischi non convenzionali con il conseguente riorientamento della tradizionale politica estera americana nei confronti degli alleati europei e di tutto il mondo e delinea la rinnovata scena europea contraddistinta dall’allargamento e dalla tentata costituzionalizzazione dell’Unione, dalla massiccia immigrazione e dall’antiamericanismo arrivando a esaminare i mutamenti profondi della società americana e la diversa valutazione americana ed europea delle nuove minacce e dei correlati rimedi. L’esame prosegue con la disamina delle cause del clamoroso affermarsi del fattore religioso nelle relazioni internazionali grazie alla riscoperta di tale elemento essenziale all’origine delle rispettive culture così che lo scenario della politica mondiale si trova a essere dominato dal confronto tra Occidente e resto del mondo e dalla reazione 153 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 delle altre civiltà alle implicazioni culturali e religiose di quella occidentale, una volta tenuto conto della diversa percezione del fenomeno religioso da una sponda all’altra dell’Atlantico e della maggiore familiarità americana con il multietnismo e il multiculturalismo. Le incognite destinate a modificare l’ordine mondiale e l’equilibrio globale corrispondono per Paolo Janni all’emergenza dell’Asia e del Pacifico, allo sviluppo russo, alla situazione politica ed economica dell’Africa subsahariana, al non facile ammodernamento arabo, alle contraddizioni della globalizzazione e al problema del buongoverno giungendo fino alla diffusione delle armi nucleari. L’autore avverte anche del grave pericolo che corre l’Unione Europea di trasformarsi in una “organizzazione quadro” anziché sforzarsi di mantenersi come un organismo coeso dal punto di vista economico e politico capace di imporsi con la propria azione efficace nella politica estera e in quella militare intesa quale estrema risorsa. Dal suo complesso studio si evince, secondo il diplomatico e studioso italiano, la necessità della seguente presa d’atto: “Dopo la fine della guerra fredda, due correnti di pensiero continuano a dominare il dibattito sulla natura e sul contenuto che potrebbero avere le relazioni euroamericane nel futuro sconosciuto nel quale ci siamo inoltrati. La prima, proclama l’uguaglianza identitaria dell’Europa e dell’America. L’Occidente, in altre parole, non ha cessato di esistere. La seconda scuola sottolinea invece le differenze che separano le due sponde dell’Atlantico”. Egli nota, in particolare, come Miles Kahlen neghi che l’elaborazione del mito della solidità dei legami transatlantici fosse dovuta, un tempo, alla necessità di affrontare le minacce provenienti dall’esterno ai comuni interessi e la imputi alla costante affinità culturale e ideologica e afferma: “Americani ed Europei sono le due varianti dell’occidentalismo. L’Occidente deve andare oltre l’Occidente e, nel farlo, deve anche mettere in questione se stesso. La crisi dell’Occidente nasce dal suo stesso successo. I valori occidentali hanno le loro radici nella filosofia greca, nell’antichità romana e in Gerusalemme”. Noi dovremmo, come ha osservato Garton Ash, porci possibilmente a mezza strada tra le due posizioni estreme rappresentate dai “trionfanti fondamentalisti occidentali” e dai “relativisti culturali occidentali” grazie alla via mediana della libertà che è idea sfuggente e densa di pericolo ma che sta ben presente nella mente di coloro che si trovano a esserne privi donde sorge il quesito se gli Stati Uniti seguiteranno ad assecondare la loro propensione al ruolo di potenza egemone a costo di non curarsi di 154 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 coloro che risultano privi di essa e se l’Europa seguiterà a illudersi di potere giungere a confrontarsi con l’America mettendo a repentaglio i suoi buoni propositi di superpotenza civile. Per potere misurarsi e trionfare nei confronti delle sfide del nuovo millennio gli Stati Uniti dovrebbero forse permettere al loro sentimento di eccezionalismo di coesistere con la consapevolezza che ormai ciò che li unisce al resto del mondo è destinato a prevalere nettamente su quanto li separa da esso e che se vogliono