LEZIONE
“DECENTRAMENTO PRODUTTIVO ED ESTERNALIZZAZIONE”
PROF. GIULIO QUADRI
Università Telematica Pegaso
Decentramenti produttivo ed esternalizzazione
Indice
1
Decentramento produttivo ed esternalizzazione. --------------------------------------------------- 3
2
Il quadro normativo antecedente il d.lgs. n. 276 del 2003 ----------------------------------------- 7
3
Interposizione e appalto dopo il d.lgs. 276 del 2003 ---------------------------------------------- 12
Bibliografia ------------------------------------------------------------------------------------------------------ 16
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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Decentramenti produttivo ed esternalizzazione
1 Decentramento produttivo ed esternalizzazione.
Con l’espressione decentramento produttivo vengono generalmente designate tutte le
iniziative tese a spostare all’esterno dell’azienda spezzoni produttivi prima ricompresi nel processo
di fabbricazione interna. Determinate attività, cioè, in precedenza svolte all’interno di un’impresa,
vengono trasferite a soggetti esterni, ad essa collegati attraverso una varietà di rapporti negoziali,
che le assicurano l’utilizzazione dei relativi risultati produttivi.
Il decentramento produttivo, dunque, è un fenomeno della realtà economica, che incide sui
modelli organizzativi dell’impresa. Si tratta di un fenomeno che ha avuto una notevole diffusione
nella realtà economica, manifestandosi sotto una molteplicità di forme ed assumendo una
particolare fisionomia a seconda dell’ambiente socio-economico in cui si è sviluppato. Vi si fanno
generalmente rientrare il lavoro a domicilio, la fornitura di lavoro temporaneo – nelle sue più varie
estrinsecazioni, dalle più arcaiche e rozze, come quelle dei “caporali” e dei “capi-cottimo”, al più
moderno e raffinato staff leasing –, nonché le diverse forme di integrazione giuridica e di
coordinamento negoziale tra imprese, anche se realizzato attraverso la stipulazione di semplici
contratti di appalto.
Ma la forma più significativa e maggiormente caratterizzante del decentramento produttivo
dei nostri giorni è rappresentata dal fenomeno della esternalizzazione (o outsourcing) termine con il
quale viene designato, in generale, il trasferimento a terzi di una o più funzioni precedentemente
svolte all’interno dell’impresa, realizzato in maniera tale che le attività esternalizzate non
scompaiano dal ciclo aziendale, perché i beni e i servizi che ne costituiscono il risultato possono
essere nuovamente acquisiti dall’impresa originaria attraverso una pluralità di strumenti negoziali,
quali, ad es., l’appalto, la somministrazione, la subfornitura.
L’esternalizzazione, infatti, tende a configurarsi come un procedimento caratterizzato da due
fasi: una prima, propriamente detta esternalizzazione, caratterizzata dalla dislocazione all’esterno
dell’impresa di una determinata attività, accompagnata dalla cessione dei mezzi strumentali
attraverso lo strumento del trasferimento di ramo d’azienda; la seconda, denominata
internalizzazione, contrassegnata dalla riappropriazione dei risultati di tale attività, il più delle volte
per mezzo di un contratto di appalto. L’attività demandata all’esterno, dunque, non scompare dal
ciclo produttivo dell’impresa, poiché i beni e i servizi che ne costituiscono il risultato sono da
questa comunque acquisiti attraverso l’instaurazione di un rapporto contrattuale di vario genere con
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il soggetto cui essa è affidata, realizzando, così, il risultato del ridimensionamento e della
riorganizzazione della struttura produttiva.
In linea generale, si tratta di vicende che sembrano aver trovato, nel nostro Paese, sempre
più largo sviluppo soprattutto in tempi piuttosto recenti, principalmente in seguito ai grandi processi
di ristrutturazione industriale che hanno iniziato ad interessare le imprese italiane a partire dagli
anni Settanta e Ottanta. E’ proprio in questo periodo, in effetti, che si assiste, in particolare, ad una
nuova rivoluzione industriale, quella informatica, principale causa dei profondi mutamenti
verificatisi nelle strutture organizzative imprenditoriali.
