Maria Edoarda Marini
PERSONAGGI FEMMINILI DELLA DIVINA COMMEDIA:
FRANCESCA DA RIMINI, PIA DE’ TOLOMEI, PICCARDA DONATI
Ho scelto questo argomento perché la Divina Commedia è un poema
di personaggi soprattutto maschili; le figure femminili che vengono in
primo piano, che entrano in rapporto diretto con Dante, sono davvero
poche, la maggioranza resta sullo sfondo, confusa tra le altre anime, con
valore simbolico. Di donne vere, pochissime ma di straordinario rilievo,
perché attraverso di loro Dante sviluppa l’intera riflessione sul tema
dell’amore a partire dalla passione carnale e peccaminosa alla più alta
concezione religiosa, dalla lussuria di Francesca alla teologia e dunque a
Beatrice. Francesca, Pia e Piccarda sono tre donne tormentate, che nella
loro vita hanno subito una violenza, fisica o morale, e sono tutte e tre
innamorate, le prime due di un uomo, l’ultima di Dio. Di tutte e tre si è
occupata l’arte e la musica.
All’ingresso avete sicuramente ascoltato, forse vi sarete anche
chiesti di cosa si trattasse, le note del poema sinfonico di Tchaikovsky, la
fantasia n. 32 Francesca da Rimini scritto a Mosca nel 1876 dopo aver
letto la storia dei due sfortunati amanti a Bayreuth, ove assisteva alla
prima dell’Anello dei Nibelunghi di Wagner. Subito folgorato, compose
l’opera in sole tre settimane, di getto: “con amore, e ne ho fatto un
successo” dirà al fratello Modest. La prima parte dell’opera dà una
descrizione drammatica dei tormenti infernali; a metà l’amore di Paolo e
Francesca è rappresentato musicalmente in un tema lirico giocato su
strumenti a
corda
che
è
contrastato
dal
clarinetto.
L’intensità
dell’espressione è esacerbata finché il suono del coro annuncia la
catastrofe, l’arrivo del marito. La parte finale è la danza infernale ove
esplodono le percussioni a significare che i due amanti non possono
sperare nella redenzione.
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Tra queste tre donne di grande attualità e modernità mi ha attirato
in particolare la senese Pia de’ Tolomei, talmente attuale che nella
primavera dello scorso anno la sua conterranea Gianna Nannini le ha
dedicato l’album “Pia come la canto io” col sottotitolo significativo “una
voce prigioniera”. Il disco anticipa tra l’altro un musical in realizzazione
proprio in questi giorni.
Il primo a collegare Francesca, Pia e Piccarda fu Francesco De
Sanctis. La critica romantica riconosceva validità poetica soltanto ai
sentimenti umani e terreni dei personaggi e quindi trovava modo nel canto
III del Paradiso di distinguere nel rapporto tra Francesca, Pia, Piccarda
(cito qui De Sanctis) “la successiva evanescenza della forma. Francesca
esprime tutte le sue passioni terrene e vi si inebria; Pia le indica appena
ma con tocchi che richiamano tutto il quadro, mentre in Piccarda il
terreno è del tutto svanito, vi è l’azione, non più il sentimento”.
Ho quindi volutamente messo da parte Beatrice, la donna angelicata
che, pur essendo perfetta, Dante poneva al nono posto nel catalogo delle
donne più belle di Firenze citato nel cap. VI della Vita nuova (ma nove era
il multiplo del tre, numero perfetto secondo le credenze del tempo) o una
figura essenzialmente allegorica come quella di Matelda che svolge il ruolo
di accompagnare Dante nel Paradiso terrestre o di Sapìa senese, zia di
Provenzan Salvani citata nel XIII canto del Purgatorio tra le anime degli
invidiosi perché mentre si svolgeva la battaglia di Colle tra i senesi e i
fiorentini salì su una torre e pregò (oggi si direbbe “gufò”) che i senesi
perdessero e infatti fu così. Pur essendo nel regno della penitenza Sapìa
sembra conservare qualcosa della sua natura bizzarra e pettegola che
non la rende ai nostri occhi troppo simpatica.
