Master in Scienze del Matrimonio e della Famiglia – ciclo speciale G. Marco Campeotto Rivignano, febbraio 2011 Persona e famiglia nei codici deontologici delle professioni d'aiuto: rilevanza e profili antropologici Indice: 1. Introduzione p. 2 2. Cos’è il codice deontologico p. 2 3. Le professioni d’aiuto e l’antropologia p. 4 4. Le origini: la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani p. 5 ed il Magistero 5. I codici deontologici p. 11 5.1. Il Codice di deontologia medica p. 11 5.2. Il Codice deontologico dell’infermiere p. 15 5.3. Il Codice deontologico dell’ostetrica/o p. 16 5.4. Il Codice deontologico dell’assistente sociale p. 18 5.5. Il Codice deontologico degli psicologi italiani p. 24 5.6. Il Codice deontologico dell’ANEP p. 25 6. Alcune considerazioni tra persone, dignità, valori e legami p. 26 7. Cosa emerge p. 29 8. La promozione della salute come paradigma p. 30 9. Conclusione p. 33 10. Appendice: i Codici deontologici p. 35 1 1. Introduzione. Da sempre le professioni si impegnano nel cercare di fornire prestazioni in grado di esprimere al meglio le competenze e le abilità che è giusto attendersi da parte di chi le esercita; nel mondo ormai variegato e composito delle professioni d’aiuto è fortemente sentita l’esigenza che il professionista sia oltremodo serio e preparato in quanto affidiamo a lui le nostre difficoltà e a volte la nostra stessa esistenza. Il rapporto di fiducia qui gioca un ruolo assolutamente primario, anche perché – a differenza di molte altre professioni – qui assume un rilievo non secondario l’importanza della relazione interpersonale con l’altro; si da ormai per assodato che il buon professionista dell’aiuto non è tale se non è in grado di esprimere al meglio competenze tecniche assieme a capacità relazionali. Chi aiuta non produce merce, ma cura, assistenza o protezione nei confronti di qualcuno: è la differenza che insiste tra un oggetto ed una persona, tra la fornitura di un bene e l’erogazione di un servizio. Non ci potrà essere un buon operatore se questi non avrà la stessa premura, attenzione e capacità sia per l’oggetto del suo intervento (la malattia, il disagio, il programma di intervento), sia per colui che lo esprime, cioè il soggetto destinatario dell’intervento. Che il soggetto sia chiamato utente, paziente, assistito, cliente, poco importa: la definizione può non essere un problema, sempre che dietro a questa non si trovino poi concezioni o modelli di riferimento non condivisibili o intenti di stigmatizzazione. Al fine di delineare al meglio le proprie caratteristiche le professioni d’aiuto hanno dovuto dotarsi di strumenti opportunamente condivisi dalla comunità professionale e sufficientemente chiari per tutti gli altri; in caso di contestazioni o di scontri circa un presunto cattivo esercizio professionale (i medici la chiamano malapractice), era indispensabile far riferimento ad un testo scritto da prendere a modello. 2. Cos’è il codice deontologico. E’ questa la sostanza del codice deontologico (per brevità, d’ora in avanti CD, sia per il singolare che per il plurale), quale strumento di riconoscimento ed identificazione per tutti i professionisti e mezzo di tutela da parte dei destinatari della prestazione qualora dovessero dimostrare un qualche abuso o errore commesso dai professionisti stessi. Ogni professione 2 d’aiuto codificata, pubblicamente riconosciuta anche in virtù di uno specifico percorso formativo, si è pertanto dotata di un proprio CD, al quale si affiancano le disposizioni da adottare in caso di violazione di una o più parti del CD: è quanto viene chiamato regolamento delle sanzioni disciplinari. In Italia, le principali professioni d’aiuto vengono disciplinate con legge e richiedono la strutturazione di un Ordine o di un Collegio con il compito di rappresentare, tutelare e promuovere la professione, nonché gestire la fase di inserimento del nuovo operatore nella comunità professionale attraverso l’iscrizione ad un Albo professionale, tenuto proprio presso la sede dell’Ordine o Collegio. L’essere cancellato dell’Albo comporta quindi la chiusura dei rapporti con l’Ordine e l’impossibilità di esercitare la professione: è quanto di peggio possa accadere all’operatore che crede nel proprio lavoro e ne ha fatto l’unica fonte del proprio sostentamento e della propria autorealizzazione. Il CD rappresenta lo stato dell’arte di una professione sotto gli aspetti deontologici, riassume pertanto le caratteristiche del buon operatore appartenente a quella specifica categoria professionale, gli ricorda i principi fondamentali che hanno costruito nel tempo il sapere professionale - il cosiddetto “saper fare e saper essere” -, e nell’essere la carta d’identità della categoria, si presenta contemporaneamente al mondo esterno inteso come rapporti con i cittadini, le istituzioni le altre professioni 1 . Si tratta evidentemente di caratterizzare la professione dal punto di vista etico, attribuendo valore ad aspetti e comportamenti che la possano qualificare positivamente nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone e nella promozione di ciò che si ritiene vada nella direzione del miglioramento della società. La deontologia professionale, quale insieme sistematico dei diritti e doveri di una data professione è riassunta esplicitamente nel CD. Va sottolineato come lo sviluppo dei saperi professionali obbliga ad un continuo monitoraggio sulla correttezza dei contenuti, sulle nuove prospettive della professione e sulla necessità di rispondere in modo adeguato alle sfide poste dalle nuove scoperte, dai fenomeni emergenti e dal progresso scientifico-tecnologico. Ad ulteriore chiarezza, ma anche per delimitarne meglio i confini, il CD non va confuso con ciò che attiene le normative di uno Stato (aspetti giuridici), la definizione dei rapporti di lavoro (aspetti sindacali), l’elaborazione dottrinale e teorica della professione (aspetti scientifici), le riflessioni sulla prassi (aspetti metodologici); ciò non significa d’altro canto che il CD non sia vincolante per l’operatore. Il suo rispetto è a tutti gli effetti un obbligo professionale, anche se non ha il valore di una legge dello Stato. 1 Nel sito dell’Ordine nazionale degli assistenti sociali troviamo questa definizione: “Il Codice Deontologico contiene le esigenze etiche di una professione; costituisce il suo elemento di identità, lo strumento attraverso il quale un professionista si presenta alla società e contestualmente lo strumento che orienta e guida il professionista nelle scelte di comportamento, nel fornire i criteri per affrontare i dilemmi etici e deontologici, nel dare pregnanza etica alle azioni professionali.” Cfr.: http://www.cnoas.it/codicedeontologico.php, accesso del 25.1.2011, h. 10,02. 3 3. Le professioni d’aiuto e l’antropologia. Per circoscrivere l’oggetto del presente contributo è necessario ricordare che i CD si occupano di tutto lo spettro dell’ambito operativo della professione; in questa sede si vuole concentrare la riflessione su due concetti: la persona e la famiglia, rispetto ai quali ed a partire dai quali poi si dovrebbe sviluppare l’articolazione del CD, le sue linee-guida e la definizione di buona pratica (best practice). Esplicitato o meno, senza dubbio possiamo quindi trovare nel CD un concetto di uomo, un’antropologia che costituisce il cemento sul quale poi poggiano tutte le elaborazioni successive, dalle teorie professionali, ai modelli di intervento ed alla metodologia concreta. D’altro canto, se non vi fosse una certa coerenza tra antropologia di riferimento, teoria e prassi, assisteremmo ad un disorientamento del professionista o ad una pericolosa scissione tra valori, pensiero ed operatività, con l’impossibilità a definire una chiara identità professionale e l’inevitabile perdita di credibilità sociale che farebbe chiedere a molti “da che parte stai?”, “dove vuoi arrivare?”. Responsabilità delle professioni è senz’altro evitare simili dubbi, non fosse altro che per un’esigenza di trasparenza nei confronti della società e dei fruitori delle prestazioni. Questo elaborato, concentrandosi sui temi della persona e della famiglia, non prenderà in considerazione quanto riguarda gli aspetti istituzionali, i rapporti con le altre professioni e le altre componenti sociali. Un’attenzione particolare sarà data alla presenza o meno del riconoscimento all’obiezione di coscienza in quanto fenomeno di particolare rilievo quando si tratta di argomenti a forte valenza etica con implicazioni deontologiche, valoriali e giuridiche che interessano proprio la dignità ed i diritti inalienabili della persona, intesa come utente o professionista. Dal punto di vista terminologico sappiamo che il linguaggio sanitario e sociale è mutevole nel tempo e nei luoghi ed utilizza diversi termini per indicare il destinatario del proprio intervento professionale: paziente, utente, cliente, fruitore sono senz’altro quelli più noti ed ognuno pone l’accento su qualche aspetto di maggior rilievo. Va detto che, alla base, per ogni professionista dell’aiuto ci si rapporta sempre con una persona, che manifesta dei disagi o delle sofferenze, ma che in ogni caso è portatrice di diritti e rappresenta dei bisogni rispetto ai quali il professionista è chiamato ad attivarsi. Si intende che, formalmente e sostanzialmente, chiunque si approccia ad un professionista dell’aiuto viene da questi considerato come persona, pur utilizzando correntemente termini differenti. Cercheremo quindi di capire nello sviluppo cosa si intende con il termine persona, pur diversamente 4 declinato. Nel contempo, anche per evitare pesanti ripetizioni, sarà utilizzato il termine operatore come sinonimo di professionista per indicare chi deve agire professionalmente senza violare il proprio CD. In questa sede si vuole esplicitare il concetto di persona e di famiglia alla luce del Magistero della Chiesa Cattolica, assumendolo come riferimento antropologico per il confronto con i CD; in un approccio con intento laico, non saranno quindi discriminanti i riferimenti religiosi o che comunque presuppongono una qualche adesione a livello della fede. Per meglio dire: se la fede può essere anche all’origine di alcune considerazioni su persona e famiglia, in questa sede saranno tenute presenti solo se poste a supporto di riflessioni di tipo antropologico, sociologico o metodologico nel senso ampio del termine. Questo atteggiamento si rende necessario in una società pluralista ove il confronto deve avvenire su basi condivise sotto il profilo razionale, che pertanto non possono essere di natura rivelata o comunque religiosa. A monte sta in ogni caso la convinzione che un serio e sereno confronto intellettuale ci può essere e che la natura umana ci accomuna a prescindere dalle appartenenze, dalle provenienze e dalle ideologie, consapevoli del cammino che lungo i secoli l’umanità ha percorso e la conseguente attenzione posta sull’uomo. Questo intendiamo con approccio laico. 4. Le origini: la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ed il Magistero. Nello sviluppo del pensiero antropologico c’è chi ha osservato un percorso in qualche modo parallelo tra la riflessione giuridica e l’elaborazione teologica scorgendo un movimento di richiamo e stimolo reciproco di questo tipo: la teologia cristiana ha da sempre cercato di tradurre nel concreto della prassi pastorale il portato dell’amore universale e dell’attenzione ai più piccoli ed ai più deboli come riconoscimento del valore unico ed irripetibile di ogni persona; l’intreccio tra religione e politica ha poi fatto sì che l’azione delle istituzioni non sia sempre riuscita a tradurre queste esigenze come effettivo rispetto della dignità di ogni persona. L’illuminismo ed il positivismo hanno favorito l’elaborazione di un pensiero maturo in tema di diritti umani, fino a culminare con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (DUDU) promulgata a Parigi il 10.12.1948 dall’Assemblea Generale dell’ONU. Nella dichiarazione troviamo alcune delle più belle espressioni che manifestano la grandezza della persona umana: art. 1: 5 Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. art. 16: 1) Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto del suo scioglimento. 2) Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi. 3) La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato. Persona e famiglia hanno da allora un riconoscimento sottoscritto da quasi tutti gli Stati del pianeta e che li impegna ad attivare tutti gli sforzi al fine di concretizzare l’effettivo esercizio di tali diritti. La parola chiave sta proprio nel concetto di dignità inserito nel preambolo della dichiarazione; è grazie alla protezione della dignità riconosciuta ad ogni persona che è stato possibile contrastare abusi e violazioni ad intere popolazioni in molte parti del mondo. Le confessioni religiose, in particolare quelle cristiane, hanno così ricevuto da questa dichiarazione nuovi stimoli per riprendere ed approfondire le istanze fondamentali dell’uomo e fornire ai credenti concetti e strumenti adeguati alla contemporaneità, anche nel linguaggio. Il Magistero della Chiesa Cattolica ha così prodotto negli ultimi decenni contributi preziosi che costituiscono per il credente di oggi i punti di riferimento essenziali per una corretta collocazione antropologica della persona e della famiglia. Dai documenti fondamentali, in tema di persona e famiglia si possono così evidenziare le seguenti affermazioni: (…) il battezzato deve avere della sua elevazione, anzi della sua rigenerazione alla felicissima realtà di figlio adottivo di Dio, alla dignità di fratello di Cristo, alla fortuna, vogliamo dire alla grazia e al gaudio della inabitazione dello Spirito Santo, alla vocazione d'una vita nuova, che nulla ha perduto di umano, salvo la infelice sorte del peccato originale, e che di quanto è umano è abilitata a dare le migliori espressioni e a sperimentare i più ricchi e candidi frutti. (…) (Paolo VI, Ecclesiam suam, 1964, n. 41); (…) È l'uomo dunque, l'uomo considerato nella sua unità e nella sua totalità, corpo e anima, l'uomo cuore e coscienza, pensiero e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione. Pertanto il santo Concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione. (…) (Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes, 1965, n. 3). Sempre la Gaudium et Spes, nel dedicare il Cap. I alla dignità della persona umana, specifica che: (…) tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l'aborto, l'eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l'integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, le costrizioni psicologiche; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni di vita subumana, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni di lavoro, con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come 6 persone libere e responsabili: tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose. (…) (GS, n. 27) Tutti gli uomini, dotati di un'anima razionale e creati ad immagine di Dio, hanno la stessa natura e la medesima origine; tutti, redenti da Cristo godono della stessa vocazione e del medesimo destino divino: è necessario perciò riconoscere ognor più la fondamentale uguaglianza fra tutti. Sicuramente, non tutti gli uomini sono uguali per la varia capacità fisica e per la diversità delle forze intellettuali e morali. Ma ogni genere di discriminazione circa i diritti fondamentali della persona, sia in campo sociale che culturale, in ragione del sesso, della razza, del colore, della condizione sociale, della lingua o religione, deve essere superato ed eliminato, come contrario al disegno di Dio. (GS, n. 29) Il bene della persona e della società umana e cristiana è strettamente connesso con una felice situazione della comunità coniugale e familiare. (…) Perciò il Concilio, mettendo in chiara luce alcuni punti capitali della dottrina della Chiesa, si propone di illuminare e incoraggiare i cristiani e tutti gli uomini che si sforzano di salvaguardare e promuovere la dignità naturale e l'altissimo valore sacro dello stato matrimoniale. (GS, n. 47); (…) Per la sua stessa natura l'istituto del matrimonio e l'amore coniugale sono ordinati alla procreazione e alla educazione della prole e in queste trovano il loro coronamento. E così l'uomo e la donna, che per l'alleanza coniugale «non sono più due, ma una sola carne» (Mt 19,6), prestandosi un mutuo aiuto e servizio con l'intima unione delle persone e delle attività, esperimentano il senso della propria unità e sempre più pienamente la conseguono. Questa intima unione, in quanto mutua donazione di due persone, come pure il bene dei figli, esigono la piena fedeltà dei coniugi e ne reclamano l'indissolubile unità (…) (GS, n. 48); (…) la famiglia naturale, monogamica e stabile, quale è stata concepita nel disegno divino (cfr. Mt 19,6) e santificata dal cristianesimo, deve restare «luogo d'incontro di più generazioni che si aiutano vicendevolmente ad acquistare una saggezza più grande e ad armonizzare i diritti delle persone con le altre esigenze della vita sociale». (Paolo VI, Populorum Progressio, 1967, n. 36) La famiglia fondata e vivificata dall'amore, è una comunità di persone: dell'uomo e della donna sposi, dei genitori e dei figli, dei parenti. Suo primo compito è di vivere fedelmente la realtà della comunione nell'impegno costante di sviluppare un'autentica comunità di persone. (…) (Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, 1981, n. 18); La famiglia è stata sempre considerata come la prima e fondamentale espressione della natura sociale dell'uomo. Nel suo nucleo essenziale questa visione non è mutata neppure oggi. Ai nostri giorni, però, si preferisce mettere in rilievo quanto nella famiglia, che costituisce la più piccola e primordiale comunità umana, viene dall'apporto personale dell'uomo e della donna. La famiglia è infatti una comunità di persone, per le quali il modo proprio di esistere e di vivere insieme è la comunione: communio personarum. (Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie, 1994, n. 7) Nel richiamare il valore incomparabile della persona umana, Giovanni Paolo II afferma che (…) Il Vangelo dell'amore di Dio per l'uomo, il Vangelo della dignità della persona e il Vangelo della vita sono un unico e indivisibile Vangelo.(…) (Evangelium Vitae, 1995, n. 2)2 La Congregazione per la dottrina della fede ha quindi specificato quanto Ad ogni essere umano, dal concepimento alla morte naturale, va riconosciuta la dignità di persona. Questo principio fondamentale, che esprime un grande “sì” alla vita umana, deve essere posto al centro della riflessione etica sulla ricerca biomedica, che riveste un’importanza sempre maggiore nel mondo di oggi. (…). (Congregazione per la dottrina della fede, Dignitas Personae, 2008, n. 1) 2 Nel commentare l’Evangelium Vitae, Robert Spaemann sottolinea i seguenti fondamentali aspetti: gli esseri viventi sono persone in quanto tali, senza dovervi cercare altri attributi o aspetti qualificanti; il rispetto della persona si concretizza nel rispetto per la vita e si esplicita nella sollecitudine ad aiutare chi è nel bisogno; è impossibile il rispetto della persona senza darle aiuto quando essa è debole o bisognosa; l’esistenza della persona costituisce la sua dignità. In: Evangelium Vitae: five years of confrontation with the society, a cura della Pontificia Accademia per la vita, Libreria Editrice Vaticana, 2001, pp. 437 - 451. 7 (…) La realtà dell’essere umano, infatti, per tutto il corso della sua vita, prima e dopo la nascita, non consente di affermare né un cambiamento di natura né una gradualità di valore morale, poiché possiede una piena qualificazione antropologica ed etica. L’embrione umano, quindi, ha fin dall’inizio la dignità propria della persona. Il rispetto di tale dignità compete a ogni essere umano, perché esso porta impressi in sé in maniera indelebile la propria dignità e il proprio valore. L’origine della vita umana, d’altra parte, ha il suo autentico contesto nel matrimonio e nella famiglia, in cui viene generata attraverso un atto che esprime l’amore reciproco tra l’uomo e la donna. Una procreazione veramente responsabile nei confronti del nascituro «deve essere il frutto del matrimonio» (…) (Dignitas Personae, 2008, nn. 5, 6). Citando le problematiche connesse all’aborto ed all’eutanasia, papa Benedetto XVI manifesta l’allarme: (…) Dietro questi scenari stanno posizioni culturali negatrici della dignità umana. Queste pratiche, a loro volta, sono destinate ad alimentare una concezione materiale e meccanicistica della vita umana. (…) (Caritas in Veritate, 2009, n. 75) Quale tentativo di estrema sintesi, mettendo da parte gli aspetti prettamente religiosi, si può così riassumere il pensiero magisteriale: a) la persona umana è unica ed irripetibile, ha dignità e merita rispetto e protezione dal concepimento alla morte naturale, indipendentemente da qualsivoglia condizione; racchiude in sé una pienezza e totalità che non si esaurisce nella solo corporeità, ma si estende alla sfera spirituale propria di ogni essere umano. In questa sede si vuole prendere a riferimento il riconoscimento dell’essere persona come diritto incondizionato per tutti gli uomini3; b) la famiglia origina dal matrimonio e si costituisce da una comunità di amore tra un uomo e una donna; è il nucleo fondante della società ed è il luogo ove ogni persona nasce, cresce e si sviluppa. Alcune evidenze interrogano però l’umanità circa l’efficacia delle dichiarazioni dei diritti umani elaborate dai vari organismi internazionali, oggi numerose ed in diversi settori d’intervento, in quanto le violazioni permangono, si modificano, e le nuove acquisizioni scientifiche e tecnologiche mettono in discussione ciò che ieri sembrava un dato acquisito e di facile comprensione. I temi bioetici sono qui posti in grande attenzione in quanto vacilla proprio il concetto di persona: ci si chiede se la dignità di persona umana possa essere attribuita indistintamente a cloni, chimere, embrioni congelati, ma anche a soggetti in stato 3 Sul concetto di persona la letteratura è davvero ampia; cfr. ad es. il volume di Robert Spaemann, Persone, Laterza, Roma-Bari, 2007, in particolare la sintesi finale, pp. 230 – 242; Elio Sgreccia, Manuale di bioetica, vol. I, Vita e pensiero, Milano, 1999, pp. 106 – 130; Adriano Pessina, Bioetica – l’uomo sperimentale, Bruno Mondadori, Milano, 1999, pp. 84 – 93; Marco Paolinelli, La persona umana tra bioetica e biodiritto, in Percorsi di bioetica, Vita e pensiero, Milano, 2002, pp. 79 – 94; Andrea Porcarelli, Scienza e persona umana, Il Mulino, Bologna, 1994, pp. 45 – 134; Battista Mondin, Definizione dei concetti di individuo, persona e personalità, in AA VV, Antropologia e bioetica, Ed. Massimo, Milano, 1997, pp. 13 – 46; Maria Luisa Di Pietro, Bioetica e famiglia, Lateran University Press, Città del Vaticano, 2008, pp. 45 – 51; Cristina Rolando, Bioetica & persona: quale rapporto?, Ed. Art, Roma, 2009. 8 vegetativo, gravi disabili, persone incapaci di intendere e volere. In parallelo la definizione di famiglia, quale nucleo fondato sul matrimonio tra un uomo e una donna si sta scontrando con le istanze di riconoscimento di status da parte di altre tipologie di legame affettivo quali le unioni omosessuali, le coppie che assumono la genitorialità attraverso uteri in affitto o altre forme di maternità surrogata. La complessità è evidente, le possibili situazioni e combinazioni aumentano, di conseguenza gli interrogativi e le necessità di definizione, attribuzione, assimilazione. La cultura del gender si colloca pienamente all’interno di questo dibattito e si propone come soluzione non-ideologica, inclusiva, democratica e progressista in quanto pretende di essere libera da condizionamenti filosofici o religiosi, di riconoscere la partecipazione politica a tutte le istanze e di accogliere con benevolenza tutte le proposte che le libere espressioni della personalità, dell’autonomia relazionale e del mercato biotecnologico offrono per un futuro modello di uomo e delle sue manifestazioni affettive. E’ nel nome di un presunto relativismo che la cultura del gender, fortemente riconosciuta in sede ONU, della UE e dal Consiglio d’Europa4, si fa spazio e riceve consensi in modo diretto ed indiretto. La cultura e la teoria del gender è uno dei frutti del femminismo radicale, della cosiddetta rivoluzione sessuale e del materialismo che pone al centro l’individuo come consumatore anziché persona, privata di tutta la sfera spirituale, che viene considerata inutile o - nella migliore delle ipotesi - un accessorio poco significativo che non concorre alla definizione stessa di persona5. E’ di tutta evidenza che il relativismo, alfiere della neutralità e della nonappartenenza diventa una sorta di imperativo che tende a livellare tutto al basso ed a riconoscere ogni opzione valida e praticabile in quanto proposta, legittimando qualsiasi volontà, desiderio e pretesa dell’individuo, ricorrendo ai principi della democrazia, della nondiscriminazione, dell’egualitarismo e della tolleranza6. Questa cultura sta di fatto eliminando l’utilizzo delle categorie maschio e femmina, troppo legate alla biologia ed alla natura, nel senso più completo del termine. 