Treviso, 8 giugno 2012 La proposta della fede agli adulti. Dalle intenzioni ai passi concreti fratel Enzo Biemmi - Sono più di 40 anni (a partire dal Documento Base della catechesi del 1970 e poi su fino al catechismo degli adulti degli anni ’80 e ‘90, ai diversi orientamenti pastorali, alle note sull’iniziazione cristiana, al Convegno ecclesiale nazionale di Verona del 2006, fino al recente Educare alla vita buona del V angelo) che l’appello a mettere gli adulti al centro dell’evangelizzazione risuona all’interno della Chiesa come una specie di ritornello. E questa reiterata insistenza, prendiamone atto serenamente, tradisce anche la nostra fatica a passare dalle intenzioni ai passi concreti. C’è un evidente scarto tra le convinzioni della nostra comunità ecclesiale e le sue concrete realizzazioni. Così l’appello alla centralità della catechesi degli adulti ha spesso il sapore delle grida di manzoniana memoria: bisogna, dobbiamo, è urgente… Le dichiarazioni di intenti si ripetono, e intanto gli anni passano, le generazioni sfilano una dopo l’altra, le famiglie non iniziano più alla fede i loro figli e la catechesi ecclesiale resta ancora fondamentalmente diretta ai bambini. Una inchiesta sui catechisti negli anni ’90 dava questi dati: dei circa 300.000 catechisti italiani, 274.000 erano impiegati per i ragazzi dell’iniziazione cristiana (elementari e medie). Per gli adulti rimaneva il 4 %. Sarebbe come se il 92% dei medici italiani fossero pediatri. Secondo voi, le cose da allora sono cambiate tanto? Il nostro impianto catechistico rimane puerocentrico e finalizzato ai sacramenti. Con questo noi confermiamo, senza volerlo, che la fede è una cosa importante fino a quando si è bambini, e lo è molto di meno dopo, quando si entra nell’età adulta. E questo è esattamente quello che capiscono i ragazzi e i loro genitori. - Detto questo, è inutile piangersi addosso. Meglio vedere quello che già stiamo facendo e, a partire da quanto è già in atto, provare a individuare qualche passo per rinforzare alcune buone pratiche e inserirle in un progetto diocesano condiviso e in una logica di lavoro a rete. Mi sembra questo il dato positivo che emerge dall’inchiesta fatta nella vostra diocesi. Ci sono già esperienze, piuttosto diversificate e frammentate, è vero, ma non siamo all’immobilismo. C’è dunque un ponte tra le intenzioni e le realizzazioni, magari un ponte tibetano un po’ traballante, ma non c’è il vuoto. Come rinforzare la nostra proposta nei riguardi degli adulti? Come rendere le nostre parrocchie delle comunità adulte e per gli adulti? Senza pretendere di dare ricette, vorrei darvi alcuni suggerimenti in questa direzione. 1. Una domanda utile e allo stesso tempo inutile: “ma gli adulti, sono interessati alla fede?” Quando ci impegniamo a portare il vangelo agli adulti siamo spesso scoraggiati di trovarci di fronte a persone in apparenza sempre meno interessate alle nostre catechesi. La domanda che ci poniamo spesso, e che ci scoraggia fino quasi a paralizzarci, è questa: ma come si fa a proporre il Vangelo a gente che non è interessata? La Lettera ai cercatori di Dio1 sembrerebbe a questo proposito essere passata a lato della questione. Ai “cercatori di Dio” si può rivolgersi, ma con la maggioranza della gente che non cerca Dio, cosa possiamo fare? Questa domanda è da una parte utile, dall’altra del tutto inutile. - E’ utile perché ci aiuta a renderci conto che ci troviamo di fronte a una diversificazione del mondo degli adulti rispetto alla fede sempre più evidente, secondo almeno una quadruplice tipologia: gli appartenenti alla comunità, che si impegnano al suo interno (militanti); i praticanti che in forma più 1 COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, L’ANNUNCIO E LA CATECHESI, Lettera ai cercatori di Dio, 12 aprile 2009. 