Giovanni VERGA,
FOTOGRAFO DELLA REALTA’
Alla base della tecnica narrativa di Verga vi è il concetto dell’impersonalità, infatti nei
suoi racconti l’autore ricorre a questa “tecnica” per conferire realismo all’opera, in modo tale che si abbia
l’impressione di assistere ad un fatto che sia realmente avvenuto. Per ottenere questo risultato l’autore deve
completamente eclissarsi e deve porre il lettore direttamente di fronte al fatto in sé, senza la mediazione delle
sue riflessioni, spiegazioni o comunque tutto ciò che riguardi la soggettività dell’autore. Infatti, affrontando
l’opera verghiana, spesso può nascere una certa confusione, causata da questo “eclissarsi” dell’autore per
non influenzare il lettore con le proprie considerazioni. Quest’ultimo è introdotto all’opera senza che nulla gli
venga spiegato, quasi fosse una persona appartenente a quello stesso ambiente, che ha conoscenza sia delle
persone che dei luoghi narrati. Questa sensazione del lettore è creata dal fatto che il punto di vista dello scrittore non sia percepibile nell’opera di Verga ma completamente immerso nel mondo rappresentato, posto allo
stesso livello dei personaggi, quasi che il narratore si mimetizzi tra i personaggi stessi e racconti la storia come se fosse uno di loro pur restando anonimo.
Il pubblico, non passando attraverso la lente dello scrittore, ha l’impressione di trovarsi faccia a faccia con il
fatto, di assistere personalmente alle situazioni narrate. Ne è un esempio la sensazione che si ha leggendo i
Malavoglia, in cui il lettore ha la sensazione di essere informato dei fatti semplicemente partecipando a questi,
quasi osservandoli da una finestra, e di conoscere i personaggi, di cui Verga fornisce veramente poche informazioni, nel medesimo modo, attraverso ciò che essi stessi fanno o dicono, o attraverso le parole degli altri
personaggi. Tutta questa illusione della realtà è alimentata dal fatto che Verga nei suoi racconti celi la sua visione da intellettuale borghese, dietro un’altra più primitiva e superstiziosa, una mentalità propria della collettività popolare di cui l’autore tratta, facendo largo uso di un linguaggio povero e spoglio, ricco di modi di dire,
paragoni, proverbi e imprecazione popolari che ricalcano una ben definita struttura dialettale.
È abbastanza evidente come questa tecnica dell’impersonalità e di una disperata ricerca dell’oggettività si adattino più a un discorso fotografico, fotografia con la quale Verga venne in contatto fin da piccolo. Con
l’affermarsi di questa nuova tecnica, a partire dal 1839, si passava dai dipinti alle fotografie, dal rappresentare
ciò che si vedeva in modo soggettivo a un modo oggettivo, questo perché l’artista avrebbe sempre in qualche
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modo “messo del suo” nei dipinti, mentre ciò non accadeva nella fotografia, nella quale il fotografo non poteva
introdurre le sue emozioni o i suoi pensieri, era un rappresentare i fatti in modo vero.
Fotografare voleva dire immortalare la realtà, l’attimo e farlo dall’esterno, senza entrarvi con la propria soggettività, si trattava semplicemente di prendere il mondo così com’era.
Verga apparteneva ad una generazione che vide crescere intorno a sé questo nuovo modo di immortalare la
realtà, essendo nato nel 1840, solo un anno dopo l’invenzione della fotografia. Nel corso della sua infanzia ricevette il primo contatto con questa tramite lo zio Salvatore Verga Catalano, che possedeva una delle prime
macchine fotografiche a cassetta, con la quale effettuò le prime prove. Come la gran parte degli intellettuali del
suo tempo, Verga fu rapito da tale tecnologia, che contribuì a far si che un nuovo pensiero si sviluppasse nello
scrittore, ossia che la realtà poteva essere rappresentata senza l’intervento dell’artista che immancabilmente
finiva per distorcerla secondo la sua visione. La tecnica da lui adottata fu molto singolare, infatti egli si distingueva dai contemporanei per la sua nota predilezione per la ricerca del vero. Lo scrittore siciliano, effettivamente, non era alla ricerca di un paesaggio artificioso da ritrarre, ma suoi soggetti prediletti erano quelli appartenenti al suo mondo: la famiglia, il paese, gli amici, i contadini, ecc.. Egli non intraprende la ricerca di una foto
artistica né di una tecnica perfetta, il suo obiettivo è quello di mantenere un linguaggio fotografico ridotto
all’essenzialità, di cogliere l’attimo, in modo tale da poter fermare la vita nel suo movimento, un movimento reale, vero, che non ha subito alcuna influenza esterna, ma rappresenta semplicemente quel fatto nudo e crudo.