4 Viene chiamata “Agenda di genere” ed è stata inserita nelle Conferenze dell’ONU del Cairo (settembre 1994) e Pechino (settembre 1995). Cfr. Dale O’Leary, Maschi o femmine? La guerra del genere, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007, pp. 8 – 18; sulle conferenze, nel dettaglio: Il Cairo, pp. 41 – 54, Pechino, pp. 169 - 188. In uno dei documenti preparatori della Conferenza di Pechino si trova “Il genere si riferisce ai rapporti tra donne e uomini basati su ruoli definiti socialmente che vengono assegnati all’uno o all’altro sesso” (p. 72). Già nel 1995 il Consiglio d’Europa dichiarava la necessità di “infondere la prospettiva di genere nell’agire politico” per passare dall’uguaglianza de iure all’uguaglianza de facto (pp. 137 – 138). 5 Gabriele Kuby, Gender revolution. Il relativismo in azione, Cantagalli, Siena, 2007, pp. 7 – 8. La sociologa tedesca individua nella lotta al cristianesimo il vero obiettivo del gender mainstreaming. Cfr. anche Michel Schooyans, Nuovo disordine mondiale, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2000, pp. 41 – 48; Maria Luisa Di Pietro, Bioetica e famiglia, Laterna University Press, Città del Vaticano, 2008, pp. 94 – 103; Livio Melina, Per una cultura della famiglia: il linguaggio dell’amore, Marcianum Press, Venezia, 2006, pp. 79 - 81. 6 G. Kuby, Gender revolution. (cit.), pp. 11 – 53. Il Parlamento Europeo, con la Risoluzione B6-0025/2006, impegna gli Stati membri a contrastare “la discriminazione basata sull’orientamento sessuale” in nome del principio di parità (p. 54). 9 Di fronte a questi fenomeni, oggi pare si possa rilevare una sorta di arretramento del processo di comprensione su ciò che è tipicamente umano, dimenticando che il relativismo non può essere considerato un imperativo che aggiusta tutto in maniera automatica, quasi fosse una sorta di “mano invisibile” al pari di quanto previsto nell’economia - ma mai riscontrata nei fatti - da Adamo Smith. Chi produce pensiero ed informazione, chi governa la politica e l’economia, decide davvero molto, anche su quanto incide profondamente nella costruzione delle convinzioni e del linguaggio; le forti tensioni che hanno accompagnato alcune Conferenze ONU lo testimoniano efficacemente. Tuttavia non può esistere di per sé un relativismo solo teorico, ma siamo di fronte ad un processo in cui spesso una minoranza guida ed orienta la maggioranza delle forze in campo, quindi anche della popolazione. Se nel secolo scorso la Chiesa è stata chiamata a confrontarsi con le istanze dei diritti umani, oggi sono i governi e gli intellettuali a richiamare i dettami del Magistero come fonte autorevole per contrastare la deriva verso la quale l’umanità si sta incanalando percorrendo la strada di un relativismo privo di valori. La riflessione sui concetti di persona e famiglia basata sui CD può aiutare a comprendere la direzione che le professioni di aiuto stanno prendendo e quale orientamento è possibile cogliere circa il modo di intendere l’aiuto professionale, quindi tecnicamente corretto da parte delle comunità professionali. Prendere a riferimento i CD delle professioni di aiuto di maggior rilievo e presenti nel settore pubblico e privato consente di avere una panoramica sufficientemente esaustiva nel panorama italiano. I CD considerati sono i seguenti: 1. Codice di deontologia medica (FnOMCEO, 2006) 2. Codice deontologico dell’infermiere (IPASVI, 2009) 3. Codice deontologico dell’ostetrica/o (FNCO, 2010) 4. Codice deontologico dell’assistente sociale (Consiglio Nazionale, 2009) 5. Codice deontologico degli psicologi italiani (Consiglio Nazionale, 2009) 6. Codice deontologico ANEP (Associazione Nazionale Educatori Professionali, 2002) La trattazione, nel prendere in esame i singoli CD, cercherà di evidenziare i modi in cui sono considerati la persona e la famiglia raffrontandoli con quanto viene proposto dal Magistero, senza però considerare gli aspetti di fede, quindi mantenendo la premessa dell’approccio laico sopra ricordato7. Per non appesantire il testo non saranno riportati nella 7 “Le considerazioni del magistero sulla morale della vita fisica, pertanto, si fondano sulla consapevolezza del valore e della dignità della persona umana, di cui il credente è certo in forza della divina rivelazione 10 forma estesa tutti gli articoli presi in esame; in appendice sono inseriti i testi completi dei CD considerati. 5. I codici deontologici. 5.1. Il Codice di deontologia medica. E’ storicamente considerato il primo tra i Codici, in quanto nasce e si sviluppa a partire dal celebre Giuramento di Ippocrate (IV sec. a.C.) e riguarda una delle professioni più antiche e più complesse dell’umanità. La Federazione degli Ordini dei Medici e degli Odontoiatri ha dovuto provvedere a diverse revisioni del CD, ciò ad indicare l’importanza dei documento e la necessità di doversi costantemente aggiornare, soprattutto, in ambito medico, in relazione allo sviluppo tecnico-scientifico, che pone all’operatore sempre nuove sfide e nuovi dilemmi etici. Le ultime revisioni infatti sono datate 1978, 1989, 1995, 1998 fino all’attuale stesura, approvata dalla Federazione nazionale il 16.12.2006. Da sempre il medico ha prestato la sua attenzione alla persona in quanto tale e bisognosa di aiuto; il termine persona/e/personale/-mente compare 42 volte nel CD (delle quali solo una è riferita al medico stesso) che è composto da 75 articoli. La centralità della persona umana e della sua dignità senza alcuna distinzione appare nell’art. 3 che evidenzia anche un concetto di salute “intesa nell'accezione più ampia del termine”. L’art. 4 indica tra i principi il rispetto della vita, ma a tale imperativo l’art. 43 antepone la facoltà di effettuare aborti, secondo la normativa vigente, riconoscendo anche il diritto all’obiezione di coscienza (sempre secondo la normativa vigente). Ora, da una prospettiva deontologica è possibile cogliere i seguenti aspetti: a) un allontanamento dall’antico precetto ippocratico secondo il quale il medico non deve praticare aborti e ci si chiede se questo non sia un segno dei tempi che cedono il passo al relativismo o una progressiva rivisitazione dei capisaldi della professione in quanto tale; b) il riferimento all’aborto secondo quanto prescritto dalla normativa lascia supporre una posizione di dipendenza del CD dalla volontà del legislatore, come se il buon medico è professionalmente tale solo se non contrasta le possibilità offerte dalla legge. In questo quadro di riferimento pare che al legislatore venga riconosciuto un ruolo etico che forse non gli spetta e del quale probabilmente non è pienamente consapevole. In altri autorevolmente interpretata dalla Chiesa, ma che costituisce un valore in cui lo splendore della verità riluce in modo talmente intenso che non può non essere riconoscibile anche dall’umana ragione in quanto tale (…)”, in A. Porcarelli, cit., p. 116. 11 termini ci si chiede se è sempre corretto che il medico faccia ciò che prevede la norma, la quale o è in piena sintonia con la deontologia (e qui il problema non si pone) o la sovrasta, in barba alla tanto rivendicata autonomia della professione e della scienza8. Ci si chiede come questo possa essere sostenibile dal punto di vista concettuale e pratico, vista la costante fluttuazione degli orientamenti politici; c) la difesa della vita non è più un principio universale, ma è ridotto e limitato alle possibilità di deroga stabilite per legge; viene quindi limitata la possibilità di sottrarsi con l’unico strumento dell’obiezione di coscienza, diritto soggettivo entrato nel nostro ordinamento grazie alla normativa in tema di obiezione di coscienza al servizio militare, nel lontano 1972. Non è un passaggio indifferente poiché, dal punto di vista dell’impianto giuridico, si presuppone che l’aborto sia assimilabile ad un diritto rispetto al quale il professionista ha la possibilità di opporre un’obiezione di coscienza giuridicamente disciplinata. Ai tempi dell’approvazione della L. 194/78 il dibattito in Italia è stato senz’altro aspro e difficile, oggi l’argomento è riportato all’attenzione solo dal pensiero pro-life e dalla Chiesa; d) l’articolazione del CD fa sostanzialmente coesistere due concezioni di persona differenti: una che esige la tutela incondizionata, l’altra che prevede la possibilità di soppressione, senza nemmeno considerare il principio di autonomia o autodeterminazione del paziente, in questo caso per l’embrione, che ovviamente non viene sentito circa la sua volontà (anche se va detto che ogni embrione ha normalmente in sé forze e risorse – volontà? – che potremmo definire pro-life). Questo ragionamento porta però allo sviluppo di differenti concetti di persona: 1. una concezione di persona universale che ammette un’eccezione, l’embrione in determinate condizioni, previste dalla legge, non dalla deontologia, né dalla scienza; 2. una concezione di persona universale, che esclude dalla definizione l’embrione, che può essere considerato una quasi-persona o una non-persona: ciò si pone in linea con il filone della bioetica contrattualista che riconosce dignità e diritti solo a determinate condizioni stabilite dai consociati, non sulla base dell’appartenenza al genere umano9. 8 Cfr. in proposito: Stefano Semplici, Undici tesi di bioetica, Morcelliana, Brescia, 2009, pp. 121 – 132. 9 In un recente articolo pubblicato sul suo blog, il bioeticista Carlo Bellieni sottolinea che «la parola “persona” è diventata una parola discriminatoria: viene usata per significare che esistono degli esseri umani che “sono persone” e altri che “non sono persone”; tra questi ultimi, molti filosofi contemporanei (non degli anni ’40!) indicano i 12 Per fronteggiare simili questioni si rende forse necessaria una definizione di persona nei CD? Il rischio può diventare quello di scivolare dal piano scientifico a quello giuridico che sappiamo essere anch’esso figlio del nostro tempo, quindi non svincolato da correnti culturali, ideologiche o politiche. E’ possibile ipotizzare nel nostro Paese la legalizzazione delle pratiche eutanasiche; in questo caso il conflitto con l’art. 17 del CD – che le vieta espressamente - risulterebbe palese. La professione medica si troverebbe quindi di fronte a due possibili alternative: modificare il CD dando la possibilità di attività eutanasica facendo salva l’obiezione di coscienza normativamente disciplinata o lasciando inalterato l’attuale precetto deontologico, lasciando però un grosso punto interrogativo circa gli operatori preposti all’esecuzione e l’assistenza all’eutanasia. Ci troveremmo quindi di fronte ad altri problemi: ci sono persone con differenti livelli di dignità? Ci sono diversi modi di intendere la dignità nell’esercizio della professione medica? Viene altresì da chiedersi, ad esempio come si potrebbe comportare la comunità professionale qualora venisse approvata una modificata alla L. 40/04 tale da introdurre nel nostro ordinamento pratiche di maternità surrogate, o forme di fecondazione assistita per coppie omosessuali, o a fini eugenetici, espressamente vietate dall’art. 44 del CD. La deontologia medica deve sempre sottostare al dettato legislativo o è in qualche modo sufficiente il richiamo alla pratica consolidata dell’agire secondo scienza e coscienza (artt. 13, 35 e 44)? Il tema dell’obiezione di coscienza rispetto al quale valgono le considerazioni generali di cui sopra in tema di aborto, viene comunque richiamato anche per altre due circostanze: la citata procreazione medicalmente assistita (art. 44) e la sperimentazione animale (art. 50). Sulla stessa lunghezza d’onda, richiamando l’autonomia professionale al posto dell’obiezione di coscienza, troviamo l’art. 22 che prevede di poter rifiutare l’opera professionale del medico qualora “vengano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico”: è di fatto assimilabile ad una forma generica e giuridicamente non disciplinata di obiezione di coscienza. Probabilmente è l’articolo che può effettivamente garantire disabili mentali. Ma non per motivi di essere “peso allo Stato”, ma perché “mancano di autonomia”. E’ facile fare una ricerca in un grande motore di ricerca medica come PubMed, per vedere cosa si intende oggi sotto il termine “eugenetica” e sotto il termine “persona”. Per Patricia Werhane “vari esseri umani, per esempio gli handicappati mentali, e le demenze senili non rientrano nella stretta classificazione di persone” (Theoretical Medicine, 1984) e per Len Doyal (Archives of Disease in Childhood, 1994) anche i bambini senza ritardo ma con grave dolore fisico tale da minarne la capacità di autonomia potrebbero non essere considerati persone; per lui (British Medical Journal, 1994) “i diritti umani dipendono dalla possibilità di esercitarli”.» (In: http://carlobellieni.com/?p=918, accesso del 29.1.11 h. 9,10). 