1 o meno continua frequentano il culto; il gruppo di adulti piuttosto numerosi che il sociologo Garelli ha definito come “salutari o intermittenti”, che si accostano alla Chiesa nei grandi passaggi simbolici della vita (nascite, prime comunioni e cresimi, matrimoni, funerali); gli adulti in aumento che non passano affatto dalle nostre parrocchie. Quando diciamo “catechesi degli adulti” parliamo di fatto di un impegno diversificato: una catechesi come formazione e cura della fede del gruppo di credenti appartenenti (sempre più pochi); una catechesi come riavvio della fede, per cristiani praticanti per abitudine (parliamo per loro di secondo annuncio); e di un vero primo annuncio per adulti che si sono da tempo allontanati dalla chiesa o che non sono battezzati. Questa realtà ci richiama la parabola del seminatore (Mc 4) con la tipologia dei quattro terreni, e ci invita a tenerne conto. - D’altra parte la stessa parabola non sembra molto interessata alle nostre analisi sociologiche. Sembra invece far leva più sulla forza intrinseca della Parola e sulla speranza del seminatore che sulla recettività del terreno. Al punto che potremmo pensare che questo seminatore sia sprovveduto, perché getta il seme dove capita. Sappiamo che raccontando questa parabola Gesù parla di se stesso, dell’apparente insuccesso del suo annuncio. E sembra dire ai suoi discepoli sfiduciati, e in ultima analisi a se stesso, che bisogna donare il Vangelo semplicemente perché è buono e ha fatto bene a noi, e avere fiducia che questo, in qualcuno (uno solo su quattro, per la verità) opera miracoli: il 30, il 60 e qualche volta il 100 per uno. Ci sono altre due parabole molto istruttive, quelle di Matteo del tesoro e della perla. Perché mai Matteo avrebbe dovuto raccontare due parabole esattamente uguali? Non ne bastava una? No, perché tra le due c’è un’unica differenza sostanziale: in quella del tesoro il contadino non cerca, si imbatte per caso. Nella seconda, invece, il negoziante di perle cerca. In entrambi i casi l’accento è posto sulla sorpresa, sul di più per grazia che la scoperta riserva. Matteo sembra qui mettere in scena le due possibilità dell’evangelizzazione: quella rivolta a chi cerca e quella rivolta a chi non cerca. E sembra dirci che non c’è nessuna differenza. Il Vangelo è per tutti grazia, sorpresa, e come ci accade spesso nella vita, ci vengono incontro cose che non cerchiamo, ma che cambiano la nostra esistenza. Quale la morale? Semplicemente questa. Affrontando praticamente (e non solo nelle intenzioni) la catechesi degli adulti noi non ci concentreremo più sulle disposizioni più o meno positive delle persone, non vincoleremo più l’annuncio alle condizioni della sua accoglienza. Avremo anche noi la sprovvedutezza di puntare tutto sulla grazia del Vangelo, sulla sua forza intrinseca, sulla nudità della nostra testimonianza. Gli adulti sono molto diversi tra di loro, è vero, ma sono tutti “capax dei”, capaci di Dio, tutti adatti al Vangelo. Anzi, sembra che siano i più poveri di loro, i più sguarniti, i più lontani quelli che, di fronte ad un annuncio gratuito e a una testimonianza coraggiosa, si lasciano colpire dal suo valore. E’ stato così per Gesù. Volete che sia diverso per noi? In alcune regioni del sud mi hanno spiegato che se vengo invitato a cena non devo portare nulla, perché significherebbe che il mio ospite, anche se molto povero, non è in grado di onorare la mia presenza. Ho pensato: che bella lezione per l’evangelizzazione! La nostra gioia deve essere quella di donare il meglio che abbiamo, senza preoccuparci se l’altro porta o non porta qualcosa. Invece, 17 secoli di cristianità ci hanno abituato troppo bene (o troppo male): il nostro dono è condizionato al fatto che le persone portino qualcosa, siano a posto, abbiano le carte in regola, presentino la fede come la intendiamo noi, ecc. Che assurdità condizionare il dono del Vangelo alla situazione delle persone. Allora la direzione è chiara. Ci concentreremo su quello che abbiamo da donare noi, e non lo faremo per fare dei proseliti, ma perché la nostra gioia, come dice Giovanni (1Gv 1,1-4), sarà piena solo quando il Vangelo sarà donato a tutti. Diremo semplicemente quello che per grazia siamo diventati. E’ anche il solo modo per disinnescare attese sproporzionate, colpevolizzazioni, frustrazioni. Finito il tempo della cristianità, entriamo in quello della gratuità e libertà. Ricordiamocelo: tre su quattro non accoglieranno, non per cattiveria, ma per la complessità della vita. Se è stato così per “il legno verde”, che è Gesù, cosa volete che sia diverso per il “legno secco”, che siamo noi sua Chiesa? 