UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA DIPARTIMENTO DI SCIENZE DEL FARMACO DOTTORATO INTERNAZIONALE IN SCIENZE FARMACEUTICHE XXVI CICLO Dott.ssa Mariarita Barone “INFIAMMAZIONE E CARCINOGENESI: PARADIGMA DI CAUSA-EFFETTO” SINTESI, STUDI COMPUTAZIONALI E VALUTAZIONE BIOLOGICA DI NUOVI FLUOROCOXIB A STRUTTURA BENZOTIENO [3,2-d]PIRIMIDINICA COME POTENZIALI INIBITORI SELETTIVI DELLA COX-2 E MARKERS TUMORALI TESI DI DOTTORATO Coordinatore: Tutor: Chiar.mo Prof. A. Marrazzo Chiar.mo Prof. A. Santagati Triennio Accademico 2011-2013 Indice Abstract 5 1. Infiammazione 1.1 Introduzione 6 1.2 Infiammazione acuta 7 1.3 Infiammazione cronica 13 1.4 Mediatori chimici dell’infiammazione 15 1.5 Cascata dell’acido arachidonico 22 2. Infiammazione e carcinogenesi 2.1 Infiammazione spiega il cancro 28 2.2 Correlazione tra microambiente infiammatorio e tumori 29 2.3 COX-2 e Carcinogenesi 31 2.3.1 COX-2 e angiogenesi tumorale 31 2.3.2 COX-2 e apoptosi 32 3. Cicloossigenasi 3.1 COX-1 e COX-2 a confronto 34 4. Coxib 4.1 Fans e Coxib a confronto 37 4.2 Inibitori selettivi delle COX-2 38 5. Sintesi di nuovi derivati a struttura benzotieno[3,2-d] pirimidin sulfonammidica 5.1 Introduzione generale 45 2 5.2 Progettazione razionale 45 5.3 Scopo del lavoro 48 Sezione sperimentale 57 5.3 Materiali e metodi 57 6. Molecular Docking 6.1 Studi di molecular docking sui derivati benzotienopirimidinici 98 Materiali e Metodi 102 6.2 Metodi computazionali 102 7. Attività anti-infiammatoria dei derivati benzotieno[3,2-d]pirimidinici 7.1 Modelli in vitro di infiammazione 103 7.2 I cheratinociti 103 7.3 I macrofagi ( macrofagi murini j774) 105 7.4 Saggi biologici 107 7.4.1 MTT: saggio di vitalità cellulare 107 7.4.2 Valutazione dell’attività anti-infiammatoria dei derivati benzotienopirimidinici: ICAM-1, iNOS e COX-2 109 7.4.3 Determinazione del rilascio dell’ MCP-1 e dell’ IL-8 dei derivati benzotienopirimidinici 113 Materiali e Metodi 116 7.5 Colture cellulari 116 7.6 Western blot 116 7.7 E.L.I.S.A. 117 7.8 Saggio di vitalità cellulare: MTT 118 7.9 Analisi statistica 119 3 8. Spettroscopia di Fluorescenza 8.1 La fluorescenza 120 8.2 Diagrammi di Jablonski 123 8.3 Variabili che influenzano la fluorescenza 126 8.4 Fluorofori 130 8.5 Fluorescenza dei derivati benzotienopirimidinici 131 8.6 Saggi in vitro dei derivati fluorocoxib sulla linea cellulare HCA-7 134 Materiali e Metodi 136 8.7 Spettroscopia di fluorescenza 136 8.8 Colture cellulari 137 8.9 Protocollo di imaging cellulare 137 9. Conclusioni 138 Ringraziamenti 139 Bibliografia 141 4 Abstract The relationship between cyclooxygenase (COX)-2 over-expression and cancer makes the COX-2 isozyme an attractive molecular target. Accordingly, the over-expression of COX-2 in cancer cells, relative to normal adjacent tissues where COX-2 is not over-expressed, constitutes a logical molecular diagnostic design strategy to discover non-invasive diagnostic agents to detect tumors. Moreover, COX-2 over-expression can be useful for subsequent monitoring of disease progression and/or treatment efficacy. Thus, we have focused our research in the synthesis of new benzo-thieno [3,2-d] pyrimidine derivatives, potential fluorescent inhibitors of COX-2, possible antiinflammatory agents and tumor markers. The anti-inflammatory activity of the new derivatives was evaluated in vitro on human keratinocyte cell line NCTC 2544 exposed to interferon (IFN)-γ and histamine, as well as on monocytemacrophage J774 cell line stimulated with bacterial lipopolysaccharide (LPS). Some derivatives showed effective biological activities inhibiting some inflammatory parameters in human keratinocytes NCTC 2544 and monocytemacrophages J774.[47] In addition, almost all anti-inflammatory compounds exhibited good fluorescence in organic solvents displaying peaks with absorption maxima at two different wavelengths (∼330 and ∼350 nm). For all the derivatives, the corresponding λem maxima was centered at about 420 nm. Preliminary fluorescence microscopy experiments were carried out by treating cancer cell lines with those compounds, which displayed the best COX-2 affinity, selectivity and fluorescence properties. The results suggest that such derivatives may be used to cancer cell detection and progression. 5 1. Infiammazione 1.1 Introduzione L'infiammazione (dal latino inflammatio, dal greco phlogosis, incendiare) si può definire come la risposta dei tessuti vascolarizzati a un insulto endogeno o esogeno al fine di veicolare nella sede del danno tessutale materiali difensivi così da neutralizzare ed eliminare lo stimolo dannoso, riparare la struttura e ripristinare la funzione dei tessuti danneggiati in modo da favorire quella che viene definita la ΄restitutio ad integrum΄.[1] Le cause che portano a una risposta infiammatoria sono varie e tra queste si annoverano le infezioni batteriche e quelle virali, in quanto i batteri rilasciano diverse tossine mentre i virus penetrano all'interno delle cellule e causano la morte cellulare attraverso meccanismi di replicazione intracellulare.[1] Alcuni microrganismi, come i parassiti e il micobatterio della tubercolosi, sono in grado di indurre una risposta infiammatoria immunomediata attraverso delle reazioni di ipersensibilità. Diversi agenti fisici (traumi, raggi ultravioletti, radiazioni ionizzanti e temperature elevate) e alcune sostanze chimiche irritanti e corrosive (agenti acidi, alcalini e ossidanti) possono causare un processo infiammatorio.[1] La risposta infiammatoria consiste in una serie di reazioni protettive essenziali e utili per la sopravvivenza dell’uomo.[1] È costituita da una componente vascolare e una componente tissutale che si combinano in varie proporzioni, a seconda del tipo di processo infiammatorio e della causa che lo ha scatenato, determinando un’alterazione della microcircolazione. La durata dell'infiammazione dipende dal tempo necessario per eliminare la causa nociva e per riparare il danno tissutale.[1] Possiamo distinguere due tipi di processi infiammatori: flogosi acuta flogosi cronica 6 1.2 Infiammazione acuta L’infiammazione acuta o angioflogosi è una risposta immediata e precoce a uno stimolo lesivo, il suo scopo è quello di recapitare materiali difensivi nella sede del danno. Non è uno stato, ma un processo dinamico caratterizzato dall’alterazione della microcircolazione con formazione di mediatori dell’infiammazione e movimenti di fluidi e leucociti dal sangue al tessuto extravascolare che si svolgono particolarmente nel tessuto connettivo circostante i vasi sanguigni della zona colpita (Fig.1). Figura 1: Infiammazione acuta Clinicamente l’infiammazione acuta è caratterizzata da quattro segni cardinali che furono descritti da Celso nel I sec. d.C. e sono: eritema (rubor), calore (calor), edema (tumor) e dolore (dolor), ai quali in seguito Virchow ne aggiunse un quinto: alterazione della funzionalità dell’area colpita (functio laesa) [1] (Fig.2). Questi aspetti sono presenti a prescindere dalla causa che ha 7 determinato la flogosi e gran parte di essi è riconducibile alla vasodilatazione e all'aumento della permeabilità capillare.[1] Rubor è la diretta conseguenza della vasodilatazione, la quale provoca aumento del flusso ematico nella zona colpita (iperemia attiva), rallentamento del ritorno venoso (iperemia passiva) con un incremento della quantità di sangue nella zona dell’infiammazione.[1] Calor è l’aumento della temperatura nella zona danneggiata dovuto sia all'iperemia [1] che all’aumento del metabolismo cellulare a seguito di un danno mitocondriale. Tumor è il gonfiore determinato dall’aumento della permeabilità capillare che favorisce l’afflusso di liquidi e cellule nell’area danneggiata contribuendo alla formazione dell'edema infiammatorio.[1] Dolor è causato da una stimolazione delle terminazioni nervose sensitive in seguito alle alterazioni biochimiche locali determinate dall’afflusso di cellule leucocitarie (chemiotassi), dall’elevato metabolismo cellulare e dalla liberazione di mediatori chimici come le prostaglandine che riducono la soglia del dolore aumentando la suscettibilità dei nocicettori alla stimolazione da parte di sostanze algogene liberate durante il processo infiammatorio. Functio laesa consiste nell’ inibizione della funzionalità dell'area colpita (specie se si tratta di un'articolazione) a causa del dolore e degli squilibri indotti dai meccanismi facilitatori dell'infiammazione (es. edema) sull'integrità delle strutture infiammate; si assume una postura come atteggiamento di difesa da un insulto che danneggia la normale funzione del tessuto. 8 Figura 2: I segni cardine dell’infiammazione. Quando uno stimolo infiammatorio colpisce un'area di qualsiasi organo, una parte delle cellule va in necrosi o viene più o meno gravemente danneggiata con la conseguenza che i detriti cellulari che si formano costituiscono anch'essi un'ulteriore stimolazione flogogena per le cellule rimaste indenni. In conseguenza di ciò si verificano una serie di eventi che coinvolgono il microcircolo e che rappresentano le fasi dell’infiammazione acuta: vasocostrizione fugace; vasodilatazione o iperemia attiva; essudazione; diapedesi; iperemia passiva; fenomeni produttivi e riparativi. In seguito all’applicazione dell’insulto si ha la vasocostrizione delle arteriole della zona colpita, un evento di brevissima durata (circa 10-20 secondi) mediato dalla branca simpatica del sistema nervoso vegetativo attraverso la liberazione di catecolamine vasocostrittrici quali adrenalina, noradrenalina e 9 serotonina. In seguito avviene la vasodilatazione delle arteriole conosciuta come iperemia attiva. Di solito inizia con il rilasciamento delle fibrocellule muscolari lisce dalla parete delle arteriole terminali ed è successivamente sostenuta dall'apertura di nuovi letti capillari e dalla chiusura degli shunt arterovenosi fisiologicamente attivi a riposo. La vasodilatazione può durare da 15 minuti a diverse ore a seconda della gravità del danno, inducendo un aumento (fino a 10 volte) del flusso ematico locale.[1] La sede della flogosi diventa rossa ‒ eritema ‒ e calda e proprio per questo è appropriato il termine di infiammazione che evoca il concetto di fiamma.[1] L'innesco ed il mantenimento della vasodilatazione sono dovuti al rilascio di mediatori rapidi come l'istamina o le prostaglandine e successivamente di mediatori lenti come IFN-γ, TNF-α, IL-1β, LPS, PAF. Quest’ ultimi stimolano l'espressione della sintetasi inducibile dell'ossido nitrico (iNOs) a livello dell'endotelio vascolare. Al contrario l'istamina, attraverso un aumento delle concentrazioni di calcio intracellulare, determina l'attivazione “rapida” della NO-sintetasi costitutiva. Entrambe le isoforme di quest'ultimo enzima sono responsabili della sintesi di monossido di azoto (NO), un potentissimo vasodilatatore, che agisce sul muscolo liscio vascolare provocandone il rilassamento.[2] La vasodilatazione aumenta la quantità di sangue che rifornisce il tessuto leso (iperemia) e di conseguenza anche la pressione idrostatica che il sangue stesso esercita sulle pareti dei vasi; tutto ciò causa dilatazione delle arteriole, apertura del letto capillare e dilatazione venulare. Per azione di alcuni mediatori chimici dell’infiammazione si ha il contemporaneo aumento della permeabilità vascolare; questo fenomeno determina un aumento del flusso non solo di liquidi e proteine plasmatiche, ma anche di cellule che dal plasma migrano verso l'area danneggiata formando l'essudato, un liquido a pΗ acido ricco di proteine plasmatiche e/o cellule, come neutrofili e mononucleati, ma anche eritrociti, che fuoriuscito dai vasi si raccoglie negli spazi interstiziali dei tessuti. La diminuzione della pressione colloido-osmotica in seguito a ridotta concentrazione delle plasmaproteine che si accumulano all'esterno dei vasi, 10 contribuisce all'ulteriore richiamo di acqua nella sede dell’infiammazione e alla formazione dell’edema infiammatorio. In seguito all'iperemia, il flusso comincia a rallentare e come accennato in precedenza non si ha solo un flusso di liquidi verso il compartimento extracellulare ma anche di cellule, fenomeno conosciuto come diapedesi o migrazione. I leucociti presenti nel sangue si spostano in prossimità della parete endoteliale, vi aderiscono e fuoriescono dal compartimento ematico migrando nella sede della flogosi.[1] Questo processo, consiste in un movimento attivo ameboidale attraverso la parete delle venule e dei vasi di piccolo calibro ed è dipendente dalla presenza sulle cellule endoteliali di particolari citochine fornite di attività chemiotattica dette chemiochine e di fattori chemiotattici.[1] Il processo della migrazione dei leucociti si articola in diverse fasi (Fig.3): marginazione: i leucociti che normalmente occupano la parte centrale del capillare si spostano verso la parete poiché il flusso rallenta; rotolamento: i leucociti rotolano lungo l’endotelio con minore velocità finché vi restano invischiati e si arrestano aderendovi transitoriamente. L’endotelio viene poi rivestito tramite un processo detto di pavimentazione; adesione: i leucociti rotolano fino a quando non aderiscono saldamente alla superficie endoteliale; diapedesi: i leucociti cominciano ad emettere pseudopodi, uno dei quali si insinua nelle giunzioni tra le cellule endoteliali fino ad attraversare la parete del capillare. A questo punto il passaggio all’esterno è completato dal trasferimento del protoplasma, che segue lo pseudopodo riversandosi in esso; chemiotassi: i leucociti si dirigono verso gli spazi extracellulari, attirati da sostanze chemiotattiche (esogene ed endogene) e una volta giunti nel sito di lesione, svolgono la loro funzione fagocitaria.[1] 11 Figura 3: Diapedesi dei leucociti. Anche gli eritrociti possono fuoriuscire dai vasi con un meccanismo di diapedesi; la loro presenza nello spazio extravascolare implica l'esistenza di un danno endoteliale severo.[1] Dopo la fuoriuscita di liquidi (essudazione) e di cellule (diapedesi) aumenta la viscosità del sangue, mentre diminuisce la velocità del flusso sanguigno nel microcircolo determinando iperemia passiva o stasi. Nella zona infiammata i letti vascolari accolgono (come nelle fasi iniziali) più sangue della norma, ma ciò è dovuto non all'apertura di nuovi letti capillari (iperemia attiva) ma al rallentamento del circolo e al diminuito ritorno venoso (iperemia passiva) causato dalla compressione esercitata sulle venule da parte dell’ edema, che ostacola così il passaggio di sangue provocando una riduzione della sua parte liquida ed un aumento relativo delle componenti solide. L’ultima fase dell’infiammazione consiste nella fagocitosi dei detriti cellulari e dei microrganismi da parte dei fagociti e nella guarigione in cui l’essudato viene riassorbito mentre i leucociti vanno incontro a morte cellulare programmata dopo aver fagocitato e distrutto gli agenti flogogeni.[1] Durante la guarigione si possono avere: la rigenerazione ossia la sostituzione 12 di cellule e tessuto perduti con nuove cellule e tessuti “restituito ad integrum” oppure, se questo non è possibile, la riparazione cioè la sostituzione del tessuto leso con tessuto di granulazione che matura poi in tessuto cicatriziale a cui segue la risoluzione o cronicizzazione del processo infiammatorio. 1.3 Infiammazione cronica L’evoluzione dell’ infiammazione verso la cronicizzazione o la risoluzione dipende dalla persistenza dello stimolo antigenico e dal tipo di citochine che, prodotte in parte da macrofagi e linfociti T, si accumulano nel tessuto e condizionano la differenziazzione e l’apoptosi delle cellule del sistema immunitario. Qualora non venga eliminato efficacemente l’agente flogogeno, l’intensificarsi del processo infiammatorio conduce alla degranulazione delle cellule infiammatorie e al rilascio di enzimi lisosomiali che possono danneggiare le cellule vicine e causare a loro volta la liberazione di acido arachidonico e di altri precursori che favoriscono la formazione e la liberazione di mediatori pro-infiammatori e di specie reattive dell’ossigeno che provocando ulteriore danno, contribuiscono in maniera decisiva all’infiammazione cronica. L’infiammazione cronica è un processo infiammatorio di lunga durata, settimane, mesi o tutta la vita, che si instaura non solo come evoluzione del processo acuto ma che può insorgere direttamente come processo cronico ab initio come conseguenza di un’infezione cellulare persistente, della prolungata esposizione a sostanze potenzialmente tossiche o irritanti sia esogene che endogene di reazioni immunitarie, specie verso i tessuti dell’organismo (autoimmunità). L’infiammazione cronica è caratterizzata dalla contemporanea presenza di: infiltrazione leucocitaria (linfociti, monociti, plasmacellule) che indica la continua attività infiammatoria; distruzione tissutale in seguito alla produzione locale di citochine; tentativi continui di riparazione (angiogenesi, fibrosi) (Fig.4). 13 Figura 4: Infiammazione cronica Le infiammazioni croniche si distinguono da quelle acute per la prevalenza dei fenomeni cellulari su quelli vascolari essudativi. Quando un'infiammazione acuta si cronicizza, si assiste dapprima ad una progressiva riduzione dei fenomeni vascolo ematici e della quantità di essudato, come avviene anche nel processo di guarigione dell’infiammazione acuta; contemporaneamente i neutrofili vengono sostituiti da un infiltrato cellulare costituito prevalentemente da macrofagi, linfociti, plasmacellule e cellule NK che si dispongono attorno alla parete vascolare come un manicotto che ne induce la compressione. Successivamente i fibroblasti possono essere stimolati alla proliferazione con la conseguenza che molte flogosi croniche culminano con un’ eccessiva formazione di tessuto connettivo che costituisce la cosiddetta fibrosi o sclerosi rappresentata dal granuloma, espressione dell’infiammazione cronica. Le flogosi croniche si presentano sotto l'aspetto clinico in due forme diverse: non granulomatose e granulomatose. Nelle infiammazioni croniche non granulomatose il quadro morfologico, rappresentato dall'infiltrato linfomonocitario, si presenta con prevalenza di linfociti e plasmacellule e mantiene le stesse caratteristiche qualunque sia l'agente eziologico responsabile del processo. Quelle granulomatose intervengono quando microrganismi di vario tipo sopravvivono nei fagolisosomi dei macrofagi o quando in questi rimangono loro prodotti o anche materiali di natura organica o anche inorganica indigeribili. 14 1.4 Mediatori chimici dell’infiammazione Durante il processo infiammatorio vengono prodotti importanti mediatori chimici di origine plasmatica e cellulare, che esprimono la loro attività biologica legandosi a specifici recettori sulle cellule bersaglio.