Fino a tutti gli anni Settanta, il modello dominante di organizzazione imprenditoriale sembra
essere stato rappresentato da quello c.d. fordista, espressione di una realtà economica incentrata
sulla produzione di massa e caratterizzato dall’accentramento della fase produttiva, prevalentemente
industriale, in grandi strutture aziendali. Secondo un simile modello, tutte le funzioni dell’impresa,
anche non necessariamente inerenti al suo ciclo produttivo, vengono svolte all’interno di essa e
l’intera organizzazione è incentrata sulle relazioni dirette, di tipo gerarchico, che intercorrono tra
l’imprenditore, da un lato, e i lavoratori, dall’altro. Tale processo economico-giuridico di
integrazione c.d. verticale, favorito in speciale misura da una congiuntura economica contraddistinta
dalla forte espansione del settore industriale, viene frenato dalla crisi degli anni Settanta, che apre
un periodo di ristagno per l’economia nazionale. Si verifica, allora, un’inversione di tendenza: la
grande impresa, a causa principalmente della sua rigidità organizzativa, manifesta evidenti segnali
di crisi.
Il tessuto economico viene ad assumere, in effetti, una diversa fisionomia: flessibilità,
professionalità, specializzazione ed innovazione tecnologica sono i caratteri di cui hanno bisogno le
imprese per essere competitive sul mercato: caratteri, questi, che difficilmente si riscontrano nelle
aziende di grandi dimensioni, le quali, dunque, per continuare ad operare sul mercato, danno avvio
a processi di ristrutturazione e riorganizzazione della produzione, ispirati a modelli di
frammentazione o destrutturazione del ciclo produttivo.
Al rinnovamento della produzione industriale si affianca, poi, un altro fenomeno di grande
rilevanza, quello, cioè, della crescita smisurata del settore del terziario, destinato ad assumere un
ruolo di primaria importanza nell’attuale realtà economica, in conseguenza della sempre maggiore
richiesta di servizi da parte delle stesse imprese e della collettività nel suo complesso. La
terziarizzazione dell’economia, l’accentuarsi della concorrenza internazionale in conseguenza del
processo di globalizzazione e l’incessante evoluzione tecnologica, sembrano, comunque, costituire
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le cause principali della comparsa di nuovi modi di produzione e di nuovi sistemi di organizzazione
del lavoro, nettamente differenti da quelli riconducibili al modello fordista, e volti, principalmente,
alla ricerca di due obbiettivi, la flessibilità e la qualità.
E’ in un simile contesto economico a trovare diffusione il decentramento produttivo, come
risposta delle grandi imprese alle esigenze di rinnovamento provenienti dal mercato, soprattutto
nella prospettiva di una riduzione dei costi, trovando l’imprenditore più conveniente acquistare
all’esterno i beni o servizi di cui ha bisogno, quando il loro costo sul mercato (buy) si dimostri
inferiore a quello necessario per produrli (make).
Si afferma, cioè, un nuovo modello organizzativo dell’attività di impresa, nel quale
assumono rilevanza una serie di rapporti negoziali con altri soggetti, cui sono affidati singoli
segmenti del ciclo produttivo - esterni al c.d. core business (come nucleo di attività essenziali che
assicurano all’impresa il vantaggio competitivo) - che vanno dalla produzione di beni accessori o
strumentali rispetto alla prodotto finale (o anche singole lavorazioni su tali beni) alla prestazione dei
più diversi servizi indispensabili al funzionamento dell’azienda: servizi semplici (quali la pulizia, il
portierato, la ristorazione) e servizi più qualificati, concernenti il settore amministrativo
(fatturazione e tenuta della contabilità, gestione delle buste paga), il settore commerciale (gestione e
promozione delle vendite), il settore tecnico-produttivo (progettazione e design), ovvero il settore
dei c.d. servizi generali (gestione del centralino telefonico, archivio).
In tale prospettiva, dunque, si crea una struttura integrata, non più in senso verticale, bensì
orizzontale, basata sulla cooperazione tra imprese, nella quale l’imprenditore non si presenta più
solo come il “produttore”, ossia come colui che organizza i fattori della produzione, il capitale e il
lavoro, ma svolge il ruolo di general contractor, cioè di coordinatore dell’opera di altre imprese,
spesso, ma non necessariamente, di piccole dimensioni, caratterizzate da maggiore specializzazione
tecnica e flessibilità organizzativa, e legate all’impresa madre da rapporti contrattuali di vario
genere.