Nel IX del Paradiso
troviamo Cunizza da Romano, donna lussuriosa che però alla fine della sua
vita si rivolse all’amore divino e quindi Dante per questo la affranca. Maria
è l’ultimo personaggio femminile della Divina Commedia, cui San Bernardo
rivolge la celebre preghiera “Vergine madre, figlia del tuo figlio”. C’è un
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delicato gioco di parti al culmine del Paradiso tra Maria e Beatrice, che è
come dire, familiarmente, che anche Dante, come tutti gli innamorati,
aveva sempre visto nella sua donna una Madonna.
Inizierò subito con l’analisi di Francesca, cui dedicherò più spazio,
perché su di lei è stato scritto e dipinto molto; peraltro Francesca è
anticipata nel canto V dei lussuriosi nell’Inferno da altre donne illustri
come Semiramìs di cui si legge che
succedette a Nino e fu sua sposa; tenne la terra che’il Soldan corregge.
L’altra è colei che s’ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo; poi è
Cleopatràs lussuriosa. Elena vedi ,per cui tanto reo tempo si volse, e vedi ‘l
grande Achille, che con amore al fine combatteo.
Tale sequenza di eroine d’amore è trasfigurata da Dante in chiave
cavalleresca e cortese, secondo il costume medievale. Francesca è
protagonista dei vv. 97-138 dell’Inferno che ora vi leggerò pur sapendo
che sono talmente noti da non aver bisogno di una lettura, specialmente
l’anafora celeberrima delle tre terzine dei vv. 100-108 rievocata anche da
noti cantautori come Jovanotti che in “Serenata rap” (da Lorenzo 1994)
usa il v. 103 non come citazione dotta ma come parole dello slang
quotidiano:
Affacciati alla finestra amore mio/per te da questa sera ci sono/amor
ch’a nullo amato amar perdona porco cane/lo scriverò sui muri/e sulle
metropolitane di questa città/milioni di abitanti/ che giorno dopo giorno
ignorandosi vanno avanti/e poi chissà perché perché chissà per come
e Venditti in “Ci vorrebbe un amico” da Cuore del 1984 che cambia il
verso in
“e se-amor ch’a nullo amato…amore, amore mio perdona”
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ove sono importanti quei puntini di sospensione; è come se Venditti
accennasse il verso di Dante e poi tornasse nella canzone e alla sua storia
d’amore. La citazione di Dante è un pretesto, un attimo fuggevole. Una
curiosità, Venditti ha studiato al Liceo classico e quindi ha ben presente
Dante che citava anche in” Compagno di scuola” contenuta in Lilly del ‘75.
Ma Paolo e Francesca quelli io me li ricordo bene perché, ditemi, chi non si
è mai innamorato di quella del primo banco, la più carina, la più cretina
ove è presente il ricordo condiviso con milioni di altri studenti di tutte le
età, del Dante studiato a scuola; le canzoni di Venditti ci dicono che quello
con Dante a scuola è un incontro importante , di quegli incontri che
lasciano il segno.
Ma sentiamo Dante:
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove il Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Amor,ch’al cor gentile ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense”.
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’io intesi quell’anime offense,
china’il viso, e tanto il tenni basso,
fin che il poeta mi disse: “Che pense?”
Quando rispuosi, cominciai: “Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!”
Poi mi rivolsi a loro e parla’io,
e cominciai:”Francesca, i tuoi martiri
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a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?”
E quella a me: “Nessun maggior dolore
Che ricordarsi del tempo felice
Ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
Del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
Quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
Esser basciato da cotanto amante,
questi,che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante”.
Poche sono le notizie pervenute su Francesca dai cronisti e dai
documenti d’archivio, sappiamo che era nata intorno alla metà del XIII
sec., che era figlia di Guido da Polenta, che andò in sposa a Gianciotto, che
significa lo “sciancato”, signore di Rimini. Il matrimonio aveva un
significato politico perché sanciva la pace tra due famiglie che erano
state a lungo avversarie. Poi si era innamorata del cognato Paolo e, come si
sa, sorpresa in adulterio, fu trucidata con l’amante come si vede dal
quadro
! Paolo e Francesca di Gaetano Previati del 1887 conservato
all’Accademia Carrara di Bergamo che ne dà un’interpretazione realistica
secondo il gusto della Scapigliatura. Soluzioni iconografiche suggestive
sono l’unica spada che trafigge i due amanti e la collocazione presso un
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letto che occupa quasi tutto lo spazio del formato ristretto orizzontale
della tela.