2 Quale vangelo agli adulti? Cerchiamo ora di addentrarci un po’ di più sulle proposte concrete di catechesi degli adulti. La domanda allora è la seguente: quale vangelo sono in grado di ascoltare gli adulti? Quale vangelo sarebbero disposti ad accogliere le donne e gli uomini di oggi? La domanda è in questo caso volutamente rovesciata rispetto a quella che facciamo di solito, la quale grosso modo suona così: quale vangelo è bene che gli adulti sentano? E’ a partire da questa seconda prospettiva che noi prepariamo i nostri programmi, organizziamo i nostri incontri, predisponiamo i nostri contenuti. Questa è una partenza legittima, perfino doverosa. E’ così che risulta estremamente importante poter delineare a quale punto di arrivo dobbiamo condurre le persone, qual è la figura adulta della fede. Il Vescovo lo ha fatto in modo molto chiaro ed efficace nei suoi orientamenti pastorali. Questo deve costituire il quadro di riferimento. Quando il quadro di riferimento si traduce in percorso, allora non dobbiamo confondere il traguardo con la strada. Noi desideriamo che incontrino il Signore Gesù nella sua comunità, e desideriamo che giungano alla piena maturità in Cristo. Ma dobbiamo partire da dove sono, non dal punto in cui ci troviamo noi o dal punto in cui sarebbe bene che arrivino. Formulata dal versante del percorso, la domanda ha una risposta semplicissima: gli adulti sono disposti a sentire il Vangelo che è vangelo, vale a dire buona notizia sulla situazione della loro vita. Sono disposti a sentire ciò che rende buona e bella la loro vita. Sì, proprio questo: il vangelo della vita buona. Siamo dunque nel cuore della sfida pastorale di questo decennio. Detto in maniera un po’ più cruda ma comunque efficace, diciamo che gli adulti, noi stessi per primi, sono disposti ad accogliere quello che in qualche modo serve a loro, quello che è loro utile. Questa prospettiva dell’utilità applicata all’evangelizzazione non ha alcune connotazione banalmente utilitaristica. Essa vuole indicare che ogni adulto è raggiunto là dove si collocano i compiti che è chiamato ad assumere e le sfide che essi comportano. Questo primo livello di utilità non banale riguarda quindi i ruoli, quelli di padre e di madre, quello di marito o moglie, quello legato al lavoro e alla professione, e così via. Infatti, la nostra identità, il senso che noi diamo alla vita nella sua fase adulta, è legato ai nostri ruoli e ai nostri compiti. Ciò che ci aiuta ad affrontarli meglio, questo siamo disposti ad accoglierlo, anzi lo cerchiamo. Ma c’è un secondo livello di utilità non banale del quale tutti siamo alla ricerca: riguarda il nostro modo di stare al mondo, di stare dentro la nostra pelle, di stare in relazione con gli altri, di vivere le cose belle o brutte che ci succedono. Questo livello riguarda non il fare, ma l’essere, il senso ultimo del nostro esistere. E non è difficile capire questo: quando una proposta formativa raggiunge i due livelli di utilità (rispetto al fare meglio e all’essere meglio, al ben-essere) allora noi attiviamo nelle persone il massimo della disponibilità. Se i bambini e i ragazzi sono aperti a tutti gli apprendimenti, gli adulti non apprendono che quello che in qualche modo li riguarda. Vale anche per noi, per i catechisti quando viene loro proposta una formazione, per i preti quando fanno la formazione permanente. - Si colloca proprio dentro questa prospettiva l’invito del Convegno ecclesiale di Verona e dei documenti dei Vescovi italiani, fino agli orientamenti pastorali per questo decennio: annunciare il vangelo dentro il bisogno di vita delle persone: il vangelo degli affetti quando ci si innamora e si stabilisce una relazione stabile con un partner; il vangelo della paternità e maternità quando nasce un figlio, quando lo dobbiamo educare, quando lo dobbiamo lasciar partire; il vangelo del lavoro quando si ha un lavoro, quando lo si perde, quando lo si cerca senza trovarlo; il vangelo delle infinite fragilità che ci colpiscono nella vita, prima fra tutte la fragilità affettiva; il vangelo dei distacchi, delle separazioni e dei divorzi che lasciano ferite profonde, il vangelo di nuovi legami stabiliti; il vangelo dei lutti, delle perdite di un figlio, di un coniuge, di un