Ecco che, allora, il decentramento produttivo, visto in precedenza con decisa ostilità dagli
operatori giuridici, inizia ad essere guardato con un certo, più o meno cauto, favore. Mentre, infatti,
in un sistema di produzione accentrato, di tipo fordista, il trasferimento all’esterno di spezzoni del
ciclo produttivo o di servizi ad esso accessori non poteva non destare dei sospetti, trattandosi di una
vicenda, in linea di massima, anormale, volta principalmente a liberare l’imprenditore dal peso
dell’assunzione diretta dei lavoratori necessari al loro svolgimento, in una prospettiva post-fordista,
invece, nel panorama di una sempre più accentuata tendenza alla frammentazione delle strutture
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produttive, il ricorso ad imprese di piccole e medie dimensioni viene considerato, in sostanza, quale
fenomeno assolutamente naturale. Si è ritenuto opportuno, così, distinguere tra un decentramento
“patologico”, posto in essere al fine di eludere le normative di tutela del lavoratore, ed un
decentramento “fisiologico”, motivato da adeguate ragioni tecniche, organizzative ed economiche,
derivanti dalle mutate esigenze del mercato.
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2 Il quadro normativo antecedente il d.lgs. n. 276
del 2003
Il decentramento produttivo, fenomeno di origine piuttosto antica, ha trovato grande
diffusione in Italia principalmente a partire dagli anni Settanta, come conseguenza dei profondi
mutamenti verificatisi nelle strutture organizzative imprenditoriali in seguito alla rivoluzione
informatica e tecnologica. Nel sistema di produzione fondato sul modello fordista, in effetti,
risultando il trasferimento all’esterno di segmenti del ciclo produttivo una vicenda, per lo più,
anormale, il decentramento produttivo viene visto con un certo sospetto, quasi come un insieme di
artifici utilizzati dagli imprenditori per liberarsi della responsabilità economica e giuridica della
forza lavoro occupata.
La forma più significativa di elusione delle tutele del prestatore di lavoro è rappresentata dal
fenomeno dell’interposizione nel rapporto di lavoro, consistente nella imputazione della titolarità
formale del rapporto di lavoro ad un soggetto diverso dall’effettivo utilizzatore della prestazione
lavorativa. L’imprenditore, invece di assumere direttamente il personale necessario per la propria
attività, si serve di un soggetto interposto, che assume e retribuisce i lavoratori, le cui prestazioni
sono, però, utilizzate dall’imprenditore interponente, il quale, di fatto, si comporta sostanzialmente
come datore di lavoro, inserendo i lavoratori nella sua organizzazione imprenditoriale ed
esercitando il potere direttivo.
Per designare tale fenomeno si parla anche di appalto di manodopera o pseudoappalto, che
si differenzia dalla fattispecie del contratto di appalto, nel quale l’appaltatore “assume con
organizzazione dei mezzi necessari e gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un
servizio verso un corrispettivo in denaro” (art. 1655 c.c.). Mentre l’appaltatore è un vero
imprenditore che svolge un’autonoma attività economica organizzata consistente nella realizzazione
di opere o servizi in favore del committente, l’interposto è, invece, un mero intermediario, che si
limita a mettere a disposizione dell’interponente alcuni lavoratori da lui assunti e retribuiti, lucrando
sulla differenza tra il compenso pattuito con l’imprenditore e la retribuzione effettivamente
corrisposta ai lavoratori.
Già con l’emanazione del codice civile viene introdotta una prima, anche se limitata,
disciplina repressiva del fenomeno dell’interposizione nel rapporto di lavoro. L’art. 2127 c.c.,
infatti, stabilisce che “è vietato all’imprenditore di affidare ai propri dipendenti lavori a cottimo da
eseguirsi da prestatori di lavoro assunti e retribuiti direttamente dai dipendenti medesimi”. La
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norma risultava, a dire il vero, del tutto inadeguata, sia perché presentava un campo di applicazione
fortemente limitato, concernente la sola fattispecie dell’“interposizione nel lavoro a cottimo”, sia
per via della debolezza della sanzione, consistente in una responsabilità diretta dell’imprenditore,
nei confronti dei prestatori di lavoro, per gli “obblighi derivanti dai contratti di lavoro da essi
stipulati”.