Questa foto incarna tutte le caratteristiche appena elencate, sia per l’espressione del volti catturati per
sempre nell’attimo precedento allo scatto, sia per l’atteggiamento di stop momentaneo. Ciò che rende unica
la tecnica di Verga è proprio questo modo “imperfetto” di fotografare, che ad un primo sguardo potrebbe
dare l’impressione di una scarsa abilità con la macchina, ma con un’analisi più accurata delle istantanee
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verghiane ci si rende conto che la peculiarità di queste sono proprio le sfocature, le inquadrature sbilanciate e
le alonature. Sono questi errori a rendere le immagini più vicine alla realtà. Guardando la foto del fratello
Mario con i nipoti ci si rende conto che sono questi imperfezioni tecniche che aprono la foto sul quotidiano.
Ma cosa ha significato la fotografia per Verga? E come ha influito sul suo modo di scrivere?
Abbiamo una duplice risposta a queste domande: la prima, che fotografia e scrittura fossero per l’autore due
cose nettamente separate, la seconda che, invece, la fotografia abbia influito significativamente sul suo modo
di scrivere e di osservare la realtà. Analizzando la prima ipotesi, sappiamo che la critica, per separare l’attività
letteraria da quella fotografica, ha spostato quest’ultima nel periodo di inaridimento della sua vena scrittoria,
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come per “proteggere” il Verismo dall’intrusione della fotografia. Come ulteriore prova di questa affermazione
riportiamo di seguito la risposta di Verga ad una lettera di Capuana, che chiedeva riguardo alla sua attività fotografica, “questa (la fotografia) è rimasta l’unica mia gran passione.” “Rimasta” e non “diventata”, suggerendo quindi come la fotografia avesse resistito alla crisi che aveva colpito l’attività letteraria, dimostrando che le
due passioni non procedessero parallelamente, ma che anzi accadeva che l’una si sostituisse all’altra in un
periodo di crisi, come detto dalla critica. Riportando un rimprovero che lo scrittore verista fa all’amico Capuana
di sciupare, con la fotografia, “un prezioso capitale di tempo e d’ingegno”, si potrebbe dedurre il diverso atteggiamento dei due nei confronti dell’avventura fotografica. Sempre con Capuana si lamenta delle foto da
quest’ultimo scattate per la loro mancanza di fedeltà e per la loro distorsione della realtà: “non sono [...] contento delle prove fotografiche -degli orrori- e tutti i tuoi fotografati con me. De Roberto ha gli orecchioni. Ferlito è il Vinto della caricatura. Mio fratello è losco e non somiglia al figlio di suo padre. Io e Paola siamo i nonni
di noi stessi. Tutta la nostra vanità apollinea si ribella e protesta in coro.” (Carteggio Verga - Capuana 288).
Verga qui fa una critica alla fotografia accusandola di non rappresentare sempre fedelmente la realtà.
A questa osservazione si aggiunge il fatto che nelle opere verghiane la sua attività come fotografo non venga
mai menzionata. Anche cercando un riferimento a quest’ultima è quasi impossibile trovarne. Verga farà più
volte analogie con pittura, scultura e parlerà di microscopi e cannocchiali pur non essendo né pittore né scultore, ma non menzionerà mai la fotografia. Per i critici fu un grande scrittore e, separatamente, un fotografo. Infatti, definiva questa sua passione come una mania, “No, non sono sfuggito al contagio fotografico e vi confesso che questa della camera nera è una mia segreta mania”. Una mania, segreta, che si può a mala pena
confessare, e la cui ammissione ora, nel 1880, anno in cui lo scrittore è totalmente posseduto dalla composizione dei Malavoglia, solleva in modo rilevante la questione dell’impatto della pratica fotografica sulla scrittura
verghiana. Negli anni in cui opera, la fotografia era diventata una specie di moda d’elite presso nobili ed intellettuali e come sappiamo anche presso le sue amicizie, quindi la critica deduce da ciò che l’attività fotografica
dello scrittore verista fosse un semplice passatempo, un’adesione alla moda dell’epoca senza alcuna influenza sulla sua produzione letteraria. Per portare un esempio di questa ipotesi che per Verga la fotografia fu poco
più che un semplice svago, citiamo il critico Vincenzo Consolo: “Né l’uno né l’altro. Sono, secondo noi, semplicemente le foto di Verga, dell’uomo Verga ritornato, prima idealmente e sentimentalmente, poi anche fisicamente, dopo anni di lontananza, alla sua Catania. . . e qui deponendo la penna, si mette a fotografare, per
passatempo.” Da ciò si può dedurre che per una parte della critica il mondo letterario e quello fotografico rimasero per Verga distinti, due passioni da coltivare separatamente.