parente; il vangelo della malattia, propria e altrui; il vangelo della morte, quando ormai è chiaro che resta poco da vivere. Si apre qui una mappa estremamente variegata di catechesi degli adulti, nella linea di un trasloco della comunità ecclesiale nella vita della gente, nel suo bisogno di vita. I vescovi li hanno chiamati ambiti di vita, soglie della fede, esperienze antropologiche, passaggi della vita. 3 - E’ interessante notare come l’indagine fatta nella vostra diocesi mostra che, al di là delle apparenze, questa variegata mappa umana non è del tutto disabitata dalla proposta ecclesiale del vangelo. Certo, si tratta di una presenza ancora debole, rimanendo prevalente una proposta interna agli obiettivi ecclesiali e ai suoi bisogni. Ma qualche passo è avviato. E’ la direzione da incrementare, facendo sì che la Parola continui a farsi carne. - Per questo trasloco non facile, occorre liberarci di una eccessiva preoccupazione nostra: quella di temere che se raggiungiamo gli adulti per i loro bisogni, in qualche modo noi li strumentalizziamo. Lo diciamo, ad esempio, per i genitori dei ragazzi che devono ricevere i sacramenti. “L’adulto va raggiunto come adulto, non come genitore”, ci capita di sentir dire o di dire. Ma di fatto nella nostra vita non possiamo distinguere i due livelli: siamo adulti in quanto genitori, in quanto mariti e mogli, in quanto preti, in quanto insegnanti, ecc. Prendiamo atto di una cosa importante. Di solito Dio si apre una strada nelle nostre brecce, nelle nostre crepe, nelle nostre fragilità. La fede adulta è quella che si vive nella quotidianità e nell’ordinarietà, è vero, ma questo è sempre un punto di arrivo. La partenza, invece, è quasi sempre dentro una interruzione dell’ordinarietà. Dio bussa nella nostra esistenza o quando la vita ci presenta un’eccedenza gratuita, o quando ci fa sperimentare, spesso drammaticamente, il limite e la morte. Dio di solito non riesce a raggiungerci quando le cose vanno bene, quando la nostra vita è un lungo fiume tranquillo, quando affettivamente abbiamo buone relazioni, buona salute, un buon bilancio economico. Quando nella nostra vita irrompe un amore che non ci meritiamo, quando ci nasce un figlio, quando attraversata la malattia ritroviamo la salute, allora noi sentiamo la necessità profonda di dire un grazie. Quando siamo dentro l’esperienza della sofferenza, dentro la minaccia del morire in tutte le sue sfaccettature (psicologiche, fisiche affettive), allora da noi sale un grido. Una grazie e un grido: in queste due fessure si presenta il volto di Dio. Il rendimento di grazie e l’invocazione ritmano le stagioni della fede, e spesso ne avviano il cammino. I salmi sono a questo proposito più liberi di noi. Nei 150 salmi si va dal grido al grazie e alla lode (gli ultimi), con un crescendo progressivo dal salmo 1 al salmo 150, quasi a dire che l’esperienza umana del bisogno è luogo antropologico del rivelarsi di Dio e il rendimento di grazie è il progressivo riconoscimento del sua agire buono nei nostri confronti. Non avremo quindi nessuna paura a collocarci nelle crepe della vita adulta, sia quelle provocate da eccesso di grazia che quelle provocate da eccesso di dolore. E lì proporremo le nostre catechesi, come rivelazione di Gesù Cristo, morto e risorto per noi. Perché questa è la vita, in fin dei conti: un continuo mistero pasquale, una continua esperienza di morte e un continuo anelito di risurrezione. Annunciare il vangelo della paternità e della maternità Un esercizio molto semplice sarebbe allora quello di disegnare in una parrocchia la mappa della catechesi, all’interno del Consiglio pastorale o del gruppo catechisti. Si potranno così vedere i pieni e i vuoti, vale a dire dove collochiamo tradizionalmente la proposta del Vangelo e dove da tempo siamo del tutto assenti. Ci accorgeremmo di quanti appuntamenti di Dio nella vita degli adulti la comunità ecclesiale è assente, essendo occupata nelle proprie proposte. Vorrei per questo dire una parola breve su una delle esperienze di vita delle persone che è una vera soglia della fede: quel tempo della vita nel quale si diventa papà e mamme e tutto il tempo successivo dell’educazione dei figli. Se per essere genitori bastano 9 mesi, infatti, per essere padri e madri dei nostri figli ci vogliono molti anni. È questo un tempo particolarmente favorevole per la fede, sia perché la nascita di un figlio segna una vera rinascita dell’adulto, sia perché la fede di tutti si apre con il battesimo. Abbiamo qui un incrocio particolarmente favorevole. Ascoltiamo la testimonianza di una mamma. 