Maria Edoarda Marini PERSONAGGI FEMMINILI DELLA DIVINA COMMEDIA: FRANCESCA DA RIMINI, PIA DE’ TOLOMEI, PICCARDA DONATI Ho scelto questo argomento perché la Divina Commedia è un poema di personaggi soprattutto maschili; le figure femminili che vengono in primo piano, che entrano in rapporto diretto con Dante, sono davvero poche, la maggioranza resta sullo sfondo, confusa tra le altre anime, con valore simbolico. Di donne vere, pochissime ma di straordinario rilievo, perché attraverso di loro Dante sviluppa l’intera riflessione sul tema dell’amore a partire dalla passione carnale e peccaminosa alla più alta concezione religiosa, dalla lussuria di Francesca alla teologia e dunque a Beatrice. Francesca, Pia e Piccarda sono tre donne tormentate, che nella loro vita hanno subito una violenza, fisica o morale, e sono tutte e tre innamorate, le prime due di un uomo, l’ultima di Dio. Di tutte e tre si è occupata l’arte e la musica. All’ingresso avete sicuramente ascoltato, forse vi sarete anche chiesti di cosa si trattasse, le note del poema sinfonico di Tchaikovsky, la fantasia n. 32 Francesca da Rimini scritto a Mosca nel 1876 dopo aver letto la storia dei due sfortunati amanti a Bayreuth, ove assisteva alla prima dell’Anello dei Nibelunghi di Wagner. Subito folgorato, compose l’opera in sole tre settimane, di getto: “con amore, e ne ho fatto un successo” dirà al fratello Modest. La prima parte dell’opera dà una descrizione drammatica dei tormenti infernali; a metà l’amore di Paolo e Francesca è rappresentato musicalmente in un tema lirico giocato su strumenti a corda che è contrastato dal clarinetto. L’intensità dell’espressione è esacerbata finché il suono del coro annuncia la catastrofe, l’arrivo del marito. La parte finale è la danza infernale ove esplodono le percussioni a significare che i due amanti non possono sperare nella redenzione. 1 Tra queste tre donne di grande attualità e modernità mi ha attirato in particolare la senese Pia de’ Tolomei, talmente attuale che nella primavera dello scorso anno la sua conterranea Gianna Nannini le ha dedicato l’album “Pia come la canto io” col sottotitolo significativo “una voce prigioniera”. Il disco anticipa tra l’altro un musical in realizzazione proprio in questi giorni. Il primo a collegare Francesca, Pia e Piccarda fu Francesco De Sanctis. La critica romantica riconosceva validità poetica soltanto ai sentimenti umani e terreni dei personaggi e quindi trovava modo nel canto III del Paradiso di distinguere nel rapporto tra Francesca, Pia, Piccarda (cito qui De Sanctis) “la successiva evanescenza della forma. Francesca esprime tutte le sue passioni terrene e vi si inebria; Pia le indica appena ma con tocchi che richiamano tutto il quadro, mentre in Piccarda il terreno è del tutto svanito, vi è l’azione, non più il sentimento”. Ho quindi volutamente messo da parte Beatrice, la donna angelicata che, pur essendo perfetta, Dante poneva al nono posto nel catalogo delle donne più belle di Firenze citato nel cap. VI della Vita nuova (ma nove era il multiplo del tre, numero perfetto secondo le credenze del tempo) o una figura essenzialmente allegorica come quella di Matelda che svolge il ruolo di accompagnare Dante nel Paradiso terrestre o di Sapìa senese, zia di Provenzan Salvani citata nel XIII canto del Purgatorio tra le anime degli invidiosi perché mentre si svolgeva la battaglia di Colle tra i senesi e i fiorentini salì su una torre e pregò (oggi si direbbe “gufò”) che i senesi perdessero e infatti fu così. Pur essendo nel regno della penitenza Sapìa sembra conservare qualcosa della sua natura bizzarra e pettegola che non la rende ai nostri occhi troppo simpatica. Nel IX del Paradiso troviamo Cunizza da Romano, donna lussuriosa che però alla fine della sua vita si rivolse all’amore divino e quindi Dante per questo la affranca. Maria è l’ultimo personaggio femminile della Divina Commedia, cui San Bernardo rivolge la celebre preghiera “Vergine madre, figlia del tuo figlio”. C’è un 2 delicato gioco di parti al culmine del Paradiso tra Maria e Beatrice, che è come dire, familiarmente, che anche Dante, come tutti gli innamorati, aveva sempre visto