Sicuramente, invece, analizzando la seconda ipotesi, sono molte le analogie tra le due attività, tanto da far
pensare che Verga si servisse di una per sviluppare l’altra, come se percepisse il mondo da lui narrato attraverso la lente della sua macchina fotografica e che quindi il suo modo di fotografare la realtà con questo strumento così innovativo andasse di pari passo con il suo modo di fotografarla con le parole. Nonostante
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l’affermazione della critica riportata in precedenza, possiamo riferirci all’amico Capuana anche per affermare
questa nuova tesi. Infatti Verga chiede a quest’ultimo, in una lettera del 26 dicembre 1881, "…Bisogna assolutamente che tu mi faccia o mi procuri gli schizzi e le fotografie di paesaggio e di costumi pel mio volume di novelle siciliane, tipi di contadini, maschi e femmine, di preti, e di galantuomini, e qualche paesaggio della campagna di Mineo, ecco quanto mi basta, ma mi è necessario. Potrai farmeli anche tu con la tua macchina fotografica da S. Margherita…". Come si può facilmente dedurre, Verga, nei suoi scritti, vuole immortalare il paesaggio umano chiedendo in questo caso aiuto alla fotografia di Capuana, con questo non vogliamo escludere,
di certo, che anche lui stesso si cimentasse in questa attività. Il suo verismo trovava così nella fotografia un
ottimo strumento per perseguire il suo obiettivo: mostrare il semplice fatto umano. Verga aveva quindi un duplice strumento: la fotografia e le parole, anche se quest’ultime sono sicuramente il mezzo più utilizzato, del
quale l’autore si serve per esprimere la sua ideologia, in questo campo egli opera come un fotografo ma con le
parole, con i suoi racconti che si prefiggono, appunto, di mostrare il mondo nudo e crudo, il fatto umano così
com’è.
Osservando le fotografie di Verga possiamo notare che vengono ripresi soprattutto personaggi rurali, immortalati nella loro quotidianità, persone comuni. Tutto questo deriva dal voler studiare i meccanismi della società e per farlo l’autore verista parte dal “basso”, dove tali meccanismi sono più facili da individuare, infatti più si salirà e più i meccanismi delle passioni si complicheranno. Infatti per il narratore borghese che
intende rappresentare il mondo degli umili, il problema consiste nel riuscire a penetrare il mondo che si vuole
rappresentare. Ed è qui che l’autore si serve della fotografia che gli permette l’ accesso alle classi sociali che
vivono ai margini, altrimenti invisibili e, soprattutto, impenetrabili. Verga ha potuto mettersi in relazione col
mondo popolare, penetrarlo e narrarlo secondo modalità che gli son state suggerite dalla sua esperienza di
fotografo. E questo è ben identificabile già nel passaggio dai Malavoglia, nei quali si studia come possa sconvolgere una famiglia di umili condizioni e fino ad allora relativamente felice, la ricerca del benessere, di un
qualcosa mai avuto, dell’ignoto, a Mastro Don Gesualdo, dove viene rappresentato un borghese, ancora in
una piccola città di provincia, ma sicuramente con passioni più complicate. Verga in questi romanzi immortala
il cammino fatale e incessante che porta l’umanità al progresso e lo fa rappresentando tutto ciò che questo
cammino porta con sé: le debolezze, i vizi e le passioni; in entrambi rappresenta i vinti che la corrente dello
sviluppo ha travolto, che sono stati schiacciati dal desiderio del benessere, dall’ambizione di arrivare a piani
più elevati. Pur accettando l’idea che il progresso fosse qualcosa di necessario e inevitabile, per Verga era
anche qualcosa che inevitabilmente sarebbe finito nella sconfitta; e quest’idea può essere rapportata al modo
di vedere la fotografia, che è da una parte strumento del progresso, e dall’altra, invece, richiamo nostalgico del
passato.
Essendo poi la società caratterizzata da rapporti di sopraffazione immutabili, dove ogni intervento di modifica
risulterà sempre inutile, lo scrittore dovrà operare proprio come un fotografo, ossia dovrà rappresentare la re5
altà proprio così com’è, senza giudicare e immettere le proprie considerazioni; e cos’è la fotografia se non
questo?