Francesca, secondo quanto riferisce Boccaccio commentando il passo
di Dante, sarebbe stata ingannata all’atto del matrimonio, avrebbe cioè
creduto di sposare Paolo, che invece in quell’occasione rappresentava per
procura il fratello. La voce è però quasi sicuramente infondata. Di certo il
fatto di sangue avvenne tra il 1283 e il 1286 ed ebbe notevole risonanza
soprattutto per il nome insigne delle due famiglie coinvolte; Dante
riconosce nel canto l’anima che chiama per nome al v. 116 e conobbe Paolo
quando fu capitano del popolo a Firenze. Le parole di Francesca riflettono
fin dall’inizio l’eleganza di una società aristocratica, basta pensare ad
espressioni come animal grazioso e benigno ed aere perso, nonché la
raffinatissima perifrasi eufemistica noi che tignemmo il mondo di
sanguigno. La narrazione della vicenda è scandita su tre fatti essenziali: il
luogo di nascita, la passione per Paolo e la morte atroce. È come se la vita
intera del personaggio paragonabile ad un segmento, trovasse il proprio
senso compiuto, tra i due estremi della nascita e della morte,
nell’esperienza amorosa. Proprio questo punto, vedremo, accomunerà
Francesca a Pia il cui dramma esistenziale è indicato dal luogo di nascita e
da quello di morte messi ai punti estremi di un segmento temporale,
tecnica frequentissima nell’ Inferno. Raccontando la sua vita Francesca
rifugge da particolari realistici, ricostruisce la propria vicenda come
azione, non sua, ma dovuta alla forza di amore, la famosa anafora. È stata
cioè una catena del destino: Amore ha preso il cor gentile di Paolo,
inducendolo ad amarla, Paolo non ha potuto sottrarsi alla forza di Amore
che obbliga ogni persona amata a ricambiare il sentimento e l’esito di
questa passione è stata l’unione nella morte. Tutto il discorso di
Francesca riecheggia concetti e forme del trattato De amore di Andrea
Cappellano che costituì il codice dell’amor cortese e che si ritrova nella
famosa canzone-manifesto dello stilnovismo Al cor gentil rempaira
sempre Amore di Guido Guinizzelli. Proprio dal riconoscimento di matrici
letterarie comuni scaturisce il turbamento di Dante rilevato da Virgilio e
la sua riflessione sui dolci pensier che portarono i due amanti al doloroso
passo. Da qui la domanda di Dante che vuol sapere ciò che ha solo intuito,
cioè se la letteratura sia in parte responsabile dell’adulterio e la risposta
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di Francesca conferma le sue supposizioni. Nel rievocare dolorosamente la
prima radice del peccato commesso Francesca cita subito il libro Lancelot
du lac noto a Dante probabilmente nell’originale. L’adulterio ha dunque
origine da una lettura che inizia sanza alcun sospetto e solo un punto, un
punto ben preciso, fu quello che indusse i due cognati ad amarsi: quello in
cui il personaggio che più incarna le virtù cavalleresche bacia il disiato
riso della regina Ginevra. Così la vicenda di Francesca si trasferisce dal
piano della finzione letteraria a quello della passione reale: il libro
galeotto ( dal nome del siniscalco di Ginevra) viene accantonato: quel
giorno più non vi leggemmo avante. Anche in Pietro Abelardo Historia
calamitatum mearum si trova un passo simile:
!Aprivamo i libri, ma si parlava più d’amore che di filosofia: erano più i
baci che le spiegazioni…L’amore attirava i nostri occhi più spesso di
quanto la lettura non li dirigesse sui libri…
La critica ha a lungo discusso sul significato di tale vicenda agli
occhi di Foscolo e De Sanctis dettata dalla comprensione pietosa di
Dante, poi da Sapegno letta come perplessità. Contini ha letto Francesca
come una professionista della letteratura in cui si identifica Dante,
Sanguineti ha letto l’episodio in chiave borghese paragonando Francesca a
Madame Bovary che utilizza la letteratura come alibi al proprio
comportamento. Angelo Jacomuzzi ha puntato l’attenzione sulla
dimensione tragico-ironica che attraversa l’incontro ove Francesca non
distingue più tra letteratura e vita e Dante quindi prenderebbe da lei le
distanze.