essere in grado di garantire la propria libertà devono sentirsi meno eccezionali e pronti a svolgere un ruolo in una società internazionale da loro stessi inventata, come suggerisce Hirsh Michael. L’Occidente ancora esiste, oppure siamo passati dalle due Europe e un solo Occidente di un tempo a un mondo con due Occidenti e una sola Europa? Janni, dopo essersi interrogato, così risponde: “Negli ultimi quattrocento anni, salvo la parentesi veramente unitaria e solidale degli anni 1941-1989, le due società erano andate sviluppandosi lungo sentieri diversi. Quella americana, virtualmente in contrapposizione alla società europea e quella europea modellata dalla lunga sequenza di cruente lacerazioni ideologiche che hanno accompagnato il percorso storico del vecchio Continente. L’Occidente esiste ancora, ma è tornato ad essere plurale, come era sempre stato”. Messe in secondo piano oppure accantonate durante tutta la seconda parte del ‘900 per lasciare spazio sufficiente a una solida alleanza opposta all’Unione Sovietica, le diversità proprie del vecchio e del nuovo mondo sono riemerse con il dissolversi del pericolo rappresentato dal comunismo. Occorre riconoscere che gli Europei e gli Americani non condividono più una visione comune del mondo né una comune prospettiva strategica giacché i primi, secondo la nota lettura di Robert Kagan, si sono rifugiati in una dimensione paradisiaca postmoderna di prosperità pacifica finendo con l’approdare al pianeta di Venere che ormai li contraddistingue insieme con l’avversione al ricorso alla forza militare salvo la legittimazione internazionale del suo uso; i secondi, al contrario, sono collocati sul pianeta Marte dalla loro avversione alla diplomazia e all’ordinamento internazionale e dalla certezza alimentata dal pensiero di Hobbes che la tutela della libertà è garantita dal pronto impiego della forza militare. “Due metà dello stesso Occidente in un rapporto ineguale nel quale alle ambizioni, agli interessi globali e all’egemonia degli Stati Uniti fanno da contrappunto gli istinti postmoderni degli Europei” conclude l’autore de L’Occidente plurale che aggiunge: 155 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 “Non siamo in presenza di un Occidente americano, migliore di quello europeo o viceversa, ma di due metà dello stesso Occidente che guadagnerebbero entrambe col riunirsi ma che, verosimilmente, continueranno ad andare in direzioni diverse”. 156 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Una possibile soluzione per agevolare il passaggio generazionale nelle società di Antonio Visconti Sommario: Premessa; § 1) Analisi del caso concreto; § 2) Definizione delle basi imponibili; § 3.) Applicazione e determinazione dell’imposta; § 4) Possibili profili di elusività; § Considerazioni conclusive. Premessa Data la struttura familiaristica attraverso cui si è, da sempre, sviluppata l’iniziativa economica in Italia, emerge con sempre maggiore insistenza la necessità di individuare delle “procedure” che consentano di facilitare il passaggio generazionale nelle aziende facendo sì che tale momento incida il meno possibile sulle capacità che l’azienda ha di continuare a creare ricchezza. Tale esigenza è divenuta senza dubbio maggiormente avvertita negli ultimi anni, in ragione dell’unificazione del mercato comunitario e dalla generale maggiore esposizione alla concorrenza interna e internazionale che le imprese nostrane si trovano ad affrontare. Lo studioso tributario che si occupa di problematiche aziendali è, pertanto, chiamato ad approfondire le tematiche inerenti il passaggio generazionale nelle imprese, quale fase fondamentale e strategica del ciclo di vita delle stesse. In particolare, si rappresenta di seguito un esempio tipo di tale momento che, oltre ad offrire qualche spunto conclusionale di carattere teorico circa la diffusa richiesta di semplificazione del sistema tributario in riferimento alla determinazione delle basi imponibili nelle diverse imposte, soprattutto qualora presupposto delle stesse venga a realizzarsi con riferimento ad una fattispecie unitaria, consente anche di fornire qualche spunto circa i modi e i tempi di attuazione di tale processo attraverso la minuziosa ricostruzione della disciplina di riferimento. 