Un’ulteriore prova della coesistenza dell’arte visiva e di quella scrittoria è rappresentata dall’uso parsimonioso
dei colori che fa l’autore nei suoi scritti. Nella novella Cavalleria rusticana, ad esempio, non ricorre nessun altro colore oltre al bianco e nero, all'infuori del rosso che viene citato solo quattro volte, quasi sempre nel significato di "arrossire". Gli altri racconti che compongono le raccolte Vita dei campi e Novelle rusticane si sviluppano secondo il medesimo uso parsimonioso dei colori, citando a volte l’ azzurro, il verde e qualche altro colore. Nella parte iniziale della novella La roba, dov'è descritta in maniera pittoresca la Piana di Catania, vengono
nominati una volta sola il verde ed il rosso: sono le uniche due occasioni in tutta la novella, che per il resto non
conosce altri colori se non quelli "chiaroscuri". Il caso più clamoroso tuttavia sembra esser costituito da I Malavoglia, ambientato ad Aci Trezza, scenario in cui il mare è il protagonista della scena, dove il termine "azzurro"
ricorre in tutto il romanzo una volta sola, ed inoltre in una situazione del tutto diversa: "…ma la ragazza cantava come uno stornello, perché aveva diciotto anni, e a quell'età se il cielo è azzurro, vi ride negli occhi, e gli
uccelli vi cantano nel cuore…". Paradossalmente lo stesso colore ricorre un numero maggiore di volte, nell'opera Mastro don Gesualdo, ambientata nell'entroterra rurale della Sicilia. Questa teoria viene inoltre confermata dal fatto che il racconto si sviluppa come una serie di scene che si susseguono e che sono legate insieme dalla voce dell’autore, e proprio perché viene immaginato come una sequenza di istantanee è più facile
per l’autore restare all’esterno, proprio come se stesse dietro al suo obiettivo, lo scopo per l’appunto è quello
di mettere il lettore di fronte al mondo com’è realmente, senza bisogno di filtri, e tutto questo sarà possibile solo se l’autore sarà assolutamente al di fuori dell’opera. Così come nei suoi romanzi e nelle sue novelle, anche
nella sua produzione fotografica Verga interpreta e cerca di riprodurre soprattutto un paesaggio umano. Accanto ai numerosi ritratti di parenti e amici, Verga ritrae immagini della Catania non aristocratica che svelano
una continuità con il Verga scrittore.
Dunque, come si potrebbe non paragonare ciò alla fotografia? Che cosa Verga se non fotografare la realtà
con le sue novelle e i suoi romanzi?
Probabilmente la citazione che più rappresenta questa intersezione tra poetica e fotografia è la lettera dedicatoria a Salvatore Farina ne l’Amante di Gramigna, “Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto per i viottoli dei
campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente
preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo tra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere
stato…”. E’ questo che veramente interessa a Verga, è questo per cui lui scrive e fotografa, è questo ciò a cui
dedica la sua vita.
Verga si prefigge l’obiettivo di far sì che l’opera sembri che si sia fatta da sola, infatti sempre nella lettera ne
l’Amante di Gramigna dirà, “Intanto io credo che il trionfo del romanzo, la più completa e la più umana delle
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opere d’arte, si raggiungerà allorché l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane; e che l’armonia delle sue forme
sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l’impronta
dell’avvenimento reale, e l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea
come un fatto naturale, senza serbare nessun punto di contatto con il suo autore, alcuna macchia del peccato
d’origine.” L’idea di trovarsi “faccia a faccia” con l’evento, il riferimento alla lente, “l’evidenza” e la “necessità”
della forma, l’invisibilità della “mano dell’artista,” e infine, l’idea di un’opera d’arte che sembra nascere autonomamente, sono tutti elementi che rimandano alla pratica fotografica come elemento ordinatore del discorso.
Da ciò si potrebbe dedurre che la sua visione del mondo e degli uomini fosse influenzata da quello strumento
così innovativo, infatti, la posizione di distacco e allo stesso tempo di partecipazione del fotografo, si adatta
molto bene alla poetica di adesione e di allontanamento del narratore verghino, fino a suggerirgli di “fotografare” la realtà con le parole, come se stesse dietro l’obiettivo della sua macchina, usando quindi un’assoluta impersonalità ed eclissandosi dall’opera, riportando quell’occhio “fotografico” che guarda dall’alto i personaggi,
come per esempio nei Malavoglia.
Potremmo dire che Verga abbia utilizzato la medesima tecnica sia per le opere scritte che per quelle fotografiche, questo perché pur cambiando il mezzo con il quale immortalava la realtà, il suo fine era sempre lo stesso:
rappresentare, come abbiamo già detto in precedenza, il semplice fatto umano.