4 «Poi sono nati i bambini ed è stato un momento di ripensamento, perché ti rendi conto di quanto sei poco: due sono troppo pochi per la responsabilità di tirar su degli altri, la coppia non è sufficiente, assolutamente; (…) ci siamo proprio detti che ci vuole qualcuno di più grande che li protegga (…). Io e G. entrambi abbiamo detto che sarebbe bello credere, che veramente sarebbe bello se ci fosse qualcuno che li protegge. La fede è come una ricchezza per chi ce l’ha, ti aiuta» (percorsi per genitori, diocesi di Trento). Questa breve testimonianza ci lascia intuire che il venire al mondo di un bambino è un fatto inaugurale nella vita adulta di due persone. “Inaugurale” significa che interviene nella vita una novità che instaura un nuovo inizio, un ricominciamento. E’ vero che nasce un bambino, ma è altrettanto vero che nasce una donna e un uomo, nascono come madri e padri. «Che arriva dall'embrione alla puerpera?», … questa donna ogni giorno diventa diversa, dalla sua forma lo vediamo e dall'alone, vediamo che questa donna si adatta a creare, anche se pare una contraddizione parlare di adattamento alla creatività. … «Ecco quanto arriva alla donna dall'embrione: proprio questo adattamento alla creatività». Si è creduto per molto tempo … che un cordone ombelicale è unidirezionale: ma non è vero. Il cordone ombelicale, come ogni rapporto vivo, è sempre bidirezionale»2. Il cordone è bidirezionale: si tratta di una doppia nascita. E questo vale sia dal punto di vista umano che di quello della fede. - Prima di tutto dal punto di vista umano. Gli adulti che fanno crescere i figli dentro una relazione di amore, imparano dai piccoli la docilità dell’essere, l’abbandono fiducioso alla vita. Tornano grazie a loro ad avere un rapporto con la vita non dettato dall’utilità, non sottomesso all’economia, non dominato dal fare, ma centrato sull’essere, sull’amore, sul prendersi cura reciprocamente. Gli adulti, generando alla vita, si rigenerano al valore della vita donata; sentono la bellezza di essere creature. Si tratta di una grande opportunità per “ri-cominciare” a vivere diversamente. - La stessa cosa avviene per quanto riguarda la fede. Gli adulti che generano i bambini alla vita si possono “ri-svegliare” a una vita che va oltre, che va verso “l’oltre”, che può aprire ad esperienze umane vissute in profondità, che può far emergere interrogativi esistenziali assopiti. Quando noi insegniamo a un bambino a fare il segno della croce, diciamo con lui il Padre nostro o l’angelo di Dio, o l’Ave Maria, noi grandi torniamo piccoli con lui di fronte a Dio. E loro ci aiutano con la loro semplicità e il loro abbandono, a stare davanti a Dio come figli, a sentirlo Padre per noi, a renderci conto che tutto ciò che siamo e facciamo viene da lui, dalla sua grazia. E quando crescono e cominciano a fare domande, essi danno voce alle domande sopite che sono in noi, e ci chiedono di cercare con loro le risposte giuste, le parole non stereotipate, ci chiedono di non essere superficiali. Insomma, mentre li aiutiamo a credere, noi rifacciamo con loro la strada della fede e ricominciamo a credere noi. E quando sono più grandi, e prendono le loro distanze, anche dalla fede, è molto importante per loro, mentre se ne vanno, che ci sia qualcuno che tiene, che resta. Essi si possono allontanare sicuri, anche dalla fede, perché sentono che c’è un porto. Possono essere pellegrini nella vita e non vagabondi, senza riferimenti. Sono i bambini i traghettatori della fede dei grandi. Abbiamo sempre detto che i genitori sono i primi catechisti dei loro bambini; è tempo che cominciamo a renderci conto che i bambini sono i primi catechisti dei loro genitori. I bambini piccoli: dopo, sarà troppo tardi. - E’ questa la sfida che il rinnovamento dell’iniziazione cristiana sta affrontando, in molte comunità cristiane. L’importante è capire che l’iniziazione cristiana non inizia con la prima comunione, ma con il battesimo, il che significa che inizia con i genitori, non con i bambini. La cura della pastorale battesimale diventa così determinante. È spesso il primo appuntamento dopo anni di allontanamento 2 - DOLCI Danilo, Dal trasmettere del virus del dominio al comunicare della struttura creativa, Edizioni Sonda, Milano 1988, pag. 14-15. 