[3] Un mediatore chimico può stimolare il rilascio di altri mediatori da parte di cellule bersaglio con effetto di amplificazione, modulazione o regolazione. I mediatori possono agire su uno o su più tipi cellulari e possono esercitare effetti diversi a seconda del tipo di tessuto o cellula; una volta attivati o rilasciati dalla cellula hanno un’emivita breve (Fig.5). I mediatori possono essere suddivisi in: mediatori di origine plasmatica mediatori di origine cellulare Figura 5: I mediatori chimici dell’infiammazione. I mediatori di origine plasmatica sono prodotti in forma inattiva dal fegato, che li mette in circolo e vengono attivati, quando serve, dall’attivazione del fattore XII (importante nel sistema delle chinine e in quello della 15 coagulazione/fibrinolisi) e dall’attivazione del complemento (fattori che attivati interagiscono in successione in un sistema a cascata). Questa classe di mediatori è costituita da diversi elementi: -il sistema del complemento il quale è formato da più di 30 proteine che si trovano in alta concentrazione nel plasma in forma inattiva e possono essere attivate: dal legame di complessi antigene-anticorpo, prodotti batterici e virali, etc. (via classica); dal contatto con componenti della superficie microbica (endotossine), polisaccaridi, veleno di cobra, virus, etc. (via alternativa); dalla lectina plasmatica che lega il mannosio (MBL) presente sulle pareti batteriche (via della lectina). Durante il processo di attivazione si generano una serie di prodotti che causano: aumento della permeabilità vascolare, chemiotassi e opsonizzazione (Fig.6) Figura 6: Sistema del complemento. 16 La cascata complementare attiva vari componenti tra cui il C3b che ha funzione di opsonina e il C5a che è un fattore attrattivo per i neutrofili. Se si genera il complesso C5-9 (MAC, complesso di attacco alla membrana) la cellula a cui si attacca il complesso verrà lisata tramite la perforazione della membrana plasmatica. Le anafilotossine (C3a, C5a) aumentano la permeabilità vasale e causano vasodilatazione inducendo la liberazione di istamina da parte dei mastociti. Inoltre, C5a attiva la lipossigenasi dei neutrofili e dei monociti. Il fattore C5a aumenta notevolmente l’interazione fra le integrine dei leucociti e l’endotelio ed è un potente chemiotattico nei confronti di neutrofili, monociti, eosinofili e basofili. Il fattore C3b stimola la fagocitosi da parte dei granulociti, dei neutrofili e dei macrofagi. L’importanza dei fattori C3 e C5 del complemento è resa ancora maggiore dal fatto che essi possono essere attivati anche dagli enzimi proteolitici presenti nell’essudato (idrolasi lisosomiali rilasciate dai neutrofili, plasmina); in tal modo, la risposta infiammatoria si protrae e si amplifica. -Il sistema delle chinine genera peptidi vasoattivi a partire da proteine plasmatiche dette chininogeni, per azione di proteasi specifiche chiamate Callicreine. Il sistema delle chinine porta al rilascio finale del nonapeptide vasoattivo bradichinina, potente mediatore in grado di aumentare la permeabilità vasale. La bradichinina provoca inoltre la contrazione della muscolatura liscia, vasodilatazione e dolore (effetti simili all’istamina). La cascata che porta alla produzione della bradichinina viene innescata dall’attivazione del Fattore di Hageman (Fattore XII della via intrinseca della coagulazione). -La cascata della coagulazione e il processo infiammatorio sono intimamente connessi tra loro; rappresentano due vie convergenti che culminano nell’attivazione della trombina con conseguente formazione di fibrina. Una volta attivata, la cascata della coagulazione ha diversi effetti pro-infiammatori: attivazione del sistema delle chinine, attivazione della plasmina (fibrinolisi), attivazione del complemento ed effetti flogogeni della trombina (Fig.7). 17 Figura 7: Cascata della coagulazione. I mediatori di origine cellulare si suddividono in 2 sottogruppi: 1. Mediatori preformati, 2. Mediatori sintetizzati ex novo 1. I mediatori preformati, rappresentati dalle ammine vasoattive: istamina, serotonina e dagli enzimi lisosomiali, sono presenti in granuli di secrezione -L’istamina, prodotta da mastociti, basofili e piastrine, viene rilasciata in seguito a degranulazione e causa nella fase immediata dilatazione delle arteriole, contrazione delle cellule endoteliali venulari, fenestrazione endoteliale con conseguente aumento della permeabilità delle venule e aumento della produzione di prostaglandine. Il rilascio di istamina può essere altamente nocivo negli organismi sensibilizzati determinando un collasso circolatorio e respiratorio durante lo shock anafilattico in seguito alla vasodilatazione sistemica.[3] -La serotonina, è localizzata nel SNC (mediatore sinaptico), nelle cellule cromaffini del tratto gastrointestinale e nei granuli densi delle piastrine. 18 Determina un effetto edemigeno per aumento della permeabilità delle venule post-capillari, per contrazione degli endoteliociti, similmente all’istamina e aumento dello spazio giunzionale inter-endoteliale. -Gli enzimi lisosomiali, sono liberati nel focolaio infiammatorio dai fagociti professionali (granulociti e monociti) che li tengono sequestrati nei granuli lisosomiali o lisosomi in forma inattiva. Si distinguono tre tipi di lisosomi ognuno contenente enzimi diversi. I lisosomi primari contengono catepsina, elastasi, fosfolipasi A2, idrolasi acide, lisozima e mieloperossidasi; i secondari racchiudono collagenasi, fosfolipasi alcalina e lattoferrina; infine i terziari includono catepsine e gelatinasi. 2. I mediatori sintetizzati ex novo vengono sintetizzati al momento del bisogno e comprendono: i metaboliti dell’acido arachidonico, il PAF, le specie reattive dell’ossigeno, l’ossido di azoto e le citochine. -I metaboliti dell’acido arachidonico sono: prostaglandine, leucotrieni e trombossani. Le prostaglandine sono prodotte da leucociti, piastrine e cellule endoteliali e derivano dal metabolismo dell’acido arachidonico. L’ossidazione dell’acido arachidonico avviene da parte dell’attività cicloossigenasica della prostaglandina H sintasi che porta alla formazione di PGG2, successivamente ridotta dall’attività perossidasica dello stesso enzima a PGH2 . La PGH2, per azione di sintasi tessuto-specifico, dà vita a prostaciclina, trombossano e PGD2, PGE2, PGF2α, PGI2.[2] Quest’ ultime sostanze sostengono la vasodilatazione potenziando l'edema. Inoltre PGE2 e PGF2α agiscono sulle fibre nervose polimodali di tipo C, in genere in risposta a bradichinina, abbassandone la soglia di scarica e determinando così i sintomi dolorosi associati all'infiammazione. PGE2 secreta dall'endotelio dei vasi ipotalamici in risposta ad alte concentrazioni di TNF, IL-1 e IL-6 agisce sul nucleo termoregolatore ipotalamico causando la febbre. I leucotrieni sono prodotti da tutti i leucociti, anch’essi derivano dal metabolismo dell’acido arachidonico e danno vasocostrizione, broncospasmo, aumento della permeabilità e chemiotassi. 19 -Il PAF-fattore attivante le piastrine- deriva dai fosfolipidi di membrana dei neutrofili, delle piastrine, dei monociti, dei basofili, delle cellule endoteliali per azione della fosfolipasi A 2. PAF determina vasocostrizione, broncospasmo, vasodilatazione, aumento della permeabilità vasale e risulta essere 100-1000 volte più potente dell’istamina. Inoltre, PAF facilita l’adesione dei leucociti attraverso modificazioni conformazionali delle integrine, ha azione chemiotattica, induce la degranulazione leucocitaria e il burst ossidativo. PAF agisce sulle cellule bersaglio interagendo con recettori specifici e stimolando la produzione di ulteriori mediatori. -Le specie reattive dell’ossigeno, cioè i radicali liberi dell’ O2, vengono rilasciati dai leucociti nell’ambiente extracellulare in seguito ad esposizione ad agenti chemiotattici, immunocomplessi o durante la fagocitosi. Il loro rilascio può causare seri danni all’ospite a livello endoteliale, con conseguente aumento della permeabilità vascolare; possono determinare inoltre inattivazione di inibitori delle proteasi e lesioni ad altre cellule quali eritrociti e cellule parenchimali. -L’Ossido di azoto-NO è un gas solubile prodotto a partire dalla L-arginina, dall’ossigeno molecolare, dal NADPH e dall’enzima ossido nitrico sintetasi (NOS) (Fig.8). Figura 8: Ossido d’azoto. 20 Questo enzima è espresso costitutivamente in cellule endoteliali e neuroni, dove la sua sintesi può essere rapidamente indotta dall’influsso di ioni calcio; ma in molti tipi di cellule come epatociti, cellule cardiache ed epitelio respiratorio vi è invece la presenza della NOS inducibile (iNOS), la cui sintesi è indotta nei macrofagi dalle citochine infiammatorie TNF-α e IFN-γ. L’attivazione della iNOS stimola la produzione della cicloossigenasi inducibile (COX-2) e di conseguenza la produzione di prostanoidi. L’NO è un potente vasodilatatore in quanto induce il rilassamento delle cellule della muscolatura liscia delle pareti dei vasi; inolte inibisce l’aggregazione piastrinica, il reclutamento dei leucociti ed ha un effetto antimicrobico.[2] -Le citochine sono messaggeri polipeptidici prodotti da molti tipi di cellule: linfociti e macrofagi attivati ma anche cellule endoteliali, epiteliali e del connettivo.[3] Esse sono in grado di modulare la funzione di altre cellule e sono coinvolte nelle risposte immunitarie e nell’infiammazione acuta e cronica (Fig.9). Le citochine prodotte dai fagociti mononucleati sono chiamate monochine mentre quelle che derivano dai linfociti sono dette linfochine. Tra le varie citochine abbiamo: i fattori di crescita che determinano la proliferazione di alcuni tipi cellulari; le interleuchine prodotte dalle cellule ematopoietiche; le chemiochine ovvero citochine chemiotattiche che hanno la capacità attrarre e stimolare il movimento dei leucociti, specie nell’infiammazione; gli interferoni e le citochine pro-infiammatorie come il TNF-α. Le principali citochine infiammatorie sono IL-1 e TNF-α definite citochine infiammatorie primarie perché in grado di mettere in movimento l’intera cascata di mediatori caratteristici di una risposta infiammatoria.[3] Esse sono in grado di agire su tutte le cellule ed i tessuti dell’organismo. A livello locale, nella sede dell’infiammazione, inducono la produzione di chemochine e di molecole di adesione sulla superficie cellulare, amplificando il reclutamento di cellule infiammatorie; inducono l’espressione di enzimi che portano alla sintesi di prostaciclina e di NO che hanno attività vasodilatatoria; inoltre modificano le proprietà anticoagulanti dell’endotelio vascolare 21 inducendo la produzione di tissue factor, che ha attività pro-coagulante e inibiscono l’asse anti-coagulante costituito dalla proteina C e dalla trombomodulina.[3] Figura 9: Citochine. 1.5 Cascata dell’acido arachidonico L’acido arachidonico o acido 5, 8, 11, 14-eicosatetraenoico, è un acido grasso essenziale a 20 atomi di carbonio, con 4 doppi legami, che non si trova all’interno della cellula in forma libera, se non in piccolissime concentrazioni, ma è fortemente concentrato a livello dei fosfolipidi di membrana dove si ritrova, sottoforma di estere, come fosfatidilinositolo, fosfatidilcolina e fosfatidiletanolamina.[3] Ѐ sintetizzato dall’organismo a partire dall’acido linoleico ma il maggior contributo avviene attraverso l’alimentazione. L'acido arachidonico costituisce il precursore principale degli eicosanoidi, sostanze coinvolte nella risposta infiammatoria dell'organismo, che vengono prodotte attraverso reazioni ossidative catalizzate da enzimi specifici o da radicali dell’ossigeno.[3] L’acido arachidonico esterificato nei fosfolipidi di membrana può essere liberato in seguito all’interazione di stimoli di diversa natura con la 22 membrana cellulare: stimoli fisiologici (istamina, bradichinina, vasopressina, IL-1, angiotensina II, fattori di crescita.), stimoli fisici (shear stress, ischemia) e anche agenti farmacologici (esteri del forbolo come il PMA).[3] Gli stimoli fisiologici agiscono interagendo con recettori specifici presenti sulla membrana cellulare, spesso accoppiati a proteine G, che a loro volta attivano due fosfolipasi cellulari: la fosfolipasi A2 e la fosfolipasi C in grado di liberare l’acido arachidonico dai fosfolipidi di membrana (Fig.10).[3] Figura 10: Cascata dell’acido arachidonico. L’acido arachidonico una volta liberato viene metabolizzato attraverso quattro vie principali: 1. la via della prostaglandina H sintasi (PGH sintasi) o via cicloossigenasica, che porta alla formazione di prostanoidi; 2. la via delle lipossigenasi (5-, 12- e 15-lipossigenasi) che porta alla formazione degli acidi idrossieicosatetraenoici (HETE) e dei leucotrieni; 3. la via che porta alla formazione di acidi epossieicosatetraenoici e idrossieicosatetraenoici che è catalizzata da enzimi che contengono il citocromo P450; 23 4. la via della perossidazione lipidica non enzimatica catalizzata dai radicali dell’ossigeno, la quale porta alla formazione di iso-eicosanoidi.[3] Le vie metaboliche che hanno maggiore interesse farmacologico nell’ambito dell’infiammazione sono la via cicloossigenasica, dalla quale sono ottenute le prostaglandine, prostacicline ed i trombossani e la via lipossigenasica, dalla quale sono ottenuti i leucotrieni e le lipossine.[3]Tutti questi prodotti vengono chiamati eicosanoidi per via della struttura a 20 atomi di carbonio che le caratterizza. La via cicloossigenasica è mediata dall’azione delle cicloossigenasi (COX), enzimi presenti a livello microsomiale, che trasformano l’acido arachidonico in endoperossidi ciclici: PGG2 e successivamente in PGH2. Il PGH2 a sua volta viene metabolizzato in: trombossano, prostaciclina e prostaglandine (Fig.11). Il trombossano (TXA2) viene prodotto principalmente nelle piastrine ad opera della trombossano sintetasi; è un potente agente vasocostrittore e promuove l’aggregazione piastrinica. La prostaciclina (PGI2) si forma ad opera della prostaciclina sintetasi a livello vascolare; è un potente vasodilatatore, inibisce l’aggregazione piastrinica ed aumenta la permeabilità vasale per questo viene considerato l’antagonista fisiologico del trombossano. Figura 11: Via cicloossigenasica. 24 Le prostaglandine (PGD2, PGE2, PRG2α) sono delle ammine biogene che agiscono in vari tessuti (es. app. intestinale, bronchiale, uterino e gastrico); proteggono la mucosa di rivestimento gastrointestinale (le PGE inibiscono la produzione di HCl nello stomaco, favoriscono la produzione di muco e la secrezione di bicarbonato, che contrasta l'acidità gastrica), stimolano l’aggregazione piastrinica nel mantenere la normale omeostasi, mantengono la resistenza alla trombosi sulla superficie vascolare delle cellule endoteliali, sono coinvolte nel dolore e nella febbre.[9] La via lipossigenasica, mediata dall’azione della lipossogenasi, si ritrova a livello polmonare, piastrinico e leucocitario. Questo enzima, perossidando l’acido arachidonico conduce alla formazione di idroperossidi, fra cui il 5HETE (acido idrossieicosatetraenoico) come prodotto principale, che possiede una spiccata azione chemiotattica per i neutrofili e viene convertito in una serie di prodotti chiamati leucotrieni (Fig.12) Figura 12: I leucotrieni I leucotrieni sono sintetizzati dalla 5-lipossigenasi che dipende da un cofattore proteico indicato come FLAP (5-Lipoxygenase-Activating Protein) presente nelle cellule infiammatorie (PMN, basofili, mastociti, eosinofili e macrofagi). La stimolazione di queste cellule causa l’aumento dei livelli di calcio intracellulare, la liberazione di arachidonato e l’incorporazione di ossigeno molecolare da parte della 5-LO con la formazione di un epossido instabile: il 25 leucotriene A4 (LTA4). Questo intermedio è convertito nel diidrossi leucotriene derivato B4 (LTB4) dalla LTA4 idrolasi, oppure coniugato con il glutatione ridotto ad opera della LTC4 sintasi a leucotriene C4. L’LTC4 può subire una degradazione sequenziale della molecola di glutatione per azione enzimatica di alcune peptidasi, formando l’LTD4 e l’LTE4. Un altro gruppo di prodotti della 5-LO sono le lipossine LXA e LXB, i cui ruoli biologici non sono stati ancora chiariti. La capacità di produrre elevate quantità di leucotrieni dall’acido arachidonico è limitata ai leucociti, sebbene le cellule non leucocitarie non abbiano sufficiente 5-LO e FLAP per sintetizzare apprezzabili quantità di leucotrieni, esse esprimono gli enzimi metabolizzanti l’LTA4 e possono captare quest’ultimo dall’ambiente extracellulare e metabolizzarlo in leucotrieni bioattivi attraverso un processo biosintetico definito”transcellulare”. La quantità di leucotrieni sintetizzata è regolata dai livelli di arachidonato che la PLA2 libera dai fosfolipidi di membrana e dai fattori che modulano l’attività della 5-LO. Un’altra variabile che influenza la biosintesi dei leucotrieni è la localizzazione intracellulare della 5-LO. La trascrizione del gene che codifica per la 5-LO è regolata da citochine, fattore di crescita e di trasformazione , endorfine e corticosteroidi. I leucotrieni agiscono legandosi a recettori specifici localizzati sulla membrana cellulare (recettori a 7 domini transmembrana accoppiati a Gi). Le cellule bersaglio dei leucotrieni sono leucociti, cellule epiteliali, cellule muscolari lisce e cellule endoteliali. Il recettore 1 dell’LTB4 (BLT1), è un recettore ad alta affinità che media a livello delle vie aeree broncocostrizione, secrezione di muco ed edema. Il recettore 2 dell’LTB4 (BLT2) è un recettore a bassa affinità che lega anche altri metaboliti della 5-LO. Oltre alle funzioni sulle vie aeree i leucotrieni svolgono altre azioni biologiche quali contrazione della muscolatura liscia e chemiotassi. Per quanto concerne quest’ultima funzione è importante ricordare il ruolo dei leucotrieni nei processi infiammatori, infatti i leucotrieni agiscono sui leucociti stimolando la crescita dei progenitori dalle cellule ematopoietiche pluripotenti CD34 positive e la loro successiva 26 migrazione nel torrente circolatorio. I leucotrieni aumentano inoltre l’espressione delle proteine di adesione (I-CAM, V-CAM) promuovendo la motilità cellulare. 27 2. Infiammazione e Carcinogenesi 2.1 L’infiammazione spiega il cancro Gli studi condotti in questi anni hanno messo in evidenza i nessi esistenti fra gli eventi di alterazione genica che causano il cancro e la corrispondente risposta infiammatoria che ne deriva. Il primo a descrivere una relazione funzionale tra infiammazione e cancro è stato Virchow nel 1863 che ha ipotizzato l’origine del cancro in un ambiente dove persiste uno stimolo infiammatorio. Questa ipotesi nasce dall’evidenza che sostanze irritanti insieme alla presenza di una ferita in un tessuto siano in grado di scatenare una risposta infiammatoria con il conseguente aumento della proliferazione cellulare.[4] Oggi è chiaro che la proliferazione cellulare da sola non causa il cancro, ma la proliferazione continua in un ambiente ricco di cellule infiammatorie, di fattori di crescita, stroma attivato ed agenti che promuovono danni al DNA, certamente potenzia e/o promuove il rischio neoplastico. Il processo infiammatorio è un fattore negativo a carico di tutti i tessuti a causa della continua esposizione agli agenti ambientali. Il microambiente infiammatorio favorisce infatti l’iniziazione delle cellule normali e la loro crescita e progressione verso la malignità attraverso la produzione di citochine pro-infiammatorie, agenti ossidanti ed enzimi litici. E’ ormai un paradigma accettato il “doppio legame” esistente tra infiammazione e tumore, infatti, i macrofagi, cellule infiammatorie presenti all’interno dei tumori, non svolgono come dovrebbero un ruolo di difesa all’interno dell’organismo, ma aiutano lo sviluppo del cancro. La connessione causa-effetto esistente tra infiammazione e tumore permetterebbe di spiegare come alcune forme croniche di infiammazione in determinati organi possano favorire l’insorgere di tumori e allo stesso tempo come un tumore, indipendentemente dal fatto che sia stato o meno concausato da un’infiammazione precedente, per svilupparsi crei un ambiente infiammatorio. Pertanto l’infiammazione è la chiave non solo per 28 comprendere il cancro, ma anche per combatterlo. Da alcuni anni l'approccio terapeutico ai tumori ha distolto l'attenzione sulle cellule tumorali, spostandola verso l’angiogenesi, giacchè dall’inibizione di quest’ultima è possibile limitare la crescita della massa tumorale. 