Vorrei però qui osservare che per Francesca la morte è un dramma
esterno a lei, un fatto occasionale e marginale, perciò non la interpreterei
come quell’eroina d’amore che De Sanctis ha sia pur magistralmente
offerto né può essere portata al ruolo di lettrice di provincia vittima
delle sue letture come madame Bovary. Il suo dramma vero e intimo è nel
suo tempo felice durante la vita, nel modo del suo amore e nella fragilità
della sua volontà. Questa ci sembra l’interpretazione preferibile della
storia di Francesca che consente di superare i limiti romantici della
ricostruzione desanctisiana e di evitare frasi come quella di Sanguineti
secondo cui Francesca sarebbe “una Bovary del 200 che sogna i baci di
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Lancillotto e finisce negli abbracciamenti del cognato”. Tesi interessante
ma che conduce fuori strada in quanto interpreta in chiave ottocentesca
l’umanità di questa figura medievale il cui limite stilnovistico esclude ogni
traccia di bovarismo. Restituire cioè Francesca al suo tempo storico in
una concezione secondo cui la donna racconta la sua storia, il modo e la
radice del suo amore nel piano dell’eternità della sua condanna e della sua
miseria ci sembra l’unica tesi valida e possibile.
Tra le numerose riprese del personaggio nella letteratura italiana
merita certamente un cenno la tragedia di Silvio Pellico Francesca da
Rimini del 1815 che accoglie l’interpretazione romantica, mentre una
lettura sensuale e morbosa è nella Francesca da Rimini di D’Annunzio che
è costruita su due binari paralleli: da un lato il crescere della passione di
Paolo, dall’altro il rancore del fratello Malatestino che fa la spia a
Gianciotto.
La fortuna figurativa dell’episodio è enorme nell’Ottocento
romantico, sebbene ci sia un precedente trecentesco nell’!affresco della
chiesa di Santa Maria in Porto Fuori di Ravenna che presenta un ipotetico
ritratto di Francesca.
Le opzioni della tradizione iconografica sono diverse: 1) dagli artisti
può essere scelta la vicenda terrena dei due cognati, il bacio durante la
lettura, spiato o meno dal marito. Oppure come abbiamo visto prima viene
scelto il momento dell’uccisione e comunque si privilegia il gusto per la
ricostruzione storica. 2) In secondo luogo può essere scelta la vicenda
ultraterrena dei due amanti, il colloquio con Dante o l’amore mistico delle
due anime. Al primo tipo appartengono questo
!La bocca mi baciò tutto tremante di John Flaxman del 1802 conservato
a Bologna alla Biblioteca comunale dell’Archiginnasio. Come si vede
riprende alla fine del ‘700, dopo due secoli di disinteresse, la lettura
dell’opera dantesca e la sua traduzione in immagini. L’Inghilterra è un
terreno fertile: operano qui i più interessanti illustratori della Commedia
come lo scultore Flaxman cui vengono commissionate le tavole dantesche
per una edizione di grande successo, caratterizzate da uno stile grafico
di gusto neoclassico, sobrio ed intenso ,capace di fondere modelli classici
e medievali
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!o questo Paolo e Francesca di Anselm Feuerbach del 1863 conservato a
Monaco alla Schack Galerie, dipinto che traduce il soggetto in chiave
idilliaca riprendendo il momento immediatamente precedente al bacio,
mentre i due giovani sono assorti nella lettura
o questo !Paolo e Francesca di Jean-Auguste Dominique Ingres del 1834
conservato vicino a New York, che risolve la scena del bacio in modo
stilizzato alla maniera trobadorica, ove la caratterizzazione di Francesca
mette in evidenza la sua pudicizia, riservando tutto l’ardore amoroso a
Paolo; qui si vede Gianciotto che spunta sulla destra a spiare la coppia.
Al secondo tipo appartengono invece
! Paolo e Francesca di Ary Scheffer del 1835 conservato a Londra che
rappresenta Dante e Virgilio dinanzi alle due anime abbracciate, viste
come due figure dolenti e bellissime sul drammatico sfondo nero e su cui
si fonda tutta l’attenzione del poeta che relega i due poeti in posizione
buia e marginale
o questo ! Paolo e Francesca di Vitale Sala del 1823 All’Accademia di
Brera,molto fedele al testo per ciò che concerne il diverso atteggiamento
dei due amanti, Francesca disposta al dialogo, Paolo che nasconde il volto.