E’ in quest’ultimo contesto che è intervenuto il legislatore, introducendo, con la l. 23 ottobre
1960, n. 1369, una disciplina fortemente repressiva dei fenomeni interpositori, stabilendo un divieto
assoluto di interposizione ed intermediazione nelle prestazioni di lavoro. A norma dell’art. 1, co. 1,
era “vietato all’imprenditore di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche
a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera
assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque sia la natura dell’opera o del
servizio cui le prestazioni si riferiscono”.
Le ragioni di un simile divieto, per lungo tempo una delle norme fondamentali dell’intero
ordinamento giuslavorista, possono essere ricercate, principalmente, oltre che nell’eliminazione
della rendita parassitaria dell’intermediario, nel rispetto del principio di necessaria coincidenza tra il
datore di lavoro formale e l’effettivo utilizzatore delle prestazioni di lavoro, espressione di una
generale esigenza di “trasparenza” nella titolarità del rapporto di lavoro, e finalizzato, quindi, ad
impedire all’imprenditore di servirsi dell’utilità derivante dalla prestazione di lavoro senza
assumere tutti gli obblighi e le responsabilità derivanti dalla formale instaurazione di un rapporto di
lavoro subordinato.
Se si analizza la struttura dell’illecito, occorre rilevare come il divieto posto dall’art. 1
prendesse in considerazione una fattispecie complessa, costituita principalmente da tre elementi: un
contratto tra l’interponente e l’interposto, avente ad oggetto la fornitura di mere prestazioni di
lavoro; un contratto di lavoro tra l’interposto e il lavoratore; l’effettiva utilizzazione da parte
dell’interponente delle prestazioni di lavoro.
Nell’ipotesi di sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie interpositoria,
trovavano applicazione le sanzioni civili e penali previste dalla medesima legge e, in primo luogo,
la riconduzione ex lege della titolarità del rapporto di lavoro in capo all’interponente (art. 1, co. 5: “i
prestatori di lavoro, occupati in violazione dei divieti posti dal presente articolo, sono considerati,
a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro
prestazioni”).
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Oltre al divieto di interposizione, la l. n. 1369 del 1960, stabiliva, nell’art. 3, pure una
disciplina specifica per l’ipotesi dei c.d. appalti interni, quei contratti di appalto di opere o di servizi
“da eseguirsi nell’interno delle aziende con organizzazione e gestione propria dell’appaltatore”.
Tale disciplina, diretta ad evitare che il ricorso al contratto di appalto potesse rivolgersi a danno dei
diritti dei lavoratori, determinando, così, un abbattimento del costo del lavoro, era contrassegnata
dal riconoscimento di due fondamentali tutele: il diritto dei dipendenti dell’appaltatore di ricevere
un trattamento minimo inderogabile retributivo ed un trattamento normativo non inferiori a quelli
spettanti ai dipendenti del committente; la responsabilità solidale tra il committente e l’appaltatore
per la corresponsione ai lavoratori di tali trattamenti e per l’adempimento degli obblighi
previdenziali ed assistenziali.
Si doveva trattare, quindi, di veri e propri contratti di appalto, caratterizzati dalla
organizzazione dei mezzi e dalla gestione a proprio rischio (a norma dell’art. 1655 c.c.),
ulteriormente connotati dal requisito della endoaziendalità, intesa, in un primo tempo, in base al
criterio topografico del materiale svolgimento dell’attività appaltata nei locali del committente e,
successivamente, in base al prevalente criterio funzionale, dell’inerenza al ciclo produttivo
dell’impresa committente. Pure quest’ultimo, comunque, soprattutto in seguito al diffondersi dei
processi di segmentazione dell’impresa, è parso inadeguato, principalmente a causa del riferimento
ad una nozione incerta, relativa e mutevole, come quella di ciclo produttivo.