2.2 Correlazione tra microambiente infiammatorio e tumori La correlazione tra il fenomeno flogistico e quello canceroso ha portato a considerare l’infiammazione come uno dei segni caratteristici del cancro.[4] I mediatori e gli effettori cellulari dell’infiammazione sono infatti costituenti importanti del microambiente tumorale. In alcuni tipi di tumore, i processi infiammatori sono presenti prima della trasformazione neoplastica delle cellule. Al contrario, in altri tipi di tumore, un cambiamento oncogenico induce un microambiente infiammatorio che a sua volta promuove lo sviluppo del tumore. La componente infiammatoria stimola la proliferazione e la sopravvivenza di cellule maligne, promuove l’ angiogenesi e la metastatizzazione, sovverte le risposte immunitarie adattative e la risposta a chemioterapici. Infatti, negli ultimi anni è stato messo in evidenza che anche in tumori non primariamente riconducibili a processi infiammatori, la componente infiammatoria è presente e costituisce una tappa essenziale nella formazione del microambiente maligno.[4] Le caratteristiche di un tumore correlato ad uno stato infiammatorio sono essenzialmente: l’infiltrazione leucocitaria e macrofagica, la presenza di citochine, chemochine, interleuchine, TNF-α (Tumor Necrosis Factor-α), interferoni, fattori di crescita, enzimi proteolitici, proteoglicani, mediatori lipidici e prostaglandine. Sono state messe in evidenza due vie di attivazione che legano l’ infiammazione e il cancro: 1. via intrinseca; 2. via estrinseca. 1. La via intrinseca è attivata da eventi genetici capaci di indurre processi neoplastici. Tali eventi genetici includono: attivazione di vari oncogeni 29 tramite mutazioni, riarrangiamento oppure amplificazione cromosomica ed inattivazione di geni oncosoppressori. I membri della famiglia RAS sono gli oncogeni maggiormente coinvolti nello sviluppo dei tumori umani e attivano la proliferazione attraverso le chinasi RAS-RAF. Le cellule che subiscono questo dell’infiammazione, tipo di generando trasformazione in tal modo producono un mediatori microambiente infiammatorio in tumori che di base non presentano condizioni di infiammazione. Altri oncogeni che svolgono una funzione simile sono la proteina tirosin-chinasi RET, coinvolta nello sviluppo del tumore alla tiroide e MYC, un fattore trascrizionale over-espresso in molti tipi di tumori umani. 2. Nella via estrinseca, invece, condizioni infiammatorie e/o infettive aumentano il rischio di progressione del cancro soprattutto in alcuni siti anatomici (colon, prostata e pancreas). Le due vie convergono causando nelle cellule tumorali l’attivazione di fattori di trascrizione, tra cui NF-kB, STAT3 (Signal Transducer and Activator of Transcription 3) e HIF-1α (Hypoxia-Inducible Factor 1-alpha). L’attivazione di questi fattori comporta, oltre al reclutamento e l’attivazione di un gran numero di leucociti, la produzione di numerosi mediatori dell’infiammazione, comprese citochine e chemochine, e di enzimi quali iNOS (Nitrossido Sintasi inducibile) e COX-2 (Cicloossigenasi 2), entrambi di fondamentale importanza nell’infiammazione. Numerosi studi hanno messo in correlazione l’NO ed il processo neoplastico. L’NO sarebbe coinvolto nell’acquisizione di proprietà metastatiche da parte di tumori benigni in modelli di progressione neoplastica su base infiammatoria ed attiverebbe, in maniera indiretta, processi di invasione e metastatizzazione tramite induzione di MMP e VEGF.[5] La COX-1 e la COX-2 catalizzano tappe fondamentali nella formazione di prostanoidi anch’essi centrali mediatori del processo infiammatorio. Mentre la COX-1 è costitutivamente espressa in molti tessuti, in cui controlla normali processi fisiologici, la COX-2 non è rilevabile in condizioni normali (tranne 30 nel sistema nervoso centrale, reni e vescicole seminali) ma è indotta da stimoli infiammatori e mitogeni. La COX-2 viene definita come la isoforma inducibile, il mediatore che meglio rappresenta le risposte infiammatorie, sia perché la sua espressione è altamente influenzata da stimoli infiammatori, sia perché gioca un ruolo chiave nel processo di carcinogenesi a cui partecipa attivamente con la produzione di sostanze cancerogene capaci di influenzare: apoptosi e angiogenesi.[6] 2.3 COX-2 e Carcinogenesi Oggi, impropriamente si afferma che la “COX-2 nutre i tumori”. Affermazione avvalorata dai vari dati sperimentali che attestano come in molte forme tumorali sia presente una sovra-espressione dell’ enzima cicloossigenasi 2 (COX-2), responsabile della crescita ed invasività di cellule malate, ciò si verificherebbe per effetto di un meccanismo prostaglandine-dipendente e prostaglandine-indipendente. COX-2 è coinvolta nel processo di cancerogenesi, intervenendo nell’angiogenesi apoptosi, invasività e controllo della proliferazione cellulare.[5] Fattori di crescita, citochine, oncogeni e oncosoppressori stimolano la trascrizione di COX-2 attraverso la via mediata da Ras ed attraverso la via della proteina chinasi C (PKC).[6] Numerosi studi hanno evidenziato che la COX-2 e la PGE2 hanno attività di regolatori positivi della proliferazione delle cellule tumorali. Questi effetti sono indotti soprattutto dalle cascate enzimatiche mediate da Ras/Raf/Protein chinasi mitogena attivata (Ras/Raf/MAPK) e fosfaditilinositolo-3 chinasi (P13K/Akt), attraverso un meccanismo di feed-back positivo, osservato anche in cellule di adenoma intestinale e di adenocarcinoma polmonare. 2.3.1 COX-2 e angiogenesi tumorale In letteratura sono noti i molteplici ruoli che riveste la COX-2 nei confronti dell’angiogenesi tumorale. La crescita tumorale è strettamente dipendente da un adeguato apporto ematico, determinato dalla formazione di nuovi capillari, 31 mediante un processo regolato da fattori pro-angiogenetici, come il fattore di crescita vascolare endoteliale (VEGF). In molti tipi di tumore è stata dimostrata una correlazione tra attivazione della COX-2 e la neoangiogenesi. Ad esempio, nelle cellule del carcinoma squamocellulare è stata osservata una maggiore espressione del VEGF e del proprio mRNA, in risposta all’induzione di COX-2 con conseguente sintesi di PGE2. Inoltre è stato dimostrato che la over-espressione di COX-2 nelle cellule del colon-retto induce la produzione di prostaglandine e fattori pro-angiogenetici. 2.3.2 COX-2 e apoptosi L’induzione dell’apoptosi sembra essere il principale meccanismo d’azione anti-neoplastico promosso dai FANS, quindi il potenziale anti-apoptotico della COX-2 assume notevole rilevanza. Sono state riportate forti correlazioni in vari tipi di cancro, tra l’attivazione della COX-2 e l’espressione di proteine anti-apoptiche della famiglia della bcl-2. In molti studi è stato dimostrato che il trattamento con FANS induce l’ apoptosi delle cellule tumorali, mentre il trattamento con PGE2 blocca l’apoptosi nelle cellule del cancro del colon, inoltre la up-regulation di un’altra proteina anti-apoptotica, la Mcl-1, si correla con l’espressione di COX-2 nel carcinoma basocellulare. 32 3. Cicloossigenasi (COX) Le COX sono enzimi che catalizzano la conversione dell’acido arachidonico a prostaglandine biologicamente attive e trombossani, sostanze dotate di numerose funzioni biologiche: citoprotezione del tratto gastrointestinale, funzionalità piastrinica, omeostasi renale, funzionalità uterina, impianto dell’embrione e travaglio del parto, regolazione del ciclo sonno-veglia e della temperatura corporea. Nei siti in cui insorge uno stato infiammatorio, le COX (Fig.13) danno origine a prostaglandine responsabili dell’effetto flogogeno; il blocco della loro biosintesi da parte dei FANS determina scomparsa o riduzione di tale evento indesiderato. L’inibizione della produzione di prostaglandine al di fuori dei siti infiammatori può essere clinicamente utile, ad esempio, per prevenire eventi cardiovascolari indesiderati. L’inibizione può, tuttavia, dimostrarsi nociva quando la ridotta sintesi di prostaglandine provoca un deterioramento della normale funzionalità della mucosa gastrointestinale, con formazione di lesioni più o meno gravi, o di quella renale. Figura 13: COX. 33 3.1 COX-1 e COX-2 a confronto Agli inizi degli anni ‘90 si scoprì l’esistenza di due isoforme dell’enzima cicloossigenasi: cicloossigenasi-1 (COX-1) e cicloossigenasi-2 (COX-2). Le due isoforme sono presenti in quantità variabili nei vari distretti dell’organismo, ove svolgono funzioni biologiche ben distinte l’una dall’altra La COX-1 è una proteina espressa in modo costitutivo da quasi tutte le cellule dell’organismo umano comprese le piastrine del sangue, è coinvolta nella comunicazione intercellulare e nell’omeostasi tissutale; inoltre è responsabile della produzione delle prostaglandine implicate nella protezione gastrica, nell’autoregolazione del flusso sanguigno renale e nell’attivazione del parto;[3] La COX-2 è una proteina inducibile prodotta da macrofagi, fibroblasti e cellule endoteliali in seguito a stimoli pro-infiammatori come IL-1, LPS e fattori di crescita. La produzione di prostanoidi che contribuisce alla vasodilatazione, all’edema e all’iperalgesia caratteristiche dei processi infiammatori è soprattutto conseguenza dell’induzione locale dell’espressione della COX-2 nelle cellule infiammatorie;[2] La COX-3 è una proteina che deriva da un differente splicing dell’mRNA della COX-1 in cui non viene eliminato l’introne 1. E’ una proteina enzimatica presente soprattutto a livello del SNC.[3] L’espressione della COX-1 è regolata in maniera diversa rispetto a quella della COX-2 (Fig.14). Il gene della COX-1 fa parte degli house-keeping genes che esprimono per una proteina omodimerica integrata nelle membrane cellulari. La COX-1 è costituita da 599 amminoacidi e possiede un peso molecolare di 72 Kda, interviene nella sintesi immediata di prostanoidi che si verifica entro qualche minuto dalla stimolazione con mobilizzatori del calcio.[2] 34 Figura 14: COX-1 e COX-2. La COX-1 è un enzima specifico, metabolizza principalmente l’acido arachidonico mentre la COX-2 è in grado di accettare un maggior numero di acidi grassi come substrati.[8] La COX-2 è codificata da un gene che fa parte degli immediate early genes cioè di geni che vengono immediatamente espressi in risposta a stimoli opportuni il cui mRNA è altamente instabile per la presenza di sequenze AUUUA nella regione 3’ non tradotta.[2] La COX-2 umana è una proteina di 604 amminoacidi, la quale è stata identificata e clonata solo nel 1991.[17] Contiene vicino all’estremità C-terminale un inserto di 18 amminoacidi che non sono presenti nella COX-1 mentre tutti i residui essenziali che formano il canale idrofobico legante il substrato,[13] i siti catalitici e i residui immediatamente adiacenti a esso sono altamente conservati nelle due isoforme che presentano infatti un’omologia di struttura proteica primaria di circa il 63% (Fig.14).[8] Le differenze più rilevanti nella struttura di queste due isoforme riguarda la sostituzione delle isoleucine in posizione 434 e 523 nella COX-1 con residui di valine nella COX-2. Il minore ingombro sterico offerto dalla valina 523 nella COX-2 permette agli inibitori l’accesso ad una cavità idrofobica adiacente al canale del substrato, accesso che nella COX-1 è 35 inibito dalla maggiore lunghezza della catena laterale dell’isoleucina.[5] La presenza della tasca idrofobica laterale nella COX-2 aumenta il volume del sito catalitico di circa il 25% rendendola capace di accogliere molecole ingombranti come gli inibitori selettivi della COX-2 (COXIB).[2] Un’altra differenza chiave tra queste due cicloossigenasi è la mutazione dell’His513 in COX-1 con un’Arg513 in COX-2. Questa sostituzione genera uno specifico sito di binding per i gruppi sulfonammidici o metilsulfonici che sono presenti in quasi tutte le molecole che inibiscono selettivamente la COX-2.[8] Entrambi gli enzimi sono caratterizzata da tre parti fondamentali: Una sequenza omologa all’Epidermal Growht Factor(EGF) Una regione che funge da ancoraggio alle membrane Una regione che contiene i due siti catalitici per l’attività cicloossigenasica e perossidasica separati dal gruppo prostetico eme.[2] I FANS bloccano la sintesi dei prostanoidi perché occupano il canale idrofobico di questi due enzimi impedendo l’interazione con l’acido arachidonico e la sua trasformazione a PGG2 senza tra l’altro influenzare l’attività perossidasica dell’enzima.[3] L’inibizione della COX-2 è responsabile degli effetti terapeutici di questi farmaci mentre l’inibizione della COX-1 è responsabile delle reazioni avverse a livello del tratto gastrointestinale. Negli ultimi anni lo scopo della ricerca è stato quello di trovare nuovi farmaci selettivi per la COX-2 in modo da annullare la tossicità di questa classe di farmaci.[8] 36 4 Coxib 4.1 Fans e Coxib a confronto I FANS rappresentano una classe di farmaci estremamente efficaci e maggiormente prescritti, la cui somministrazione può accompagnarsi all’insorgenza di eventi avversi. Gli effetti indesiderati dei FANS riguardano principalmente il tubo gastroenterico e, con minor frequenza, il fegato, il rene e l’apparato cardiovascolare. Pur mantenendo la stessa efficacia analgesica e anti-infiammatoria dei FANS tradizionali, gli inibitori selettivi della COX-2 presentano una tollerabilità gastrointestinale nettamente superiore, con riduzione dell’incidenza di dispepsia, ulcere gastro-duodenali e intestinali e relative complicanze (emorragia, perforazione e stenosi). Poiché entrambi gli isoenzimi della COX sono costitutivi a livello renale, la loro inibizione determina una riduzione di uno o più prostanoidi coinvolti nel mantenimento dell’integrità funzionale del parenchima. Di conseguenza, gli inibitori selettivi della COX-2 determinano a livello renale gli stessi effetti indesiderati (ritenzione idrica, edema e ipertensione) osservabili dopo somministrazione di FANS non selettivi. Tuttavia, alcuni studi recenti sembrano indicare che l’incidenza di tali eventi avversi sia significativamente inferiore con gli altri coxib rispetto al rofecoxib. Lo squilibrio tra prostanoidi ad attività protrombotica (trombossano) e antitrombotica (prostaciclina) conseguente all’inibizione della COX-2 ha permesso di ipotizzare un effetto protrombotico dei coxib. Tuttavia, studi osservazionali pubblicati di recente suggeriscono che entrambe le classi di FANS (selettivi e non) condividono gli stessi rischi cardiovascolari: aumento del rischio di infarto del miocardio, di insufficienza cardiaca congestizia e morte. La mancata evidenziazione dell’effetto cardioprotettivo del naprossene e la mancata influenza dell’aspirina a basse dosi sul rischio cardiovascolare dei COX-2 inibitori mette in discussione l’ipotesi “trombofilica”. Ciò che accomuna maggiormente le due classi di 37 farmaci anti-infiammatori sono gli effetti indesiderati a livello renale: ritenzione idro-salina, edema periferico e soprattutto ipertensione arteriosa. Non a caso, tra gli inibitori della COX-2 di prima generazione, il rofecoxib (che determina un aumento dose-dipendente della pressione sistolica) è stato sempre associato nei vari studi clinici e di farmacovigilanza ad un maggiore rischio cardiovascolare. Ogni aumento assoluto del rischio cardiovascolare con i COXIB sembra comunque essere minimo. 4.2 Inibitori selettivi delle COX-2 Gli inibitori selettivi delle COX-2, conosciuti come COXIB, si possono definire come inibitori “tempo dipendenti”, poiché inizialmente possiedono un uguale potenza su entrambe le isoforme COX-1 e COX-2, successivamente la potenza aumenta selettivamente dopo 10 minuti di incubazione. La rimozione del farmaco tramite dialisi ripristina l’attività delle COX-1, ma non delle COX-2, suggerendo l’istaurarsi di un cambiamento irreversibile nei confronti della COX-2. I primi due composti che hanno mostrato un’attività inibitoria nei confronti della COX-2 sono stati DUP 697 e NS-398, i quali furono utilizzati come composti lead per lo sviluppo delle due classi chimiche dei COXIB: 1. ARILSULFONAMMIDI: NS-398, nimesulide 2. DIARILETEROCICLICI: DuP 697, celecoxib, rofecoxib, valdecoxib, etoricoxib, parecoxib, SC-560. 1. Le arilsulfonammidi furono sviluppate dal prototipo NS-398 e possono essere considerate degli inibitori preferenziali della COX-2. A questo gruppo appartiene anche la Nimesulide, una sulfanilide in grado di inibire entrambe le ciclossigenasi ma in misura preferenziale la COX-2. E’ stata immessa in commercio nel 1985 con il nome commerciale di Aulin e svolge un’ attività analgesica e antipiretica. Il suo utilizzo nel tempo ha destato notevoli 38 preoccupazioni tanto da indurre diversi paesi a ritirare dal commercio tutte le forme sistemiche di questo farmaco per l’elevato rischio di tossicità epatica.[29] NIMESULIDE NS-398 2. I diarileterocicli derivano dall’Indoxolo (Tab.1). INDOXOLO Studi relazione struttura-attività (SAR) hanno evidenziato che: -l’anello eterociclico è importante per incrementare l’attività farmacologica; -i due gruppi arilici devono essere in posizione 1,2 dell’eterociclo in maniera tale da poter interagire con l’enzima. 39 Y X ETEROCICLO DUP 697 SC-57666 SC-58125 CELECOXIB ROFECOXIB H Tabella 1: Derivati diarileterociclici. Il DUP 697 è un agente anti-infiammatorio in grado di inibire la COX-2 con una selettività 50 volte superiore rispetto alla COX-1. Essenziali per la sua attività selettiva sembrano essere l’anello centrale che interagisce con la tasca idrofobica dell’enzima e il gruppo SO2CH3. Studi meccanicistici suggeriscono che il DUP 697 interagisca reversibilmente con la COX-1 e irreversibilmente 40 con la COX-2. In vitro ha evidenziato un’efficacia anti-infiammatoria, analgesica e antipiretica paragonabile a quella dell’Indometacina, Piroxicam e Sulindac. Il DUP-697 è somministrabile per via os, presenta una biodisponibilità elevata (80%) e scarso metabolismo epatico. L'uso di tale composto è per ora esclusivamente sperimentale . Il Celecoxib è stato il primo FANS immesso sul mercato come inibitore selettivo della COX-2. Il Celecoxib presenta un’affinità per la COX-2 circa 375 volte maggiore che per la COX-1. La molecola dopo somministrazione orale è ben assorbita dal tratto gastrointestinale e raggiunge la concentrazione plasmatica massima dopo circa 3 h dall’assunzione. La contemporanea assunzione di cibo, specialmente un pasto ricco di grassi, ne ritarda l’assorbimento di circa 1 h. Il legame con le proteine plasmatiche è pari al 97%. Il farmaco presenta un'emivita di circa 8-12 h. Nell'organismo Celecoxib è metabolizzato principalmente a livello epatico ad opera del CYP2C9 portando a metaboliti farmacologicamente inattivi. Il Celecoxib è indicato per il sollievo dei sintomi dell’osteoartrite e dell’artrite rumatoide, e può essere un coadiuvante nella terapia mirata a ridurre il numero di polipi nella poliposi adenomatosa colon-rettale familiare. A differenza dell’aspirina, il Celecoxib non ha attività anti-aggregante piastrinica, ma la contemporanea somministrazione di aspirina e Celecoxib può aumentare l’incidenza di effetti collaterali gastrointestinali.