nella sua donna una Madonna. Inizierò subito con l’analisi di Francesca, cui dedicherò più spazio, perché su di lei è stato scritto e dipinto molto; peraltro Francesca è anticipata nel canto V dei lussuriosi nell’Inferno da altre donne illustri come Semiramìs di cui si legge che succedette a Nino e fu sua sposa; tenne la terra che’il Soldan corregge. L’altra è colei che s’ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo; poi è Cleopatràs lussuriosa. Elena vedi ,per cui tanto reo tempo si volse, e vedi ‘l grande Achille, che con amore al fine combatteo. Tale sequenza di eroine d’amore è trasfigurata da Dante in chiave cavalleresca e cortese, secondo il costume medievale. Francesca è protagonista dei vv. 97-138 dell’Inferno che ora vi leggerò pur sapendo che sono talmente noti da non aver bisogno di una lettura, specialmente l’anafora celeberrima delle tre terzine dei vv. 100-108 rievocata anche da noti cantautori come Jovanotti che in “Serenata rap” (da Lorenzo 1994) usa il v. 103 non come citazione dotta ma come parole dello slang quotidiano: Affacciati alla finestra amore mio/per te da questa sera ci sono/amor ch’a nullo amato amar perdona porco cane/lo scriverò sui muri/e sulle metropolitane di questa città/milioni di abitanti/ che giorno dopo giorno ignorandosi vanno avanti/e poi chissà perché perché chissà per come e Venditti in “Ci vorrebbe un amico” da Cuore del 1984 che cambia il verso in “e se-amor ch’a nullo amato…amore, amore mio perdona” 3 ove sono importanti quei puntini di sospensione; è come se Venditti accennasse il verso di Dante e poi tornasse nella canzone e alla sua storia d’amore. La citazione di Dante è un pretesto, un attimo fuggevole. Una curiosità, Venditti ha studiato al Liceo classico e quindi ha ben presente Dante che citava anche in” Compagno di scuola” contenuta in Lilly del ‘75. Ma Paolo e Francesca quelli io me li ricordo bene perché, ditemi, chi non si è mai innamorato di quella del primo banco, la più carina, la più cretina ove è presente il ricordo condiviso con milioni di altri studenti di tutte le età, del Dante studiato a scuola; le canzoni di Venditti ci dicono che quello con Dante a scuola è un incontro importante , di quegli incontri che lasciano il segno. Ma sentiamo Dante: Siede la terra dove nata fui su la marina dove il Po discende per aver pace co’ seguaci sui. Amor,ch’al cor gentile ratto s’apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende. Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. Amor condusse noi ad una morte. Caina attende chi a vita ci spense”. Queste parole da lor ci fuor porte. Quand’io intesi quell’anime offense, china’il viso, e tanto il tenni basso, fin che il poeta mi disse: “Che pense?” Quando rispuosi, cominciai: “Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio menò costoro al doloroso passo!” Poi mi rivolsi a loro e parla’io, e cominciai:”Francesca, i tuoi martiri 4 a lagrimar mi fanno tristo e pio. Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, a che e come concedette amore che conosceste i dubbiosi disiri?” E quella a me: “Nessun maggior dolore Che ricordarsi del tempo felice Ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore. Ma s’a conoscer la prima radice Del nostro amor tu hai cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice. Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per più fiate li occhi ci sospinse Quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disiato riso Esser basciato da cotanto amante, questi,che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante”. Poche sono le notizie pervenute su Francesca dai cronisti e dai documenti d’archivio, sappiamo che era nata intorno alla metà del XIII sec., che era figlia di Guido da Polenta, che andò in sposa a Gianciotto, che significa lo “sciancato”, signore di Rimini. Il matrimonio aveva un significato politico perché sanciva la pace tra due famiglie che erano state a lungo avversarie. Poi si era innamorata del cognato Paolo e, come si sa, sorpresa in adulterio, fu trucidata con l’amante come si vede dal quadro ! Paolo e Francesca di Gaetano Previati del 1887 conservato all’Accademia Carrara di