Editoriale N.1 Epidemiologia e fattori di rischio dell’infezione da Clostridium Difficile Dr. FRANCESCO CIPOLLINI Specialista in Medicina Interna Segretario Fondazione FADOI Il Clostridium Difficile (CD) è un bacillo gram-positivo, sporigeno, anaerobico obbligato isolato nel 1935 da Hall e O’Toole dalle feci di un neonato sano. Anche se la prima segnalazione risale al 1883, solo nel 1977 Bartlett isolò il microorganismo dalle feci di un criceto in cui aveva indotto una colite dopo somministrazione di clindamicina e nell’anno successivo identificò la tossina prodotta dal microorganismo quale agente causale della “colite pseudomembranosa” . Attualmente il Clostridium Difficile è la prima causa di diarrea nosocomiale nei paesi industrializzati. Il microorganismo ha una fase sporigena caratterizzata da una notevole resistenza agli agenti atmosferici, al succo gastrico ed ai più comuni prodotti di pulizia e, per queste proprietà, persiste per lunghi periodi di tempo nell’ambiente. La capacità di produrre spore è l’elemento chiave e responsabile della diffusione nell’ambiente, in particolare in quello ospedaliero che rappresenta il reservoir dell’infezione. La trasmissione dell’infezione avviene per via oro-fecale. Le spore ingerite di Clostridium Difficile, che sopravvivono per anni in ambiente ospedaliero laddove non vengano attuate delle stringenti misure di igiene personale e bonifica ambientale, sopravvivono all’ambiente acido gastrico e passano nell’intestino dove germinano nella forma vegetativa. Nel soggetto che assume antibiotici a largo spettro, la terapia altera la microflora intestinale e crea l’ambiente idoneo alla colonizzazione e alla crescita del microorganismo. Non tutti i pazienti colonizzati dal batterio sviluppano una infezione clinicamente evidente (diarrea/colite) e la differente risposta dipende sia dalle caratteristiche del microorganismo (ceppi tossinogenici) sia da quelle dell’ospite. Se l’esposizione riguarda ceppi nontossinogenici, il soggetto esposto sarà colonizzato ma risulterà asintomatico. Analogamente risulterà asintomatico il soggetto che, seppur colonizzato da un ceppo tossinogenico, ha una adeguata risposta anticorpale (IgG) alla tossina A. Nel caso in cui un ceppo tossinogenico colonizzi un soggetto senza una adeguata risposta anticorpale, è probabile che si manifestino i sintomi tipici dell’infezione da Clostridium Difficile. La sintomatologia varia da una “nuisance diarrhea”, a forme più severe quali la colite pseudomembranosa sino a giungere a possibili casi di colite fulminante con megacolon tossico. I ceppi tossinogenici producono due tipi di tossine, A e B: la tossina A è una enterotossina, immunogena, che provoca ipersecrezione e danno mucosale responsabile della diarrea e dell’infiammazione; la tossina B è una citotossina, scarsamente immunogena, con effetto citotossico di 1000 volte superiore a quella della tossina A . Epidemiologia Il Clostridium Difficile colpisce prevalentemente il paziente ospedalizzato: negli USA è responsabile di circa 3 milioni di casi di diarrea / colite per anno ed il 28% dei soggetti ospedalizzati risulta positivo alla coltura fecale. L’infezione è triplicata nel decennio 2000-2009 salendo da 33.000 a 111.000 per i casi in cui l’infezione rappresenta la diagnosi principale, mentre è più che raddoppiata, da 139.000 a 336.000, per i casi associati ad altre patologie. L’incidenza dell’infezione è passata negli ultimi 15 anni da 30 casi/100.000/anno a 84/100.000 casi/anno. In un recente studio condotto in 34 nazioni europee l’incidenza è risultata estremamente variabile (0 – 36.3 %) con una incidenza media è di 41/100.000 pazienti/giorno, valore all’interno del quale si è collocata anche la realtà italiana. L’enorme variabilità dei dati è probabilmente legata al differente ricorso ai test di laboratorio specifici utilizzati nelle diverse aree geografiche: è infatti risultata una correlazione significativa tra numero di indagini di laboratorio eseguite e casi diagnosticati. In Italia vi sono pochissimi dati epidemiologici affidabili relativi al burden delle infezioni da CD. Uno studio retrospettivo condotto in cinque ospedali romani, sembrerebbe confermare la crescente incidenza di tale patologia negli ultimi anni, Fattori di rischio In uno studio del 2011 riguardante 34 nazioni europee, l’infezione da CD è risultata raggiungendo nel 2011 valori di 2.3 casi/10.000 pazienti/giorno, in linea con quanto emerso dai dati esteri. La mortalità in Europa riguarda il 2% dei casi ma il CD è da considerarsi concausa in altre patologie, con una quota addizionale di mortalità del 7%. Più elevata risulta invece la mortalità negli stati nordamericani: negli USA i casi ascrivibili ad infezione da CD sono aumentati dai 2.700 del 1999 ai 14.500 del 2007. In Canada, in uno studio casocontrollo, la mortalità direttamente correlata a CD è risultata essere del 7%, mentre ha contribuito come concausa ad una ulteriore quota dell’8%. L’infezione da CD ha di conseguenza un impatto economico considerevole nei sistemi sanitari dei paesi industrializzati. I pazienti infatti non solo richiedono procedure di isolamento, misure diagnostiche e terapeutiche supplementari, ma subiscono un prolungamento della degenza ospedaliera di 7-21 giorni, con incremento significativo dei costi sanitari. Il costo dell’infezione nei Paesi dell’Unione Europea è stimata in circa 3 miliardi di euro/anno e questo costo è destinato ad aumentare se si considera che negli anni futuri la popolazione ultrasessantacinquenne, ovvero quella maggiormente a rischio, aumenterà progressivamente. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a variazioni epidemiologiche di questa patologia, non solo quantitative ma anche qualitative: tra queste l’aumentata incidenza dell’infezione da CD acquisita in comunità, ovvero in soggetti non ospedalizzati nelle 12 settimane precedenti l’infezione. Altro elemento di rilievo riguarda inoltre la comparsa di ceppi ipervirulenti. In Nord America ed in Europa si sono verificati episodi epidemici da ricondurre ad un ceppo particolarmente virulento del Clostridium: NAP1 Ribotipo 027. L’ipervirulenza di questo ceppo, caratterizzato da una delezione del gene Tcdc deputato alla down-regulation della sintesi di tossina, è dovuta ad una iperproduzione di ben 16 volte della tossina A e di 23 volte della tossina B rispetto agli altri ceppi lo stesso determina inoltre una aumentata produzione di spore da cui ne consegue l’aumentata sopravvivenza, la produzione di una tossina binaria che aumenta sinergicamente l’azione patogena della tossina A e B, ed un elevato livello di resistenza agli antibiotici in particolare ai fluorochinoloni. Il Ribotipo 027 è stato l’agente eziologico di epidemie verificatesi nella regione canadese del Québec e caratterizzate da infezioni severe e gravate da un tasso elevato di complicanze e di mortalità Altri ceppi oltre al Ribotipo 027 sono stati isolati in corso di focolai di infezione manifestatisi con casi di particolare severità clinica in Nord America ed in Europa. acquisita in ambiente ospedaliero nell’80% dei casi ed in comunità nel 14% dei casi (indeterminata nel 6%). Tra i soggetti colpiti, il 63% avevano età > 65 anni, mentre il 92% aveva assunto antibiotici a largo spettro nei tre mesi precedenti . L’esposizione ad antibiotici ad ampio spettro, soprattutto se molteplici e per periodi prolungati, rappresenta il fattore di rischio principale dell’infezione da CD. Molte classi di antibiotici sono state chiamate in causa, tra questi risultano a rischio maggiore la clindamicina, le cefalosporine di seconda e terza generazione e i fluorochinoloni. Mentre risultano meno correlati all’infezione macrolidi, amoxicillina, aminoglicosidi, vancomicina, trimethoprim e