[8] Il Rofecoxib è stato il secondo inibitore selettivo della COX-2 immesso sul mercato. Rofecoxib in seguito a somministrazione orale è ben assorbito con picchi plasmatici generalmente ottenibili 2-3 h dopo l’assunzione. La biodisponibilità media in seguito a somministrazione di una singola dose è del 93%. Nell'organismo Rofecoxib viene ampiamente metabolizzato, prevalentemente a livello epatico attraverso processi di riduzione e di ossidazione che vedono il coinvolgimento degli enzimi del citocromo P450. 41 Solo l'1% circa di una singola dose somministrata viene ritrovata immodificata nelle urine. Nell’uomo sono stati identificati 6 principali metaboliti, caratterizzati da una debole o da nessuna attività misurabile come inibitori della COX-2. Il 30 settembre 2004, Merck lo ritirò volontariamente dal mercato a causa del possibile aumento del rischio di infarto del miocardio e ictus associato ad un suo uso a lungo termine e ad alto dosaggio.[38] L’Etoricoxib è un inibitore selettivo della COX-2 sviluppato per il trattamento del dolore post-chirurgico dentale e dell’osteoartrite. Dopo somministrazione per via orale viene ben assorbito dal tratto gastrointestinale con una biodisponibilità del 80-100%. Dopo singola somministrazione la concentrazione plasmatica massima è pari a 3,6 mg/ml e viene raggiunta a circa 1 h dall'assunzione. L’assunzione di cibo rallenta la velocità ma non l’entità dell’assorbimento. Il legame con le proteine plasmatiche, principalmente con l'albumina, è di circa il 92%. Etoricoxib è ampiamente metabolizzato dall'organismo umano a livello epatico, in particolare grazie al coinvolgimento dell'isoenzima CYP3A4 che ossida il gruppo metilico in 6’. Nell’uomo sono stati identificati 5 metaboliti, i quali risultano inattivi o mostrano solo una debole attività come inibitori della COX-2. L'emivita della molecola è di 22 h. La maggior parte del farmaco viene eliminato sotto forma di metaboliti, e meno del 2% è stato escreto come farmaco immodificato.[8] Il Valdecoxib è un inibitore selettivo della COX-2 usato nel trattamento del dolore in soggetti affetti da osteoartriti, artrite reumatoide, e nel trattamento del dolore da dismenorrea primaria. Il farmaco è stato disponibile sul mercato americano dal 2001 al 2005, quando è stato ritirato per un possibile aumento del rischio di infarto del miocardio e ictus. In Italia ed Europa la molecola era venduta dalla società farmaceutica Pharmacia-Pfizer con il nome commerciale di Bextra, nella forma farmaceutica di compresse rivestite contenenti 20 mg di principio attivo. Nell'aprile 2005 l'Agenzia Italiana del Farmaco dispose il 42 ritiro dal commercio del farmaco adottando il provvedimento a seguito della decisione autonoma della casa farmaceutica Pfizer, "a scopo cautelativo" ed in attesa della conclusione della procedura di rivalutazione dei profili di sicurezza di tutta la classe degli inibitori della COX-2 in corso da parte di EMEA. Valdecoxib dopo somministrazione per via orale è rapidamente assorbito dal tratto gastrointestinale. La concentrazione plasmatica massima viene raggiunta entro 3 h. La biodisponibilità assoluta del farmaco a seguito di somministrazione orale si aggira intorno all’83%. L'assunzione del farmaco con un pasto ricco di grassi non modifica significativamente il picco di concentrazione plasmatica e neppure il grado di assorbimento della molecola; il tempo necessario per raggiungere il picco plasmatico risulta ritardato solo di un paio d'ore. Il farmaco viene metabolizzato principalmente dal CYP2C9 per ossidrilazione del gruppo metilico in posizione 5’, che viene poi metabolizzato a carbossilato inattivo. L’emivita è di 8-11 h e circa il 70% del farmaco metabolizzato viene eliminato per via urinaria mentre meno del 5% viene escreto immodificato nelle feci e nelle urine. Il Valdecoxib può causare bronco costrizione o reazioni anafilattiche in pazienti asmatici sensibili all’aspirina o ad altri FANS, per questo i pazienti devono essere adeguatamente monitorati.[8] Il Parecoxib è un profarmaco iniettabile e solubile in acqua che è metabolizzato in vivo a Valdecoxib. Viene usato in ambito peri-operatorio quando i pazienti non sono in grado di assumere farmaci per os per il trattamento del dolore. È disponibile sul mercato europeo ma non negli Stati Uniti in quanto la Food and Drug Administration, nel 2005, non ne ha approvato l'immissione in commercio. In Italia è venduto con il nome commerciale di Dynastat 20, nella forma farmaceutica di polvere per soluzione iniettabile per via endovenosa oppure intramuscolare. Dopo somministrazione per via parenterale (endovenosa o intramuscolare), Parecoxib viene rapidamente trasformato in Valdecoxib, la molecola 43 farmacologicamente attiva, grazie ad un processo di idrolisi enzimatica a livello epatico. La concentrazione plasmatica massima di Valdecoxib viene raggiunta in circa mezz’ora (dopo somministrazione endovenosa) e 1 h dopo somministrazione per via intramuscolare. Il legame con le proteine plasmatiche si aggira intorno al 98%. L’eliminazione di Valdecoxib dall'organismo è conseguente ad un importante metabolismo epatico che vede coinvolto il citocromo P450 e gli isoenzimi CYP3A4 e CYP2C9. Circa il 70% di una singola dose somministrata è escreto nelle urine in forma di metaboliti inattivi. Il Parecoxib viene utilizzato nel trattamento a breve termine del dolore acuto secondario ad interventi chirurgici, sia di chirurgia generale che ginecologica, ortopedica, maxillo-facciale e cardiochirurgia.[36] 44 5 Sintesi di nuovi derivati a struttura benzotieno[3,2-d] pirimidin sulfonammidica 5.1 Introduzione generale I FANS tradizionali, non selettivi, inibiscono sia la COX-1 che la COX-2 ed a causa di questa marcata selettività verso entrambe le isoforme il loro utilizzo è spesso compromesso da gravi effetti collaterali a livello del tratto gastrointestinale.[10,11] Pertanto, sono state ideate nuove strategie di sintesi basate sulla progettazione di nuovi sistemi eterociclici contenenti un gruppo funzionale tienopirimidinico capace di inibire selettivamente la COX-2, in maniera tale da aggirare sia la tossicità gastrica che quella renale.[14] La scelta di tale sistema eterociclico trova le sue fondamenta in approfondite ricerche di letteratura riguardanti i vari meccanismi d’azione e gli effetti biologici dei composti tienopirimidici, i quali hanno suscitato, negli ultimi anni, un grande interesse nel campo farmacologico.[21] Non a caso, i derivati tienopirimidinici vengono definiti come delle potenziali molecole bioattive paragonabili strutturalmente agli analoghi delle purine biogeniche, antimetaboliti dell’acido nucleico.[22] Negli ultimi due decenni è emerso che molti composti eterociclici contenenti nel loro scheletro un gruppo tienopirimidinico possono esplicare un ampio range di attività biologiche quali: anti-infiammatoria, antivirale, analgesica, antimicotica, antibatterica e ultimamente anche una spiccata azione antitumorale,[23-25] la quale è stata valutata in vitro su ben tre linee cellulari tumorali umane, MCF-7 (adenocarcinoma del seno), NCI-H460 (cancro delle cellule polmonari) e SF-268 (cancro del SNC).[25] 5.2 Progettazione razionale Approfondite ricerche di letteratura riguardanti gli inibitori selettivi delle COX-2, affermano la presenza, nel modello farmacoforico, di quattro elementi strutturali comuni: 45 1) un anello eterociclico o carbociclico in grado di incrementare l’attività anti-infiammatoria. Studi preliminari inerenti le SAR asseriscono che l’anello centrale carbociclico riesce a stabilizzare la conformazione della molecola all’interno della tasca idrofobica delle COX-2; 2) un gruppo sulfonammidico o metilsulfonico in posizione para all’anello benzenico, il cui ruolo è quello di interagire irreversibilmente con i residui amminoacidici Arg513 o Arg120 presenti nella tasca laterale idrofobica delle COX-2; 3) atomi di alogeno o vari sostituenti legati all’anello benzenico. Studi SAR hanno dimostrato che la selettività e la potenza inibitoria nei confronti delle COX-2 è strettamente correlata dalla natura del sostituente presente sull’anello benzenico. L’ordine con cui si attribuisce la maggiore selettività è il seguente: OH > F > OMe > H > Me > NHCOMe > Cl. Pertanto derivati che presentano gruppi OH legati in posizione para nell’anello aromatico esibiscono sia un’ottima attività anti-infiammatoria che una maggiore selettività verso l’isoforma COX-2; 4) gruppi elettron-attrattori sembrano giocare un ruolo chiave per quanto concerne la selettività e l’attività anti-infiammatoria. Studi di molecular docking dimostrano che i gruppi elettron-attrattori interagiscono tramite un forte legame idrogeno con l’amminoacido Tyr355. Le modifiche strutturali effettuate sugli inibitori selettivi delle COX-2 rappresentano un’ interessante strategia per la sintesi di nuovi composti. Infatti l’introduzione di una base pirimidinica, di un gruppo carbossilico o metossilico sull’anello benzenico hanno generato dei prototipi di molecole dalle spiccate attività biologiche. Inoltre un’attenta analisi del sito attivo della COX-2, il quale si presenta più grande del 60% rispetto a quello della COX-1, ha generato l’ipotesi che l’introduzione di vincoli sterici nello scaffold dei coxib potrebbe aumentare la selettività nei confronti dell’enzima stesso (Fig.15). 46 Figura 15: COX-2 e coxib In base a tali considerazioni abbiamo progettato una nuova serie di composti benzotienopirimidinici prendendo come riferimento i seguenti composti: celecoxib, nimesulide, flosulide, L-745, 337 e NS398 (schema 1) i quali presentano una spiccata attività anti-infiammatoria accompagnata da minori effetti gastrolesivi. Schema 1: Strutture di alcuni coxib e progettazione razionale 47 Pertanto abbiamo sintetizzato delle molecole “ibride” contenenti un anello pirimidinonico legato ad un benzene o ad un anello eterociclico come il tiofene o il benzotiofene, con l’atomo di zolfo legato, come tioetere, ad un gruppo alchilico o arilico con gruppi elettron-attrattori in orto e/o para. La scelta della struttura benzotienopirimidinica come scaffold comune, è sorta da attenti studi riguardanti l’ampio range di proprietà biologiche che possiede. Per cercare di aumentare le interazioni con l’enzima COX-2, abbiamo pensato di implementare la struttura molecolare introducendo sostituenti arilici o eterociclici sullo zolfo (Schema 2). Schema 2: Modello farmacoforico Sono stati selezionati sostituenti con diverse caratteristiche chimico-fisiche per poter sondare il sito di legame all’interno delle COX-2. Tra questi abbiamo introdotto molecole eterocicliche biologicamente attive (antipirina e 1,3 dimetiluracile) in grado di esplicare interessanti attività anti-infiammatorie all’interno del sistema triciclico. 5.3 Scopo del lavoro L’attività di ricerca è stata incentrata sulla progettazione e sintesi di una nuova serie di composti benzo-tio-derivati con struttura tienopirimidinica sulfonammidica (Fig.16), potenziali inibitori selettivi della COX-2, in grado di 48 esplicare un’efficace azione anti-infiammatoria e allo stesso tempo di ridurre l’insorgenza di gravi effetti collaterali a livello gastrointestinale. L’obiettivo di questo studio è stato quello di ottimizzare la sintesi di questi derivati introducendo un caratteristico gruppo SO2Me o SO2NH2 in maniera tale da poter interagire irreversibilmente con i residui amminoacidici (Arg513 o Arg120) presenti nella tasca laterale idrofobica delle COX-2.[33] Queste molecole tricicliche, così articolate, giocano un ruolo fondamentale sulla selettività della COX-2.[25,26] Il metile 3-isotiocianato-[1]-benzotiofene-2-carbossilato 2, composto chiave nella sintesi dei derivati benzotienopirimidinici, è stato ottenuto tramite una semplice metodica facendo reagire il metile 3aminobenzo[b]tiofene-2-carbossilato 1 con il di-2 piridil-tionocarbonato (DPT) in CH2Cl2 a temperatura ambiente per 24 h. Il DPT è stato utilizzato in sostituzione del tiofosgene, un agente altamente tossico per le vie aeree (schema 3); dati di letteratura asseriscono che le proprietà tossiche del tiofosgene derivano dalla capacità di trasformarsi per riscaldamento in fosgene, il quale è in grado di combinarsi con l’acqua contenuta nei tessuti del tratto respiratorio decomponendosi in CO e HCl, quest’ultimo è in grado di dissolvere le membrane delle cellule esposte causando il riempimento delle vie respiratorie di liquido pleurico. Il fosgene è un veleno particolarmente insidioso, non provoca effetti immediati, infatti, i sintomi si manifestano dopo circa 72 h dall'esposizione e la morte sopraggiunge per combinazione di emorragie interne con insufficienza respiratoria. A differenza di altri gas, il fosgene non viene assorbito attraverso la pelle ma il suo effetto si produce solo per inalazione. A causa dei suoi effetti letali il fosgene è stato utilizzato come arma chimica durante la prima guerra mondiale, di conseguenza, possiamo affermare che i vantaggi dell’uso del DPT in questa reazione sono molteplici: Semplice metodica (green chemistry) senza l’utilizzo di solventi dry e di condizioni di reazione drastiche; il DPT è stabile in condizioni ambientali; alte rese di reazione. 49 Figura 16: Nuovi tioaril derivati a struttura benzotieno[3,2-d] pirimidin sulfonammidica 50 La presenza del gruppo –NCS nel composto 2, (il cui atomo di carbonio centrale è fortemente elettrofilo) è stata di fondamentale aiuto per ottenere in maniera più agevole i prodotti intermedi: le benzotiosemicarbazidi 3a e 3b. La reazione è stata condotta a temperatura ambiente in CH2Cl2 facendo reagire il composto 2 rispettivamente con NH2NH2 e NH2SO2CH3. Successivamente la ciclizzazione dei derivati 3a e 3b, realizzata con il metodo di Wamhoff [30,31] , ha portato alla formazione dei due derivati: benzo-tiossoammino 4a (resa 60%) e benzo-tiosso-metansulfonammide 4b (resa 80%) (schema 3). Schema 3: Sintesi degli intermedi benzo-tiossoammino 4a e benzo-tiossometansulfonammide 4b. I derivati 4a e 4b, isolati mediante tecniche cristallografiche, sono stati caratterizzati attraverso spettri IR, 1H e 13C NMR e spettrometria di massa. In 51 particolare, lo spettro 1H NMR del composto 4a presenta il singoletto relativo al gruppo amminico a 6.3 ppm mentre nello spettro 1H NMR del composto 4b sono evidenti un caratteristico singoletto relativo al protone del gruppo sulfonammidico a 11 ppm e i multipletti relativi ai protoni aromatici nell’intervallo tra 7.5-8.8 ppm a conferma della struttura. Numerosi studi sono stati dedicati alla formazione del legame C-S e all’ interpretazione delle relazioni struttura-attività dei derivati benzo-tieno [3,2-d] pirimidinici. La formazione del legame C-S rappresenta un passo fondamentale per la sintesi di nuove molecole implicate nel trattamento non solo di malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e il Parkinson ma anche per la cura dei tumori. Il protocollo di reazione per la formazione del legame C-S prevede l’utilizzo di quantità catalitiche di Cu in polvere (~5-10 mol %), di un ligando (10-20 mol %) e di una base (1.5-2.5 equiv.) in condizioni relativamente blande (80-100 °C per 5-6 h). L’ influenza che il catalizzatore di rame CuI può esercitare sulla formazione del legame C-S è ben documentata in letteratura.[44] Lo ioduro di rame, infatti, ha dimostrato di avere un’ottima stabilità a contatto con l’aria mentre l’utilizzo di altri catalizzatori (CuBr2, CuSO4·5H2O, CuCl2) hanno rivelato una minore efficienza catalitica con rendimenti del 25-30%. Ulteriori esperimenti sono stati effettuati per trovare la temperatura e il tempo di reazione ottimale. Un eccellente rendimento ~ 90% è stato ottenuto dopo 6 h e a 100°C. Dai dati riportati in letteratura è emerso che: la reazione non ha avuto alcun esito positivo utilizzando altri catalizzatori che non fossero CuI e Cu in polvere, addirittura con il sale CuCl2 non si è riscontrata alcuna reazione; la reazione non ha avuto alcun esito positivo in assenza di quantità catalitiche di CuI e Cu in polvere; è importante utilizzare un solvente polare, infatti l’utilizzo di solventi come il toluene dimezzano la resa di reazione; 52 è interessante notare l’alta resa di reazione che si ottiene (~90%) utilizzando l’H2O come solvente e l’NaOH come base; per ottenere una resa ottimale bisogna utilizzare una temperatura di ~ 100°C, la diminuzione della stessa anche di solo 15°C ha causato una significativa diminuzione della resa; diversi alogenuri arilici sono stati saggiati dimostrando che fluoruri, cloruri e bromuri arilici hanno mostrato una scarsa reattività in questa reazione, contrariamente gli ioduri arilici ed eterociclici hanno presentato un’alta reattività dando luogo alla formazione di derivati benzo pirimidinici con elevate rese (~ 90%). Pertanto, le reazioni per ottenere i derivati finali (5-15) sono state condotte facendo reagire in ambiente basico gli appropriati ioduri arilici e eterociclici con il derivato 4b in presenza di un opportuno sistema catalitico formato da Cu in polvere e CuI alla temperatura di ~100°C per 6 h. Nel caso della sintesi del derivato 13, l’utilizzo di CuI non ha prodotto il risultato sperato; pertanto è stata tentata una via alternativa trattando il composto 4b con lo ioduro di cicloesile in DMF a 80 °C per 6 h, in presenza di K2CO3 (schema 4). Dopo aver effettuato una filtrazione a caldo per eliminare il sistema catalitico utilizzato ed eventuali impurezze formatesi nel corso della reazione, abbiamo isolato i derivati in ambiente acido. I derivati (5-15) sono stati ottenuti allo stato puro mediante cristallizzazione. Le strutture dei composti isolati sono state confermate attraverso analisi elementare, spettri IR, 1H e 13C NMR e spettrometria di massa. In particolare gli spettri 1 H NMR dei derivati (5-15) hanno evidenziato accanto al caratteristico singoletto relativo al protone del gruppo sulfonammidico a ~ 11 ppm, i multipletti relativi ai protoni aromatici nell’intervallo 7.3-8.3ppm a conferma della struttura benzotieno sulfonammidica. 53 Schema 4: Sintesi di nuovi derivati benzo-tieno [3, 2-d] pirimidinici. La fase successiva è stata quella di selezionare i vari ioduri eterociclici da legare al derivato 4b, tenendo in considerazione dell’influenza che potevano esercitare una volta che fossero stati incorporati nel sistema triciclico dal punto di vista farmacologico. A tale scopo, non a caso abbiamo analizzato, in primis, le caratteristiche dell’antipirina, un analgesico/antipiretico. La sua azione analgesica è meno intensa di quella della morfina e delle sostanze morfino-simili, a differenza delle quali, tuttavia, non si manifesta con effetti collaterali di tipo euforizzante o narcotico. Il meccanismo d'azione antipiretica interessa i centri nervosi termoregolatori che garantiscono il regolare rapporto tra la produzione e la dispersione del calore nell'organismo. Tale rapporto, alterato durante gli stati febbrili, viene ripristinato dall'antipirina grazie 54 all'attivazione centrale di meccanismi (sudorazione, vasodilatazione cutanea) che compensano a livello periferico il patologico aumento della termogenesi. L'azione antireumatica dell'antipirina deriva da un aumento della concentrazione ematica di idrocortisone attivo. Il farmaco scinde, infatti, tale corticosteroide dal legame inattivante che esso contrae nel sangue con una particolare proteina plasmatica, la transcortina. L'antipirina assieme all’amminofenazone è uno dei farmaci di più comune e vasto impiego, anche se non privo di effetti collaterali e di alcuni effetti tossici. Con una certa frequenza determina reazioni di tipo allergico ed episodi di intolleranza gastrica, più raramente può provocare leucopenia e agranulocitosi. È inoltre impiegato per via orale e con minore frequenza per via parenterale sotto forma di sale idrosolubile (per esempio come N-metan-sulfonato) oppure associato al fenilbutazone. Come antipiretico si usa nelle malattie infettive quali influenza, scarlattina, reumatismi articolari mentre come analgesico è un forte sedativo nelle nevralgie e nelle cefalee. L’introduzione dell’antipirina nello scheletro triciclico benzotieno-pirimidinico, non a caso, ha creato un prototipo di molecola con spiccate proprietà analgesiche-anti-infiammatorie.