157 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 § 1) Analisi del caso concreto Una società a responsabilità limitata esercente attività industriale è posseduta da tre soci appartenenti allo stesso nucleo familiare. Più precisamente, il genitore possiede la maggioranza delle quote e i due figli una eguale quota, pari ad una percentuale inferiore al venti percento (20%) del capitale sociale. E’ intenzione del genitore quella di avviare il passaggio generazionale in azienda. A tal procederebbe al trasferimento a favore dei figli delle proprie quote in parti uguali, cosicché entrambi possederanno il cinquanta percento (50%) della società. Tale passaggio generazionale si attuerà nei seguenti modi e tempi: - I) donazione ai figli della nuda proprietà delle quote in parti uguali; - costituzione dei figli, unitamente al genitore, quali co-amministratori della società a firma congiunta; e, dopo un periodo di adattamento e valutazione, - II) cessione agli stessi dell’usufrutto ancora posseduto sulle quote, a fronte della costituzione di una rendita vitalizia. Ciò premesso, si chiede di tracciare i profili fiscali derivanti dalla realizzazione delle suddette operazioni, sia a carico della società che a carico delle persone fisiche coinvolte, con particolare riferimento all’imposta di donazione e alle imposte sul reddito. § 2) Definizione delle basi imponibili Prima di procedere alla valutazione delle modalità attraverso cui è possibile attuare il suddetto negozio, si rende opportuno effettuare una rapida ricognizione di quelli che sono i dettati normativi attualmente vigenti ai fini della individuazione delle diverse basi imponibili nelle diverse imposte per le quali sono ivi realizzati i presupposti, ovvero, donazione della nuda proprietà e cessione dell’usufrutto di quote societarie. In particolare: - I) per l’imposta sulle donazioni, ai sensi dell’art. 16, co. 1, lett. b), d.lgs. 346/90, “il valore delle azioni delle società non quotate in borsa e delle quote di società non azionarie è determinato assumendo il valore proporzionalmente corrispondente al 158 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 valore, alla data di apertura della successione (donazione), del patrimonio netto della società risultante dall'ultimo bilancio, tenendo conto dei mutamenti sopravvenuti…”; - II) per l’Irpef, ai sensi dell’art. 68, co. 6, del tuir, la plusvalenza derivante dalla cessione di quote sociali è costituita dalla differenza tra: “il corrispettivo percepito ovvero la somma od il valore normale dei beni rimborsati ed il costo od il valore di acquisto assoggettato a tassazione, aumentato di ogni onere inerente alla loro produzione (anche quale rinuncia a crediti dei soci per versamenti effettuati a favore della società), compresa l'imposta di successione e donazione, con esclusione degli interessi passivi…” Accanto a ciò, al fine di addivenire alla precisa individuazione delle basi imponibili utili per la corretta tassazione dei fatti di cui alla fattispecie concreta considerata, si rende altresì necessario procedere alla distinzione, sulla base della vigente disciplina, dei valori di usufrutto e di nuda proprietà, relativamente alle quote societarie, nelle due imposte che qui ci interessano. In particolare: I) per quanto concerne la determinazione del valore della nuda proprietà delle quote sociali ai fini dell’imposta di donazione, occorrere fare riferimento al combinato disposto di cui agli artt. 14, co. 1, lett. b) e c), 16, co. 2, e 17, co. 1, lett. c), del d.lgs. n. 346 del 1990. Sicché, una volta determinata secondo i principi precedentemente enucleati la base imponibile prevista per la donazione delle quote societarie, tale valore è ricalcolato, quale differenza con quello dell’usufrutto, sulla base dei coefficienti stabiliti dal prospetto allegato alla tariffa parte IV del d.p.r. 131/86, tenendo conto del tasso di interesse legale vigente e dell’età del donante. II) per quanto attiene, invece, la determinazione del valore di riferimento ai fini della cessione dell’usufrutto delle quote, occorrere, in assenza di una specifica disciplina recata in seno alle norme sull’imposizione diretta, fare riferimento a quella contenuta negli artt. 46 e 48 d.p.r. 26 aprile 1986 n. 131. In particolare una volta determinato, nei modi anzidetti il prezzo della quota per la cessione a titolo oneroso, il valore dell'usufrutto, è determinato, sulla base dei coefficienti stabiliti dal prospetto allegato alla tariffa parte IV del d.p.r. 131/86, tenendo conto del tasso di interesse legale vigente e dell’età del donante. 