Bergamo che ne dà un’interpretazione realistica secondo il gusto della Scapigliatura. Soluzioni iconografiche suggestive sono l’unica spada che trafigge i due amanti e la collocazione presso un 5 letto che occupa quasi tutto lo spazio del formato ristretto orizzontale della tela. Francesca, secondo quanto riferisce Boccaccio commentando il passo di Dante, sarebbe stata ingannata all’atto del matrimonio, avrebbe cioè creduto di sposare Paolo, che invece in quell’occasione rappresentava per procura il fratello. La voce è però quasi sicuramente infondata. Di certo il fatto di sangue avvenne tra il 1283 e il 1286 ed ebbe notevole risonanza soprattutto per il nome insigne delle due famiglie coinvolte; Dante riconosce nel canto l’anima che chiama per nome al v. 116 e conobbe Paolo quando fu capitano del popolo a Firenze. Le parole di Francesca riflettono fin dall’inizio l’eleganza di una società aristocratica, basta pensare ad espressioni come animal grazioso e benigno ed aere perso, nonché la raffinatissima perifrasi eufemistica noi che tignemmo il mondo di sanguigno. La narrazione della vicenda è scandita su tre fatti essenziali: il luogo di nascita, la passione per Paolo e la morte atroce. È come se la vita intera del personaggio paragonabile ad un segmento, trovasse il proprio senso compiuto, tra i due estremi della nascita e della morte, nell’esperienza amorosa. Proprio questo punto, vedremo, accomunerà Francesca a Pia il cui dramma esistenziale è indicato dal luogo di nascita e da quello di morte messi ai punti estremi di un segmento temporale, tecnica frequentissima nell’ Inferno. Raccontando la sua vita Francesca rifugge da particolari realistici, ricostruisce la propria vicenda come azione, non sua, ma dovuta alla forza di amore, la famosa anafora. È stata cioè una catena del destino: Amore ha preso il cor gentile di Paolo, inducendolo ad amarla, Paolo non ha potuto sottrarsi alla forza di Amore che obbliga ogni persona amata a ricambiare il sentimento e l’esito di questa passione è stata l’unione nella morte. Tutto il discorso di Francesca riecheggia concetti e forme del trattato De amore di Andrea Cappellano che costituì il codice dell’amor cortese e che si ritrova nella famosa canzone-manifesto dello stilnovismo Al cor gentil rempaira sempre Amore di Guido Guinizzelli. Proprio dal riconoscimento di matrici letterarie comuni scaturisce il turbamento di Dante rilevato da Virgilio e la sua riflessione sui dolci pensier che portarono i due amanti al doloroso passo. Da qui la domanda di Dante che vuol sapere ciò che ha solo intuito, cioè se la letteratura sia in parte responsabile dell’adulterio e la risposta 6 di Francesca conferma le sue supposizioni. Nel rievocare dolorosamente la prima radice del peccato commesso Francesca cita subito il libro Lancelot du lac noto a Dante probabilmente nell’originale. L’adulterio ha dunque origine da una lettura che inizia sanza alcun sospetto e solo un punto, un punto ben preciso, fu quello che indusse i due cognati ad amarsi: quello in cui il personaggio che più incarna le virtù cavalleresche bacia il disiato riso della regina Ginevra. Così la vicenda di Francesca si trasferisce dal piano della finzione letteraria a quello della passione reale: il libro galeotto ( dal nome del siniscalco di Ginevra) viene accantonato: quel giorno più non vi leggemmo avante. Anche in Pietro Abelardo Historia calamitatum mearum si trova un passo simile: !Aprivamo i libri, ma si parlava più d’amore che di filosofia: erano più i baci che le spiegazioni…L’amore attirava i nostri occhi più spesso di quanto la lettura non li dirigesse sui libri… La critica ha a lungo discusso sul significato di tale vicenda agli occhi di Foscolo e De Sanctis dettata dalla comprensione pietosa di Dante, poi da Sapegno letta come perplessità. Contini ha letto Francesca come una professionista della letteratura in cui si identifica Dante, Sanguineti ha letto l’episodio in chiave borghese paragonando Francesca a Madame Bovary che utilizza la letteratura come alibi al proprio comportamento. Angelo Jacomuzzi ha puntato l’attenzione sulla dimensione tragico-ironica che attraversa l’incontro