13 il riconoscimento di questa possibilità, anche nei confronti dei vincoli giuridici: forse il più corretto equilibrio, nel rispetto dell’autonomia professionale. A questo proposito merita ricordare l’acceso dibattito che c’è stato nel 2009 quando, in occasione della modifica della normativa in tema di immigrazione, con la L. 94/09 è stato introdotto nel nostro ordinamento il reato di ingresso e soggiorno illegale. Pareva che il personale sanitario dovesse essere posto nell’obbligo amministrativo di segnalare gli immigrati clandestini che si fossero presentati per ricevere cure: per la maggioranza dei medici una violazione del diritto e parimenti dell’obbligo deontologico, alla cura senza discriminazioni, al punto che molti proposero la disobbedienza civile e l’obiezione di coscienza per difendere il medico da un’imposizione eticamente riprovevole e per evitare di innescare prevedibili meccanismi di aumento del rischio per la salute degli immigrati, nonché per la collettività. E’ stata una circolare ministeriale del 27.11.09 a dirimere la questione richiamando la validità delle disposizioni precedenti che stabilivano il divieto di segnalazione da parte del personale sanitario (tranne per i casi in cui sussiste l’obbligo di referto). Il termine famiglia/e compare una volta sola, nell’art. 75 in tema di dipendenze. Da un lato è significativo che la famiglia venga chiamata in causa nelle situazioni ove gli aspetti relazionali e degli stili di vita sono indispensabili componente del processo di riabilitazione, come l’esperienza e la letteratura scientifica hanno ampiamente dimostrato; d’altro canto stupisce che la famiglia sia formalmente trascurata a fronte dell’impegno di molti medici proprio nella relazione con le famiglie stesse, si pensi solo alla denominazione corrente di “medico di famiglia” spesso utilizzata al posto della forma codificata di “medico di medicina generale” (o “medico di base”), il medico che dalla L. 833/78 in poi ha da sempre il maggior contatto e relazione con la comunità locale. Si potrebbe argomentare che il mandato professionale è principalmente vincolato al rapporto con l’individuo, ma va anche ricordato che il concetto di salute assunto dal CD, come già ricordato (ultimo comma dell’art 3), richiede al professionista l’inevitabile allargamento della sfera di interesse oltre i confini dell’individuo. Senz’altro qui è necessario ricorrere al grosso tema dell’integrazione interprofessionale che chiama medici, psicologi, assistenti sociali, educatori, nonché privato sociale e volontariato a collaborare per la promozione del benessere della comunità. Altro elemento può essere dato dalla necessità di preservare la riservatezza nel rapporto medicopaziente e l’esercizio dell’autonomia da parte del soggetto che si rapporta al professionista all’interno del fondamentale rapporto di fiducia (cfr. artt. 10, 11, 12 e 28). A parziale conclusione è possibile forse evidenziare come non sia facile per il medico mantenere il focus su persona e famiglia e che forse la famiglia non assume formalmente un particolare rilievo 14 rispetto il processo di presa in carico professionale, pur essendo questa di fatto riscontrabile nell’esperienza di molti medici. Ad uno sguardo antropologico, pare quindi nettamente emergere dal CD dei medici un’attenzione prioritaria alla persona, intesa come individuo da tutelare nella più ampia accezione del termine salute, con un riferimento parziale o comunque poco rilevante alle relazioni primarie, a partire dalla famiglia. 5.2. Il Codice deontologico dell’infermiere. Anche questo CD rappresenta una pietra fondamentale poiché appartiene ad una tradizione professionale tra le più antiche e diffuse al mondo. L’ultima revisione è del 17.1.2009 e rappresenta senz’altro il frutto maturo della riflessione della categoria. Nei 51 articoli di cui si compone il documento, il termine persona/e/personale compare nove volte (di cui una riferita all’operatore) ed evidenzia subito la caratterizzazione dell’attività professionale come “servizio alla persona, alla famiglia e alla collettività” (art. 2). Alla persona in primis, ma subito, anche alla famiglia ed alla collettività vengono riconosciute prerogative di interesse primario da parte del professionista, che pertanto è chiamato a considerare tra i suoi doveri non solamente l’attività favore dei singoli, ma anche delle sue relazioni primarie e dei contesti ove normalmente si esprime la vita delle persone. L’apprezzabile stesura dell’art. 8 garantisce in una modalità ampia, e di conseguenza svincolata da specifici riferimenti normativi, la possibilità di esercitare l’obiezione di coscienza; infatti, si prevede che l’infermiere, qualora “vi fosse e persistesse una richiesta di attività in contrasto con i principi etici della professione e con i propri valori” si possa avvalere “della clausola di coscienza, facendosi garante delle prestazioni necessarie per l’incolumità e la vita dell’assistito”. I valori condivisi dalla professione (aspetto deontologico) connessi ai profondi convincimenti personali tutelano quindi la coscienza, senza fare riferimento a specifici argomenti (ad es. aborto, eutanasia) e senza individuare forme di regolamentazione, quali modalità di manifestazione o semplicemente richiamando normative di settore. Potrebbe sembrare una formulazione troppo elastica o dai pericolosi contorni sfuggenti: di fatto non risultano ad oggi evidenze che abbiano fatto emergere abusi o distorsioni, anzi pare di poter sostenere che l’art. 8 esponga maggiormente l’infermiere ad una maggiore assunzione di responsabilità per una rigorosa quanto seria attività professionale. Questo tipo di chiarezza nello stabilire i confini tra deontologia, coscienza e norme positive aiuta probabilmente a riconoscere il giusto peso alle tre istanze di fondo, senza fra l’altro dover in qualche modo rincorrere lo sviluppo normativo, in particolare sulle sempre più scottanti questioni bioetiche. 15 La parola famiglia compare due volte, oltre che nel citato art. 2, anche nell’impegno a valutare le concrete possibilità che le famiglie hanno nell’essere soggetto di assistenza (art. 32). Emerge comunque dal CD la necessità di supportare ed istruire le famiglie affinché possano essere parti attive nei processi di cura, nonché di stimolarle verso le forme di solidarietà umana (artt. 32, 39, 40). Il problema può nascere facilmente quando si tratta di doversi attivare ad esempio nell’accompagnamento ai parenti nella fase terminale di un malato grave che vive in nuclei dalle situazioni più disparate rispetto al modello familiare ideale che vorremmo: la mancanza di una chiara definizione di famiglia può mettere l’operatore in imbarazzo circa i propri compiti, anche solo di natura informativa o in relazione alle istruzioni da impartire. Non pare che questo CD proponga differenti gradazioni di tutela da prestare sulla base di variabili predefinite (le norme) o di situazioni tecnicamente codificate in modo disomogeneo (come nell’esempio dell’aborto per i medici); è anche vero che queste non sono nemmeno di per sé escluse, poiché l’articolazione del CD lascia spazi di manovra in tal senso, forse anche grazie al citato art. 8 circa la clausola di coscienza. Questi dubbi trovano facile espressione proprio pensando al fatto che il CD dell’infermiere (come quello del medico) non contiene una definizione di persona che potrebbe forse vincolare e limitare alcune delle pratiche oggi diffuse o oggi solo temute per un futuro prossimo, ma questo costituirebbe una sorta di àncora o di faro per uno stabile punto di riferimento per guidare anche l’agire professionale in una sempre maggior chiarezza del proprio mandato. 5.3. Il Codice deontologico dell’ostetrica/o. Dalla precedente versione del marzo 2000, il CD dell’ostetrica/o è stato aggiornato dal Consiglio Nazione della Federazione Nazionale Collegi Ostetriche (FNCO) il 19.6.2010. Il CD si compone di 52 articoli suddivisi in sei sezioni; nelle premesse viene posta l’attenzione alla “centralità della donna, della coppia, del neonato, del bambino, della famiglia e della collettività” in funzione “della salute individuale e collettiva” (art. 1.2). Questo sottende un’attività professionale non centrata esclusivamente sul singolo – come invece si potrebbe superficialmente supporre – ed un concetto di salute esteso dalla sfera individuale a quella della comunità. In tema di conflitto di coscienza la formulazione dell’art. 3.16 è particolarmente interessante in quanto prevede due fattispecie: l’obiezione di coscienza, se prevista per legge, la clausola di coscienza negli altri casi, comunque “garantendo le prestazioni inderogabili per la tutela della incolumità e della vita di tutti i soggetti coinvolti”10. Questa articolazione garanti10 La precedente formulazione del CD (del 2000) riportava la seguente dicitura: “(…) L' ostetrica/o obiettrice di coscienza può rifiutarsi di intervenire nella interruzione volontaria della gravidanza, semprecchè non sussista una 16 sce il collegamento del CD con la normativa vigente, ma nel contempo permette all’operatore di rimanere fedele ai propri principi fondamentali sotto il profilo deontologico. Alla coscienza non viene pertanto riservato un ruolo secondario o marginale, ma assolutamente primario; questo è senz’altro rilevante per una professione costantemente in contatto diretto con la vita nascente. La parola persona e sue derivate compare 14 volte (di cui una in riferimento al personale professionale) e si esplicita in tema di trattamento, accompagnamento, privacy, segnalazione, ecc. Pur non fornendo una definizione di persona, il CD, all’art. 3.2 nel far riferimento alla persona assistita nelle diverse fasi della vita include il nascituro durante il periodo della gravidanza, “al fine di garantire una salute globale degli assistiti”. Impegnarsi nei confronti della salute globale significa essere attivi nei confronti della persona in senso ampio; ci si chiede quale potrà essere il comportamento dell’ostetrico/a quando viene richiesta la collaborazione all’aborto e di conseguenza l’impegno ad anteporre le volontà dell’adulto a quelle non espresse del feto, che però necessita di tutela secondo quanto indicato dall’art. 3.2 appena citato. Pare quindi esserci una gerarchia non esplicitata che in tema di aborto mette in secondo piano l’esigenza vitale della creatura non ancora venuta alla luce. Si tratta di una situazione simile a quella già evidenziata a proposito del CD dei medici. La famiglia, come accennato poco sopra è individuata tra i soggetti dell’intervento professionale all’art. 1.2, ma non viene poi ripresa in nessun altro articolo. E’ curioso che il CD, e pare essere l’unico a darne menzione, si occupi in due articoli della questione del genere (artt. 2.3 e 6.3): viene da chiedersi se si tratti solo di una modifica dovuta alla necessità di essere linguisticamente aggiornati o di una virata da parte della comunità professionale verso le esigenze della cultura gender già prima accennata. Considerato che il precedente testo del CD, che risale al 2000, non conteneva alcun riferimento a questo vocabolo, si può intuire che l’inserimento nella nuova formulazione precluda al riconoscimento di qualche prestazione derivante da “diritti di genere” finora non contemplati, se non sottintesa all’interno di interventi di tipo terapeutico-riabilitativo. Analoga considerazione per l’inserimento dei concetti di salute riproduttiva, che compare qui tre volte (artt. 3.3, 3.8 e 6.3), ma assente nella stesura precedente. Anche i temi della salute riproduttiva, come quelli delle tematiche di genere sono oggetto di dibattito nelle sedi istituzionali di alto livello, OMS e ONU in testa 11 . Il rischio è che queste nuove istanze situazione di imminente pericolo per la vita della donna che non possa essere fronteggiata da altra/o collega” (art. 3.4, c. 2). In caso di pericolo di vita, veniva qui espressamente data la precedenza alla tutela della donna; nella stesura attuale, il testo è stato significativamente rivisto evitando di fornire un’opzione standardizzata probabilmente difficile da individuare attraverso le indicazioni di un CD. 11 Di salute riproduttiva si è trattato in occasione delle già citate Conferenza ONU del Cairo (1994) e Pechino (1995), nel 2004 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel dossier Salute Riproduttiva (Reproductive 17 conducano ad una ridefinizione del concetto di persona, quindi ad una prospettiva antropologica che prende lentamente le distanze dall’esigenza fondamentale di difendere e proteggere ogni vita umana in ossequio ai nuovi paradigmi dell’era del relativismo. 