159 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 § 3) Applicazione e determinazione dell’imposta I) Passando alla trattazione della determinazione delle imposte dovute, ai sensi dell’art. 2 del d.l. 262/06, nel caso di donazione di beni (e dunque, verosimilmente, anche in quello di donazione della nuda proprietà di quote societarie), gli atti effettuati a favore del coniuge e/o dei parenti in linea retta sono esenti dall’imposta per la parte che non eccede il valore di 1.000.000,00 di Euro per ciascun beneficiario. Sulle somme eccedenti tale soglia, ex art. 2, citato, la relativa aliquota è pari al 4%. Tuttavia, in virtù dei chiarimenti di recente forniti dalla C.M. n. 3/E del 22.1.08, ai fini del raggiungimento della predetta soglia di esenzione, occorrere tenere in considerazione il coacervo di tutte le donazioni eventualmente già disposte dal donante, e , quindi, anche di quelle eventualmente effettuate nel periodo di abrogazione della norma (2001 – 2006). Si fa presente altresì che con la legge n. 296/06 (finanziaria 2007), è stato modificato l’art. 3 del d.lgs. 346/90, introducendo la disposizione secondo la quale sono completamente esenti dall’imposta sulle donazioni e le successioni (e dunque, anche ai fini del coacervo e della franchigia innanzi visti), tra gli altri, i trasferimenti: “…di quote sociali. In caso di quote sociali…, il beneficio spetta limitatamente alle partecipazioni mediante le quali è acquisito o integrato il controllo ai sensi dell' art. 2195, co. 1, c.c.”. E’ necessario però, che il requisito del controllo sia mantenuto per un periodo di almeno 5 anni. Tuttavia, nel caso di specie, ai fini della possibilità di includere il suddetto trasferimento tra le fattispecie esentate, vanno tenuti presente due chiarimenti fornitici dall’Agenzia delle Entrate. In particolare, nell’ipotesi di trasferimento di un diritto sulla quota (usufrutto, nuda proprietà), ai fini della definizione della predetta soglia di “controllo”, la percentuale di capitale sociale rappresentata dalla partecipazione ceduta va calcolata con riferimento alla parte di valore nominale delle partecipazioni corrispondente al rapporto tra il valore dell'usufrutto o della nuda proprietà ed il valore della piena proprietà (Cfr. R.M. n. 104/E del 29.3.2002). Inoltre, con la predetta C.M. n. 3/E del 2008, è stato chiarito che nell’ipotesi di trasferimento di una partecipazione di controllo a più beneficiari, beneficia dell’esenzione il solo soggetto in capo al quale si realizza nuovamente il controllo della società, qualora 160 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 presente. In altri termini, nel caso di frammentazione tra più eredi della quota di controllo, nessuno di questi può godere dell’esenzione dall’imposta. Sempre secondo i chiarimenti recati dalla citata C.M. n. 3/E 2008, l’agevolazione in parola si applica, invece, qualora, ad esempio, il genitore donante decida di trasferire ai figli, in comproprietà tra loro, la quota di controllo della società. In tal caso, in virtù dell’articolo 2347 c.c., i diritti dei comproprietari sono esercitati da un rappresentante comune, il quale disporrà della maggioranza dei voti esercitabili in assemblea ordinaria. Nel nostro caso, sulla base dei requisiti soggettivi (donazione a favore dei figli) e di quelli oggettivi (trasferimento distinto a favore del singolo discendente del diritto di nuda proprietà di una quota pari a circa il 30% del capitale di una società), tenuto conto dei predetti chiarimenti in materia di coacervo, l’imposta per tale trasferimento sarà dovuta nella misura del 4% per i valori eccedenti la franchigia di € 1.000.000,00. Va da se infine