ove Francesca non distingue più tra letteratura e vita e Dante quindi prenderebbe da lei le distanze. Vorrei però qui osservare che per Francesca la morte è un dramma esterno a lei, un fatto occasionale e marginale, perciò non la interpreterei come quell’eroina d’amore che De Sanctis ha sia pur magistralmente offerto né può essere portata al ruolo di lettrice di provincia vittima delle sue letture come madame Bovary. Il suo dramma vero e intimo è nel suo tempo felice durante la vita, nel modo del suo amore e nella fragilità della sua volontà. Questa ci sembra l’interpretazione preferibile della storia di Francesca che consente di superare i limiti romantici della ricostruzione desanctisiana e di evitare frasi come quella di Sanguineti secondo cui Francesca sarebbe “una Bovary del 200 che sogna i baci di 7 Lancillotto e finisce negli abbracciamenti del cognato”. Tesi interessante ma che conduce fuori strada in quanto interpreta in chiave ottocentesca l’umanità di questa figura medievale il cui limite stilnovistico esclude ogni traccia di bovarismo. Restituire cioè Francesca al suo tempo storico in una concezione secondo cui la donna racconta la sua storia, il modo e la radice del suo amore nel piano dell’eternità della sua condanna e della sua miseria ci sembra l’unica tesi valida e possibile. Tra le numerose riprese del personaggio nella letteratura italiana merita certamente un cenno la tragedia di Silvio Pellico Francesca da Rimini del 1815 che accoglie l’interpretazione romantica, mentre una lettura sensuale e morbosa è nella Francesca da Rimini di D’Annunzio che è costruita su due binari paralleli: da un lato il crescere della passione di Paolo, dall’altro il rancore del fratello Malatestino che fa la spia a Gianciotto. La fortuna figurativa dell’episodio è enorme nell’Ottocento romantico, sebbene ci sia un precedente trecentesco nell’!affresco della chiesa di Santa Maria in Porto Fuori di Ravenna che presenta un ipotetico ritratto di Francesca. Le opzioni della tradizione iconografica sono diverse: 1) dagli artisti può essere scelta la vicenda terrena dei due cognati, il bacio durante la lettura, spiato o meno dal marito. Oppure come abbiamo visto prima viene scelto il momento dell’uccisione e comunque si privilegia il gusto per la ricostruzione storica. 2) In secondo luogo può essere scelta la vicenda ultraterrena dei due amanti, il colloquio con Dante o l’amore mistico delle due anime. Al primo tipo appartengono questo !La bocca mi baciò tutto tremante di John Flaxman del 1802 conservato a Bologna alla Biblioteca comunale dell’Archiginnasio. Come si vede riprende alla fine del ‘700, dopo due secoli di disinteresse, la lettura dell’opera dantesca e la sua traduzione in immagini. L’Inghilterra è un terreno fertile: operano qui i più interessanti illustratori della Commedia come lo scultore Flaxman cui vengono commissionate le tavole dantesche per una edizione di grande successo, caratterizzate da uno stile grafico di gusto neoclassico, sobrio ed intenso ,capace di fondere modelli classici e medievali 8 !o questo Paolo e Francesca di Anselm Feuerbach del 1863 conservato a Monaco alla Schack Galerie, dipinto che traduce il soggetto in chiave idilliaca riprendendo il momento immediatamente precedente al bacio, mentre i due giovani sono assorti nella lettura o questo !Paolo e Francesca di Jean-Auguste Dominique Ingres del 1834 conservato vicino a New York, che risolve la scena del bacio in modo stilizzato alla maniera trobadorica, ove la caratterizzazione di Francesca mette in evidenza la sua pudicizia, riservando tutto l’ardore amoroso a Paolo; qui si vede Gianciotto che spunta sulla destra a spiare la coppia. Al secondo tipo appartengono invece ! Paolo e Francesca di Ary Scheffer del 1835 conservato a Londra che rappresenta Dante e Virgilio dinanzi alle due anime abbracciate, viste come due figure dolenti e bellissime sul drammatico sfondo nero e su cui si fonda tutta l’attenzione del poeta che relega i due poeti in posizione buia e marginale o questo ! Paolo e Francesca di Vitale Sala del 1823 All’Accademia di Brera,molto fedele al testo per ciò che concerne il diverso atteggiamento