Effettivamente, osservando le fotografie e le opere letterarie di quest’autore, è facile cogliere l’analogia fra le
due. In entrambe, infatti, Verga, piuttosto che ricercare la perfezione, vuole cogliere l’istante fuggente, fermare
la vita nella sua frenesia quotidiana, quasi un “carpe diem” letterario e fotografico, potremmo affermare.
Riportiamo, ora, una tipica fotografia verghiana.
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Osservando quest’immagine, sembra esser quasi evidente il collegamento che può essere effettuato
con i Malavoglia, la fotografia infatti riprende una bambina affacciata ad una finestra, si presuppone di un paesino fra quelli di cui Verga era solito narrare. Potremmo osare paragonare la bambina ad uno dei componenti della famiglia dei Malavoglia, Lia, la più piccola. E non sarebbe poi un azzardo così grande, infatti, andando
a sfogliare le altre fotografie dell’autore, questo rapporto tra fotografia e letteratura appare ancora più chiaro.
Dato il tempo che Verga dedicò alla fotografia, come abbiamo già esposto nelle pagine precedenti, andò via via a sviluppare un suo stile, caratterizzato principalmente dall’improvvisazione e non molto attento alla perfezione tecnica; le foto verghiane risultano quindi essere tecnicamente inferiori rispetto a quelle
dei suoi amici, e in particolare rispetto a quelle di Capuana, ma sono sicuramente più intense, lo sguardo dei
personaggi ripresi è molto più espressivo, quasi questi potessero parlare. E’ proprio grazie alle imprecisioni
che le sue foto si aprono al mondo del vero e del quotidiano, che suscita interesse e vere emozioni, e pur essendo tecnicamente imperfetto, riesce ad essere anche con la macchina fotografica, un grande poeta. Il suo
stile, considerato spesso da molti il risultato di una certa indifferenza e superficialità verso questa attività, va
invece visto nel senso contrario, ossia come un’ulteriore prova della sua volontà di raffigurare il mondo proprio
come gli si presentava davanti in quel momento, quel “carpe diem” di cui abbiamo parlato in precedenza; e
quale mezzo migliore più che la fotografia dà la possibilità di “tirarsi fuori” per un momento dalla realtà, di continuare ad andare avanti con il tempo, ma contemporaneamente di fermare il mondo e di rappresentare la realtà in movimento?
Verga eleverà al massimo grado l’importanza del semplice fatto umano, e a questo scopo, fondamentale, anzi,
potremmo dire fatale, fu, secondo il nostro parere, l’incontro con la fotografia. Sembra infatti che la fotografia
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costituisca per Verga un modello a cui ispirare lo stile dei propri racconti, e che dunque fosse stata proprio
questa a suggerirgli di “fotografare la realtà con le parole”, mantenendosi sempre obiettivo, impersonale ed in
“bianco e nero”. Nonostante l’opinione di molti critici, fra le quali abbiamo riportato quelle che ci sono sembrate
essere le più significative, il nostro punto di vista, come ormai è facilmente intuibile, è del tutto contrario a tali
ipotesi. Infatti, dopo un’attenta lettura delle opere di Verga e un’interessata osservazione delle sue fotografie,
siamo giunte alla conclusione che le due esperienze siano state qualcosa di assolutamente complementare;
questo pensiero è scaturito, precisamente, dalla facilità con la quale abbiamo percepito il pensiero e gli intenti
dell’autore, semplicemente studiando e paragonando entrambi i suoi modi di esprimersi , appunto, rischiando
di essere ripetitivi, la letteratura e la fotografia. Certo, il nostro giudizio sarà sicuramente discutibile e potrà essere contestato con efficaci motivazioni, ma in fin dei conti, entrando a stretto contatto con un autore di queste
dimensioni e di tale profondità, si formerà sicuramente in ognuno di noi un diverso parere; questo che noi riportiamo, è il più profondo dei pensieri e delle opinioni che è in noi derivato dall’accostamento a Verga, dalla
semplice e superficiale conoscenza della sua attività di fotografo, si è aperto a noi, attraverso uno studio approfondito, un orizzonte vastissimo, che ci ha permesso di immedesimarci in modo vero e proprio con la sua
concezione della realtà e con i suoi fini, e di farlo con grande interesse e partecipazione, perché, sotto quest'
aspetto, Verga, naturalmente sempre secondo la nostra interpretazione soggettiva, può essere considerato
molto più moderno di altri autori dei nostri tempi.
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Verga fotografo della realtà - Liceo Classico Ugo Foscolo di Albano