[37] L’introduzione del gruppo 1,3 dimetiluracile al nostro sistema triciclico ha avuto origine da un attento studio delle proprietà farmacologiche dell’uracile e dei suoi derivati. Infatti, il 5–fluoro uracile (5-FU) ha rappresentato, per molti decenni, la pietra miliare per il trattamento dei tumori colon-rettali. Recenti studi di letteratura hanno evidenziato anche una spiccata azione antiinfiammatoria di questi composti e in particolare si è evinto che l’introduzione di 2 gruppi metilici in posizione 1 e 3 all’uracile abbiano aumentato notevolmente l’attività. Per quanto concerne la scelta dei vari sostituenti funzionali R1 e R2 all’interno degli ioduri arilici, ci siamo basati su dati riportati in letteratura secondo i quali i sostituenti anionici, gruppi nitro e la presenza di alogeni possono interagire con le membrane cellulari e migliorare l’attività e la potenza anti-infiammatoria del sistema eterociclico.[38] Infatti i composti n° 12,14,15 che presentano, rispettivamente, un gruppo carbossilico 55 in posizione para, alogeni in orto e para e un gruppo nitro in orto e para hanno mostrato una capacità inibitoria dei markers anti-infiammatori paragonabile a quella del Celecoxib. La sintesi di questi derivati (5-15) a scheletro benzo-tieno [3, 2-d] pirimidinico potrebbero costituire un nuovo target di rilievo in quanto analoghe strutture sono presenti in composti già brevettati con proprietà anticoagulanti, antidiabetiche, antistaminiche, antiinfiammatorie e antitumorali. 56 Sezione Sperimentale 5.4 Materiali e metodi Gli spettri 1H NMR e 13 C NMR sono stati registrati su uno spettrometro Varian Inova, operante ad una frequenza di 200 o 500 MHz, per gli spettri protonici, ed a 50 o 125 MHz per gli spettri 13C NMR (Varian, Leini, Italia) e sono stati eseguiti come soluzioni in dimetilsolfossido deuterato (DMSO). I dati sono stati riportati come spostamenti chimici o “chemical shifts”, i quali sono stati indicati con “δ” e misurati in parti per milione (ppm). Tutte le reazioni sono state monitorate mediante cromatografia su strato sottile (TLC), la quale è stata eseguita utilizzando lastre di gel di silice dello spessore di 0.2 mm, (Silical gel 60 F254, Merck) su fogli di alluminio. Tali lastre sono state visualizzate per mezzo di una lampada UV (λ= 254 nm). La purificazione dei prodotti sintetizzati è stata eseguita tramite cromatografia flash usando opportune colonne impaccate con gel di silice Merck 60, 230-400 mesh. I punti di fusione sono stati determinati mediante uno strumento Electrothermal modello 9100 e sono non corretti. Gli spettri di massa sono stati registrati su uno Spettrometro di Massa Perkin Elmer Turbo Mass Clarus 560 con una energia di ionizzazione di 70eV a 250°C ed una corrente di 90μA. Gli spettri infrarosso (IR) sono stati registrati usando uno spettrofotometro Perkin Elmer Spectrum RX I FT-IR System. Sono stati eseguiti sia in soluzioni di diclorometano (CH2Cl2) sia in dischi di KBr. Tutti i prodotti chimici commerciali sono stati acquistati da Aldrich, Fluka, Merk, Lancaster e Carlo Erba e sono stati utilizzati senza ulteriore purificazione. 57 Sintesi del Metile 3-isotiocianato-[1]-benzotiofene-2-carbossilato (2) Una soluzione contenente (3.0 g, 14.4 mmol) di metile 3- aminobenzo[b]tiofene-2-carbossilato 1 in CH2Cl2 (40 mL) è stata aggiunta goccia a goccia a temperatura ambiente ad una soluzione di di-2-piridil tionocarbonato (DPT) (3.3 g, 14.4 mmol) in CH2Cl2 (40 mL). La miscela di reazione è stata lasciata sotto agitazione a temperatura ambiente per 24 h. Trascorso questo tempo il solvente è stato eliminato a pressione ridotta ed il residuo ottenuto è stato solubilizzato in CH3COCH3; l’aggiunta di acqua distillata ha dato origine alla formazione di un precipitato, il quale è stato raccolto, lavato con H2O dist., asciugato sotto pressione e trattato secondo Kienzle[23] per dare il composto 2 sotto forma di cristalli gialli. Metile 3-isotiocianato-[1]-benzotiofene-2-carbossilato resa: 90%; cristalli gialli; pf: 120 °C; IR (KBr): ν = 2140, 2090, 1710 cm−1; 1 H NMR (500 MHz, DMSO): δ = 3.99 (s, 3H, CH3), 7.40 – 8.15 (m, 4H, Ar- H); 13 CNMR (125 MHz, DMSO): δ = 14.29, 59.78, 100.24, 128.37, 129.88, 134.78, 163.30, 164.28 ppm; HRMS m/z per C11H7NO2S2 [M]+: 248.9. 58 Sintesi del Metile 3-({[2(metilsulfonil)idrazino]carbotionil}ammino)1benzotiofene-2-carbossilato (3b) 1.1 g (4.1 mmol) di Metile 3-isotiocianato-[1]-benzotiofene-2-carbossilato 2 sono stati aggiunti goccia a goccia ad una soluzione in CH2Cl2 (20 mL) di NH2NHSO2CH3 (0.48 g, 98%, 4.9 mmol). La miscela di reazione è stata lasciata sotto agitazione a temperatura ambiente. Dopo 2 h. il precipitato ottenuto è stato raccolto, lavato in CH2Cl2 e cristallizzato in EtOH per dare il composto 3b sotto forma di cristalli bianchi. Metile 3-({[2(metilsulfonil)idrazino]carbotionil}ammino)1-benzotiofene-2carbossilato resa: 77%; cristalli bianchi; pf: 223 °C dec.; IR (KBr): ν = 3294, 3243, 1657, 1324, e 1146 cm−1; 1H NMR (500 MHz, DMSO): δ = 1.26 (t, J = 7.0Hz, 3H, CH3), 3.08 (s, 3H, CH3), 7.40 – 8.15 (m, 4H, Ar-H), 9.95, 10.67, 12.55 (s, 1H, NH); 13C NMR (125 MHz, DMSO): δ = 14.02, 40.92, 60.77, 125.35, 134.67, 140.34, 150.29, 163.34, 177.99 ppm; HRMS m/z per C12H13N3O4S3 [M]+: 359.0. 59 Sintesi del 3-Ammino-4-osso-3,4-diidrobenzo[4,5]tieno[3,2-d]pirimidinico-2tiolato di sodio (4) Una soluzione in CH2Cl2 (30 ml) contenente 2.5 g (10.0 mmol) di metile 3isotiocianato-[1]-benzotiofene-2-carbossilato 2 (2.5 g, 10.0 mmol) è stata aggiunta goccia a goccia a temperatura ambiente ad una soluzione di NH2NH2 (0.5 mL, 10.0 mmol) in CH2Cl2 (50 mL). La miscela di reazione è stata lasciata sotto agitazione per 2 h. Il precipitato ottenuto (miscela di più derivati tra cui il composto 3a non separabile cromatograficamente) è stato filtrato, raccolto, lavato con CH2Cl2 e lasciato asciugare fino ad ottenere una polvere bianca (2.3 g). Quest’ultima successivamente è stata riscaldata per 1 h a ricadere in una soluzione 0.1 M di NaOH (0.53 g, 9.5 mmol) in EtOH (190 mL). Il precipitato ottenuto è stato raccolto, lavato a caldo con diossano e lasciato asciugare per dare il composto 4 sotto forma di polvere bianca. 3-Ammino-4-osso-3,4-diidrobenzo[4,5]tieno[3,2-d]pirimidinico-2-tiolato di sodio resa: 67%; polvere bianca; pf: > 310 °C dec.; IR (KBr): ν = 3230, 3135, 1640 cm−1; 1H NMR (500 MHz, DMSO): δ = 6.33 (s, 2H, NH2), 7.40 – 8.15 (m, 4H, Ar-H); 13 C NMR (125 MHz, DMSO): δ = 115.32, 129.45, 130.90, 154.87, 161.85, 168.80 ppm. 60 Sintesi del 3-Ammino-2-tiosso-[1]benzotieno[3,2-d]pirimidino-4(1H)-one (4a) Il composto 4 (3-ammino-4-osso-3,4-diidrobenzo[4,5]tieno[3,2- d]pirimidinico-2-tiolate di sodio) (1.98 g, 7.0 mmol) è stato solubilizzato in 200 mL di H2O dist., la soluzione ottenuta è stata acidificata con HCl conc. fino a raggiungere un pH ~ 3 – 4; si ottiene un precipitato che è stato raccolto, lavato con H2O dist., essiccato e cristallizzato con diossano per dare il derivato ammino-tiosso 4a sotto forma di polvere bianca. 3-Ammino-2-tiosso-[1]benzotieno[3,2-d]pirimidino-4(1H)-one resa: 60%; polvere bianca; pf: > 280 °C; IR (KBr): ν = 3230, 3135, 1640 cm−1; 1 H NMR (500 MHz, DMSO): δ = 6.33 (s, 2H, NH2), 7.40 – 8.15 (m, 4H, Ar- H); 13C NMR (125 MHz, DMSO): δ = 115.32, 129.45, 130.90, 154.87, 161.85, 168.80 ppm. 61 Sintesi del N-(4-osso-2-tiosso-1,4-diidro[1]benzotieno[3,2-d]pirimidin3(2H)il-metanosulfonammide (4b) Una soluzione di mesil-tiosemicarbazide (1.0 g, 2.65 mmol) e NaOH (0.24 g, 6.0 mmol) in H2O dist. (40 mL) è stata lasciata a ricadere per 3 h. Trascorso questo tempo la soluzione contenente sale sodico è stata filtrata, raffreddata e acidificata con HCl conc. fino a pH 3 – 4; il precipitato ottenuto è stato raccolto, lavato con H2O, cristallizzato in HCON(CH3)2/H2O per dare il composto 4b sotto forma di cristalli bianchi. N-(4-osso-2-tiosso-1,4-diidro[1]benzotieno[3,2-d]pirimidin-3(2H)ilmetanosulfonammide resa: 80%; cristalli bianchi; pf: 270 °C dec.; IR (KBr): ν = 3214, 1708, 1345, 1158cm−1; 1H NMR (500 MHz, DMSO): δ = 3.26 (s, 3H, CH3), 7.56 – 8.87 (m, 4H, Ar-H), 11 (s, 1H, NH); 13 C NMR(125 MHz, DMSO): δ = 44.51, 115.28, 129.38, 131.10, 149.00, 155.50, 174.53 ppm; HRMS m/z per C11H9N3O3S3 [M]+: 326.8. 62 Sintesi dei derivati benzotienopirimidinici (5-12, 14, 15). Procedura generale: Ad una soluzione contenente la benzo-tiosso-metansulfonammide 4b (1 eq.) e 2 eq. di KOH in una miscela 1:1 di EtOH/H2O (in un volume tale da avere una soluzione circa 8.5 M), sono stati aggiunti gli appropriati ioduri arilici o eterociclici (1 eq.), Cu in polvere (0.5 eq.) e CuI (0.3 eq.). La sospensione ottenuta è stata riscaldata a 80 °C a ricadere per 5 h e successivamente filtrata a caldo. Dopo aver raffreddato a temperatura ambiente la soluzione risultante, è stata acidificata con HCl conc. fino ad un pH 3 – 4; l’aggiunta dell’acido ha portato alla formazione di un precipitato, che è stato raccolto, lavato con H2O distillata, asciugato e cristallizzato con EtOH/H2O per dare i derivati (5-12, 14, 15) sotto forma di solidi cristallini. Nel caso della sintesi del derivato 13, dal momento che la procedura precedentemente descritta ha prodotto il composto 13 con bassa resa, è stata utilizzata una metodica alternativa, facendo reagire 0.180 g (0.55 mmol) del composto 4b, 0.115 g (0.55 mmol) di iodocicloesile e 0.076 g (0.55mmol) di K2CO3 in 2 mL di HCON(CH3)2. La sospensione è stata riscaldata a 80 °C a ricadere per 12 h. Dopo aver raffreddato a temperatura ambiente la miscela di reazione, è stata acidificata con HCl conc.. Il precipitato ottenuto è stato filtrato, raccolto e lavato con H2O distillata, essiccato e cristallizzato con etere di petrolio per dare il composto 13 sotto forma di cristalli bianchi. 63 N-[2-[(4-nitrofenil)tio]-4-osso[1]benzotieno[3,2-d]pirimidin-3(4H) il] metansulfonammide (5) resa: 90%; cristalli gialli; pf: 255 °C; IR (KBr): ν = 3310, 1690, 1340, 1150 cm−1; 1H NMR (500 MHz, DMSO): δ = 3.41(s, 3H, CH3), 7.50 – 8.59 (m, 8H, Ar-H), 11.63 (s, 1H, NH); 13 C NMR (125 MHz, DMSO): δ = 43.83, 119.66, 120.64, 127.34, 130.91, 131.14, 133.96, 138.36, 148.07, 150.80, 155.68, 157.015, 159.53 ppm; HRMS m/z per C17H12N4O5S3 [M]+: 448.9. 64 N-[2-[(2-nitrofenil)tio]-4-osso[1]benzotieno[3,2-d]pirimidin-3(4H) il] metansulfonammide (6) resa: 90%; cristalli gialli; pf: 235 °C; IR (KBr): ν = 3310, 1690, 1340, 1150 cm−1; 1H NMR (500 MHz, DMSO): δ = 3.41 (s, 3H, CH3), 7.50 – 8.59 (m, 8H, Ar-H), 11.63 (s, 1H, NH); 13 C NMR (125 MHz, DMSO): δ = 43.83, 119.66, 120.64, 127.34, 130.91, 131.14, 133.96, 138.36, 148.07, 150.80, 155.68, 157.015, 159.53 ppm; HRMS m/z per C17H12N4O5S3 [M]+: 448.9. 65 N-[2-[(1,3-dimetil-2,4-diosso-1,2,3,4-tetraidropirimidin-5-il)tio]-4osso[1]benzotieno[3,2-d]pirimidin-3(4H)il]metansulfonammide (7) resa: 90%; cristalli marroni; pf: 275 °C; IR (KBr): ν = 3059, 1690, 1640, 1600, 1351, 1154 cm−1; 1H NMR (500 MHz, DMSO): δ = 3.25 (s, 3H, CH3), 3.39 (s, 3H, CH3), 3.43 (s, 3H, CH3), 7.56–8.42 (m, 5H, Ar-H), 11.58 (s, 1H, NH); 13C NMR (125 MHz, DMSO): δ = 42.30, 119.15, 125.17, 125.99, 130.83, 131.14, 133.96, 138.67, 148.34, 154.10, 156.64, 156.83, 157.42, 159.33 ppm; HRMS m/z calcolato per C17H15N5O5S3 [M]+: 465.1. 66 N-[2-{[4-nitro-2-(trifluorometil)fenil]tio}-4-osso[1]benzotieno[3,2d]pirimidin-3(4H)il]metansulfonammide (8) resa: 80%; cristalli arancioni; pf: 125°C; IR (KBr): ν = 3227, 1700, 1350, 1150cm−1; 1H NMR (500 MHz, DMSO): δ = 3.41 (s, 3H, CH3), 7.52 – 8.46 (m, 7H, Ar-H), 11.69 (s, 1H, NH); 13 C NMR (125 MHz, DMSO): δ = 44.12, 115.12, 125.16, 128.33, 130.01, 132.01, 133.44, 135.01, 135.66, 140.01, 158.22, 163.27, 168.01, 169.79 ppm; HRMS m/z per C18H11F3N4O5S3 [M]+: 516.5. 67 Acido 4-({3-[(metilsulfonil)ammino]-4-osso-3,4-diidro[1]benzotieno[3,2d]pirimidin-2-il}tio)benzoico (9) resa: 95%; cristalli bianchi; pf: 238 °C; IR (KBr): ν = 3494, 1695, 1350, 1156 cm−1; 1H NMR (500 MHz, DMSO): δ = 3.28 (s, 3H, CH3), 7.21 – 8.05 (m, 8H, Ar-H), 11.37 (s, 1H, NH), 13.01 (s, 1H, COOH); 13 C NMR (125 MHz, DMSO): δ = 44.12, 115.12, 125.16, 128.33, 130.01, 132.01, 133.44, 135.01, 135.66, 140.01, 158.22, 163.27, 168.01, 169.79 ppm; HRMS m/z per C18H13N3O5S3 [M]+: 447.9. 68 N-[2-[(1,5-dimetil-3-osso-2-fenil-2,3-diidro-1H pirazol-4-il)tio]-4osso[1]benzotieno[3,2-d]pirimidin-3(4H)il]metansulfonammide (10) resa: 95%; cristalli verdi; pf: 190 °C; IR (KBr): ν = 3224, 3038, 1694, 1650, 1344, 1155 cm−1; 1H NMR (500 MHz, DMSO): δ = 2.36 (s, 3H, CH3), 3.38 (s, 3H, CH3), 3.81 (s, 3H, CH3), 7.39–8.14 (m, 9H, Ar-H), 11.51 (s, 1H, NH); 13C NMR (125 MHz, DMSO): δ = 42.30, 99.83, 119.15, 121.72, 124.08, 125.17, 125.99, 128.29, 130.01, 132.83, 134.21, 135.01, 138.67, 143.05, 154.61, 156.80, 157.10, 167.37 ppm; HRMS m/z per C22H19N5O4S3[M]+: 513.1. 69 Acido 4-({3-[(metilsulfonil)ammino]-4-osso-3,4 diidro[1]benzotieno[3,2d]pirimidin-2-il}tio)-3-nitrobenzoico (11) resa: 80%; cristalli gialli; pf: 215 °C; IR (KBr): ν = 3225, 1695, 1345, 1155 cm−1; 1H NMR (500 MHz, DMSO): δ = 3.42 (s, 3H, CH3), 7.53–8.62 (m, 7H, Ar-H), 11.69 (s, 1H, NH); 13 C NMR (125 MHz, DMSO): δ = 44.12, 115.12, 125.16, 128.33, 130.01, 132.01, 133.44, 135.01, 135.66, 140.01, 158.22, 163.27, 168.01, 169.79 ppm; HRMS m/z per C18H12N4O7S3 [M]+: 492.5. 70 N-[2-[(2,4-nitrofenil)tio]-4-osso[1]benzotieno[3,2-d]pirimidin3(4H)il]metansulfonammide (12) resa: 79%; cristalli gialli; pf: 126 °C; IR (KBr): ν=3220,1700, 1343, 1156 cm−1; 1H NMR (500 MHz, DMSO): δ=3.39 (s, 3H, CH3), 7.26 – 7.80 (m, 7H, Ar-H), 11.43 (s, 1H, NH). 13 C NMR (125 MHz, DMSO): δ = 43.83, 119.66, 120.64, 127.34, 130.91, 131.14, 133.96, 138.36, 148.07,150.80, 155.68, 157.015, 159.53 ppm; HRMS m/z per C17H11N5O7S3 [M]+: 449.6. 71 Sintesi del N-[2-(cicloesil tio)-4-osso[1]benzotieno[3,2-d]pirimidin3(4H)il]metansulfonammide (13) resa: 86%; cristalli bianchi; pf: 108 °C; IR (KBr): ν = 3195, 1695, 1350, 1150 cm−1; 1H NMR (500 MHz, DMSO): δ = 1.45 - 2.05 (m, 10H, cycloexyl), 3.29 (s, 3H, CH3), 3.72 (s, 1H, CH), 7.38 - 8.10 (m, 4H, Ar-H), 11.14 (s br, 1H, NH); 13 C NMR (125 MHz, DMSO): δ = 43.83, 119.66, 120.64, 127.34, 130.91, 131.14, 133.96, 138.36, 148.07, 150.80, 155.68, 157.015,159.53 ppm; HRMS m/z per C17H19N3O3S3 [M]+: 409.09. 72 N-[2-[(2,4-difluorofenil)tio]-4-osso[1]benzotieno[3,2d]pirimidin(4H)il]metansulfonammide (14) resa: 85%; cristalli argentati; pf: 236 °C; IR (KBr): ν = 3200, 3095, 1695, 1350, 1155 cm−1; 1H NMR (500 MHz, DMSO): δ = 3,37 (s, 3H, CH3), 7.2 – 8.10 (m, 7H, Ar-H ), 11.46 (s, 1H, NH); 13 C NMR (125 MHz, DMSO): δ = 43.97, 105.12, 112.68, 130.88, 132.70, 138.77, 139.21, 160.22, 161.50, 165.51, 166.50,184.99, 188.44. HRMS m/z per C17H11F2N3O3S3 [M]+: 438.6. 73 Acido 2-({3-[(metilsulfonil)ammino]-4-osso-3,4-diidro[1]benzotieno[3,2d]pirimidin-2-il}tio)benzoico (15) resa: 85%; cristalli bianchi; pf: 238 °C. IR (KBr): ν = 3494, 1695, 1350, 1156cm−1; 1H NMR (500 MHz, DMSO): δ = 3,28 (s, 3H, CH3), 7.21 – 8.05 (m, 8H, Ar-H), 11.37 (s, 1H, NH), 13.01 (s, 1H, COOH); 13 C NMR (125 MHz, DMSO): δ = 44.12, 115.12, 125.16, 128.33, 130.01, 132.01, 133.44, 135.01, 135.66, 140.01, 158.22, 163.27, 168.01, 169,79 ppm; HRMS m/z per C18H13N3O5S3 [M]+: 447.9. 74 Spettro 1H NMR del derivato 5 75 Spettro 13C NMR del derivato 5 76 Spettro 1H NMR del derivato 6 77 Spettro 13C NMR del derivato 6 78 Spettro 1H NMR del derivato 7 79 Spettro 13C NMR del derivato 7 80 Spettro 1H NMR del derivato 8 81 Spettro 13C NMR del derivato 8 82 Spettro 1H NMR del derivato 9 83 Spettro 13C NMR del derivato 9 84 Spettro 1H NMR del derivato 10 85 Spettro 13C NMR del derivato 10 86 Spettro 1H NMR del derivato 11 87 Spettro 13C NMR del derivato 11 88 Spettro 1H NMR del derivato 12 89 Spettro 13C NMR del derivato 12 90 Spettro 1H NMR del derivato 13 91 Spettro 13C NMR del derivato 13 92 Spettro 1H NMR del derivato 14 93 Spettro 13C NMR del derivato 14 94 Spettro 1H NMR del derivato 15 95 Spettro 13C NMR del derivato 15 96 6 Molecular Docking Il riconoscimento molecolare è un fenomeno molto importante in biochimica, infatti, l’elevata specificità di riconoscimento all’interno dei sistemi biologici tra gli enzimi e i loro substrati, tra i recettori e i ligandi che inducono un determinato segnale o ancora tra gli antigeni ed i corrispondenti anticorpi, è ciò che rende possibile il complesso meccanismo che regola la vita degli organismi viventi. Una conoscenza dettagliata dei meccanismi di riconoscimento molecolare è di particolare interesse nella scoperta di nuovi farmaci, poiché la maggior parte di essi interagisce con proteine target come enzimi o recettori. Per riuscire a capire nel dettaglio quali siano le basi energetiche dell’interazione tra una proteina ed un certo ligando, che potrebbe rappresentare un potenziale farmaco, occorre prima di tutto conoscere la struttura tridimensionale del complesso proteina-ligando che viene in generale ricavata attraverso cristallografia a raggi-X o NMR. Di notevole interesse sono anche gli approcci computazionali che sono stati sviluppati negli ultimi anni e che si pongono come possibile alternativa ai metodi sperimentali sopra citati nel tentativo di predire la struttura tridimensionale di un complesso proteinaligando. Questi metodi vengono chiamati complessivamente molecular docking. Le strutture proteiche possono essere utilizzate per posizionare i ligandi all’interno del sito attivo della proteina e per studiare le interazioni intermolecolari. Il poter predire quali siano le modalità di binding di un ligando nei confronti di una proteina target può essere di grande aiuto nello stabilire delle relazioni tra attività e struttura nella fase di sviluppo di nuovi farmaci (metodologie QSAR). Quindi, i ligandi sono dei composti che mostrano una determinata attività biologica e che possono essere modificati strutturalmente per migliorarne la bioattività. Il docking applicato a questo scopo rappresenta uno strumento per il disegno di nuove e potenziali molecole con attività farmacologica. La qualità di una struttura proteica, sia che sia stata 97 ricavata sperimentalmente o che sia stata ottenuta tramite tecniche computazionali, è comunque di cruciale importanza, poiché anche piccoli cambiamenti in essa possono influenzare enormemente il risultato di un esperimento di docking. Idealmente, la risoluzione atomica di una struttura dovrebbe essere al di sotto di 2.5Ǻ. Per trovare la corretta modalità di legame di un certo ligando nel sito attivo di un recettore è inoltre necessario fare un adeguato campionamento dello spazio conformazionale disponibile per una molecola di ligando flessibile all’interno della tasca di binding della proteina stessa. 