Punto nevralgico del sistema normativo introdotto con la l. n. 1369 del 1960 era
rappresentato dall’individuazione dei criteri per distinguere, nel caso concreto, l’appalto (lecito)
dall’interposizione (illecita). Al riguardo, la giurisprudenza prevalente, partendo dalla nozione di
appalto contenuta nell’art. 1655 c.c., aveva riconosciuto rilievo essenziale alla natura
imprenditoriale o meno della prestazione dell’opera o del servizio oggetto del contratto di appalto,
verificando la sussistenza degli elementi della “organizzazione dei mezzi necessari” e della
“gestione a proprio rischio”. In tale accertamento, poi, particolare importanza era assunta
dall’ulteriore criterio dell’esercizio da parte dell’appaltatore del potere direttivo sui propri
dipendenti, ritenuto decisivo nelle ipotesi di appalti di attività c.d. labour intensive, aventi, cioè, ad
oggetto servizi il cui svolgimento non richiede, per loro natura, in aggiunta alle prestazioni di
lavoro, l’utilizzo di un cospicuo apparato materiale, costituito da mezzi e capitali. E, infatti, in
queste ipotesi, della cui legittimità non si dubita più in dottrina e in giurisprudenza, essenziale si
rivela la sola attività di direzione ed organizzazione delle prestazioni di lavoro, concretante, dunque,
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quel “valore aggiunto” che permette di escludere la configurabilità di una mera fornitura di
manodopera.
Volendo, allora, esprimere, in termini sintetici, l’incidenza della disciplina del 1960 sul
fenomeno del decentramento produttivo, non si può mancare di sottolinearne la valenza fortemente
repressiva, contrassegnata da due linee direttive di fondo: da un lato, si sono considerate come
vietate tutte quelle forme di decentramento produttivo comportanti una dissociazione tra la figura
del datore di lavoro, titolare, cioè, del rapporto di lavoro, e quella dell’effettivo utilizzatore delle
relative prestazioni, contrastanti, dunque, con il divieto generale di interposizione contenuto
nell’art. 1; dall’altro, con l’art. 3, si è inteso regolare, predisponendo una incisiva disciplina di tutela
del lavoratore contraddistinta dalla garanzia di trattamento e dalla responsabilità solidale, tutte
quelle ipotesi caratterizzate, invece, dalla presenza di un genuino contratto di appalto, i cui risultati,
però, risultassero variamente integrati nell’organizzazione aziendale del committente.
Le ragioni del carattere particolarmente limitativo della disciplina in questione nei confronti
decentramento produttivo possono essere ricercate, soprattutto, nel ricordato clima di sospetto e di
sfavore che risulta aver circondato tale fenomeno nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, fino
alla fine degli anni Settanta, momento in cui, in seguito ai mutamenti determinati nella realtà
produttiva soprattutto dalla rivoluzione informatica, si è iniziato ad intravedere la possibilità
dell’esistenza di un decentramento, non più essenzialmente “patologico”, ma anche “fisiologico”,
motivato, cioè, da adeguate esigenze tecniche, organizzative ed economiche.
L’interesse crescente nei confronti del fenomeno ha, quindi, spinto gli interpreti ad
incentrare la propria attenzione sulla l. n. 1369 del 1960, in particolare, al fine di realizzare,
attraverso un’interpretazione tendenzialmente restrittiva delle disposizioni ivi contenute, un
equilibrato coordinamento tra le rigidità della disciplina da questa introdotta e le esigenze di
rinnovamento delle organizzazioni produttive emergenti dalla realtà economica.
Anche il legislatore, in effetti, non è rimasto del tutto insensibile a simili mutamenti
verificatisi nelle strutture organizzative delle imprese. Così, a partire dalla seconda metà degli anni
Novanta, ha emanato una serie di provvedimenti che testimoniano una certa progressiva
disponibilità nei confronti di alcune manifestazioni del fenomeno del decentramento produttivo.
In tale prospettiva deve essere letta la l. 24 giugno 1997, n. 196, che apre la via, nel nostro
ordinamento, ad una particolare tipologia di lavoro subordinato, il c.d. lavoro interinale,
caratterizzata da un rapporto trilaterale, mediante il quale un’impresa di fornitura di lavoro
temporaneo, iscritta all’apposito albo, pone uno o più lavoratori da essa assunti a disposizione di
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un’impresa, che ne utilizzi la prestazione lavorativa, per il soddisfacimento di esigenze di carattere
temporaneo specificamente individuate (art. 1). Si trattava, dunque, di una sostanziale deroga al
divieto generale di interposizione, risultando la fornitura di lavoro temporaneo contrassegnata da
una scissione tra il titolare del rapporto di lavoro e l’utilizzatore delle relative prestazioni (una sorta
di “interposizione autorizzata”). Per bilanciare, poi, la dose di flessibilità così introdotta nel mercato
del lavoro, la medesima legge prevedeva, oltre a stringenti limiti all’esercizio dell’attività di
fornitura, tutta una serie di garanzie per la tutela dei diritti dei c.d. “lavoratori temporanei”, quali,
principalmente, la responsabilità solidale del fornitore e dell’utilizzatore per l’adempimento degli
obblighi retributivi e contributivi (art. 6, comma 3) e la corresponsione di “un trattamento non
inferiore a quello cui hanno diritto i dipendenti di pari livello dell’impresa utilizzatrice” (art. 4,
comma 2).