che, come chiarito dalla R.M. n. 61 del 16.5.06, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1, 9 e 67 del tuir, salvo diversa pattuizione, nell’ipotesi di cessione della nuda proprietà su quote o azioni, il diritto alla percezione dei dividendi matura in capo all’usufruttuario. II) Per quanto concerne, invece, la cessione del diritto di usufrutto sulle quote sociali a fronte della costituzione di una rendita vitalizia a beneficio del cedente, si fa presente preliminarmente che l’art. 1, co. 91, L. 244/2007 (finanziaria 2008), ha reintrodotto, per le persone fisiche proprietarie di terreni o di quote di partecipazione al capitale di società di persone e di capitali, la possibilità di procedere alla rivalutazione del costo fiscale dei suddetti beni. In virtù di tale norma agevolatoria, dunque, è possibile procedere alla rideterminazione del costo fiscale delle partecipazione onde vedere neutralizzate le eventuali plusvalenze derivanti dalla cessione di queste. In particolare, per quanto concerne le quote di partecipazione in società, è stato previsto che possono essere rivalutate, sulla base di un perizia di stima redatta da un tecnico (dottore commercialista, ragioniere, revisore dei conti, etc) entro il 30 giugno 2008, quelle possedute alla data dell’1° gennaio 08. A tal riguardo, l’imposta sostitutiva dovuta per la rivalutazione è pari rispettivamente, al 4% del maggior valore rivalutato, per quanto concerne le partecipazioni cd. qualificate (superiori al 25% del capitale sociale o al 20% dei diritti di voto esercitabili in assemblea - ex art. 67 del Tuir) o al 2%, per quanto concerne le partecipazioni cd. non qualificate (inferiori al 25% del capitale sociale o al 20% dei diritti di voto esercitabili in assemblea - ex art. 67 del Tuir). 161 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Si premette altresì che, ai sensi dell’art. 50, co. 1, lett. h) del tuir, è indubbio che le rendite vitalizie debbano essere tassata in capo al percettore come reddito assimilato a quello di lavoro dipendente. Fatte queste doverose premesse, si chiarisce, di seguito, che per la fattispecie concreta oggetto di indagine, probabilmente, nessun rilievo assumono le problematiche in ordine alla tassazione della plusvalenza derivante dalla cessione, e quindi, non si realizzerebbe nessuna esigenza di ricorrere alla preventiva rivalutazione dei suddetti beni. Procediamo rappresentando rapidamente le motivazioni di tale affermazioni e le differenti posizioni in tal senso esistenti, onde pervenire ad una corretta qualificazione del negozio in esame. Sulla tassazione della plusvalenza in ipotesi di cessione di beni, e dunque anche quote societarie (la dottrina e la giurisprudenza consultate fanno riferimento all’ipotesi di cessione d’azienda), a titolo oneroso mediante costituzione di una rendita vitalizia a favore del cedente, restano aperte due possibili soluzioni dettate dagli orientamenti opposti che nel corso degli anni si sono formati, in particolare: - quella dell’amministrazione finanziaria che sostiene la rilevanza fiscale sia della plusvalenza maturata rispetto al valore della rendita vitalizia (calcolata applicando le regole della matematica attuariale), che della percezione della rendita vitalizia, considerata, come visto, reddito assimilato a quello di lavoro dipendente. Con ciò ponendosi in netto contrasto col principio di divieto della doppia imposizione (vedi D.R. Entrate per il Lazio, nota n. 13212 del 6-7-1996; Nota Min. Fin. Dip. Ent. Dir. Reg. Entrate Campania, 29 luglio 1997, n. 5792, ivi n. 43/1997, pag. 3185. ) - la Giurisprudenza si è invece uniformata nell'escludere la tassabilità della plusvalenza in quanto indeterminabile nell'entità, limitando la rilevanza fiscale alla sola percezione della rendita vitalizia (C.T.C., n. 1206 del 15-2-1990; CTR, Emilia Romagna, 14 aprile 2005, n. 63; ). Chi scrive, per una serie di ragioni di seguito prospettate è orientato circa la preminenza della validità della soluzione giurisprudenziale rispetto a quella ministeriale. In particolare, a sostegno di tale valutazione, si riportano le seguenti considerazioni: - è principio generale dell’ordinamento