6.1 Studi di molecular docking sui derivati benzotienopirimidinici Al fine di analizzare le possibili interazioni dei derivati benzo-tieno [3, 2-d] pirimidinici con i residui amminoacidi presenti nel sito binding della COX-2, sono stati effettuati degli studi simulativi di “molecular docking”. Il motivo per cui questi derivati dovrebbero presentare una certa specificità nei confronti dell’enzima COX-2 si può attribuire alla sostituzione delle due Isoleucine (Ile523, Ile434) presenti nella COX-1 con due Valine (nella COX-2), ciò ha aumentato di circa il 25% il sito di binding rendendo accessibile la tasca idrofobica nella COX-2. Un’altra differenza chiave tra queste due cicloossigenasi è la mutazione dell’His513 nella COX-1 con un’Arg513 nella COX-2. Questa sostituzione ha generato uno specifico sito di binding per i gruppi sulfonammidici o metilsulfonici che sono presenti in quasi tutte le molecole che inibiscono in maniera selettiva l’enzima COX-2. Non è comunque possibile stabilire delle regole empiriche che valgano per tutti i farmaci esistenti anche qualora essi abbiano uno scheletro strutturale comune. Questo suggerisce il fatto che debbano verificarsi sottili cambiamenti strutturali a livello del sito di binding della COX-2 perché l’enzima possa adattare la sua struttura a quella dell’inibitore. Il sito binding dell’enzima COX-2 è un lungo e stretto canale idrofobico che si estende a partire dalla regione di legame alla membrana della proteina. All’ingresso del canale gli 98 amminoacidi Arg120, Glu524, Tyr355 ed Arg513 formano una rete di legami idrogeno che facilitano l’ingresso per il sito di binding. Llorens et al. recentemente hanno affermato che la capacità dei differenti ligandi di perturbare questa rete sia determinante per le cinetiche e per i contributi della selettività dell’inibizione.[45] Un ruolo importante sembra che venga svolto anche dalle molecole di acqua che partecipano alla dinamica di questa rete di legami idrogeno posta proprio all’ingresso del sito attivo. In base a tali considerazioni abbiamo applicato il docking proteina-ligando in modo da poter predire in maniera ottimale le posizioni, gli orientamenti e le energie di interazione dei derivati benzotienopirimidinici nel sito binding della COX-2. I risultati ottenuti hanno mostrato che i composti 7, 10, 12, 13, 14 e 15 interagiscono con i seguenti residui amminoacidici: Lys83, Pro84, Val89, Leu93, Ile112, Tyr115, Val116, Ser119, Arg120, Tyr122, Tyr355 e Ser471. In particolare il gruppo metansulfonammidico presente nelle loro strutture si colloca nella tasca idrofobica laterale andando così a formare dei forti legami idrogeno con il gruppo idrossilico della Tyr355 e con il gruppo amminico dell’Arg120. Fa eccezione il composto 10 poiché interagisce con i seguenti residui amminoacidici: Asn382, His386, Thr212. Dati di letteratura asseriscono che gli amminoacidi Asn382, His386 e Thr212 giochino un ruolo fondamentale per quel che concerne la selettività verso la COX-2, in quanto riescono a stabilizzare la conformazione delle molecole nella tasca idrofobica (Fig.17-19).[46] Inoltre i derivati 7, 10, 12, 13, 14 e 15 hanno mostrato delle forti interazioni idrofobiche di Van der Waals con differenti amminoacidi presenti nel sito binding della COX-2. A completamento di questo studio è stata determinata l’energia di binding dei derivati benzotienopirimidinici. 99 Figura 17: Sito binding della COX-2 con i derivati 7 e 10 Figura 18: Sito binding della COX-2 con i derivati 12 e 13 Figura 19: Sito binding della COX-2 con i derivati 14 e 15 100 Solamente i derivati 7, 10, 12, 13, 14 e 15, indipendentemente dalla presenza di diversi gruppi funzionali nella loro struttura, hanno mostrato dei legami favorevoli con il sito attivo della COX-2 presentando alti valori di energia di binding. In particolare il composto 10 è risultato il miglior candidato per inibire la COX-2, poichè la sua energia di binding (ΔG = 9,4 kcal/mol) risulta essere il valore più alto tra tutti i derivati (Tab.2). Energie di N° di Donatore/accettore Distanza binding legami legami idrogeno legame (ΔG) idrogeno idrogeno (kcal/mol) (H) (Å) naprossene -9.0 2 ARG-120:NH TYR-355:OH 1.863 2.165 nimesulide -7.3 2 ARG-120:NH TYR-355:OH 3.088 2.737 7 -8.1 2 ARG-120:NH TYR-112:OH 3.002 2.788 10 -9.4 3 ASN-382:NH HIS-386:NH THR-212:OH 2.867 2.945 2.692 12 -9.1 2 TYR-355:OH ARG-120:NH 2.875 2.876 13 -7.9 2 ARG-120:NH TYR-112:OH 3.149 2.806 14 -8.9 1 ARG-120:NH 2.882 15 -8.2 2 ARG-120:NH TYR-355:OH 2.970 3.120 Derivati Tabella 2: Energie di binding. I dati ottenuti dagli studi docking sono perfettamente in linea con i risultati farmacologici. 101 Materiali e Metodi 6.2 Metodi computazionali La realizzazione di un adeguato protocollo ha richiesto la valutazione, in successione, di diverse metodiche di docking. Attraverso questo approccio è stato possibile definire con precisione numerosi parametri. Il criterio principale con cui è stata stabilita l’adeguatezza di una procedura si è basata sul confronto dell’ orientamento e della posizione dei ligandi presenti nel complesso dockato rispetto a quelli analoghi per il complesso cristallografico. L’ analisi è stata realizzata mediante il calcolo della Root Mean Square Deviation (RMSD), previa sovrapposizione dei residui amminoacidici del backbone proteico. Uno studio condotto da Cole e Murray, in cui si voleva verificare la riproducibilità di alcuni complessi sui principali algoritmi di docking attualmente in uso, raccomandava di mantenere la struttura del complesso entro il valore soglia di RMSD pari a 2,00 Å; consigliando, inoltre, di ridurre ulteriormente questa soglia a 1,50 Å nel caso venissero messe a confronto le coordinate atomiche di piccoli ligandi. Il valore di RMSD della cicloossigenasi-2 murina (mCOX-2) è di 0.910 Å (gli studi docking sono stati effettuati prendendo come riferimento la struttura della COX-2 murina poiché presenta le stesse caratteristiche di quella umana). Gli studi computazionali di docking sono stati condotti applicando l’algoritmo genetico di Lamarckian (LGA), implementato in AutoDock 4.0. AutoDock è costituito da due programmi: il motore di docking (AutoDock) che esegue il docking del ligando basandosi su un set di griglie descriventi la proteina target ed AutoGrid, che pre-calcola queste griglie. Questo programma è capace di tenere in considerazione, oltre la flessibilità del ligando anche la flessibilità della componente proteica e questo consente ad AutoDock 4.0 di effettuare studi di interazione proteina-proteina. 102 7 Attività anti-infiammatoria dei derivati benzotieno[3,2-d] pirimidinici 7.1 Modelli in vitro di infiammazione I progressi nelle colture cellulari hanno fornito modelli in vitro di eccezionale versatilità e utilità al fine di valutare i diversi aspetti connessi con la biologia molecolare e cellulare, la virologia e l’immunologia. In molti casi rappresentano il materiale di partenza per l’estrazione di proteine o acidi nucleici, mentre in altri casi le cellule cresciute in vitro sono utilizzate per analizzare un determinato comportamento biologico (proliferazione, capacità di organizzare tessuti, proprietà adesive o di migrazione, risposta immunitaria, risposta infiammatoria). Le colture cellulari possono anche essere usate per eseguire test diagnostici o per rigenerare in vitro tessuti e organi. Uno dei modelli più usati per lo studio delle patologie infiammatorie, in particolare a carico della pelle, è costituito da cellule isolate dall’epidermide umana mediante biopsia. Le cellule più largamente diffuse nell’epidermide sono i cheratinociti, melanociti, cellule di Langerhans (immunocompetenti), cellule di Merkel (sensori del tatto), insieme alle cellule dendritiche, endoteliali, i linfociti, i mastociti, le terminazioni nervose peptidergiche formanti il SIS (Skin Immune System). 7.2 I cheratinociti I cheratinociti sono stratificati in un epitelio squamoso e costituiscono la maggiore popolazione di cellule epidermiche della pelle (Fig.20), ma si trovano anche a livello delle mucose, degli epiteli orali, corneale, congiuntivale e genitale. Le caratteristiche della superficie cutanea dipendono essenzialmente da una corretta proliferazione e differenziazione dei cheratinociti, che è soggetta a fine regolazione. Il risultato terminale della differenziazione dei cheratinociti è la formazione dello strato corneo in cui i 103 cheratinociti anucleati (corneociti), ricchi di componenti proteiche altamente stabilizzate, sono immersi e “cementati” in una matrice lipidica estremamente compatta. Per queste caratteristiche lo strato corneo costituisce una formidabile barriera chimico-fisica che regola le perdite di acqua e impedisce alle sostanze esogene di penetrare la cute. I cheratinociti hanno la proprietà di iniziare e regolare le risposte infiammatorie cutanee, in quanto sono in grado di produrre in maniera altamente controllata una grande varietà di molecole pro - e anti-infiammatorie in risposta ad una vasta serie di stimoli sia esogeni che endogeni. In presenza di una barriera epidermica impropria i cheratinociti sono indotti a produrre e rilasciare nel distretto epidermico, una serie di mediatori chimici che tendono a ripristinare uno strato corneo perfettamente funzionale, stimolando la proliferazione cellulare e le sintesi lipidiche. Tra queste sostanze vi sono fattori di crescita quali il “nerve growth factor”, il “trasforming growth factor-”, l’anfiregulina; citochine come l’interleuchina1 (IL-1), il “tumor necrosis factor-” (TNF-), il “granulocyte macrophage colony-stimulating factor” (GMCSF); chemochine come l’interleuchina-8 (IL8). Alcune di queste sostanze (IL-1, TNF-e GM-CSF) sono potenti iniziatori dell’infiammazione e, insieme alle chemochine, forniscono un valido richiamo per molte popolazioni di leucociti dal sangue periferico. I cheratinociti giocano un ruolo importante nell’indurre e nel perpetuare le reazioni infiammatorie della pelle attraverso il rilascio di citochine e la risposta ad esse. Una varietà di stimoli ambientali, come ad esempio promotori tumorali, UV, agenti chimici, possono indurre nei cheratinociti il rilascio di citochine infiammatorie (IL-1 e TNF-), chemiochine e citochine che promuovono la crescita (IL-6; GM-CSF, TGF-).[37-38] Di tutte le citochine prodotte dai cheratinociti solo IL-1e TNF-attivano un sufficiente numero di meccanismi effettori in grado di indurre un’infiammazione cutanea indipendente. 104 Figura 20: Linea cellulare di cheratinociti umani (NCTC 2544) 7.3 I macrofagi ( macrofagi murini j774) I macrofagi sono una popolazione cellulare che presenta una marcata eterogeneità, dovuta sia alla loro diffusa distribuzione tissutale che alla capacità di rispondere a diversi stimoli, sia endogeni che esogeni (Fig.21). Infatti l’interazione con le cellule circostanti o con molecole alterate ed agenti esogeni influisce sulla funzionalità di queste cellule. I ligandi vengono riconosciuti da diversi tipi di recettori, innescando cosi diverse risposte cellulari, tra cui fagocitosi o endocitosi, attivazione o repressione di geni. Le funzioni cellulari indotte includono i processi di adesione e migrazione cellulare, secrezione di citochine, processazione e presentazione dell’antigene e attivazione delle funzione effettrici nella risposta immunitaria. I macrofagi presentano, inoltre, la capacità di produrre diversi tipi di sostanze, quali gli enzimi idrolitici (idrolasi, proteasi, lisozima), proteine ad attività immunostimolante (interferoni, transferrina, interleuchina I), un fattore stimolante la formazione di colonie (CSF), componenti del complemento (C2, C3, C4 e C5) e prostaglandine. Nell'ambito del sistema immunitario, i macrofagi sono coinvolti in quattro attività funzionali fondamentali: interagiscono e degradano qualsiasi tipo di materiale estraneo; iniziano e potenziano l'attivazione dei linfociti; 105 svolgono la funzione di cellule effettrici; esplicano una attività regolatrice sulla risposta immunitaria. Queste funzioni non sono svolte da tutti i macrofagi contemporaneamente, né tutti i macrofagi posseggono tali funzioni. L' attività di degradazione del materiale estraneo è dovuta fondamentalmente ai recettori di superficie, all’attività fagocitaria ed agli enzimi idrolitici lisosomiali, e rappresenta la funzione posseduta, sia pure in grado variabile, da quasi tutti i macrofagi. La funzione effettrice dei macrofagi è legata all' azione delle linfochine prodotte dai linfociti T attivati. Le linfochine determinano a loro volta uno stato di attivazione dei macrofagi, i quali possono acquisire la capacità di svolgere azione citotossica sia nei confronti di cellule neoplastiche, sia di microrganismi intracellulari (killing). I macrofagi, infine, possono svolgere una attività soppressiva nei confronti dei linfociti attivati. Questa funzione regolatrice può verificarsi sia mediante un contatto diretto tra macrofagi e linfociti, sia tramite la liberazione di fattori solubili linfochino-simili (soluble immune response suppressor - SIRS) o di altre molecole pure dotate di azione soppressiva, quali l'interferone, il perossido d' idrogeno, l' anione superossido e le prostaglandine E2. Figura 21: Linea cellulare di macrofagi murini J774 106 7.4 Saggi biologici L’ attività anti-infiammatoria dei derivati benzo-tieno[3, 2-d] pirimidinici è stata effettuata determinando sia l’espressione della molecola di adesione intercellulare (ICAM-1), ossido nitrico sintasi inducibile (iNOS) e cicloossigenasi-2 (COX-2) mediante analisi Western Blot che la modulazione del rilascio della proteina chemiotattica per i monociti (MCP-1) e interleuchina 8 (IL-8) tramite test E.L.I.S.A. in due linee cellulari: i cheratinociti umani normali (NCTC 2544) e i macrofagi murini J774.[32,33] 7.4.1 MTT: saggio di vitalità cellulare Il test MTT prevede la valutazione della vitalità e della proliferazione cellulare mediante la misurazione dell’ attività dell’ enzima deidrogenasi mitocondriale. Il test MTT è una metodica semplice, accurata e fornisce risultati riproducibili. Questo metodo è stato sviluppato originariamente da Mossman. Il reagente chiave è il bromuro di 3-(4,5-dimetiltiazol-2-il)-2,5-difenil tetrazolio o MTT, sostanza che dà un colore giallo in soluzione acquosa. La deidrogenasi mitocondriale delle cellule vitali taglia l’anello tetrazolico, portando alla formazione di cristalli di formazano color viola-porpora insolubili in acqua. I cristalli vengono sciolti con una soluzione solubilizzante l’MTT. La soluzione viola risultante viene misurata spettrofotometricamente. Un aumento o diminuzione delle cellule vitali ha per risultato un cambiamento concomitante nella quantità di formazano che si forma e che può essere considerato come un indicatore del grado di citotossicità causato dall’esposizione alle sostanze irritanti. Il saggio MTT, pertanto, è stato effettuato per verificare l’eventuale tossicità dei derivati benzo-tieno[3, 2-d] pirimidinici attraverso la compromissione della vitalità delle cellule nei cheratinociti (NCTC 2544) e nei macrofagi J774. Dai grafici si evince chiaramente che le sostanze in esame, alla concentrazione 10μM, non risultano essere citotossiche quando lasciate a contatto con le cellule NCTC 2544 e J774 per 48 ore (Fig.22). 107 Figura 22: Risultati del test MTT 108 7.4.2 Valutazione dell’attività anti-infiammatoria dei derivati benzotienopirimidinici: ICAM-1, iNOS e COX-2 Allo scopo di simulare in vitro un modello infiammatorio, le cellule NCTC 2544 sono state esposte a interferone-γ (IFN-γ), citochina essenziale nell’amplificare le reazioni infiammatorie, e istamina, che potenzia l’azione pro-infiammatoria dell’IFN-γ. IFN-γ è il più potente stimolo per l’ espressione della molecola di membrana ICAM-1 che è coinvolta nella lisi dei cheratinociti da parte dei linfociti T citotossici. IFN-γ e istamina utilizzano distinte vie di trasduzione del segnale, provocando una maggior attivazione dei geni infiammatori. In particolare, l’istamina aumenta l’attività trascrizionale sia della proteina di attivazione -1 (AP-1) che del fattore nucleare kB (NF-kB), mentre l’IFN- γ usa i fattori di trascrizione STAT1 e STAT3. Il celecoxib è stato utilizzato come farmaco anti-infiammatorio di riferimento. La linea cellulare dei macrofagi murini J774, invece, è stata esposta all’endotossina batterica lipopolisaccaride (LPS), il più potente stimolo per i macrofagi. Le cellule NCTC 2544 e J774 non trattate presentano quantità non rilevabili di ICAM-1, iNOS, e COX-2 mentre l'incubazione delle colture cellulari con IFN-γ e istamina per i cheratinociti e LPS per i macrofagi per ~ 48 h ha indotto una forte espressione di ICAM-1, iNOS, e COX-2. L’aggiunta delle sostanze in esame alla concentrazione 10μM insieme ad IFNγ e istamina per le cellule NCTC2544 e LPS per le cellule J774 ha prodotto una significativa inibizione dell’espressione di ICAM-1 (Fig.23), iNOS (Fig.24) e COX-2 (Fig.25). Il composto 10 è risultato il più potente tra i derivati nell’inibizione dei tre parametri infiammatori mostrando una potenza superiore al celecoxib mentre i derivati 5, 6, 8, 9 e 11 non hanno mostrato alcuna attività anti-infiammatoria nelle cellule NCTC 2544 e J774 trattate. Dai risultati ottenuti si evince chiaramente che i composti 7, 10, 12, 13, 14 e 15, insieme ad IFN-γ e istamina per le cellule NCTC 2544 e LPS per i macrofagi J774 hanno indotto una rilevante inibizione dell’espressione di ICAM-1, iNOS e COX-2. 109 Figura 23: Effetti delle sostanze sull’espressione di ICAM-1 nei cheratinociti umani normali NCTC 2544 e nei macrofagi J744. 110 Figura 24: Effetti delle sostanze sull’espressione delle iNOS nei cheratinociti umani normali NCTC 2544 e nei macrofagi J744. 111 Figura 25: Effetti delle sostanze sull’espressione delle COX-2 nei cheratinociti umani normali NCTC 2544 e nei macrofagi J744. 112 7.4.3 Determinazione del rilascio dell’ MCP-1 e dell’ IL-8 dei derivati benzotienopirimidinici Nell’infiammazione il principale ruolo dell’IL-8 è quello di dirigere in loco il reclutamento di neutrofili e basofili e di promuovere il danno tissutale. Una sua inibizione potrebbe quindi avere un effetto protettivo sul danno prodotto dall’infiammazione. Dati di letteratura asseriscono la forte sinergia esistente tra l’IL-8 e l’ MCP-1, un’altra chemochina implicata nei processi infiammatori. L’MCP-1 ha un ruolo fondamentale nell’attrazione dei monociti, delle cellule T e delle cellule NK, inoltre è implicata nelle malattie caratterizzate da infiltrazione monocitica. La sua espressione è stata documentata in molte malattie, come l’aterosclerosi, la sclerosi multipla, l’artrite reumatoide e la nefrite. Inoltre l’up-regulation di MCP-1/CCL2 è stata osservata in associazione con risposte neuroinfiammatorie in modelli animali di ischemia cerebrale e nei tessuti del miocardio. Quindi a completamento del nostro studio abbiamo analizzato la modulazione del rilascio della proteina chemiotattica per i monociti (MCP-1) e per l’interleuchina 8 (IL-8) tramite test E.L.I.S.A. I cheratinociti normali umani NCTC 2544 e i macrofagi J774 non rilasciano costitutivamente MCP-1; nessuna quantità di MCP-1 è stata, infatti, prodotta dalle cellule non stimolate. Dai grafici ottenuti si evince che i derivati 7, 10, 12, 13, 14 e 15 hanno inibito notevolmente il rilascio di MCP-1 indotto da IFN-γ e istamina alla concentrazione di 10μM (Fig.26,27). Per quanto concerne il rilascio dell’IL-8, trascurabili quantità di IL-8 sono state prodotte dai cheratinociti NCTC 2544 e dai macrofagi J774 non stimolati. IFN-γ e istamina per le cellule cheratinocitiche e LPS per i macrofagi hanno indotto un notevole rilascio di IL-8. Pertanto, i derivati benzo-tieno [3, 2-d] pirimidinici 7, 10, 12, 13, 14 e 15 inibiscono il rilascio di MCP-1 e di IL-8, le quali svolgono un’importante ruolo nel corso dell’infiammazione. 