5.4. Il Codice deontologico dell’assistente sociale. Si tratta di una professione decisamente più giovane, con un percorso di riconoscimento giuridico che solo nell’arco degli ultimi vent’anni del secolo scorso ha ottenuto in Italia la necessaria codificazione normativa e curricolare. L’attuale versione del CD si compone di 69 articoli ed è stata approvata dal Consiglio Nazionale dell’Ordine il 17.7.200912; quella precedente era del 2002, la prima stesura del 1998. Il termine persona e suoi derivati compare 14 volte, comprese 4 volte in cui il termine è riferito direttamente alla persona dell’operatore (artt. 9, 22 e 64). Gli articoli 5 e 7 riconoscono la dignità ed unicità della persona ponendola al centro dell’intervento; la professione si pone comunque “al servizio delle persone, delle famiglie, dei gruppi, delle comunità e delle diverse aggregazioni sociali per contribuire al loro sviluppo” (art. 6) e questa prospettiva amplia notevolmente l’area di interesse del professionista, che non si può accontentare di instaurare un processo di aiuto con un singolo individuo senza prendere in considerazione i suoi legami. L’accettazione incondizionata ed il rispetto per l’utente è sottolineata oltremodo dall’astensione da “giudizi di valore sulle persone in base ai loro comportamenti” (art. 9). Non è prevista l’obiezione di coscienza, ma l’autonomia dell’operatore è tutelata dall’art. 10 che, richiamando indirettamente la formulazione classica dell’etica medica, prescrive di agire secondo scienza e coscienza. Dal punto di vista deontologico si può ritenere che i due concetti siano di fatto equivalenti, dal punto di vista formale è possibile evidenziare come il concetto di obiezione di coscienza nelle professioni di aiuto sia pressoché riservato al contesto sanitario, quanto a fattispecie e modalità di esercizio. Si pongono quindi alcune considerazioni: a) la correttezza di un’obiezione di coscienza possibile solo se prevista per legge; b) il concetto forse restrittivo di obiezione di coscienza è stato in qualche modo superato dall’introduzione dell’agire in scienza e coscienza, forse meglio definita dalla “clausola di coscienza” inserita nei CD dell’infermiere e dell’ostetrico/a; Health). Nel dibattito sulla salute riproduttiva si inseriscono anche le pratiche contraccettive, abortive e di sterilizzazione. 12 Ho avuto la possibilità di far parte del gruppo di lavoro nazionale che ha collaborato alla revisione del CD in qualità di consigliere delegato in rappresentanza dell’Ordine regionale del Friuli Venezia Giulia. E’ stata senz’altro un’esperienza ricca ed intensa che ha impegnato con modalità differenti tutta la comunità professionale degli assistenti sociali dal dicembre 2006 all’estate 2009. 18 c) si intravede forse che l’esercizio dell’obiezione di coscienza si possa applicare solo in relazione ad interventi di tipo sanitario per una presunta area riservata nella quale il sociale non avrebbe titolo ad entrare: ciò va in contrasto con il concetto di salute - che sappiamo non essere solo assenza di malattia -, di persona “unica e distinta da altre in analoghe situazioni” e collocata “entro il suo contesto di vita, di relazione e di ambiente, inteso sia in senso antropologico-culturale che fisico” (art. 7 CD assistente sociale). Va ricordato che il fenomeno dell’obiezione di coscienza si deve ricondurre a valori fondamentali ed istanze ritenute eticamente imprescindibili per le quali non siano percorribili altre strade13, non a caso il fenomeno ha sempre riguardato aspetti che toccano la difesa della vita (aborto, guerra, leva obbligatoria, ricerca scientifica sulla produzione di armi) e per i quali l’obiettore ha accettato le conseguenze del gesto che si configura sostanzialmente come disobbedienza e violazione di un dettato normativo. La cultura della vita è ciò che dovrebbe costituire la base dei servizi alla persona, quindi anche del servizio sociale14. Il valore della sfera intima della coscienza si colloca a pieno titolo nell’alveo dei diritti in connessione con la dignità della persona, ed è in virtù di questo riconoscimento che la Corte Costituzionale ne ha sancito il valore giuridico15. In tema di obiezione di coscienza ‘a valenza sociale’ si possono 13 Tra le diverse definizioni di obiezione di coscienza si riporta la seguente: “Rifiuto di obbedire ad un imperativo giuridico in nome di un imperativo etico che è radicato nella coscienza e che la coscienza ritiene dotato di una forza obbligante superiore.” in Rodolfo Venditti, Le ragioni dell’obiezione di coscienza, Gruppo Abele, Torino, 1986, p. 33. 14 In proposito, cfr. il saggio “Promozione e difesa della vita”, di Patrizia Lisi, in AA VV, La dignità nel morire, La meridiana, Molfetta (BA), 2010, pp. 15 – 35. Non a caso l’autrice riconosce nel CD dell’assistente sociale la visione antropologica dell’uomo di stampo personalista: “la persona viene a porsi come valore intangibile, trascendente e oggettivo (…). (…) la nostra etica morale e professionale va ad incrociarsi ed integrarsi con un principio fondamentale dell’essere umano: l’inviolabilità della persona, non bisogna mai dissociare la vita umana dalla persona (…).” (pp. 27 e 28) 15 “(…) A livello dei valori costituzionali, la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all'uomo come singolo, ai sensi dell'art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell'uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico. In altri termini, poiché la coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell'uomo e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione, essa gode di una protezione costituzionale commisurata alla necessita che quelle libertà e quei diritti non risultino irragionevolmente compressi nelle loro possibilità di manifestazione e di svolgimento a causa di preclusioni o di impedimenti ingiustificatamente posti alle potenzialità di determinazione della coscienza medesima. Di qui deriva che - quando sia ragionevolmente necessaria rispetto al fine della garanzia del nucleo essenziale di uno o più diritti inviolabili dell'uomo, quale, ad esempio, la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici (art. 21 della Costituzione) o della propria fede religiosa (art. 19 della Costituzione) la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell'idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell'idea essenziale, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valo19 ipotizzare alcune fattispecie che potrebbero coinvolgere assistenti sociali direttamente o operatori coordinati o gestiti dall’assistente sociale stesso. Ad esempio: a) per la già citata ipotesi di introduzione dell’eutanasia nel nostro ordinamento potremmo trovarci di fronte ad una pratica gestita da un rigido protocollo formalmente approvato che prevede tra le varie forme anche l’esecuzione a domicilio, con il coinvolgimento di un O.S.S. (Operatore Socio Sanitario), al fianco del medico e dell’infermiere. L’OSS potrebbe essere un operatore dipendente dell’ente locale, incardinato nel settore servizi sociali, ed avere come responsabile di servizio un assistente sociale che ne coordina l’attività e definisce il programma di lavoro settimanale. La richiesta di eutanasia dovrebbe passare attraverso la richiesta della persona, il parere medico e la collaborazione dei diversi operatori previsti dal protocollo, all’interno delle mansioni riconosciute e codificate; b) nel caso di introduzione dei living-will (intesi come l’insieme delle disposizioni personali rilasciate in forma scritta per stabilire le volontà di cura ed assistenza in caso di impossibilità ad esprimerle, ma anche le possibili procedure individuate per darsi la morte o autosospendersi l’assistenza vitale), l’assistente sociale, eventualmente affiancato dalle figure sanitarie competenti in materia, potrebbe essere uno degli operatori chiamati a supportare gli interessati nella stesura della dichiarazione e nella sua registrazione presso l’apposito ipotetico registro comunale; c’è chi ha già avanzato proposte concrete in tal senso16; ri espressa dalla Costituzione italiana. Sotto tale profilo, se pure a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecar pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi d'interesse generale, la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in relazione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall'assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili (cd. obiezione di coscienza). (…)”: parte tratta dalla sentenza della Corte Costituzionale 467/1991. 16 Nel volume La dignità del morire, cit., Nicola Martinelli sostiene la necessità dell’introduzione del testamento biologico nel nostro ordinamento. Assimilato ad un “progetto di fine vita” il testamento biologico viene proposto con un modello di dichiarazione che contiene tra l’altro espliciti riferimenti al rifiuto di idratazione o alimentazione artificiale, rifiuto di trattamenti terapeutici attivi o forme di rianimazione (pp. 80 – 81). Senza entrare qui nel profondo dibattito sul tema - di natura prettamente bioetica -, viene fatto il richiamo a diversi articoli del CD dei medici, dell’assistente sociale ed altre normative (p. 71), non c’è però alcun riferimento all’art. 17 del CD dei medici che proibisce interventi di tipo eutanasico, né all’art. 5 del codice civile ove sancisce che gli “atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica (…)”. C’è un evidente riconoscimento del primato del principio di autonomia al di sopra di ogni altro vincolo o competenza e viene sottorappresentata l’autonomia del professionista. Ora, se traspare fortemente una prospettiva di testamento biologico ai confini con disposizioni pro-eutanasia, ci si chiede come si possa porre l’operatore sociale o sanitario chiamato in qualche modo a supportare tali volontà quando si ponessero in chiaro conflitto con i principi di beneficialità e di difesa della vita fisica (ben richiamati da Patrizia Lisi nello stesso volume – pp. 20 e 28). Il diritto a morire come si vuole è parificato agli altri diritti individuali della persona (p. 90), ma questo comporta il porre in capo ad altri il dovere di collaborare ad una scelta di morte e l’istituzione di valori diversi da attribuire alla vita delle persone, ponendosi in contrasto con la pari dignità che 20 c) considerando ora l’attività dell’assistente sociale in qualità di pubblico ufficiale, si potrebbero evidenziare ipotesi di conflitto tra coscienza ed obbligo normativo di tipo amministrativo. Possiamo qui riprendere il tema della segnalazione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato: la recente disciplina della pubblica sicurezza contenuta nella L. 94/09 pare contenere l’obbligo di segnalazione anche per l’immigrato irregolare che si presenta nell’ufficio dell’assistente sociale per chiedere aiuto o semplicemente assistenza rispetto alla comprensione di un documento o per la richiesta di alloggio. Al pari delle contestazioni che giustamente hanno opposto i medici, ci si chiede se la posizione etico-professionale dell’assistente sociale sia poi così diversa, considerato che di mezzo ci può essere, oltre alla dignità della persona in stato di bisogno, la sua libertà, ma anche la sua stessa vita. Non a caso l’Ordine nazionale degli assistenti sociali aveva a suo tempo manifestato grosse perplessità in merito17 invitando gli Ordini regionali a “non avviare procedimenti disciplinari nei confronti di assistenti sociali iscritti all’Albo professionale che fossero stati perseguiti penalmente per non aver assolto all’obbligo di denuncia del reato di clandestinità nella loro veste di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio”18. La segnalazione per il reato di immigrazione rappresenta bene una delle fattispecie che coinvolgono il professionista incardinato in un apparato pubblico, ma, considerato che la sfera giuridica investe sempre più gli aspetti di interesse medico-sociale con il rischio di portare l’etica a mera applicazione regolamentare, potrebbero essercene altre19. Si tratta evidentemente di fattispecie diverse che possono toccare i confini dell’esistenza (eutanasia) o della dignità umana (il diritto all’assistenza). Si tratta anche di si deve riconoscere ad ognuno. 