Ma ci sono anche elementi di devianza: Sala rappresenta tutte le anime
degli amanti in costume storico e tutte a coppie, probabilmente per un
intento di chiarezza e per scrupoli di pudicizia. Il momento scelto qui è
quello in cui, dopo il colloquio, Dante è sopraffatto dalla commozione e
cade a terra
come corpo morto cade
In questo suggestivo quadro di William Blake !Paolo e Francesca del
1824 conservato al Museo di Birmingham la rappresentazione del cerchio
dantesco si fa astratta e indistinta, attenta più alla dinamica vorticosa
dei movimenti e alle luci che alla caratterizzazione dei personaggi. Qui è
rappresentato il momento finale dell’episodio quando Dante è già a terra
svenuto.
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Infine Umberto Boccioni rappresenta nel 1908 !Il sogno di Paolo e
Francesca che perde qualsiasi fedeltà iconografica e diventa una generica
immagine d’amore. Il titolo originale era infatti Quanto c’è di male nella
felicità e l’altro titolo si ricollega all’opera di Previati che abbiamo visto
prima. Il gruppo centrale si staglia con i suoi colori caldi da uno sfondo
cupo nelle parti basse dove compaiono dei cadaveri affioranti dalle
acque,come vittime di un diluvio universale e da un cielo terso nelle parti
alte. C’è un senso di levitazione, di sospensione ascensionale delle figure
abbracciate che dà al quadro un’atmosfera onirica, come spesso accade
nelle correnti irrazionalistiche espressive del primo Novecento.
Questo !Paolo e Francesca da Rimini del 1855 di Dante Gabriel Rossetti
alla Tate Gallery di Londra si pone a cavallo tra le due alternative
pittoriche. Il primo scomparto rappresenta l’episodio più emblematico
della vita terrena di Paolo e Francesca. Sotto le loro figure corre
l’iscrizione, che qui non si legge, Quanti dolci pensier quanto disio, che
esprime la reazione commossa di Dante al racconto, il secondo scomparto
rappresenta Dante e Virgilio nel secondo cerchio infernale: sopra di loro
l’iscrizione O lasso! Ad indicare il senso di pietà, mentre il terzo
scomparto è destinato alla sorte ultraterrena delle due anime dannate.
Sotto le figure corre l’iscrizione Menò costoro al doloroso passo che
sanziona il valore esemplare dell’episodio. L’acquerello è alla base di un
dipinto e di una decorazione di un pezzo di mobilio e questo spiega la
tripartizione. Da notare anche il libro illustrato di Galeotto sul grembo di
Francesca .
Passiamo ora alla seconda cantica: canto V Purgatorio, i morti
violentemente.
« "Deh, quando tu sarai tornato al mondo,
e riposato de la lunga via",
seguitò 'l terzo spirito al secondo,
"Ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che 'nnanellata pria
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disposando m'avea con la sua gemma". »
(Purgatorio V, 130-136) CANZONE
Pia de’ Tolomei è una nobile senese andata sposa a un signorotto
guelfo del castello maremmano della Pietra, Nello dei Pannocchieschi che
l’avrebbe fatta uccidere defenestrandola per gelosia o per risposarsi
forse con Margherita degli Aldobrandeschi. Secondo la ricostruzione più
recente Nello sarebbe partito per la guerra e durante la sua assenza
quello che lui credeva il suo migliore amico, Ghino, corteggiò Pia senza
ottenerne i favori. Meschino e vendicativo, Ghino andò a riferire a Nello
che Pia lo tradiva. Distrutto dalla gelosia, Nello credette all’amico e
richiuse Pia in un castello in Maremma dove la donna si sarebbe ammalata
di malaria. Quel delitto avrà affascinato la memoria di Dante oltre che
per le circostanze misteriose anche per completare quel quadro della
ferocia medievale di cui tutti gli episodi del canto sono testimonianza.