113 Figura 26: Effetti dei composti benzo-tieno [3, 2-d] pirimidinici sul rilascio di MCP-1 114 Figura 27: Effetti dei composti benzo-tieno [3, 2-d] pirimidinici sul rilascio di IL-8 115 Materiali e Metodi 7.5 Colture cellulari La linea cellulare di cheratinociti umani NCTC 2544 è stata fornita dalla Interlab Cell Line Collection (Genova, Italia) ed è stata mantenuta in Minimun Essential Medium (MEM) (Sigma Aldrich, Italia) con l’aggiunta del 10% di siero fetale di vitello, 100 U/ml di penicillina e 100 μg/ml di streptomicina e tenuta a 37°C in un incubatore con un’ atmosfera umidificata al 95% di aria e al 5% di CO2. La linea cellulare dei macrofagi murini J774 è stata fornita dall’ American Type Culture Collection (Rockville, MD, USA). Le cellule sono state coltivate in DMEM contenente il 10% di siero fetale di vitello, 4.5 g/l di glucosio, 1mM di piruvato di sodio, 100 U/ml di penicillina, 100 μg/ml di streptomicina e 25 μg/ml di fungizone (Invitrogen, UK) sotto incubazione a 37°C in un’ atmosfera umidificata al 95% di aria e al 5% di CO2. Il terreno di coltura è stato cambiato ogni 2-3 giorni. Ventiquattro ore prima dell’esperimento, le cellule sono state tripsinizzate, contate in un emocitometro e seminate o in piastre da 96 pozzetti (per il test MTT) o in piastre di Petri da 100 mm (per Western blot). I cheratinociti sono stati stimolati, tranne le cellule di controllo, con 200U/ml di IFN-γ e istamina 10-4 M, mentre i macrofagi con LPS (1 mg/mL) in maniera tale da poter riprodurre i meccanismi coinvolti nella patogenesi dei processi infiammatori, in assenza o presenza di un unica concentrazione dei composti benzotienopirimidinici 515 (10μM) o celecoxib (10 μgM), quest’ultimo usato come farmaco antiinfiammatorio di riferimento. Dopo 48 h ogni campione è stato testato per determinare l’espressione dell’ iNOS, ICAM-1 e COX-2 e il rilascio dell’ MCP-1 e dell’ IL-8. 7.6 Western blot L’espressione di ICAM-1, iNOS e COX-2 è stata valutata mediante analisi 116 Western blot. In breve, i cheratinociti e i macrofagi trattati e non trattati sono stati lavati due volte con PBS a freddo e sono stati raccolti con un tampone di lisi contenente 10 mM di Tris-HCl, 10 mM di KCl, 2mM di MgCl2, 0,6mM di PMSF, e 1% di SDS a pH 7,4. Dopo averle lasciate raffreddare per 30 min a 0°C, le cellule sono state sonicate. Sessanta microgrammi di proteine totali, presenti nel surnatante, sono state caricate in ogni “lane” e poi separate tramite un gel di poliacrilammide, Bis-Tris 4-12% Novex per elettroforesi (NuPAGE, Invitrogen). Le proteine sono state quindi trasferite in una membrana di nitrocellulosa (Invitrogen, Italia) in ambiente umido. Il trasferimento delle proteine è stato verificato colorando le membrane di nitrocellulosa con il Ponceau S e il gel Bis-Tris Novex con il Brillant blue R. Le membrane sono state messe in blocking con un tampone salino contenente 0,1 % di Tween-20 (TBST) e 5 % di latte in polvere senza grassi a 4°C per tutta la notte. L’anticorpo monoclonale anti-ICAM-1 (1H4:sc-51632, Santa Cruz Biotecnology) (diluizione 1:200), anti-NOS2 (N-20, sc-651, Santa Cruz Biotechnology) (diluizione 1:300), anti-COX-2 (N-20, sc-1746, Santa Cruz Biotechnology) (diluizione 1:100) e anti-α-tubulina (Sigma, Milano, Italia) (diluizione 1:5000) sono stati diluiti con TBST e le membrane sono state incubate per 2 h a temperatura ambiente. Gli anticorpi sono stati rivelati con un anticorpo secondario coniugato con la perossidasi usando per la chemioluminescenza il substrato Supersignal West Pico Chemiluminescent Substrate (Pierce Chemical Co., Rockford, IL). L’ espressione della proteina è stata quantificata per mezzo dell’ analisi densitometrica delle autoradiografie. La densità delle singole bande per ogni campione è stata messa in relazione a quelle dell’α-tubulina, presa come proteina di riferimento, e i valori riportati (corrispondenti all’intensità di segnale) sono stati espressi come unità densitometriche arbitrarie. 7.7 E.L.I.S.A. L’ MCP-1 e l’ IL-8 sono state misurate nel surnatante libero da cellule 117 raccolte 48 h dopo il trattamento per mezzo di kit E.L.I.S.A. (enzyme-linked immunosorbent assay) (Amersham Biosciences, Svizzera), in grado di riconoscere in modo specifico le proteine mediante il legame antigeneanticorpo monoclonale. Il complesso è riconosciuto e legato da un anticorpo policlonale marcato con un enzima. Calcolando l’attività enzimatica, dopo aggiunta del substrato, si ha una stima direttamente proporzionale alla quantità di antigene in esame. Le colture dei cheratinociti sono state eseguite in triplicato per ogni condizione. Tutti i saggi sono stati eseguiti come specificato dai produttori dei rispettivi kits. Gli standards, i controlli e i surnatanti sono stati aggiunti ai pozzetti della micropiastra. Ogni pozzetto contiene un anticorpo monoclonale anti-MCP1 o anti-IL8 e una soluzione liofilizzata di anticorpo policlonale secondario HRP-coniugato (perossidasi di rafano). Ad ogni pozzetto sono stati aggiunti 130 l di acqua e 20 l di campione. Dopo una incubazione di 3 h a temperatura ambiente sono stati effettuati 3 lavaggi con il wash buffer fornito dal kit per eliminare l’anticorpo HRP-coniugato che non si è legato, quindi è stata aggiunta la soluzione substrato TMB (tetramethyl-benzidina) per 15 minuti al buio. La reazione enzimatica è stata bloccata con la Stop solution (acido fosforico 1M). La lettura dell’assorbanza a 450 nm è stata effettuata mediante uno spettrofotometro (microlettore di piastre). Per ogni saggio è stata utilizzata una curva standard usando concentrazioni note di MCP-1 e di IL-8. La sensibilità del kit E.L.I.S.A. per MCP-1 era 3,5 pg/ml e per IL-8 era <5 pg/ml. I risultati sono stati espressi come pg/ml ±SEM. 7.8 Saggio di vitalità cellulare: MTT La vitalità cellulare è stata misurata attraverso il saggio colorimetrico ai sali di tetrazolio, che valuta la capacità delle cellule di ridurre, per mezzo della succinato deidrogenasi mitocondriale, il bromuro di 3-(4,5-dimetiltiazol-2-il)2,5-difenil tetrazolio (MTT). L’MTT entra nelle cellule e passa nei mitocondri dove viene ridotto in un prodotto colorato ed insolubile, il formazano. Per 118 rendere visibile il colore si solubilizzano i granuli colorati di formazano tramite l’aggiunta di DMSO. La reazione MTT-cleavage richiede la completa integrità della cellula ed è proporzionale al grado di attività metabolica della stessa. Dopo incubazione delle cellule per 24 h, in 5% CO2 a 37°C, con 20 μl della soluzione del sale di tetrazolio, solubilizzato in medium (5 mg/ml), e 180 μl di medium, si rimuove il sovranatante e si aggiungono 100 μl di DMSO. Per ogni campione si allestiscono prove in triplicato e su ognuna viene misurata la densità ottica a λ=550 nm con uno spettrofotometro per micropiastre (Titertek Multiscan, Flow Laboratories). La vitalità cellulare viene espressa in % Abs rispetto a quella del controllo non trattato. 7.9 Analisi statistica L’analisi statistica è stata eseguita mediante il software SYSTAT, versione 11 (Systat Inc., Evanston IL, USA). Ogni risultato è stato riportato negli istogrammi rappresentanti le medie ± l’errore standard di tre esperimenti eseguiti in triplicato. La significatività statistica è stata valutata mediante il test di Student. 119 8 Spettroscopia di fluorescenza 8.1 La fluorescenza In natura gli elettroni delle molecole si trovano principalmente nel più basso livello vibrazionale dello stato elettronico fondamentale, S0. In queste condizioni una molecola è in grado di assorbire radiazioni elettromagnetiche nell’ultravioletto o, meno frequentemente, nella regione del visibile e passare ad uno stato eccitato. Quando una molecola assorbe un fotone di appropriata lunghezza d’onda uno dei suoi elettroni dello stato fondamentale viene promosso in un orbitale a più alto contenuto energetico (Fig.28). Figura 28: Assorbimento ed emissione di una radiazione elettromagnetica. Una molecola eccitata a livelli superiori al primo ritorna al livello più basso dello stato eccitato, S1, cedendo la sua energia attraverso un processo definito di rilassamento vibrazionale.[9] L’energia vibrazionale, persa durante il rilassamento, viene trasferita ad altre molecole (per esempio il solvente), attraverso collisioni. L’effetto è quello di convertire parte dell’energia del fotone assorbito in calore distribuito in tutto il mezzo. A partire dallo stato 120 eccitato S1 la molecola può perdere l’eccesso di energia e tornare allo stato fondamentale S0 emettendo un fotone e determinando la fluorescenza (Fig.29). Figura 29: Componenti vibrazionali della fluorescenza. La fluorescenza è un fenomeno che si sviluppa in tempi brevissimi (10-9,10-8 secondi), dando luogo ad una luce intensa e di breve durata. La fosforescenza, altro fenomeno che comporta l'emissione di luce, invece si sviluppa in tempi molto più lunghi, nell'ordine dei millisecondi, e dà origine ad una luce più debole ma di lunga durata. I materiali fluorescenti cessano di essere luminosi al cessare dello stimolo che ne determina la luminosità, invece nei materiali fosforescenti la luce continua ad essere emessa per un certo periodo dopo la fine dello stimolo. Nella fluorescenza la radiazione è generata in virtù di transizioni tra stati con la stessa molteplicità di spin, singoletto-singoletto (per esempio S1→S0), mentre nella fosforescenza la transizione coinvolta comporta variazione della molteplicità di spin: il caso più frequente sono transizioni tripletto-singoletto (T1→S0). La maggior parte delle molecole in condizioni normali ritorna allo stato fondamentale attraverso processi che non comportano emissione di radiazione e che hanno soltanto l’effetto di convertire l’energia in calore. 121 Questi processi sono: Conversione interna As*→ A + calore Intersistem crossing As*→ At Trasferimento di energia La conversione interna consiste nel ritorno allo stato fondamentale accompagnato da emissione di calore. In genere si tratta di un processo poco efficiente che rende conto solo di una piccola parte dell’energia restituita dalla molecola eccitata all’ambiente. L’intersystem crossing consiste nel passaggio delle molecole eccitate da uno stato di singoletto ad uno di tripletto; ciò implica ovviamente un cambiamento di molteplicità e quindi si tratta di una transizione fondamentalmente proibita. Tuttavia, spesso, gli stati di tripletti (e quelli di singoletti) nelle molecole non sono puri cioè possono avere una certa percentuale dell’altro stato a causa dell’accoppiamento spin-orbital. Tale accoppiamento è dato dall’influenza esercitata dal momento magnetico dovuto all’orbitazione dell’elettrone intorno al nucleo e sul momento magnetico dovuto all’ orbita di rotazione dell’elettrone sul proprio asse. In seguito all’inversione di spin, le molecole, che in questo modo occupano lo stato di tripletto, possono emettere una radiazione luminosa che non sarà più di fluorescenza ma di fosforescenza.[9] A questo proposito è opportuno ricordare che la presenza in vicinanza dell’elettrone coinvolto nel processo, di un nucleo di metallo pesante produce un aumento dell’accoppiamento spin-orbital, con aumento, quindi, dello scambio intersistemico (effetto da metallo pesante). Il trasferimento di energia può essere di due tipi: collisionale e non collisionale. Nel primo caso il processo è bimolecolare, coinvolge un inibitore e dipende dalla sua concentrazione. Il processo può essere descritto così: A*+ I → A + I La molecola eccitata ritorna così allo stato fondamentale senza emissione di radiazione. 122 Il processo non collisionale avviene invece tra un donatore D e un accettore A secondo questo schema: D + hv → D* D* + A → D + A* A* → A + hv I tre processi appena descritti possono competere con la fluorescenza ma, affinché ciò possa accadere, devono possedere costanti cinetiche maggiori e quindi avvenire in un tempo minore. Si osserverà quindi il fenomeno della fluorescenza quando questo processo è più rapido degli altri. Sarà, infatti, il rapporto tra la fluorescenza e tutti questi altri processi a determinare la resa quantica, ed, in definitiva, il fatto che una molecola sia, o meno, fluorescente.[9] 8.2 Diagrammi di Jablonski I diagrammi di Jablonski sono usati per illustrare i processi di luminescenza. Tipicamente riportano una struttura energetica principale dovuta ai livelli elettronici più una struttura energetica secondaria dovuta ai livelli vibrazionali del fluoroforo. Il diagramma di Jablonski riassume le trasformazioni energetiche che si verificano per assorbimento di una radiazione di sufficiente energia in una molecola (Fig.30). Lo stato fondamentale viene indicato come S0 mentre quelli a energia superiore come S1, S2, … Sn rispettivamente. Le transizioni tra gli stati sono rappresentate da linee verticali e corrispondono all’assorbimento o all’emissione di luce. In un fluoroforo l’assorbimento di energia luminosa porta alla promozione di un elettrone a uno dei livelli vibrazionali eccitati (S1 o S2). 123 Figura 30: Diagrammi di Jablonski Le molecole a questo punto rilassano rapidamente e raggiungono il più basso livello vibrazionale dello stato S1. Questo processo, che si realizza in un tempo relativamente breve (10-12 s), viene denominato internal conversion (IC) e si completa prima dell’emissione di fluorescenza che ha dei tempi di vita nell’ordine di 10-8 s. Il ritorno avviene raggiungendo uno stato vibrazionale eccitato dello stato elettronico fondamentale, che evolve rapidamente verso l’equilibrio. Le molecole nello stato S1 possono inoltre passare allo stato di tripletto (T1) subendo un’inversione dello spin. L’emissione dallo stato T1 è chiamata fosforescenza ed è generalmente spostata verso lunghezze d’onda maggiori (energie minori) rispetto alla fluorescenza. La conversione da S1 a T1 è detta intersystem crossing, conversione intersistema (ISC). La transizione da T1 allo stato fondamentale di singoletto è proibita e, come conseguenza, la velocità risultante per il tripletto è di molti ordini di grandezza minore rispetto al singoletto. L’esame del diagramma di Jabłoński mostra che l’energia dell’emissione è minore di quella assorbita, pertanto la fluorescenza avviene a energie minori (shift batocromico), corrispondenti a lunghezze d’onda maggiori. Questo fenomeno è stato osservato per la prima volta da Sir G.G. Stokes nel 1852 presso l’università di Cambridge. La causa comune del 124 fenomeno, denominato Stokes’s shift (Fig.31), è il rapido decadimento allo stato vibrazionale più basso compreso nello stato elettronico S1. Oltre a quanto descritto si possono verificare Stokes’s shifts dovuti al solvente, agli urti tra le molecole e alla temperatura. Figura 31: Spettro di eccitazione e di emissione di un fluoroforo con relativo Stoke’s shitf. Un’altra generale caratteristica della fluorescenza è la seguente: lo spettro di emissione osservato è generalmente indipendente dalla lunghezza d’onda di eccitazione. Questo fenomeno è conosciuto come regola di Kasha. L’eccitazione porta alla promozione di un elettrone nello stato eccitato S1 in un livello vibrazionale che non è quello a più bassa energia. Questo eccesso di energia viene rapidamente dissipato per internal conversion lasciando il fluoroforo nello stato eccitato, ma più basso dal punto di vista vibrazionale (Fig.32). Poiché il rilassamento allo stato più basso vibrazionale avviene in tempi molto brevi (10-12 s) e la differenza di energia tra lo stato eccitato e quello fondamentale è costante, l’emissione di fluorescenza non dipende dalla lunghezza d’onda di eccitazione. 125 Figura 32: Zoom del diagramma di Jabłoński Altra conseguenza di questo fenomeno è la generale simmetria degli spettri di fluorescenza. Dal momento che i livelli vibrazionali dello stato fondamentale e del primo eccitato sono simili e dal fatto che il salto energetico è il medesimo, lo spettro di assorbimento e di emissione risulteranno pressoché identici. Nonostante la specularità degli spettri di fluorescenza sia mantenuta nella maggior parte dei casi, esistono delle eccezioni dovute al fatto che in alcune molecole gli stati eccitati portano a un riarrangiamento dei nuclei con conseguente variazione dei livelli energetici vibrazionali dello stato S1. 8.3 Variabili che influenzano la fluorescenza Diversi sono i fattori che influenzano la fluorescenza: 1. Resa quantica: intesa come il rapporto tra il numero di fotoni emessi in un secondo e il numero di fotoni assorbiti in un secondo. 126 2. Solvente: in funzione della sua polarità si può avere uno spostamento dei massimi di emissione. Il solvente può interagire sia con lo stato fondamentale ma ancor più con lo stato eccitato. Nei composti aromatici un solvente polare stabilizza lo stato eccitato essendo quest’ultimo generalmente più polare dello stato fondamentale, ciò comporta uno spostamento batocromico, cioè a lunghezze d’onda superiori, nel relativo spettro di emissione. Un solvente apolare garantisce l'emissione di un quanto di energia in più rispetto ad un solvente polare. Solventi come il CBr4 o EtI riducono la fluorescenza di un determinato soluto per la presenza di atomi pesanti. Un effetto analogo si riscontra in presenza di O2 in soluzione. 3. pH: può influenzare l’assetto elettronico della molecola, soprattutto se possiede idrogeni a carattere acido. Sia la lunghezza d’onda che l’intensità dell’emissione sono diverse per la forma dissociata e indissociata e questo dipende dalla possibilità di un numero diverso di forme di risonanza associate con le forme acide o basiche delle molecole. Molti fenoli sono fluorescenti a pH neutro o acido e non lo sono a pH alcalini. 4. Temperatura: incide sulla viscosità della matrice e quindi può favorire o meno le collisioni con le particelle del solvente e degli altri soluti presenti in soluzione che circondano la molecola; ciò comporta la riduzione del fenomeno della fluorescenza perché aumenta la possibilità di trasferimento dell’energia per conversione interna. E' importante sapere che l'aumento della temperatura di 1°C porta alla diminuzione dell'1% della fluorescenza per questo in genere si opera a temperatura ambiente proteggendo il campione dal calore generato dalle lampade con un buon sistema di termostatazione. 127 5. Matrici: possono contenere sostanze che assorbono parte della radiazione eccitante o emessa. 6. Smorzamento o quenching: è il fenomeno per cui una quota di energia che potrebbe essere emessa come fluorescenza, viene invece trasferita ad un'altra molecola determinando un’ attenuazione del segnale. A volte il quenching è il risultato di trasferimento di energia ad altre molecole accettori che risiedono vicino al fluorocromo eccitato; questo particolare fenomeno prende il nome di trasferimento di energia per risonanza (FRET) e consiste nell’interazione fra gli stati eccitati di due molecole di fluorocromo, in cui lʹeccitazione di una molecola donatore è trasferita ad una molecola accettore, senza emissione di fotoni. Questo fenomeno dipende dalla distanza intermolecolare (R), diventando molto evidente a distanze fra donatore e accettore dellʹordine di 40 ‐ 100 Å. 7. Photobleaching è la scomparsa irreversibile della fluorescenza a causa di un’eccessiva intensità della luce stimolante che degrada il fluorocromo. Questo fenomeno viene sfruttato in una tecnica nota come il recupero di fluorescenza dopo photobleaching (FRAP) per indagare sulla diffusione e sul movimento delle macromolecole biologiche. Il metodo si basa sul photobleaching di una regione ben definita del campione esposta ad un’intensa luce laser. Successivamente vengono analizzati i tassi e le modalità di recupero della fluorescenza nell’area interessata. Una tecnica correlata, nota come la perdita di fluorescenza in photobleaching (FLIP), è impiegata per monitorare la diminuzione della fluorescenza in una regione adiacente a quella dove si è verificato il photobleaching. Simile al FRAP, quest'ultima tecnica è utile per lo studio della mobilità molecolare e delle dinamiche delle cellule viventi. 