17 Cfr. ad esempio la rivista Assistente sociale – la professione in Italia, anno 1 - n. 2, pp. 61 – 69. Una prima risposta da parte del governo indicava il non obbligo di denuncia solo da parte degli operatori sanitari, quindi anche da parte di alcuni assistenti sociali (quelli che operano in strutture sanitarie, di fatto, non la maggioranza, che opera in Enti locali, amministrazione della giustizia ed altri Enti). Ad ulteriori sollecitazioni da parte dell’Ordine nazionale, le risposte al chiarimento richiesto hanno tardato a pervenire (cfr. Assistente sociale – la professione in Italia, anno 2 - n. 2, pp. 109 – 112). Nell’autunno del 2009 alcuni movimenti d’opinione avevano già ipotizzato forme di obiezione di coscienza alla cd. “legge sicurezza” (cfr. ad es. la rivista “Tera e Aqua” n. 55, sett.-ott. 2009, p. 1. 18 Comunicato stampa dell’Ordine Nazionale del 7.8.2009. 19 Quasi a titolo di provocazione, il seguente esempio. L’assistente sociale che si trovasse a lavorare in Cina potrebbe essere uno degli incaricati governativi che opera presso l’ “Ufficio per la pianificazione familiare” con il compito di segnalare e di conseguenza punire situazioni come gravidanze senza permesso, matrimoni non registrati, coppie di conviventi, in attuazione della “politica del figlio unico” vigente nel Paese asiatico come forma esplicita di controllo statale dal 1971. Dal 1978 il controllo delle nascite è stato introdotto nella Costituzione della repubblica popolare cinese; salvo i casi concessi, dal 1980 è consentito un figlio per coppia, le violazioni sono punite pesantemente con multe, sterilizzazioni ed aborti forzati, arresti, abbattimento delle case dei trasgressori. Cfr. Harry Wu, Strage di innocenti – la politica del figlio unico in Cina, Guerini e associati, Roma, 2009. 21 valutare quale livello di autonomia è necessario esplicitare per l’attività professionale dell’assistente sociale che deve – come gli altri operatori – poter agire in scienza e coscienza. E’ sicuramente più difficile rivendicare un ruolo di forte autonomia per un assistente sociale spesso dipendente da un ente pubblico rispetto al medico che ha alle spalle una professione più forte e rappresentata, nonché una posizione contrattuale spesso meno soggetta ai vincoli gerarchici di un ente (cfr. ad esempio il medico di medicina generale). Pare pertanto sostenibile la necessità di vedere garantito il diritto all’obiezione di coscienza o all’espressione della clausola di coscienza anche da parte di operatori non sanitari, facendo appello ad una dimensione giuridica già presente nel nostro ordinamento, che possa quindi essere meglio individuata rispetto al più generico agire in scienza e coscienza, pur non essendo quest’ultimo non meno pregnante di significato etico. Si tratta in effetti di riconoscere sia l’importanza dell’autodeterminazione da parte dell’utente, sia il valore dell’autonomia professionale dell’operatore, che non potrà mai essere ridotto a mero esecutore delle volontà altrui 20 . Quella che viene chiamata alleanza terapeutica dai medici dovrebbe trovare un’analoga “alleanza motivazionale/operativa” che confluisce nel progetto di vita definito assieme all’assistente sociale, nel rispetto del CD, dei principi fondamentali dell’ordinamento e dei diritti umani. Spesso gli operatori si possono trovare di fronte a dilemmi etici, intesi come difficoltà a scegliere tra due alternative ugualmente spiacevoli e difficili con un conflitto tra diversi principi morali21; la decisione di adeguarsi all’incondizionata volontà dell’utente (autonomia) o di trincerarsi dietro regolamenti e procedure (servizio sociale difensivo) rappresentano modalità che tendono a nascondere il fondamentale ruolo etico dell’operatore, che appunto in quanto tecnico preposto non può esimersi dalla valutazione e conseguente azione professionale che gli spetta. Nel CD il concetto di famiglia compare tre volte, negli artt. 6, 15 e 33, la prima delle quali già richiamata ad inizio paragrafo. I lavori preparatori hanno evidenziato una discussione proprio circa il concetto di famiglia e la definizione da dare al termine, con una forte attenzione alle situazioni familiari non più riconducibili al dettato dell’art. 29 della Costituzione 22 , che spesso costituiscono una parte significativa dell’attività dell’assistente sociale. Ora, se è chiaro a tutti quanto la qualità della prestazione professionale non debba 20 Cfr. G. Marco Campeotto, “Servizio sociale e bioetica: un dialogo possibile … quanto necessario”, in Notiziario SUNAS, n. 168 – dicembre 2008, p. 10. 21 Cfr. Sarh Banks, Etica e valori nel servizio sociale, Ed. Erickson, Trento, 1999, p. 20. Il volume presenta una dettagliata analisi su valori, etica e CD nella pratica del servizio sociale, in un confronto tra diversi Paesi europei ed extraeuropei. 22 “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare.” 22 dipendere dalla condizione civile o anagrafica del richiedente, il dibattito ha affrontato il tema della possibile discriminazione tra le diverse formazioni sociali: infatti c’era chi sosteneva che citare espressamente il termine famiglia avrebbe potuto configurarsi come un danno arrecato alle altre situazioni relazionali o affettive, che non avrebbero potuto godere quindi di pari riconoscimento nel testo del CD23 . Si riproponeva pertanto all’attenzione la questione sul concetto di famiglia e sull’opportunità di mantenere un riferimento esplicito nel testo del CD come attenzione particolare. Si possono qui evidenziare i seguenti elementi di riflessione: a) riconoscere e valorizzare la famiglia è da sempre uno dei cardini della professione, che attraverso il suo coinvolgimento effettua un primo fondamentale lavoro con le reti primarie. Non sempre il lavoro è facile e non sempre la famiglia è elemento di sicura collaborazione nei programmi di intervento; è anche vero che alla persona che viene in ufficio per chiedere aiuto sempre viene chiesto di conoscere la situazione familiare qualora la valutazione del bisogno espresso ne renda necessario il coinvolgimento; b) nell’agire professionale, la condizione giuridica della famiglia non è discriminante rispetto alla qualità dell’intervento, sempreché non appaiano questioni a carattere prettamente giuridico, ma che certamente esulano dalle questioni qui esaminate; c) la prassi denota certamente che molte famiglie in carico ai servizi sociali sono atipiche rispetto al dettato costituzionale e che le situazioni sociali sono le più disparate (spesso si dice che nel servizi la realtà supera la fantasia!), ciò non implica però che non si possa tenere in considerazione la situazione della maggioranza delle famiglie che hanno basato la propria fondazione su un contratto civile o un patto sacramentale; d) la presenza sempre più significativa degli stranieri si accompagna spesso a modalità differenti di intendere e di vivere le relazioni familiari: ciò richiede senz’altro uno sforzo di comprensione per accogliere i diversi stili di vita, senza trascurare il dovere degli operatori nella cura dei processi di integrazione e di educazione alla legalità che valgono per gli autoctoni quanto per gli stranieri; 23 Il dibattito verteva principalmente sulla revisione dell’art. 33 nella parte in cui si disponeva che l’assistente sociale “riconosce e sostiene la famiglia quale risorsa primaria” (versione CD del 2002 e art. 24 CD versione del 1998). Durante il lavoro di revisione del CD, una prima bozza di lavoro prevedeva questo sviluppo “riconosce e sostiene la famiglia come società di legami affettivi” al fine di accogliere le istanze non-discriminatorie. Le richieste manifestate allora da diversi componenti dell’Osservatorio deontologico nazionale temevano appunto interpretazioni differenti e potenzialmente discriminanti rispetto ai gruppi sociali diversi dalla famiglia tradizionale fondata sul matrimonio. L’Ordine regionale della Sardegna aveva, tra le proposte, suggerito di eliminare dall’art. 33 la frase che riguardava la famiglia. L’attuale stesura riporta: “(…) in particolare riconosce la famiglia nelle sue diverse forme ed espressioni come luogo privilegiato di relazioni stabili e significative per la persona e la sostiene quale risorsa primaria”. 23 e) ci si chiede a volte se la famiglia sia da considerare più risorsa o più problema, ma non va dimenticato che lo sviluppo di tutte le civiltà si è fondato proprio sulla famiglia che origina da un patto matrimoniale; pertanto non si può pensare di eliminare la famiglia solo a fronte di un’evidenza sociologica che osserva in questi ultimi anni una forte crisi dell’istituto familiare così come questo si è riprodotto lungo i secoli. 5.5. Il Codice deontologico degli psicologi italiani. L’ultima versione del CD degli psicologi, che si compone di 42 articoli, è stata approvata dal Consiglio Nazionale dell’8 luglio 2009 aggiornando rispetto ad alcune lievi modifiche il testo del 1997. Il concetto di persona e suoi derivati compare otto volte (artt. 3, 22, 26, 28, 31), della quali una è riferita al professionista (art. 26). L’intervento psicologico non è rivolto solo al singolo, ma si prefigge di “promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità” (art. 3) senza operare alcun tipo di discriminazione (art. 4). Da questo punto di vista i principi etici delle altre professioni di aiuto sono sostanzialmente i medesimi. A differenza invece degli altri CD il termine famiglia o suoi derivati non compare in alcun articolo: può senz’altro essere ricondotto ad una delle tipologie di gruppo, ma è singolare che la specificità di questa formazione sociale non venga evidenziata, considerato che la famiglia riveste evidenti peculiarità che la differenziano da qualsiasi altri gruppo e rispetto alle quali qualsiasi psicologo non può disinteressarsi. Proprio nella famiglia e grazie alla famiglia lo psicologo (e spesso solo lo psicologo) riesce ad evidenziare elementi per un trattamento efficace. Il CD degli psicologi non fa alcun riferimento a forme di obiezione di coscienza o clausole ad essa riconducibili; viene comunque richiamata l’autonomia (artt. 6 e 33) ed il riferimento alle evidenze scientifiche necessarie al corretto esercizio professionale (artt. 5, 9, 16, 29, 40). L’attività professionale certamente incontra problemi di natura etica che provocano la coscienza su temi molti delicati ove lo psicologo può essere determinante rispetto alle scelte ed al futuro della persona, si pensi ad esempio alla richiesta di aborto, ai desideri suicidi, all’eutanasia. Alla luce di quanto finora esposto e proprio nel rispetto dell’autonomia professionale e della deontologia, l’assenza di un qualche richiamo alla coscienza è una lacuna che sottorappresenta il professionista, che se deve rispettare certamente l’autonomia dell’utente senza imporre il suo sistema di valori (art. 4), non per questo si deve annullare come persona portatrice anch’essa di valori. Va inoltre ricordato come sia impossibile pensare di non trasmettere o toccare il tema dei valori nell’esercizio di professioni d’aiuto come questa. 