dei due amanti, Francesca disposta al dialogo, Paolo che nasconde il volto. Ma ci sono anche elementi di devianza: Sala rappresenta tutte le anime degli amanti in costume storico e tutte a coppie, probabilmente per un intento di chiarezza e per scrupoli di pudicizia. Il momento scelto qui è quello in cui, dopo il colloquio, Dante è sopraffatto dalla commozione e cade a terra come corpo morto cade In questo suggestivo quadro di William Blake !Paolo e Francesca del 1824 conservato al Museo di Birmingham la rappresentazione del cerchio dantesco si fa astratta e indistinta, attenta più alla dinamica vorticosa dei movimenti e alle luci che alla caratterizzazione dei personaggi. Qui è rappresentato il momento finale dell’episodio quando Dante è già a terra svenuto. 9 Infine Umberto Boccioni rappresenta nel 1908 !Il sogno di Paolo e Francesca che perde qualsiasi fedeltà iconografica e diventa una generica immagine d’amore. Il titolo originale era infatti Quanto c’è di male nella felicità e l’altro titolo si ricollega all’opera di Previati che abbiamo visto prima. Il gruppo centrale si staglia con i suoi colori caldi da uno sfondo cupo nelle parti basse dove compaiono dei cadaveri affioranti dalle acque,come vittime di un diluvio universale e da un cielo terso nelle parti alte. C’è un senso di levitazione, di sospensione ascensionale delle figure abbracciate che dà al quadro un’atmosfera onirica, come spesso accade nelle correnti irrazionalistiche espressive del primo Novecento. Questo !Paolo e Francesca da Rimini del 1855 di Dante Gabriel Rossetti alla Tate Gallery di Londra si pone a cavallo tra le due alternative pittoriche. Il primo scomparto rappresenta l’episodio più emblematico della vita terrena di Paolo e Francesca. Sotto le loro figure corre l’iscrizione, che qui non si legge, Quanti dolci pensier quanto disio, che esprime la reazione commossa di Dante al racconto, il secondo scomparto rappresenta Dante e Virgilio nel secondo cerchio infernale: sopra di loro l’iscrizione O lasso! Ad indicare il senso di pietà, mentre il terzo scomparto è destinato alla sorte ultraterrena delle due anime dannate. Sotto le figure corre l’iscrizione Menò costoro al doloroso passo che sanziona il valore esemplare dell’episodio. L’acquerello è alla base di un dipinto e di una decorazione di un pezzo di mobilio e questo spiega la tripartizione. Da notare anche il libro illustrato di Galeotto sul grembo di Francesca . Passiamo ora alla seconda cantica: canto V Purgatorio, i morti violentemente. « "Deh, quando tu sarai tornato al mondo, e riposato de la lunga via", seguitò 'l terzo spirito al secondo, "Ricorditi di me, che son la Pia; Siena mi fé, disfecemi Maremma: salsi colui che 'nnanellata pria 10 disposando m'avea con la sua gemma". » (Purgatorio V, 130-136) CANZONE Pia de’ Tolomei è una nobile senese andata sposa a un signorotto guelfo del castello maremmano della Pietra, Nello dei Pannocchieschi che l’avrebbe fatta uccidere defenestrandola per gelosia o per risposarsi forse con Margherita degli Aldobrandeschi. Secondo la ricostruzione più recente Nello sarebbe partito per la guerra e durante la sua assenza quello che lui credeva il suo migliore amico, Ghino, corteggiò Pia senza ottenerne i favori. Meschino e vendicativo, Ghino andò a riferire a Nello che Pia lo tradiva. Distrutto dalla gelosia, Nello credette all’amico e richiuse Pia in un castello in Maremma dove la donna si sarebbe ammalata di malaria. Quel delitto avrà affascinato la memoria di Dante oltre che per le circostanze misteriose anche per completare quel quadro della ferocia medievale di cui tutti gli episodi del canto sono testimonianza. Pia ci appare ultima nella schiera dopo Jacopo del Cassero e Buonconte da Montefeltro,un’apparizione breve ma intensa. Dopo aver chiesto a Dante di ricordarsi di pregare per la sua anima (ricorditi di me, che son la Pia) quando Dante sarà tornato al mondo, e riposato de la lunga via, (e si noti quest’unico verso in cui non parla di lei ma si preoccupa con grande delicatezza e umanità di Dante) la donna riassume in una terzina la sua tragica sorte: i luoghi della vita e della morte racchiusi in un