Pia ci appare ultima nella schiera dopo Jacopo del Cassero e
Buonconte da Montefeltro,un’apparizione breve ma intensa. Dopo aver
chiesto a Dante di ricordarsi di pregare per la sua anima (ricorditi di me,
che son la Pia) quando Dante sarà tornato al mondo, e riposato de la lunga
via, (e si noti quest’unico verso in cui non parla di lei ma si preoccupa con
grande delicatezza e umanità di Dante) la donna riassume in una terzina la
sua tragica sorte: i luoghi della vita e della morte racchiusi in un verso
chiastico Siena mi fè, disfecemi Maremma. Ricordate che anche la vita di
Francesca era racchiusa in uno stesso segmento se pur più lungo, con lo
stesso andamento antitetico per dar rilievo al racconto che ritroviamo in
Inferno,VI, 42 per Ciacco (tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto) o nel
XXXIII, 62 nell’episodio del conte Ugolino, le parole dei figli rivolte al
padre (tu ne vestisti queste misere carni e tu le spoglia). Mentre la morte
di Jacopo del Cassero e di Bonconte da Montefeltro che precedono Pia nel
canto è indicata dal verbo caddi, immagine propria del campo di battaglia,
quella di Pia è appena velata da quel disfecemi che acquista rilievo
drammatico solo grazie all’antitesi. Anche in lei è appena accennata quella
poesia del corpo con cui inizia il canto quando i negligenti e i morti di
morte violenta scoprono che Dante non dava loco per lo suo corpo al
trapassar dei raggi. Segue l’evocazione del rito nuziale, senza sdegno e
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rancore se non una velata amarezza verso colui che sa come sono andate
realmente le cose, lo sposo colto nell’atto di infilarle al dito l’anello come
promessa poi violata di fedeltà (salsi colui che ‘nnanellata pria disposando
m’avea con la sua gemma). Il perdono divino ha trionfato in tanta ferocia,
Pia è forse la più vicina di tutte le anime purganti a quella beatitudine di
cui il poeta non l’ha fatta degna. Perciò forse il racconto di Pia si
racchiude in pochi versi misteriosi. Jacopo e Bonconte, ma anche
Francesca,avevano una storia da raccontare per giustificare l’odio di cui
caddero vittime. Pia non ne ha alcuna se non quella che si identifica con la
sua felicità di sposa inanellata da quella stessa mano che la uccise, un po’
come l’Ermengarda manzoniana che ricorda il suo arrivo di sposa felice tra
le nuore saliche. Per Pia Dante non usa il verbo caddi ma i verbi fè e
disfecemi che indicano la vita e la morte, morte che per Pia si identifica
con l’amore e il ricordo di quella mano che le porse l’anello che doveva
essere pegno di un amore indissolubile .
Il magico effetto prodotto sul lettore dalla breve e intensa
presenza di Pia ha dato luogo a un’eco figurativa smisurata nell’Ottocento
romantico. Anche qui ci sono due opzioni: 1) la più suggestiva in scultura,
ricalca l’iconografia delle allegorie religiose, la Fede in Dio, la fiducia e
l’umiltà. Questi aspetti trovano riscontro nel testo dantesco nella
reticenza, nella tristezza senza odio di Pia, nella fiduciosa discrezione con
cui si affida alla memoria del poeta. 2) L’altra opzione dipende dalle
derivazioni letterarie fiorite sull’episodio dantesco che virano sul
romanzesco e ricostruiscono la vita terrena di Pia sul modello della
shakespeariana Desdemona. Tali rappresentazioni puntano più sulla
ricostruzione storica di ambienti e costumi. Al primo genere appartiene
dunque questa
!La Pia (Siena mi fe’,disfecemi Maremma) del 1863 di Achille Della Croce
conservata a Napoli
Al secondo questa !la Pia de’ Tolomei di Dante Gabriel Rossetti del 1868
conservata all’università del Kansas. Rossetti sceglie di ricostruire
liberamente la reclusione di Pia che posa con aria malinconica, sguardo nel
vuoto,mani che stringono l’anello nuziale, ambientazione tipicamente
autunnale e maremmana. Attorno alla figura sono sparpagliati oggetti dal
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valore narrativo: un fascio di lance con lo stendardo del marito, un
breviario col rosario, lettere d’amore scritte dal marito quando ancora
l’amava. Ispiratrice di questo quadro fu una delle donne amate da
Rossetti, Jane Morris.
Dell’antica storia di Pia cosa rimane oggi? Restano i motivi della
gelosia,della calunnia di un’innocente, di una malattia incurabile e
pandemica, di uno stato di guerra latente tra uomini e donne tale che può
bastare un nulla a scatenare l’odio e la volontà punitiva. Ritengo che
dunque sia davvero personaggio di grande attualità.