tributario quello di assumere quale materia imponibile le sole plusvalenze realizzate e non quelle iscritte o ipotetiche – ex art. 86 del Tuir; 162 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 - le persone fisiche sono tassate sulla base dei redditi incassati (principio di cassa) e non su redditi solo maturati. Con l’accoglimento di tale soluzione, in luogo della tassazione diretta della plusvalenza maturata, saranno tassati periodicamente, al momento dell’incasso, i singoli emolumenti così come pattuiti. Tale soluzione consente il differimento dell’imposizione per tutto il tempo di durata della rendita. Imposizione che, altrimenti, sarebbe dovuta per intero al momento della realizzazione del contratto, anche nell’ipotesi di pagamento frazionato (a rate) del corrispettivo (principio di competenza). Ciò detto, dunque, dalla realizzazione del suddetto negozio, ai fini impositivi non deriverà alcun effetto in capo al cedente in ordine alla rilevanza della plusvalenza sulle quote sociali trasferite (o sul diritto di usufrutto su queste), assumeranno rilievo soltanto, quindi, i canoni periodici della rendita così come pattuiti. Il cessionario, dal canto suo, assumerà l’usufrutto sulle quote, sulla base del prezzo di trasferimento, così come definito nel relativo atto. Tale valore andrà a consolidarsi con quello della nuda proprietà sulle medesime quote, innanzi individuato ai fini dell’imposta di donazione Dal coacervo dei due valori otterremo il prezzo fiscale delle quote possedute dei discendenti, destinatari del controllo della società. § 4) Possibili profili di elusività Restano, infine, da chiarire alcuni profili relativi all’imposizione indiretta collegati alla cessione dell’usufrutto sulle quote. Ai sensi dell’art. 11, della tariffa parte IV allegata al d.p.r. 131/86, la stipula di atti aventi ad oggetto la cessione di quote di partecipazione in società sconta l’imposta di registro nella misura fissa di € 168,00. Ciò detto, si fa presente quanto disposto dall’art. 26, d.p.r. 131/86, ovvero che: “i trasferimenti di partecipazioni sociali, quando il valore della partecipazione o la differenza tra valore e prezzo siano superiori all'importo di 350 milioni di lire, posti in essere tra coniugi ovvero tra parenti in linea retta…. si presumono donazioni se l' ammontare complessivo dell' imposta di registro e di ogni altra imposta dovuta per il trasferimento,…… risulta inferiore a quello delle imposte applicabili in caso di trasferimento a titolo gratuito 163 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Le parti contraenti devono dichiarare contestualmente se fra loro sussista o meno un rapporto di coniugio o di parentela in linea retta…... In mancanza di tale dichiarazione il trasferimento si considera a titolo gratuito ove al momento della registrazione non risulti comprovata l' inesistenza del rapporto; tuttavia l' inesistenza del rapporto di coniugio o di parentela in linea retta può essere provata entro un anno dalla stipulazione dell' atto e in tale caso spetta il rimborso della maggiore imposta pagata.”. Pertanto, occorrerà considerare tale disposizione, in combinato con quelle sopra rappresentate relative alle franchigie, al coacervo e all’esenzione sulle partecipazioni di controllo, onde prevenire possibili recuperi da parte dell’ufficio. § Considerazioni conclusive Dalla breve disamina del caso innanzi riportato, abbiamo l’ennesima conferma di come il settore della legislazione tributaria sia tra i più complessi e frastagliati dell’intero ordinamento. In particolare, dalle pagine che precedono, emerge in maniera evidente lo sforzo ricostruttivo a cui l’operatore tributario è chiamato ad adempiere oltre che con riferimento alla continua evoluzione normativa anche, e soprattutto, per quanto concerne la corretta determinazione della grandezza dei fatti impositivi rilevanti nelle diverse imposte. Sulla base di quanto testé analizzato si ha l’ulteriore conferma che, per la corretta tassazione delle varie fasi di un negozio unitario, ancorché complesso, qualora si realizzino fattispecie rilevanti alla realizzazione dei presupposti di diverse imposte, l’operatore è chiamato a rideterminare, nei