Nel medesimo senso, poi, possono essere lette anche la l. 18 giugno 1998, n. 192, che, nel
disciplinare la subfornitura nelle attività produttive, sembra già tener conto del mutato atteggiarsi
delle strategie organizzative imprenditoriali, articolate, adesso, su una integrazione contrattuale
delle diverse imprese, tutte concorrenti, con la propria attività, alla realizzazione di un unico
processo produttivo, nonché il d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 18, che modifica la disciplina del
trasferimento d’azienda, anche in vista di una chiarificazione del problema concernente la relativa
applicabilità ai processi di esternalizzazione.
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3 Interposizione e appalto dopo il d.lgs. 276 del
2003
Il punto di arrivo di tale evoluzione legislativa è costituito dal d.lgs. 10 settembre 2003, n.
276, il quale, dopo aver abrogato la l. n. 1369 del 1960 e gli artt. 1-11 della l. n. 196 del 1997, con
l’intento principale di realizzare una “modernizzazione” dei meccanismi di funzionamento del
mercato del lavoro, così da aumentare “i tassi di occupazione e promuovere la qualità e la stabilità
del lavoro” (art. 1), introduce una nuova disciplina della materia dell’interposizione, della
somministrazione di lavoro e dell’appalto, essenzialmente caratterizzata dai seguenti elementi:
mancata riproposizione di un generale divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro; espressa
definizione dei criteri distintivi tra l’interposizione e il contratto di appalto (art. 29); deciso
ampliamento dell’ambito di liceità della somministrazione di lavoro (art. 20 ss.), anche attraverso
l’importazione nel nostro ordinamento dello staff-leasing (nelle forme della somministrazione di
lavoro a tempo indeterminato); nuova disciplina degli appalti di servizi, successivamente estesa, ad
opera del d.lgs. n. 251 del 2004, pure agli appalti di opere (art. 29), in sostituzione di quella
contenuta nell’art. 3 della l. n. 1369 del 1960 e relativa ai soli appalti interni.
In primo luogo, al riguardo, bisogna domandarsi se l’abrogazione del divieto di
interposizione abbia realmente determinato una completa liberalizzazione dell’attività di fornitura
delle altrui prestazioni lavorative, comportando, così, il superamento del principio generale di
imputazione del rapporto di lavoro in capo a colui che effettivamente utilizza le prestazioni che ne
sono oggetto.
Qualche autore ha ritenuto che il nuovo ruolo della somministrazione, posizionata al centro
del sistema, avrebbe determinato il superamento del principio di non dissociazione tra titolarità ed
utilizzazione, producendo, quale conseguenza fondamentale, un allargamento del tipo generale
previsto dall’art. 2094 c.c., fino a ricomprendere, sulla base di un giudizio di normalità, anche le
ipotesi di utilizzazione indiretta delle prestazioni di lavoro altrui.
Ma una simile interpretazione del d.lgs. n. 276 del 2003 non pare condivisibile. In effetti, da
una più attenta analisi del complesso di norme dedicato alla materia, sembrerebbe emergere un
sistema ancora persistentemente imperniato sulla contrapposizione tra interposizione illecita, da una
parte, e somministrazione di lavoro e appalto, dall’altra.
Ciò che muta, principalmente, peraltro, è la relazione intercorrente tra l’interposizione e la
somministrazione: la prima, infatti, da regola generale viene ad assumere, invece, carattere
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residuale, rientrandovi, cioè, solo i rapporti che non siano qualificabili come appalto o
somministrazione. Tutto il sistema, quindi, finisce col risultare incentrato sulla somministrazione di
lavoro, valutata, comunque, lecita soltanto se esercitata da agenzie autorizzate e nel rispetto dei
limiti formali e sostanziali previsti dagli artt. 20 ss.