8. Concentrazione: quando la soluzione in esame è molto concentrata si sviluppa quello che viene chiamato "effetto filtro", per cui la radiazione viene assorbita interamente dalle molecole di superficie e non è in grado di raggiungere la profondità adatta all'emissione del fotone a 90°. Si osserva 128 sperimentalmente che una soluzione molto concentrata, che dovrebbe avere il massimo di fluorescenza, rivela allo spettrofluorimetro assenza completa di essa. I fotoni in realtà vengono emessi, ma in quantità minore a quelli aspettati e con una angolazione diversa per cui non raggiungono il rivelatore. Man mano che la soluzione viene diluita si osserva, prima un aumento della fluorescenza proporzionalmente alla diminuzione dell'effetto filtro, e, conseguentemente, una diminuzione di questa giustificata dall'aumento della diluizione. L’emissione fluorescente aumenta con la concentrazione in modo lineare solo per valori bassi di quest’ultima. 9. Rigidità interna: la rigidità strutturale determina un aumento della fluorescenza; nelle molecole flessibili c’è una maggiore probabilità che avvenga un processo di conversione interna con conseguente disattivazione non radiante. Per aumentare la rigidità strutturale di una molecola flessibile si può farla adsorbire su una superficie solida oppure formare chelati a struttura rigida. 10. Struttura della molecola: i composti che presentano sistemi di doppi legami coniugati, si prestano molto bene alla fluorescenza; in particolare molecole aromatiche, nelle quali, per il fenomeno di risonanza, i doppi legami risultano sparsi per tutta la struttura, se eccitate danno luogo a transizioni π→π* favorendo la fluorescenza. 11. Tipi di transizione: per la maggior parte delle molecole organiche sono possibili quattro transizioni. La fluorescenza è legata principalmente a transizioni π–π* o n–π*, a seconda di quale delle due abbia energia minore. Empiricamente si osserva che la fluorescenza si presenta più comunemente in composti nei quali la transizione ad energia più bassa è del tipo π–π*. La resa quantica di questo tipo di transizione è maggiore sia perché c’è una più alta probabilità che avvenga (la vita dello stato eccitato di una transizione π–π* è di 10-9-10-7 secondi contro i 10-7-10-5 secondi dello stato eccitato di una transizione n–π*), sia perché i processi che competono con la fluorescenza avvengono con minore facilità. 129 8.4 Fluorofori Esistono migliaia e migliaia di fluorofori, alcuni costituiti da molecole organiche ed altri da molecole inorganiche. In ambito biochimico, è possibile dividere i fluorofori organici in due grandi categorie, gli intrinseci e gli estrinseci, corrispondenti rispettivamente a quelli che si trovano in natura e a quelli di sintesi. Tra gli intrinseci rientrano, ad esempio, gli aminoacidi aromatici, il NADH, le flavine e le clorofille. Alcune proteine mostrano fluorescenza instrinseca dovuta agli aminoacidi triptofano, tirosina e fenilalanina. Il gruppo indolo del triptofano è la fonte dominante di assorbimento nell’UV e di emissione delle proteine. L’emissione del triptofano è molto sensibile per quanto riguardano i parametri chimico-fisico ed è pertanto sfruttato per ottenere informazioni sulla conformazione delle proteine. Un esempio importante di fluorofori intrinseci è la green fluorescent protein (GFP) che è prodotta naturalmente dalla medusa Aquorea victoria. La GFP contiene un gruppo altamente fluorescente in una regione interna della sua struttura. La caratteristica più importante della GFP è che il gene per la sua produzione può essere inserito in cellule di vario tipo mediante ingegneria genetica, allo scopo di rendere fluorescenti le cellule, i tessuti da esse composte o addirittura interi organismi. Tra i fluorofori estrinseci vi sono ad esempio i dansili, la fluoresceina, le rodamine e le cianine. Questi fluorofori sono spesso utilizzati per rendere fluorescenti delle biomolecole di interesse che non hanno fluorescenza intrinseca, come il DNA e i lipidi. Nel caso delle proteine, spesso è necessario conferire fluorescenza a lunghezze d’onda maggiori di quelle a cui emettono gli aminoacidi, per evitare il fondo di fluorescenza delle matrici biologiche. Il numero di fluorofori per il biolabelling (bio-etichettatura) è cresciuto in modo significativo negli ultimi anni ed esistono degli handbook dei label fluorescenti dove è possibile selezionare i fluorofori di interesse. In particolare, molti fluorofori sono disponibili con funzioni chimiche adatte alla formazione di legami covalenti o non covalenti con le biomolecole di interesse. I più comuni sono la 130 fluoresceina e le rodamine, che hanno massimi di assorbimento intorno a 490 e 570 nm e massimi di emissione intorno a 520 e 600 nm rispettivamente, hanno elevate rese quantiche di fluorescenza, hanno coefficienti di assorbimento molare molto elevati (~ 80000 M-1cm-1) e sono disponibili in un’ampia varietà di derivati come isotiocianati (reattivi verso le ammine), iodoacetamidi e maleimidi (reattivi verso i tioli). Una delle caratteristiche più importanti di un fluoroforo è la fotostabilità. Tutti i fluorofori organici tendono a danneggiarsi sotto irraggiamento continuo ed intenso (photobleaching). In particolare, la fluoresceina è uno dei label meno fotostabili. Esistono altri tipi di sostanze luminescenti che presentano photobleaching minore, come nanoparticelle di semiconduttori, composti a base di lantanidi e complessi metallorganici con metalli di transizione. 8.5 Fluorescenza dei derivati benzotienopirimidinici Le proprietà fluorescenti dei composti benzotienopirimidinici (5-15) sono state opportunamente analizzate in modo da poterli utilizzare come potenziali rivelatori di tumori colon-rettali. Uno degli ostacoli più grandi nella lotta al cancro è l'impossibilità di delimitare con certezza i confini della massa tumorale, rendendo difficili eventuali interventi chirurgici. Chi opera è spesso costretto ad asportare, qualora se ne ravveda il bisogno, anche i tessuti non direttamente colpiti dalla malattia. Per contrastare questo e altri problemi, un gruppo di ricerca della Vanderbilt University (Tennessee) ha sviluppato dei composti in grado di “accendere la luce” all’interno delle cellule tumorali. L'illuminazione delle cellule tumorali avverrebbe grazie a degli inibitori fluorescenti dell'enzima COX-2, una proteina che, se presente in grandi quantità, può rappresentare il campanello d'allarme di un tumore. Questa caratteristica lo rende particolarmente adatto per le tecniche di imaging molecolare, il cui obiettivo è ricavare una “fotografia” di ciò che avviene a livello cellulare. COX-2 compare già nelle prime fasi della crescita tumorale, per poi aumentare con la malignità del tumore. Assodato che l'enzima non è 131 presente nei tessuti sani, la sua presenza può essere utilizzata come un vero e proprio “faro” nella ricerca delle cellule maligne. In base a tali considerazioni, sono state analizzate le proprietà fluorescenti dei sei derivati che hanno presentato una spiccata attività anti-infiammatoria. Gli spettri d’assorbimento, eccitazione e emissione sono stati eseguiti in DMSO ad una concentrazione dell’ordine di 10-5 M. Negli spettri d’assorbimento UV-vis i derivati hanno presentato due picchi con un massimo d’assorbimento in corrispondenza di due diverse lunghezze d’onda (∼330 e ∼350 nm) (Fig.33). Figura 33: Spettri d’assorbimento Per evitare fenomeni di riassorbimento abbiamo eccitato i composti a 368 nm (nella parte terminale dello spettro). Gli spettri di emissione come chiaramente si può notare nel grafico hanno mostrato un λem massima intorno a 415-450 nm (Fig.34). Tutti gli spettri sono stati normalizzati alla stessa assorbanza di A368= 0.074e alla lunghezza d'onda di eccitazione di 368 nm. 132 Figura 34: Spettri di emissione Per valutare la fluorescenza di ogni singolo derivato abbiamo misurato la resa quantica, quest’ultima è stata calcolata prendendo come composto di riferimento il solfato di chinino disciolto in H2SO4 0.5 M ed effettuando varie diluizioni tali che l’assorbanza, nella lunghezza d’onda di eccitazione, corrispondesse a quella dei composti da testare (Tab.3) Composti ε (λmax) ε (λmax) Φfl 7 8,304(338) 7,500(352) 0.013 10 9,784(338) 8,905(352) 0.055 12 10,773(338) 9.855(352) 0.007 13 10,991(340) 9,916(354) 0.080 14 9,662(338) 8,199(350) 0.032 15 9,435(334) 8,643(346) 0.087 Tabella 3: Resa quantica dei derivati benzotienopirimidinici 133 Tutti i composti hanno mostrato una buona fluorescenza, in particolare i composti 15 e 13 hanno presentato i più alti valori di resa quantica. La fluorescenza dei derivati benzotienopirimidinici è dovuta al gruppo benzotienico mentre la presenza di diversi sostituenti (-COOH, -NO2, F) nell’anello aromatico può aumentare, diminuire o addirittura spegnere tale fluorescenza. Dati riportati in letteratura a tal proposito asseriscono che: gli atomi pesanti (in particolare gli alogeni come Cl, Br, F, I) riducono la resa quantica di fluorescenza poiché facilitano il decadimento del singoletto eccitato S1 allo stato di Tripletto T1 mediante conversione intersistema; i gruppi –COOH possiedono un comportamento molto complesso, legato all’ orientamento del gruppo carbossilico rispetto al nucleo aromatico; i gruppi –NO2 elettron-attrattori diminuiscono la delocalizzazione degli elettroni π e quindi indeboliscono o spengono la fluorescenza. Inoltre anche l’uso di solventi contenenti sostituenti –NO2 generano dei campi magnetici attorno a questi nuclei che possono provocare disaccoppiamento di spin paralleli e favorire la formazione dello stato di tripletto con spegnimento della fluorescenza. In base a tali considerazioni si può affermare che le misure quantiche di fluorescenza ottenute dai sei derivati risultano essere in linea con i dati riportati in letteratura. 8.6 Saggi in vitro dei derivati fluorocoxib sulla linea cellulare HCA-7 Studi clinici hanno dimostrato che la cicloossigenasi-2 è un potenziale bersaglio per la rivelazione di tumori colon-rettali. Pertanto, la caratteristica dei derivati 7, 10, 12, 13, 14 e 15, battezzati “fluorocoxib”, dovrebbe essere quella di identificare lesioni precancerose nell’intestino, quelle lesioni cioè che non sono ancora a tutti gli effetti dei tumori maligni, ma lo stanno per diventare. Una volta identificate tali lesioni, queste sostanze si “attaccano” alle cellule alterate “illuminandole” permettendo così di poter prevenire lo 134 sviluppo di un vero e proprio tumore. Esperimenti di immunostaining sono stati effettuati in vitro su una linea cellulare tumorale HCA-7 con i derivati 7, 10, 12, 13, 14 e 15. I composti sono stati incubati per 12 h alla concentrazione di 100μM, come si può notare dalle immagini ottenute solo i composti 10 e 15 sono riusciti ad attraversare la membrana cellulare delle cellule HCA-7 tramite diffusione passiva e ad emettere la propria autofluorescenza (Fig.35) mentre gli altri derivati pur presentando una discreta fluorescenza non sono riusciti ad entrare nelle cellule tumorali. Figura 35: Esperimenti al microscopio a fluorescenza Dalle immagini si evince che i derivati 10 e 15 riescono ad attraversare la membrana cellulare ma non quella nucleare, infatti, i nuclei cellulari si presentano di color nero. Questi dati preliminari saranno in futuro supportati da esperimenti in vivo su topi da laboratorio, in maniera tale da poter impiegare questi derivati come possibili markers tumorali in diagnostica biomedica basata su tecniche spettrofluorimetriche e citofluorimetriche, in modo da rimpiazzare i coloranti convenzionali attualmente in uso. 135 Materiali e Metodi 8.7 Spettroscopia di fluorescenza Gli spettri di assorbimento sono stati registrati con uno spettrofotometro UVVIS HP (8452A), e gli spettri di fluorescenza sono stati ottenuti con una Spettrofluorimetro Spex Fluorolog-2 (Mod. F-111). I coefficienti di estinzione molare (ε) sono stati determinati solubilizzando i sei derivati in DMSO, ad una concentrazione variabile che va da 1 a 50 μM e ad un’assorbanza nell’intervallo tra 200 e 800 nm in cuvette di quarzo standard. I valori di epsilon sono stati determinati applicando la legge di Lambert-Beer: A=εdc dove (A) è l'assorbanza; (c) è la concentrazione molare della soluzione e (d) è la lunghezza del cammino ottico. Le misure sono state ripetute per ben tre volte. Gli spettri di emissione dei derivati 7, 10, 12, 13, 14 e 15 sono stati registrati in DMSO. Gli spettri di emissione sono stati ottenuti nell’intervallo che va da 388 a 700 nm, ad una lunghezza d'onda di eccitazione di 368 nm. Gli spettri di emissione ottenuti hanno presentato un λem massima intorno a 415-450 nm. Tutti gli spettri sono stati normalizzati alla stessa assorbanza di A368= 0.074e alla lunghezza d'onda di eccitazione di 368 nm. La resa quantica, quest’ultima è stata calcolata prendendo come composto di riferimento il solfato di chinino disciolto in H2SO4 0.5 M ed effettuando varie diluizioni tali che l’assorbanza, nella lunghezza d’onda di eccitazione, corrispondesse a quella dei composti da testare. Il Φx rendimento quantico per ogni campione è stata calcolata secondo la seguente equazione: Φx = ΦS(AS/Ax)(FX/FS) (nx/ns)2 dove (Φx) è il rendimento quantico di emissione, (A) è l'assorbanza alla lunghezza d'onda di eccitazione, (F) è l'area sotto la curva di emissione corretta, (n) è l'indice di rifrazione del solvente per il campione (X) e per lo standard (S). 136 8.8 Colture cellulari La linea cellulare è stata acquistata dall’American Type Culture Collection (Manassas, VA, USA) e messa in coltura in terreno Dulbecco’S Modified Eagle’s Medium (DMEM, Cambrex Bio Science, Bergamo, Italia) supplementato del 10% di siero fetale bovino (FBS, Euroclone, Milano, Italia), dell’1% di glutammina (Euroclone, Milano, Italia) e dell’1% di antibiotici (penicillina e streptomicina, Euroclone, Milano, Italia). La linea è stata mantenuta a 37°C in atmosfera umidificata al 5% di CO2. 8.9 Protocollo di imaging cellulare Le cellule sono state raccolte utilizzando 0,25% tripsina-EDTA (GIBCO, 25200), piastrate in una piastra da 6 pozzetti ad una densità di 200,000 cellule a pozzetto. Le cellule sono state incubate per 24h. Prima della permeabilizzazione sono state lavate due volte con PBS e dopo sono state sospese in PBS contenente lo 0,1 % di triton X-100 per 5 min. Fissate le cellule, quest’ultime sono state lavate 3 volte con una soluzione di PBS e disposte in un vetrino portaoggetti aggiungendo 4 mg/mL di anticorpo monoclonale anti-COX-2 (Santa Cruz Biotechnology, sc-166475), 2 mg/ml di Texas-Red anticorpo secondario monoclonale anti-topo (Santa Cruz Biotechnology, sc-2781) e una concentrazione di 100μM dei derivati benzotienopirimidinici, il tutto è stato ricoperto con un vetrino copri oggetto. Sono stati tenuti al buio per 16h a temperatura ambiente. Successivamente le cellule sono state lavate con PBS e sono stati posti 10μL su dei vetrini da microscopia per poter essere visualizzati mediante un microscopio a Scansione Laser Confocale Zeiss (Germania) 137 9. Conclusioni I risultati ottenuti hanno dimostrato l’efficacia anti-infiammatoria delle sostanze in esame su due modelli di linee cellulari: i cheratinociti NCTC 2544 e i macrofagi murini J774. Le sostanze esaminate sono risultate efficaci nel ridurre notevolmente l’espressione di ICAM-1, iNOS, COX-2 e la modulazione del rilascio di MCP-1 e IL-8. I dati ottenuti dalla valutazione biologica hanno indicato che queste sostanze hanno manifestato proprietà antiinfiammatorie estremamente interessanti, poiché sono in grado di contrastare alcuni effetti pro-infiammatori nella linea cellulare dei cheratinociti umani normali NCTC 2544 e dei macrofagi murini J774. Inoltre, in base a tali considerazioni, sono state analizzate le proprietà fluorescenti dei sei derivati che hanno presentato una spiccata attività anti-infiammatoria. Quasi tutti i derivati hanno mostrato una buona fluorescenza, in particolare i composti 15 e 13 hanno presentato i più alti valori di resa quantica. Tali risultati hanno incentivato la nostra ricerca verso un ulteriore studio in vitro di imaging per verificare la fluorescenza all’interno delle cellule tumorali HCA-7. Gli esiti hanno confermato che soltanto i derivati 10 e 15 riescono ad attraversare la membrana cellulare e ad emettere la propria fluorescenza. Questi dati preliminari saranno in futuro supportati da esperimenti in vivo su topi da laboratorio, in maniera tale da poter impiegare tali derivati come possibili markers tumorali in diagnostica biomedica basata su tecniche spettrofluorimetriche e citofluorimetriche. In definitiva, lo scopo delle nostre future attività di ricerca sarà quello di progettare nuovi composti dalle elevate proprietà fluorescenti, anti-infiammatorie e antineoplastiche. 138 Ringraziamenti In queste pagine colgo l’occasione per ringraziare tutte le persone che mi sono state vicine e che hanno fatto parte di questo lungo percorso della mia vita. un grazie sincero, alla Prof.ssa Venera Cardile per aver creduto sin dall’inizio nelle mie potenzialità e per avermi pazientemente seguito nella realizzazione del mio lavoro. al Prof. Luigi Casella per l’imprescindibile supporto morale e per avermi trasmesso il suo amore e la sua dedizione verso la ricerca scientifica. al Prof. Venerando Pistarà per l’infinita disponibilità, il prezioso aiuto scientifico e la grande umanità che lo contraddistingue. al Prof. Salvatore Pistarà andrà per sempre il mio grazie…. per esser stato un “Professore-amico”, offrendomi nel buio lo spiraglio di luce che talvolta non riuscivo a vedere, per avermi sostenuta fin qui accompagnandomi con dedizione profonda e per avermi insegnato la dignità di vivere rifiutando il compromesso. al Dott. Alfio Catalfo e al Prof. Guido De Guidi per la straordinaria disponibilità dimostrata nel fornirmi sempre un valido supporto tecnico-scientifico per quel che concerne gli aspetti di spettrometria e di fluorescenza. 139 al Prof. Salvatore Sortino, andrà sempre un ringraziamento speciale e la mia riconoscenza per avermi dato l’ opportunità di iniziare questo percorso formativo nel mondo della ricerca universitaria, trasmettendomi la sua enorme passione, conoscenza scientifica ed esperienza professionale. al Prof. Andrea Santagati in qualità di tutor. 140 Bibliografia [1] Frati L, Russo M. (2000) Universo del corpo. Istituto dell’ enciclopedia TRECCANI s.p.a. [2] Rossi F, Cuomo V, Riccardi C. (2011) Farmacologia principi di base e applicazioni terapeutiche. MINERVA MEDICA seconda edizione. [3] Clementi F, Fumagalli G. (2012) Farmacologia generale e molecolare. UTET Scienze mediche, quarta edizione. [4] Balkwill F, Mantovani A. (2001) Inflammation and cancer: back to Virchow? 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