diversi settori (IiDd e imposte di successione e donazione nel caso di specie), la medesima grandezza economica espressione della capacità contributiva di riferimento. Con ciò, dunque, palesemente derogando al principio generale che dovrebbe imporre l’oggettiva unitarietà e interdipendenza della base imponibile dei vari tributi, quale strumento per garantire la semplificazione e il buon funzionamento dell’intero sistema tributario. In verità, non poche sono le occasioni in sede legislativa in cui tale principio è stato ribadito e, poi, di buon grado accolto dalla giurisprudenza e dalla amministrazione finanziaria. Procediamo, di seguito, ad operare una disamina allargata, ancorché sicuramente non esaustiva, di quelli che sono i diversi provvedimenti in tal senso recati. 164 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 Ad esempio, l’art. 10 della Legge delega n. 825 del 9 ottobre 1971, in materia di riordino del sistema fiscale, sancisce l’obbligo del: “..coordinamento tra la dichiarazione tributaria annuale e le speciali dichiarazioni prescritte ai fini di singoli tributi e l'adeguamento della disciplina formale dell'accertamento al principio di oggettiva unitarietà e interdipendenza della base imponibile dei vari tributi, anche ai fini della semplificazione e della concordanza degli accertamenti”. Ed in effetti, in accoglimento di tale indirizzo, dalla lettura degli artt. 33, del d.p.r. 600/73 e 52 del d.p.r. 633/72, in materia di procedure di accertamento dei redditi e dell’IVA, è possibile notare coma la disciplina nelle due imposte sia pressoché identica, onde consentire, in sede di verifica, la determinazione dei medesimi valori. Ancora, l’art. 6 del d.p.r. n. 643/72, dispone che quale base imponibile su cui determinare l’Invim in capo al cessionario di un immobile, venga assunta quella relativa all’imposta di registro così come individuata (o rettificata) da parte del cedente. Ai medesimi principi si è poi orientata la Cassazione nell’affermare che nell’ipotesi di cessione di Azienda non vi può essere discordanza tra la base imponibile determinata in capo al cessionario ai fini dell’imposta di registro e quella rilevante per il cedente ai fini della tassazione della plusvalenza. Infine, anche le recenti modifiche in materia di determinazione del “valore normale” per i trasferimenti dei beni immobili ai fini delle imposte dirette, ex art. 39, d.p.r. 600/73 e delle indirette, ex artt. 54, co. 3, d.p.r. 633/73 e 52, d.p.r. 131/86, contribuiscono a rinforzare tale esigenza di uniformità Dalle brevi considerazioni innanzi riportate, assistiamo a come il Legislatore in talune circostanze abbia attuato il predetto principio di semplificazione. Tuttavia, è facile constatare, e il nostro caso ne rappresenta una testimonianza, come la concreta attuazione di tale principio sia l’eccezione piuttosto che la regola. Preso atto di ciò, e consci della quasi necessitata articolatezza del sistema legislativo tributario in virtù dell’esigenza di considerare, e al tempo stesso prevenire, tutte le possibili implicazioni delle fattispecie a cui le norme si riferiscono, non possiamo non auspicarci per il futuro interventi legislativi più sistematici di semplificazione e coordinamento, tesi ad una maggiore uniformazione delle basi imponibili previste nei diversi settori impositivi, o, quantomeno, per quei casi in cui i differenti presupposti vengono a realizzarsi in relazione ad un unico negozio o ad un insieme di negozi correlati. 165 Innovazione e Diritto – n. 2/2008 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: - Rebecca G. - Fiammengo E., "Cessione di azienda con costituzione di una rendita vitalizia - Aspetti civilistici e fiscali", in Il Fisco , 2003, n. 18/1, pag. 2753; - Dominici R., "La valutazione delle partecipazioni nelle società non quotate - Nota a circolare", in Corriere tributario , 2004, n. 8, pag. 639; - Santi A., "La valutazione delle partecipazioni in società non quotate nelle imposte sui trasferimenti, tra capacità contributiva e certezza del diritto - Nota a sentenza", in Rivista di diritto tributario, 2004, n. 6, p. 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