Il legislatore, dunque, se è vero che ha ampliato l’ambito di liceità della somministrazione di
lavoro, non pare essersi spinto – determinando, così, il superamento del principio di imputazione
del rapporto di lavoro in capo al reale ed effettivo datore di lavoro – fino ad una generale
legalizzazione della fornitura del lavoro altrui, considerata pur sempre illecita in tutte le ipotesi in
cui non sia esercitata nelle forme della somministrazione regolare, anche quando sia inidonea a
pregiudicare diritti inderogabili del prestatore di lavoro.
In questa prospettiva, insomma, l’interposizione illecita finisce, in sostanza, per coincidere
con la somministrazione irregolare, “quando la somministrazione di lavoro avvenga al di fuori dei
limiti e delle condizioni di cui agli articoli 20 e 21, lettere a), b), c), d) ed e)” (art. 27), con lo
pseudoappalto, “quando il contratto di appalto sia stipulato in violazione di quanto disposto dal
comma 1” (art. 29, co. 3-bis, come introdotto dal d.lgs. n. 251 del 2004) e con la somministrazione
fraudolenta, “quando la somministrazione di lavoro è posta in essere con la specifica finalità di
eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al lavoratore” (art. 28).
La sanzione civilistica prevista per le ipotesi di interposizione illecita, richiamata sia dall’art.
27, co. 1, per la somministrazione irregolare, che dall’art. 29, co. 3-bis, per lo pseudoappalto,
riprendendo sostanzialmente quella in precedenza stabilita per la violazione del divieto di
interposizione (e, poi, riproposta dalla legge sul lavoro interinale), consiste nella “costituzione di un
rapporto di lavoro alle dipendenze” del “soggetto che ne ha utilizzato la prestazione”. Ma, mentre
nella l. n. 1369 del 1960 la riconduzione del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore operava ex
lege (“i prestatori di lavoro … sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze”), nella nuova
disciplina è riconosciuta al lavoratore la possibilità di scegliere se chiedere la costituzione di un
rapporto di lavoro con l’utilizzatore, oppure se restare alle dipendenze del somministratore o
pseudoappaltatore (“il lavoratore può chiedere … la costituzione di un rapporto di lavoro alle
dipendenze”). In ogni caso, però, deve ritenersi che il contratto di somministrazione irregolare o di
pseudoappalto sia affetto dal vizio della nullità.
Tale quadro normativo non è rimasto comunque immutato. Negli ultimi anni, infatti, il
legislatore è intervenuto più volte sulla materia della somministrazione e dell’appalto, spinto
dall’intento di scongiurare i pericoli di precarietà del lavoro, conseguenti alla disciplina introdotta
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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nel 2003, ritenuta, per certi aspetti, troppo incline a soddisfare le richieste di flessibilità delle
imprese, a danno, invece, dell’esigenza di sicurezza del lavoro.
A dire il vero, l’evoluzione della disciplina della materia ha risentito dell’alternanza al
Governo di forze politiche contrapposte, ideologicamente propense per una maggiore
liberalizzazione del mercato del lavoro ovvero, al contrario, per la necessità di un incremento delle
misure di protezione dei lavoratori, per scongiurare il rischio di un’eccessiva precarizzazione del
lavoro.
Ciò ha comportato che, negli anni successivi all’accennata riforma del mercato del lavoro,
sono stati emanati dapprima dei provvedimenti volti ad introdurre una disciplina più favorevole per
i lavoratori e meno sensibile per le esigenze manifestate dalle imprese di flessibilità nell’utilizzo
della forza lavoro. In tale prospettiva, i successivi interventi legislativi hanno inteso realizzare una
responsabilizzazione delle imprese in caso di appalto e subappalto, con una pluralità di misure:
l’estensione della responsabilità solidale dell’art. 29 d.lgs. 276 del 2003 anche alle ipotesi di
subappalto (l. 27 dicembre 2006, n. 296, c.d. Finanziaria 2007); la previsione di responsabilità
solidali e di obblighi di accertamento preventivo della regolarità del versamento delle ritenute
fiscali, dei contributi previdenziali e dei contributi assicurativi obbligatori (l. 4 agosto 2006, n. 248,
c.d. legge Bersani, disciplina di recente parzialmente abrogata dal d.l. 3 giugno 2008, n. 97);
l’incremento delle norme a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori impiegati negli appalti
e nei subappalti (l. 3 agosto 2007, n. 123 e d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, c.d. riforma della tutela della
salute e sicurezza sul lavoro).