24 5.6. Il Codice deontologico dell’ANEP. La figura dell’educatore professionale è tra quelle finora elencate la più recente; non ha ancora il riconoscimento di tipo ordinistico, pertanto non esiste l’albo degli educatori professionali, ma un’associazione che li riunisce e persegue scopi di tutela e promozione della figura dell’educatore: si tratta dell’A.N.E.P., Associazione Nazionale Educatori Professionali. L’ANEP ha elaborato nel 2002 un proprio CD vincolante necessariamente solo per gli iscritti all’associazione; si compone di 31 articoli suddivisi in sezioni con numerazioni separate. Il termine persona e suoi derivati compare 18 volte, quasi tutte riferite al destinatario dell’intervento. Si evidenzia una forte attenzione al rispetto della sua individualità, dignità ed autodeterminazione, come già delineato nei CD precedenti; di tutti però, questo documento è quello che denota la maggior attenzione alla famiglia, dedicandole una sezione specifica “Responsabilità nei confronti delle famiglie”. I quattro articoli di cui si compone questa sezione sono preceduti dall’impegno dell’educatore a “conoscere la situazione famigliare del proprio utente”; è quindi evidenziato il lavoro di potenziamento e coinvolgimento della famiglia per la soluzione del problema educativo, nonché l’obbligo, da parte dell’educatore di “denunciare nelle sedi opportune tutti quei fatti che mettono in grave pericolo la dignità o l'integrità dei membri di una famiglia in cui si sta svolgendo l'intervento educativo” (“resp. nei confronti delle famiglie “ - art. 3). Questa attenzione evidenzia di certo l’intento degli educatori a considerare prioritario il rapporto con la famiglia, che rappresenta da sempre la prima agenzia educativa; pertanto anche il lavoro educativo di tipo professionale non può evitare di rapportarsi alla famiglia, sia essa risorsa o ostacolo alla miglior riuscita dell’intervento. Come per gli psicologi, non è presente alcun riferimento a questioni di conflitto tra valori ed interessi in gioco per i quali l’educatore possa richiamarsi al foro della coscienza; pare un elemento significativo e da non trascurare, soprattutto se posto in relazione con quanto sopra già richiamato in termini di relazioni con i valori dell’utente o della sua famiglia. E’ certamente presente una forte tutela e rispetto delle scelte dell’utente, della sua riservatezza e del segreto professionale, tutta la sezione “responsabilità nei confronti dell’utente” lo esprime in modo chiaro; ma non compare un’indicazione deontologica in caso di divergenze etiche con l’utente o con la sua famiglia (o con parte di essa): cosa fare se l’intervento educativo è causa, anche in itinere, di conflitto su questioni valoriali profonde? Nell’approccio non direttivo e cooperativo dell’educatore professionale si intravede come unica possibilità quella di interrompere l’impegno professionale a favore di un altro progetto o altro operatore, come si può dedurre dall’art. 4 della sezione “responsabilità nei confronti delle famiglie”, anche se questo articolo pare riferirsi più ai rapporti con la famiglia dell’utente piuttosto che con l’utente stesso. All’opposto quasi di quanto si trova invece ben evidenziato nel CD dello psicologo non 25 compare un esplicito richiamo alla tutela dell’operatore in quanto tale (e quindi della professione). Si presume però che nella pratica professionale non siano assenti situazioni in cui l’educatore, come potrebbe avvenire anche per uno psicologo o un assistente sociale, si possa trovare di fronte ad una richiesta o ad un programma che metta in gioco suoi valori profondi; sia la ragazzina in carico che sta pensando all’aborto, sia l’anziano che chiede l’eutanasia in un ipotetico futuro in cui questa sia resa legale: se è chiaro che la decisione rimane in capo all’utente (o al suo tutore, rappresentante legale) e che le azioni conseguenti spettano ad altre figure dell’area sanitaria, è nella parte relazionale e nell’accompagnamento educativo che si possono giocare buone possibilità di indirizzo quando ci si trova al bivio delle scelte. Le fattispecie possono essere anche altre, ed il futuro promette un forte dibattito per le professioni sociali e sanitarie circa i temi etici. 6. Alcune considerazioni tra persone, dignità, valori e legami. Le professioni di aiuto, ed in particolare quelle dell’area sociale, si devono quindi porre la domanda su cosa vada oggi valorizzato e sostenuto; ad esempio, se la famiglia fondata sul matrimonio meriti questa attenzione e pertanto azioni positive mirate ad una sua effettiva promozione ed al suo sostegno in caso di difficoltà. Sono in gioco senz’altro i legami ed i valori, ed assieme il significato che questi hanno per chi li vive e per la società, in senso più ampio, per l’umanità. Parlare di legami e della loro tutela significa occuparsi delle primissime relazioni interpersonali che connettono diverse sfere: a) la sfera biologica ossia il legame di sangue e di discendenza, con in cima la relazione madre/figlio, e subito dopo, la relazione padre/figlio; poi i legami tra fratelli, le generazioni ed i legami parentali in senso più ampio; b) la sfera affettiva, per la quale due persone decidono di mettere in comune sentimenti, interessi, progetti, valori, compresa (anche se non sempre) la decisione di avere figli; ieri qui trovavamo la famiglia che si costituiva dal patto matrimoniale e dai figli che da questo contesto venivano generati, oggi ci troviamo di fronte a diverse manifestazioni quali le varie forme per esprimere la sessualità e l’affettività (eterosessuale, gay, lesbiche, transessuale e bisessuale), le diverse forme di regolamentazione della convivenza (matrimonio, separazione, divorzio, convivenza tout-court, legami ‘a tempo’), le diverse forme attraverso le quali si diventa genitori (in senso biologico, con le tecniche di procreazione medicalmente 26 assistita, la maternità surrogata o in affitto, le forme di affido e adozione, le coppie gay che desiderano figli, ecc.); c) la sfera sociale, racchiudendo in essa il rapporto che si instaura tra questo nuovo soggetto ed il resto della comunità. Tutto questo ieri era costituito, oltre che dalle altre famiglie, anche dall’appartenenza religiosa, dall’area della sussistenza (il lavoro) e dallo Stato nelle sue forme essenziali che poco entrava nelle dinamiche dello sviluppo familiare. Oggi i corpi intermedi sono molteplici: al fianco della famiglia e delle relazioni oggi troviamo le diverse istituzioni pubbliche e private, in primis il sistema dell’istruzione, i partiti, i sindacati; l’associazionismo ed il volontariato, le attività culturali, sportive e ricreative: in una parola, l’area del terzo settore, oggi più che mai significativo e rilevante. Ciò presenta un panorama di situazioni che coinvolgono le persone in molte altre forme oltre a quelle della vita familiare. Tutte queste in un modo o l’altro si occupano della famiglia, le danno messaggi, le chiedono attenzione; esiste uno scambio di interessi, affetti, impegni, e valori che richiedono comunque la mediazione da parte della famiglia e nella famiglia al suo interno, non fosse altro che per rielaborare quanto questi diversi mondi vitali propongono e gestiscono; quindi, cosa fanno e come lo fanno. Le tre sfere sono state per molto tempo in costante e continua correlazione, al fine di un corretto equilibrio tra le esigenze affettive della coppia, la continuazione della specie, l’equilibrio sociale, l’impegno nei confronti della comunità. E’ evidente come la scissione tra le tre sfere di cui sopra o comunque la ridefinizione del loro rapporto abbia invece portato sostanziali modificazioni sociali ed alcune conseguenze significative tra le quali: o la separazione tra sessualità e coniugalità o la separazione tra procreazione e esercizio della sessualità o la separazione tra procreazione e coniugalità o la privatizzazione dei legami affettivi, separati dalla vita in società o la pubblicizzazione dell’esercizio della sessualità al di fuori dei confini dell’intimità coniugale o la separazione tra legame familiare ed esigenze di cura nelle situazioni di fragilità (erogazione di servizi o inserimenti in struttura al posto dell’impegno di accudimento da parte dei familiari); o la frammentarietà e la riduzione della durata temporale dei legami. 27 Questi aspetti coinvolgono sostanzialmente le decisioni circa il modello sociale che vogliamo costruire nella ridefinizione costante degli equilibri tra le tre sfere di cui sopra. Ne segue un modello antropologico, quindi sociale. E’ forse questo uno dei nodi sostanziali della politica sociale, nella definizione di un modello di welfare coerente con il quadro di riferimento. Gli operatori che si occupano dell’attuazione delle politiche sociali non possono abdicare al loro compito, e nemmeno assumere una posizione sedicente neutrale24, degna del relativismo attuale secondo cui tutto è uguale, ogni posizione è indifferente e nulla c’è di interessante per cui valga la pena di impegnare tutta l’esistenza o quantomeno parte significativa di essa. Si può anche aggiungere che le professioni di aiuto nascono proprio per porsi in aiuto dei più deboli, di chi non sa o non può difendersi da solo; se la neutralità è palesemente in contrasto con la deontologia è proprio data dal primato della difesa dei deboli e di coloro che vivono una condizione di fragilità sociale. La politica dei servizi non può quindi non basarsi su un’idea di uomo, di relazioni affettive e sociali, che necessariamente poggiano su valori significativi, valori che orientano al bene, nel senso più laico possibile. A questo proposito è utile richiamare l’interessante documento elaborato dalla Fondazione Zancan nel 2004 dal titolo “Carta etica delle professioni che operano a servizio delle persone”, elaborato nel contesto di una ricerca sull’etica nelle professioni d’aiuto cercando di evidenziare gli elementi essenziali traversali a tutte le discipline ed i servizi che si occupano di salute, istruzione ed assistenza. Ne emerge la centralità della persona e del bene comune declinata nelle quattro aree fondamentali con il denominatore comune della responsabilità: nei confronti della persona, della propria professione, delle altre figure professionali e delle organizzazioni/istituzioni. Oltre a sottolineare l’importanza dei diritti e dei doveri delle persone e degli operatori, nel documento si trova il richiamo alla fondamentale connessione tra persone e le loro famiglie 25 . La serietà professionale è sottolineata su diversi fronti, compreso quello che prevede il rifiuto di svolgere “attività che 24 Cosa significa oggi essere neutrali in campo sociale è difficile dirlo: farlo coincidere con l’atteggiamento di chi non prende per principio le parti di nessuno o di chi non esprime nessuna posizione preferenziale rispetto le situazioni o rispetto a scelte che riguardano il bene della persona o della comunità non va confuso con l’accettazione della persona, di qualunque persona – sempre da rispettare per la dignità che in se stessa ha – con le problematiche che presenta (cfr. ad es. artt. 7, 8 e 9 del CD dell’assistente sociale). La neutralità che non prende posizione e non esprime pertanto una preferenza ed un indirizzo da attuare o è in balìa della corrente del momento, o diventa semplicemente l’attuatore di scelte altrui (dell’utente, della sua famiglia o di altri servizi), ma questo significa escludere l’autonomia della professione, l’asse della valutazione e del giudizio tecnicoprofessionale dell’operatore che a questo invece è chiamato (artt. 10, 11, 21, 49, 50 del CD dell’ass. sociale). Per l’assistente sociale, attivare o meno un servizio, concordare l’erogazione di un contributo economico, effettuare una segnalazione al Tribunale per i minori o alla Procura della Repubblica, attivare un 403 cc per un grave maltrattamento, attivare l’amministratore di sostegno, comporta sempre una valutazione ed un giudizio su una situazione, è sempre una presa di posizione. Non a caso il termine neutralità non compare in tutto il testo del CD. 25 L’art. 1.16 della Carta riporta “I diritti delle persone non vanno disgiunti da quelli delle famiglie che si prendono cura dei loro bisogni”. 28 contrastino con il proprio codice deontologico” e la difesa della validità e dell’eticità dell’azione professionale26. Il riconoscimento dell’obiezione di coscienza è esplicitato in caso di conflitto tra valori del professionista e principi o norme dell’istituzione o l’organizzazione di appartenenza, ma solo nei casi consentiti27. 7. Cosa emerge. Nel ripercorrere l’analisi effettuata sui CD, è possibile pertanto evidenziare i seguenti aspetti. I CD non definiscono un chiaro concetto di persona spendibile per finalità deontologiche che sia contemporaneamente svincolato da definizioni di tipo giuridico, quindi prestano il fianco a possibili conseguenze poco piacevoli: i. poca chiarezza nel dare un orientamento agli operatori in caso di dilemma etico; ii. pare di scorgere diverse concezioni del mandato professionale, quindi passibili di differenze anche notevoli tra i diversi operatori, che inevitabilmente si traducono in una diversa operatività; iii. poca uniformità nell’immagine professionale; iv. incertezze da parte dei cittadini che non trovano nei professionisti il medesimo approccio tecnico. I due esempi più efficaci in merito possono essere quelli dell’aborto28 e dell’eutanasia, con l’unica differenza oggi in Italia che la seconda non è (ancora) stata legalizzata. Probabilmente le comunità professionali non hanno trovato punti di convergenza ulteriori utili a definire meglio il concetto di persona e la sua applicabilità nelle diverse fasi della vita, difficilmente si può sostenere che nel corso degli anni ciò non sia stato ritenuto opportuno. La posizione del Magistero nell’affermazione del diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale esprime una dimensione antropologica chiara e basata su criteri scientifici consolidati riconosciuti non solo da ambienti cattolici. Sono pertanto posizioni che si possono definire anche laiche dal punto di vista dei contenuti tecnici; posizioni certamente anche religiose in quanto si collocano a pieno titolo nel solco della Tradizione, della Sacra Scrittura e della dottrina. E’ evidente che una simile prospettiva antropologica implica conseguenze 26 Carta etica delle professioni che operano a servizio delle persone, art. 2.3 e 2.11. Carta etica …, cit., art. 4.12. Rimane il dubbio su come comportarsi qualora non sia riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza, cosa che potrebbe facilmente verificarsi in situazioni di regimi totalitari, per divergenze ideologiche nel potere legislativo o semplicemente per una tempistica normativa che non riesce a stare al passo con l’evoluzione tecnologica o delle casistiche umane. 