tetracicline. Oltre all’età avanzata e alla presenza di severe comorbidità, altri fattori di rischio di infezione da CD risultano essere gli stati di immunodepressione (farmaci immunosoppressori e/o antineoplastici), pregresso intervento chirurgico, utilizzo di nutrizione enterale, degenza in reparti di terapia intensiva e, soprattutto, la prolungata permanenza in ambiente sanitario (reparti ospedalieri oppure longterm care facilities). Nelle strutture di lungodegenza aumenta infatti il rischio di trasmissione di spore da parte del personale sanitario ed il 50% dei residenti risulta colonizzato dal CD. Un altro importante fattore di rischio di infezione è rappresentato dai farmaci antisecretori gastrici (inibitori di pompa protonica o PPI e antagonisti recettori H2). Nel Regno Unito, dal 1994 al 2004, si è verificato un incremento dei casi di infezione da Clostridium Difficile che correlava significativamente con l’aumentata prescrizione dei PPI nonostante vi fosse stata una concomitante riduzione nella prescrizione di antibiotici. Una recente meta-analisi ha dimostrato un aumentato rischio del 65% di infezione nei soggetti in terapia con PPI. Un elenco dei principali fattori di rischio per infezione da CD è riportata in Tabella 1. Fattori di rischio principali: Terapia antibiotica Età avanzata Degenza prolungata in ambiente ospedaliero Severe co-morbidità Immunodepressione Fattori di rischio addizionali: Farmaci antisecretori gastrici Chirurgia digestiva Nutrizione per sonda nasogastrica Malattia infiammatoria cronica intestinale Tabella 1. I fattori di rischio di infezione da CD L’età avanzata, le severe comorbidità, gli stati di immunodepressione e la permanenza prolungata in ambiente ospedaliero rappresentano un fattore di rischio non solo per la colonizzazione ma anche per le eventuali recidive dell’infezione, le complicanze della malattia e la mortalità. In particolare, è l’infezione da parte di ceppi ipervirulenti (come NAP1/027) a condizionare gli outcomes dei pazienti. Gli episodi epidemici verificatisi in Canada e caratterizzati da un aumentato numero di complicanze e da una più elevata mortalità sono risultati ascrivibili, nel 63% dei casi, al Ribotipo 027. Contrastare l’infezione da CD rappresenta una sfida fondamentale da parte dei sistemi sanitari dei Paesi industrializzati, non solo per ridurne i costi (sociali ed economici), ma soprattutto in quanto rappresenta la prima causa di infezione nosocomiale, con: 1. un aumento crescente dell’incidenza e della mortalità; 2. un aumento dei casi di infezione acquisita in comunità; 3. la comparsa di nuovi ceppi ipervirulenti correlati ad una maggiore diffusione dell’infezione e a livelli superiori di severità delle manifestazioni cliniche della malattia. Se, infatti, alcuni fattori di rischio non possono essere modificati (es. aumentata percentuale della popolazione anziana, aumentata percentuale di comorbidità spesso severe e comparsa di ceppi ipervirulenti) per altri invece è possibile già da ora porre in essere delle misure preventive, finalizzate alla riduzione dell’infezione. I reparti ospedalieri, specialmente quelli internistici, sono spesso sovraffollati, con personale ridotto, con inadeguati spazi di isolamento e non sempre supportati da una appropriata disinfezione degli ambienti e degli arredi. Una adeguata formazione del personale finalizzata all’utilizzo di idonee misure igieniche, le buone pratiche di disinfezione ambientale e, soprattutto, programmi di “stewardship” antibiotica possono già da ora rappresentare una valida ed efficace risposta alla diffusione dell’infezione. Bibliografia essenziale: 1.Bauer MP et al. Lancet 2011 377: 63–73 2.Loo WG et al. New Eng J Med 2005 353 2442-9 3.McDonald LC et al. Emerg Infect Dis. 2006; 12(3): 409-15 4.Kuijper EJ et al. Clin Microbiol Invest 2006; 12: 2-18 5.Di Bella S. et al. Infez. in medicina 2013; 21(2): 93-102