Altra novità importante, introdotta con la l. 24 dicembre 2007, n. 247, recante le norme di
attuazione del Protocollo sul welfare del 23 luglio 2007, è costituita dall’abolizione del contratto di
somministrazione di lavoro a tempo indeterminato (c.d. staff leasing). L’abrogazione di tale
tipologia contrattuale, introdotta dal d.lgs. n. 276 del 2003, benché non sia destinata ad avere grosse
ripercussioni, trattandosi di un contratto raramente utilizzato nella prassi, presenta un certo valore
simbolico, in quanto volta a riaffermare il principio in base al quale un’esigenza stabile di lavoro
deve essere soddisfatta necessariamente con l’assunzione diretta di lavoratori a tempo indeterminato
da parte soggetto che ne utilizza le prestazioni.
Con il nuovo cambio di Governo, però, si è realizzata un’inversione di tendenza nelle
politiche del lavoro, sempre più attente all’esigenze manifestate dalle imprese di flessibilità
nell’utilizzo della forza lavoro.
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Così, con specifico riferimento alla materia in oggetto, il legislatore, con la legge n. 191 del
2009 (finanziaria 2010), ha reintrodotto la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato (c.d.
staff leasing), ridando vita all’originaria disciplina predisposta dal D.Lgs. n. 276 del 2003.
Successivamente, un altro provvedimento legislativo di portata più generale ha avuto
importanti ripercussioni sulla materia in oggetto. Si allude specificamente al c.d. Collegato lavoro
(legge 4 novembre 2010, n. 183), che ha introdotto alcune misure destinate ad incidere
specificamente sulla materia della somministrazione e dell’interposizione: da un lato, infatti, con
riferimento alle principali norme in materia di lavoro che prevedono clausole generali, si è stabilito
espressamente di limitare il controllo giudiziale esclusivamente “all’accertamento del presupposto
di legittimità”, senza estenderlo al “sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e
produttive che competono al datore di lavoro”; dall’altro, con riferimento alla somministrazione
irregolare, è stato esteso alle ipotesi in cui sia chiesta dal lavoratore “la costituzione di un rapporto
di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto” il regime dei ristretti termini di
decadenza previsti per il licenziamento individuale.
Per approfondimenti:
Santoni, F., (2008), Lezioni di diritto del lavoro, II, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli
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Bibliografia
• De Luca Tamajo, R., (2002) Le esternalizzazioni tra cessioni di ramo d’azienda e rapporti di
fornitura, in I processi di esternalizzazione. Opportunità e vincoli giuridici (R. De Luca
Tamajo), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, pp. 14 ss.;
• De
Luca
Tamajo,
R.,
(2003),
Metamorfosi
dell’impresa
e
nuova
disciplina
dell’interposizione, in Rivista italiana di diritto del lavoro, I, 183;
• Ichino, P., (1999), Il diritto del lavoro e i confini dell’impresa, in Giornale di diritto del
lavoro e delle relazioni industriali, pp. 203 ss.;
• Marinelli, M., (2002), Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, Giappichelli,
Torino;
• Mazzotta, O., (2003), Il mondo al di là dello specchio: la delega sul lavoro e gli incerti
confini della liceità nei rapporti interpositori, in Rivista italiana di diritto del lavoro, I, 275;
• Nappi, S., (1999), Negozi traslativi dell’impresa e rapporti di lavoro, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli;
• Quadri, G., (2004), Processi di esternalizzazione. Tutela del lavoratore e interesse
dell’impresa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli;
• Romei, R., (1999) Cessione di ramo d’azienda e appalto, in Giornale di diritto del lavoro e
delle relazioni industriali, pp. 325 ss.;
• Scarpelli, F., (1999) “Esternalizzazioni” e diritto del lavoro: il lavoratore non è una merce,
Diritto delle relazioni industriali, pp. 351 ss.
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