28 Tra l’altro, nessun CD individua l’embrione come persona, anche se all’art. 44 del CD dei medici si trova che “(…) non è consentita la produzione di embrioni ai soli fini di ricerca ed è vietato ogni sfruttamento commerciale, pubblicitario, industriale di gameti, embrioni e tessuti embrionali o fetali.” Questo quantomeno riconosce indirettamente all’embrione uno status certamente diverso da quello di un qualsiasi altro insieme di cellule. 27 29 inequivocabili rispetto agli interventi che si possono o si debbono attuare di fronte ad una sofferenza o una situazione di difficoltà. Trattando quindi della famiglia è possibile evidenziare il medesimo ordine di riflessione: i CD non definiscono la famiglia, ma quasi tutti (ad esclusione degli psicologi) fanno esplicito riferimento ad essa riconoscendone il valore in relazione all’intervento professionale. A differenza di quanto possiamo incontrare quando ci occupiamo delle persone, ove il riconoscimento o meno della sua dignità può attivare azioni professionali molto diverse, perfino diametralmente opposte (si pensi all’aborto), l’assenza di definizione del concetto di famiglia non pare avere qui conseguenze particolarmente significative circa gli interventi che poi si andranno ad attivare. Infatti, la generalità degli operatori tende a coinvolgere sempre la rete primaria di riferimento per la persona/utente/paziente, e, senza porre particolari distinzioni sotto il profilo giuridico, i familiari che possono collaborare positivamente all’esito di un programma sono certamente valorizzati29. Perlomeno questo è l’indirizzo deontologico e quanto sostenuto dalla maggioranza della letteratura. Quindi, la considerazione di una qualche forma di famiglia, intesa essenzialmente come nucleo di relazioni significative può essere accolta positivamente quale elemento di supporto in tema di interventi sociali e sanitari, anche perché spesso ulteriori distinzioni semantiche non avrebbero un significato particolare rispetto all’intervento professionale. Possono sì esserci distinzioni e problemi in tema di accesso agli atti, consenso ai trattamenti per persone senza legame giuridico, o non in grado di esercitare il consenso o situazioni similari; si tratta di risvolti perlopiù di tipo legale ed amministrativo che non compromettono in modo significativo il processo d’aiuto, ma pare possano trovare risposte adeguate attraverso dichiarazioni autorizzatorie specifiche e gli istituti della delega e dell’amministrazione di sostegno (L. 6/04)30. 8. La promozione della salute come paradigma. Un discorso di altra natura va invece fatto quando dall’intervento sul singolo si passa all’intervento sulla comunità (nel sociale si parla di community work), a programmi di prevenzione e promozione, compreso l’enpowerment. L’elemento rilevante qui è dato da una prospettiva che si vuole dare alla comunità intesa come insieme delle reti e delle relazioni di un determinato territorio. E’ chiaro che agire sulla comunità e con la comunità significa avere 29 Si pensi ad esempio al coinvolgimento di familiari, con i diversi gradi di relazione, negli interventi di recupero in tema di alcolismo, nella definizione delle misure alternative al carcere, nei progetti di affidamento familiare, solo per citare alcuni esempi. 30 Per completezza si possono richiamare anche gli istituti giuridici dell’inabilitazione e dell’interdizione, di fatto oggi in netto disuso a vantaggio dell’amministratore di sostegno. 30 già deciso che qualcosa va cambiato, promosso, sostenuto o migliorato; in altri termini, se gli operatori sociali e sanitari definiscono un programma di intervento o un progetto, hanno in mente obiettivi da raggiungere attraverso una o più azioni, compresa quella preliminare di conoscere meglio un certo fenomeno. L’attività professionale sarà indirizzata verso interventi concreti tesi a costruire una politica sociale o sanitaria di un certo tipo, quindi un tessuto relazionale con determinate caratteristiche. Si possono a titolo di esempio richiamare alcune macro-linee progettuali significative in questi ultimi anni: - il sostegno alla domiciliarità per le persone non-autosufficienti come valida alternativa all’istituzionalizzazione, - le campagne di promozione dell’affidamento familiare, in alternativa alle comunità ed agli istituti; - la chiusura degli ospedali psichiatrici con l’offerta di programmi territoriali di reinserimento; - il lavoro con le famiglie nel trattamento dei problemi alcol-correlati, secondo il modello Hudolin; - il coinvolgimento delle neo-mamme per la promozione dell’allattamento al senso a livello della comunità locale, in contrasto all’eccessiva diffusione del latte artificiale; - l’attivazione di contratti di borse-lavoro a favore di soggetti deboli con Ditte private, in alternativa ai contributi economici di matrice assistenzialistica; - la promozione dell’uso di merende preparate in casa e di una sana alimentazione in collaborazione con le scuole, opposta alla “cultura delle macchinette” (i distributori automatici di merendine). Si possono così ricomprendere interventi di questo tipo come interventi di promozione e prevenzione dove traspare un’idea di comunità che si prende cura di sé, dove i cittadini non sono passivamente in attesa dell’intervento statale ed il territorio, la casa e gli affetti familiari sono ritenuti importanti. C’è quindi una scelta di valori: la casa meglio dell’istituto, la famiglia meglio degli operatori, la condivisione meglio della solitudine, la responsabilizzazione e l’auto-attivazione meglio della delega e della passività; ci sta tutto in chiave di sussidiarietà, al posto dell’assistenzialismo. Questa cornice, che delinea un’ipotesi di società e di qualità delle reti, può far emergere una solida visione antropologica, un’idea di uomo nel mondo d’oggi. Si desidera un uomo responsabile, coinvolto, solidale, collaborativo, presente nel proprio contesto di vita. Vale la pena richiamare ora la famosa “Carta di Ottawa”31 che si può sintetizzare come segue: fare promozione della salute significa facilitare le scelte sane; ciò significa o31 “La Carta di Ottawa per la promozione della salute” - atti della prima Conferenza Internazionale sulla promozione della salute, Ottawa, Canada, 17 – 21 novembre 1986. 31 rientare le politiche verso ciò che è buono, cercando di facilitare, quindi favorire i comportamenti positivi e gli stili di vita sani. L’approccio della promozione della salute richiede azioni concrete che toccano senz’altro il tema delle abitudini e degli stili di vita (uso di alcol, droghe illegali, gioco d’azzardo, psicofarmaci) e che cercano di innescare processi di cambiamento (quindi di trattamento e di cura), che responsabilizzano ed attivano le persone cercando di rendere più facile, pertanto - a seconda dei contesti - più appetibile, comoda, economica, socialmente sostenuta e riconosciuta, la scelta che chi gestisce ed attua le politiche ritiene preferibile per un miglioramento sociale e della salute della comunità. Se i programmi sono sviluppati partendo dal basso, quindi con un forte coinvolgimento del territorio, avranno maggiori possibilità di successo; altrimenti, il rischio è quello di fare interventi calati dall’alto che, non avendo attivato il coinvolgimento, non potrà attecchire, anzi facilmente solleverà movimenti di rifiuto dettati dal timore di essere vittime di una qualche forma di manipolazione. Questi tipi di intervento, per i motivi poco sopra delineati, interessano marginalmente il tipo di famiglia che si desidera promuovere, in quanto aspetto non determinante e non discriminante rispetto alle finalità dell’intervento; di fatto si agisce su alcuni sintomi o problemi e si attivano le forme locali di miglioramento sociale e sanitario attraverso la modifica degli stili di vita e l’attivazione delle più valide forme di solidarietà tra le persone a livello di comunità locale e tra i componenti del nucleo familiare stesso. E’ forse più difficile immaginare interventi di promozione volti ad interagire con i modelli di relazione affettiva in quanto tali, indirizzati alla valorizzazione della famiglia in quanto tale. Tolti di mezzo i buoni propositi che vorrebbero semplicisticamente dire a tutti che “volersi bene fa bene”, è difficile pensare ad un intervento serio atto a promuovere la persona e la famiglia come realtà sociali, pertanto senza che questo debba passare attraverso una qualche forma di devianza o dipendenza (alcolismo, anoressìa, dipendenza da gioco, …), o debba per forza agganciarsi alla necessità di essere buoni genitori32. Promuovere un’idea di persona o di famiglia significherebbe dare prima una definizione dei termini e stabilire quindi un piano di azione in tal senso. Stante la difficoltà di definizione ed il dibattito filosofico, etico, giuridico e politico su questi temi, pare oggi francamente un’operazione assai difficile. E’ per questo forse che i progetti e le azioni in tal senso che coinvolgono Enti ed operatori dell’area delle professioni di aiuto, sono pochi. E’ probabile che il relativismo ed il venir meno, nel tempo della forte impronta valoriale che il cristianesimo ha fornito per un lungo periodo, stia cedendo il passo ad altre visioni indifferenziate che tendono ad accettare tutto o 32 Si possono ricordare le diffuse “scuole per genitori” che si rivolgono agli adulti che sentono la necessità di acquisire strumenti per sentirsi genitori migliori o meno inadeguati (cfr. ad esempio il valido “metodo Gordon”). 32 quasi, nel nome della tolleranza, a cui consegue l’impossibilità nel prendere posizione 33 . Contemporaneamente, le ideologie di stampo marxista o liberista non hanno saputo produrre definizioni forti di persona e famiglia tali da poter evidenziare concezioni solide. Ciò ha fatto sì che le comunità professionali non abbiano trovato per questi concetti modelli eticamente significativi sui quali poter concordare parti della costruzione di una deontologia, che evidentemente non poggia esclusivamente sui termini di persona e famiglia. 9. Conclusione. Allora può essere oggi necessario un forte impegno a riconoscere il bene e proporre il bene per la persona, la famiglia e la società, ponendoli in relazione costante con il concetto più ampio di bene comune. Quindi, promuovere l’importanza dei legami affettivi stabili, della coesione e dell’inclusione sociale, al pari della tutela dei più deboli, del principio di sussidiarietà e responsabilità può richiedere ai professionisti dell’aiuto ed agli amministratori pubblici la definizione di una prospettiva antropologica di fondo, che supporta un modello valido di società. Nel chiederci cosa vogliamo promuovere, alla luce delle indicazioni “laiche” del Magistero si posso evidenziare le seguenti: a) il rispetto della dignità della persona, di ogni persona, dal concepimento alla morte naturale; b) il sostegno alla famiglia fondata sul legame matrimoniale, quale patto per tutta la vita, aperto alla vita, dotato di valenza pubblica, con la conseguente assunzione di diverse responsabilità. Ciò implica l’aver riconosciuto che il legame matrimoniale rappresenta un valore in sé ed un bene per la società. Questo non è scontato e richiede forse analisi specifiche alla luce dei profondi mutamenti che oggi si registrano circa il modo in cui si intende generalmente il concetto di famiglia. Allo stesso modo, le professioni devono interrogarsi circa la direzione da dare al proprio impegno quando questo non si rivolge al singolo in senso stretto, cioè quando si affronta una singola malattia o intervento di presa in carico, pur ricordando che dal punto di vista sistemico è raro che un singolo problema individuale non abbia una qualche ricaduta a livello familiare o relazionale. I professionisti dell’aiuto si devono chiedere cosa promuovere e cosa sostenere, se vogliono essere in qualche modo attori qualificati e non essere in balìa delle correnti del momento, culturali o politiche che siano, per rimanere così validi punti di 33 Cfr. G. Kuby, Gender revolution, cit., pp. 23 – 26. 33 riferimento per la società, a cominciare dalle persone e dalle famiglie, e tra queste, da quelle più indifese. Se in questa sede si è tentata una definizione antropologica che parta dal “perché” e dal “cosa”, la sfida successiva è passare al “come”. Giovanni Marco Campeotto Via Cadorna 29/B 33050 Rivignano (UD) [email protected] 34