Siamo giunti così all’ultima donna dantesca. Siamo nel III del
Paradiso, cielo della luna, spiriti mancanti ai voti.
« Perfetta vita e alto merto inciela
donna più sù », mi disse, «a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.
Dal mondo, per seguirla, giovinetta
fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta.
Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi.
E quest’altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s’accende
di tutto il lume de la spera nostra,
ciò ch’io dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
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di capo l’ombra de le sacre bende.
Ma poi che pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta.
Quest’è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò ’l terzo e l’ultima possanza".
Così parlommi, e poi cominciò "Ave,
Maria" cantando, e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.
Piccarda è la figlia di Simone Donati, sorella di Corso, capo del
partito dei guelfi neri, e di Forese, amico di Dante. Venne rapita dal
convento fiorentino di Santa Chiara dal fratello Corso che voleva darla in
sposa a Rossellino della Tosa, suo alleato politico. Le sue notizie
biografiche sono per lo più ricavate dai primi commentatori del poema
dantesco, in particolare l’Ottimo che narra che Piccarda venne rapita
quando Corso era podestà o capitano del popolo, quindi tra il 1283 e il
1293. Dalla stessa fonte apprendiamo che Piccarda, pochi giorni dopo
l’atto di violenza di cui fu vittima, si ammalò e morì. Una leggenda afferma
che le fu consentito di mantenere la verginità grazie alla lebbra che la
colpì, come segno divino, dopo il rapimento. La malattia è il segno che la
accomuna a Piccarda.
La presenza di Piccarda in Paradiso viene anticipata nella Commedia
dal fratello Forese incontrato da Dante tra i golosi in Purgatorio. Le
parole di Forese nel XXIV del Purgatorio:
la mia sorella, che tra bella e buona
non so qual fosse più, triunfa lieta
ne l’alto Olimpo già di sua corona
risuonano come risposta alla domanda posta con affettuosa sollecitudine
da Dante
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ma dimmi, se tu sai, dov’è Piccarda
e segnalano il legame particolare che i due fratelli Donati (al terzo, Corso,
viene preannunciata la dannazione dallo stesso Forese) svolgono nella
rievocazione degli anni della giovinezza del poeta. Dante non riconosce
subito Piccarda nella trasfigurazione paradisiaca, e inizia a dialogare con
lei perché è l’anima del gruppo lunare che si presenta più desiderosa di
parlare con lui. Piccarda lo invita a consultare con attenzione la memoria
se la mente tua ben sé riguarda
per riconoscere i suoi tratti fisionomici.
Ciò che caratterizza Piccarda è il senso di coralità che accompagna
la sua condizione di spirito beato. Piccarda parla a Dante in prima persona
plurale in tutta la parte iniziale del discorso, a nome del gruppo di anime
cui appartiene. Al centro della sua esposizione teologica c’è il senso della
conformità al volere divino, che non permette alle anime del cielo della
Luna di desiderare un grado di beatitudine superiore a quello in cui si
trovano. Dante chiede a Piccarda di narrare la sua vicenda individuale e la
risposta della donna si sottrae ad ogni precisazione realistica. Il suo
racconto si estende per 4 terzine due delle quali dedicate a santa Chiara,
fondatrice dell’ordine cui Piccarda apparteneva. Quattro verbi
scandiscono solennemente la scelta della donna
Dal mondo per seguirla ,giovinetta
fuggi’mi,e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta.