verso chiastico Siena mi fè, disfecemi Maremma. Ricordate che anche la vita di Francesca era racchiusa in uno stesso segmento se pur più lungo, con lo stesso andamento antitetico per dar rilievo al racconto che ritroviamo in Inferno,VI, 42 per Ciacco (tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto) o nel XXXIII, 62 nell’episodio del conte Ugolino, le parole dei figli rivolte al padre (tu ne vestisti queste misere carni e tu le spoglia). Mentre la morte di Jacopo del Cassero e di Bonconte da Montefeltro che precedono Pia nel canto è indicata dal verbo caddi, immagine propria del campo di battaglia, quella di Pia è appena velata da quel disfecemi che acquista rilievo drammatico solo grazie all’antitesi. Anche in lei è appena accennata quella poesia del corpo con cui inizia il canto quando i negligenti e i morti di morte violenta scoprono che Dante non dava loco per lo suo corpo al trapassar dei raggi. Segue l’evocazione del rito nuziale, senza sdegno e 11 rancore se non una velata amarezza verso colui che sa come sono andate realmente le cose, lo sposo colto nell’atto di infilarle al dito l’anello come promessa poi violata di fedeltà (salsi colui che ‘nnanellata pria disposando m’avea con la sua gemma). Il perdono divino ha trionfato in tanta ferocia, Pia è forse la più vicina di tutte le anime purganti a quella beatitudine di cui il poeta non l’ha fatta degna. Perciò forse il racconto di Pia si racchiude in pochi versi misteriosi. Jacopo e Bonconte, ma anche Francesca,avevano una storia da raccontare per giustificare l’odio di cui caddero vittime. Pia non ne ha alcuna se non quella che si identifica con la sua felicità di sposa inanellata da quella stessa mano che la uccise, un po’ come l’Ermengarda manzoniana che ricorda il suo arrivo di sposa felice tra le nuore saliche. Per Pia Dante non usa il verbo caddi ma i verbi fè e disfecemi che indicano la vita e la morte, morte che per Pia si identifica con l’amore e il ricordo di quella mano che le porse l’anello che doveva essere pegno di un amore indissolubile . Il magico effetto prodotto sul lettore dalla breve e intensa presenza di Pia ha dato luogo a un’eco figurativa smisurata nell’Ottocento romantico. Anche qui ci sono due opzioni: 1) la più suggestiva in scultura, ricalca l’iconografia delle allegorie religiose, la Fede in Dio, la fiducia e l’umiltà. Questi aspetti trovano riscontro nel testo dantesco nella reticenza, nella tristezza senza odio di Pia, nella fiduciosa discrezione con cui si affida alla memoria del poeta. 2) L’altra opzione dipende dalle derivazioni letterarie fiorite sull’episodio dantesco che virano sul romanzesco e ricostruiscono la vita terrena di Pia sul modello della shakespeariana Desdemona. Tali rappresentazioni puntano più sulla ricostruzione storica di ambienti e costumi. Al primo genere appartiene dunque questa !La Pia (Siena mi fe’,disfecemi Maremma) del 1863 di Achille Della Croce conservata a Napoli Al secondo questa !la Pia de’ Tolomei di Dante Gabriel Rossetti del 1868 conservata all’università del Kansas. Rossetti sceglie di ricostruire liberamente la reclusione di Pia che posa con aria malinconica, sguardo nel vuoto,mani che stringono l’anello nuziale, ambientazione tipicamente autunnale e maremmana. Attorno alla figura sono sparpagliati oggetti dal 12 valore narrativo: un fascio di lance con lo stendardo del marito, un breviario col rosario, lettere d’amore scritte dal marito quando ancora l’amava. Ispiratrice di questo quadro fu una delle donne amate da Rossetti, Jane Morris. Dell’antica storia di Pia cosa rimane oggi? Restano i motivi della gelosia,della calunnia di un’innocente, di una malattia incurabile e pandemica, di uno stato di guerra latente tra uomini e donne tale che può bastare un nulla a scatenare l’odio e la volontà punitiva. Ritengo che dunque sia davvero personaggio di grande attualità. Siamo giunti così all’ultima donna dantesca. Siamo nel III del Paradiso, cielo della luna, spiriti mancanti ai voti. « Perfetta vita e alto merto inciela donna più sù », mi disse, «a la cui norma nel vostro mondo giù si veste e vela, perché fino al morir si vegghi e dorma con quello sposo