L’atto violento che interruppe il voto e che sta alla base della
condizione ultraterrena dell’anima è descritto con tratti sfumati che
cancellano ogni ombra di polemica e di condanna
Uomini poi, a mal più ch’a bene usi
Fuor mi rapiron de la dolce chiostra
Iddio si sa qual poi mia vita fusi
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La terza parte del discorso di Piccarda è dedicata a presentare un
altro personaggio femminile, Costanza d’Altavilla che ebbe destino simile
al suo perché fu strappata al monastero per rispettare un impegno
matrimoniale. Nel parlare dell’anima che le sta accanto Piccarda descrive
un sentimento che vale anche per lei
non fu dal vel del cor già mai disciolta
Mentre la critica romantica ha visto in Piccarda il conflitto tra
celeste e umano come se il personaggio, pur nella gloria del Paradiso,
serbasse una specie di rimpianto per quella pace del chiostro cui fu
strappata,la critica novecentesca invece ha messo in luce la profonda
coerenza psicologica e morale dell’episodio: Piccarda ritrova in cielo ciò
che ha smarrito per colpa altrui in terra e porta a termine quella
promessa che aveva visto crudelmente interrotta. D’altronde il congedo di
Dante compiuto attraverso un’Ave Maria cantata, pare proprio alludere a
una pace claustrale che, deturpata dagli uomini sulla terra, è ristabilita in
cielo per l’eternità. Molto coerentemente Dante ha fatto parlare a
Piccarda un linguaggio teologico là dove essa deve spiegare la sua
beatitudine eterna e il grado da essa raggiunto in rapporto ai suoi meriti,
e invece un linguaggio realistico e popolaresco là dove essa rievoca la sua
ansia terrena di suora che sognava lo sposo mistico. Due linguaggi che
sono i riflessi delle due dimensioni narrative con cui Dante ha concepito i
suoi personaggi, quello del tempo e quello dell’eternità. Si noti quanto
frequenti ricorrano nel canto i termini carità, volontà, voglia, pace, luce,
calore, infiammati quasi a sottolineare la forza possente dell’ardente
amore terreno per Cristo che ha certamente una misura non meno intensa
di quello di Francesca per Paolo.
La letteratura si è interessata più di monacazioni forzate che di
monache strappate al convento: sto pensando a La religieuse di Diderot
del 1796, alla monaca di Monza di Manzoni e alla Storia di una capinera di
Verga del 1871. La pagina dantesca sul voto di Piccarda è stata
certamente tenuta da presente da Manzoni anche nella vicenda di Lucia;
pare che Manzoni abbia voluto creare una situazione opposta e
complementare a quella di Piccarda; questa rompe i voti per essere stata
rapita, Lucia emette il suo voto in conseguenza del rapimento. Inoltre il
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voto di Piccarda è un atto di difesa personale e di imitazione onesta ma
alquanto ingenua di una figura superiore di donna come santa Chiara
mentre il voto di Lucia è un’estrema attestazione di libertà e dignità, ed è
anche un distacco dalla creatura più amata motivata dalla precisa
percezione che quella libertà non si attua se non in una totale
appartenenza a Dio (si vedano gli studi di Silvio Pasquazi).
L’arte si è di fatto quasi completamente disinteressata della parte
del poema a cui Dante attribuiva l’importanza maggiore sul piano
dottrinale e allegorico: I motivi sono probabilmente la mancanza della
componente drammatica e il parallelo intensificarsi delle parti dottrinali.
Eccetto qualche generica rappresentazione dell’Empireo da parte di
autori ottocenteschi di ambiente pontificio o specificamente nazareno, i
personaggi come Piccarda non vengono presi in considerazione. Citiamo
questo ! L’Empireo di Philipp Veit del 1827 conservato a Roma ove
l’autore rappresenta l’intera terza cantica con la tipica struttura
concentrica della rappresentazione medievale dei cieli, al centro
campeggia la Vergine con Dante e san Bernardo inginocchiati mentre
Dante e Beatrice sono continuamente riproposti a colloquio con i vari
gruppi di anime. L’unica altra testimonianza è quella dell’incisore Gustave
Dorè, immagine con cui ho aperto la conferenza.
Concluderò citando Gabriele Lavia, il regista-attore che a marzo in
una sua conferenza sulle donne cantate da Dante ha annotato:
“Per tutta la sua vita, per tutta la sua carriera letteraria, Dante si sforza
di farci credere che per lui una sola donna ha contato veramente:
Beatrice. Ma sia nella Vita nova, sia nelle Rime molte altre presenze
femminili affiorano, in gara più o meno aperta, con Beatrice, sintomo di
una curiosità sentimentale, di una sensibilità verso l’universo femminile
che la Divina Commedia sigillerà in alcune delle sue figure più memorabili.”
Ed è a queste donne, a queste “altre” donne presenti nella vita di
Dante, donne certamente violate, vittime di violenza e brutalità ma
soprattutto donne innamorate di qualcuno o qualcosa, che ho voluto
dedicare anch’io le letture e le riflessioni di questa sera.
© copyright 2009 Maria Edoarda Marini
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Maria Edoarda Marini
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FRANCESCA DA RIMINI, PIA DE` TOLOMEI, PICCARDA DONATI