ch’ogne voto accetta che caritate a suo piacer conforma. Dal mondo, per seguirla, giovinetta fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi e promisi la via de la sua setta. Uomini poi, a mal più ch’a bene usi, fuor mi rapiron de la dolce chiostra: Iddio si sa qual poi mia vita fusi. E quest’altro splendor che ti si mostra da la mia destra parte e che s’accende di tutto il lume de la spera nostra, ciò ch’io dico di me, di sé intende; sorella fu, e così le fu tolta 13 di capo l’ombra de le sacre bende. Ma poi che pur al mondo fu rivolta contra suo grado e contra buona usanza, non fu dal vel del cor già mai disciolta. Quest’è la luce de la gran Costanza che del secondo vento di Soave generò ’l terzo e l’ultima possanza". Così parlommi, e poi cominciò "Ave, Maria" cantando, e cantando vanio come per acqua cupa cosa grave. Piccarda è la figlia di Simone Donati, sorella di Corso, capo del partito dei guelfi neri, e di Forese, amico di Dante. Venne rapita dal convento fiorentino di Santa Chiara dal fratello Corso che voleva darla in sposa a Rossellino della Tosa, suo alleato politico. Le sue notizie biografiche sono per lo più ricavate dai primi commentatori del poema dantesco, in particolare l’Ottimo che narra che Piccarda venne rapita quando Corso era podestà o capitano del popolo, quindi tra il 1283 e il 1293. Dalla stessa fonte apprendiamo che Piccarda, pochi giorni dopo l’atto di violenza di cui fu vittima, si ammalò e morì. Una leggenda afferma che le fu consentito di mantenere la verginità grazie alla lebbra che la colpì, come segno divino, dopo il rapimento. La malattia è il segno che la accomuna a Piccarda. La presenza di Piccarda in Paradiso viene anticipata nella Commedia dal fratello Forese incontrato da Dante tra i golosi in Purgatorio. Le parole di Forese nel XXIV del Purgatorio: la mia sorella, che tra bella e buona non so qual fosse più, triunfa lieta ne l’alto Olimpo già di sua corona risuonano come risposta alla domanda posta con affettuosa sollecitudine da Dante 14 ma dimmi, se tu sai, dov’è Piccarda e segnalano il legame particolare che i due fratelli Donati (al terzo, Corso, viene preannunciata la dannazione dallo stesso Forese) svolgono nella rievocazione degli anni della giovinezza del poeta. Dante non riconosce subito Piccarda nella trasfigurazione paradisiaca, e inizia a dialogare con lei perché è l’anima del gruppo lunare che si presenta più desiderosa di parlare con lui. Piccarda lo invita a consultare con attenzione la memoria se la mente tua ben sé riguarda per riconoscere i suoi tratti fisionomici. Ciò che caratterizza Piccarda è il senso di coralità che accompagna la sua condizione di spirito beato. Piccarda parla a Dante in prima persona plurale in tutta la parte iniziale del discorso, a nome del gruppo di anime cui appartiene. Al centro della sua esposizione teologica c’è il senso della conformità al volere divino, che non permette alle anime del cielo della Luna di desiderare un grado di beatitudine superiore a quello in cui si trovano. Dante chiede a Piccarda di narrare la sua vicenda individuale e la risposta della donna si sottrae ad ogni precisazione realistica. Il suo racconto si estende per 4 terzine due delle quali dedicate a santa Chiara, fondatrice dell’ordine cui Piccarda apparteneva. Quattro verbi scandiscono solennemente la scelta della donna Dal mondo per seguirla ,giovinetta fuggi’mi,e nel suo abito mi chiusi e promisi la via de la sua setta. L’atto violento che interruppe il voto e che sta alla base della condizione ultraterrena dell’anima è descritto con tratti sfumati che cancellano ogni ombra di polemica e di condanna Uomini poi, a mal più ch’a bene usi Fuor mi rapiron de la dolce chiostra Iddio si sa qual poi mia vita fusi 15 La terza parte del discorso di Piccarda è dedicata a presentare un altro personaggio femminile, Costanza d’Altavilla che ebbe destino simile al suo perché fu strappata al monastero per rispettare un impegno matrimoniale. Nel parlare dell’anima che le sta accanto Piccarda descrive un sentimento che vale anche per lei non fu dal vel del cor già mai disciolta Mentre la critica romantica ha visto in Piccarda il conflitto tra celeste e umano come se il personaggio, pur nella gloria del Paradiso, serbasse una specie di rimpianto per quella pace del chiostro cui fu strappata,la critica novecentesca invece ha messo in luce la profonda coerenza psicologica e morale dell’episodio: Piccarda ritrova in cielo ciò che ha smarrito per colpa altrui in terra e porta a termine quella promessa che aveva visto crudelmente interrotta. D’altronde il congedo di Dante compiuto attraverso un’Ave Maria cantata, pare proprio alludere a una pace claustrale che, deturpata dagli uomini sulla terra, è ristabilita in cielo per l’eternità. Molto coerentemente Dante ha fatto parlare a Piccarda un linguaggio teologico là dove essa deve spiegare la sua beatitudine eterna e il grado da essa raggiunto in rapporto ai suoi meriti, e invece un linguaggio realistico e popolaresco là dove essa rievoca la sua ansia terrena di suora che sognava lo sposo mistico. Due linguaggi che sono i riflessi delle due dimensioni narrative con cui Dante ha concepito i suoi personaggi, quello del tempo e quello dell’eternità. Si noti quanto frequenti ricorrano nel canto i termini carità, volontà, voglia, pace, luce, calore, infiammati quasi a sottolineare la forza possente dell’ardente amore terreno per Cristo che ha certamente una misura non meno intensa di quello di Francesca per Paolo. La letteratura si è interessata più di monacazioni forzate che di monache strappate al convento: sto pensando a La religieuse di Diderot del 1796, alla monaca di Monza di Manzoni e alla Storia di una capinera di Verga del 1871. La pagina dantesca sul voto di Piccarda è stata certamente tenuta da presente da Manzoni anche nella vicenda di Lucia; pare che Manzoni abbia voluto creare una situazione opposta e complementare a quella di Piccarda; questa rompe i voti per essere stata rapita, Lucia emette il suo voto in conseguenza del rapimento. Inoltre il 16 voto di Piccarda è un atto di difesa personale e di imitazione onesta ma alquanto ingenua di una figura superiore di donna come santa Chiara mentre il voto di Lucia è un’estrema attestazione di libertà e dignità, ed è anche un distacco dalla creatura più amata motivata dalla precisa percezione che quella libertà non si attua se non in una totale appartenenza a Dio (si vedano gli studi di Silvio Pasquazi). L’arte si è di fatto quasi completamente disinteressata della parte del poema a cui Dante attribuiva l’importanza maggiore sul piano dottrinale e allegorico: I motivi sono probabilmente la mancanza della componente drammatica e il parallelo intensificarsi delle parti dottrinali. Eccetto qualche generica rappresentazione dell’Empireo da parte di autori ottocenteschi di ambiente pontificio o specificamente nazareno, i personaggi come Piccarda non vengono presi in considerazione. Citiamo questo ! L’Empireo di Philipp Veit del 1827 conservato a Roma ove l’autore rappresenta l’intera terza cantica con la tipica struttura concentrica della rappresentazione medievale dei cieli, al centro campeggia la Vergine con Dante e san Bernardo inginocchiati mentre Dante e Beatrice sono continuamente riproposti a colloquio con i vari gruppi di anime. L’unica altra testimonianza è quella dell’incisore Gustave Dorè, immagine con cui ho aperto la conferenza. Concluderò citando Gabriele Lavia, il regista-attore che a marzo in una sua conferenza sulle donne cantate da Dante ha annotato: “Per tutta la sua vita, per tutta la sua carriera letteraria, Dante si sforza di farci credere che per lui una sola donna ha contato veramente: Beatrice. Ma sia nella Vita nova, sia nelle Rime molte altre presenze femminili affiorano, in gara più o meno aperta, con Beatrice, sintomo di una curiosità sentimentale, di una sensibilità verso l’universo femminile che la Divina Commedia sigillerà in alcune delle sue figure più memorabili.” Ed è a queste donne, a queste “altre” donne presenti nella vita di Dante, donne certamente violate, vittime di violenza e brutalità ma soprattutto donne innamorate di qualcuno o qualcosa, che ho voluto dedicare anch’io le letture e le riflessioni di questa sera. © copyright 2009 Maria Edoarda Marini 17 Maria Edoarda Marini