5 dalla comunità. L’accoglienza qui è determinante. Ed è accoglienza nel segno della reciprocità. Gli incontri nelle case dei nuovi genitori sono un primo trasloco della comunità cristiana nelle case della gente. Sono fatti spesso da laici, da coppie di sposi. Avviano semplici e profondi dialoghi. Fanno del bene alla fede non solo dei genitori visitati, ma degli stessi visitatori. Altrettanto piena di sorpresa è la proposta di incontri nel periodo 0-6 anni, in cui possono avvenire cose molto belle, perché non c’è in ballo un sacramento. E’ una grande opportunità pastorale che i genitori gustano senza la fretta di sentirsi prossimi ai sacramenti; si aprono alle relazioni, alla meraviglia della vita e alla ricerca del senso della morte. E’ così che quando si arriva al tempo della prima comunione, non si parte da zero: per alcuni genitori è un percorso di ricominciamento che continua insieme ai loro figli. In questo annuncio del Vangelo della paternità e della maternità risulta determinante, ancora una volta, il nostro atteggiamento ecclesiale. La domanda che ci dobbiamo porre è la seguente: cosa abbiamo di bello da offrire loro? Avviene come quando qualcuno ci viene a trovare. Gli si fa una sorpresa. Usciamo dalla logica “se hai delle condizioni allora ti diamo il sacramento” e passiamo a quella: “ti facciamo una bella proposta”, senza rimanere offesi se non l’accettano. Questo chiede molta cura nel contatto e nel tipo di proposta che intendiamo loro fare. Sarà la proposta di un percorso di riscoperta della fede curato e bello, al quale li invitiamo a partecipare, in una logica di proposta e non di ricatto. Si tratta della logica della sorpresa, non di quella del contratto. Fare la sorpresa del Vangelo ai genitori significa entrare in un rapporto di totale gratuità e di profondo amore con loro. E non pensiate che questo sia un cedimento, un abbassamento delle esigenze del vangelo. E’ vero il contrario: paradossalmente, più siamo ospitali, più ci possiamo permettere di essere propositivi e autentici. Potremmo allora dire così: siamo molto preoccupati di “educare la domanda” di sacramenti; è invece prioritario “educare la nostra risposta”. Una nuova evangelizzazione nel segno della reciprocità Vorrei concludere queste mie riflessioni con voi questa sera rendendoci tutti attenti a due aspetti fondamentali. a) Evitare di affrontare il compito dell’evangelizzazione degli adulti in modo estrinsecista. I Lineamenta del prossimo Sinodo dei Vescovi ci invitano ad evitare di considerare la nuova evangelizzazione come un cambiamento di strategie nella proposta del Vangelo, e di interpretarla invece come «un’azione anzitutto spirituale» (n. 5, p. 23). «La domanda circa il trasmettere la fede… non deve indirizzare le risposte nel senso della ricerca di strategie comunicative efficaci e neppure incentrarsi analiticamente sui destinatari, per esempio i giovani, ma deve essere declinata come domanda che riguarda il soggetto incaricato di questa operazione spirituale. Deve divenire una domanda della Chiesa su di sé. Questo consente di impostare il problema in maniera non estrinseca, ma corretta, poiché pone in causa la Chiesa tutta nel suo essere e nel suo vivere. E forse così si può anche cogliere il fatto che il problema dell’infecondità dell’evangelizzazione oggi, della catechesi dei tempi moderni, è un problema ecclesiologico, che riguarda la capacità o meno della Chiesa di configurarsi come reale comunità, come vera fraternità, come corpo e non come macchina o azienda»3. Mi pare che questo sia il primo elemento per impostare correttamente la catechesi degli adulti. Se le parole della Chiesa non passano nell’attuale contesto, non è primariamente perché le persone non capiscono o sono chiuse, né perché i metodi di evangelizzazione sono superati, ma perché le parole del Vangelo non parlano più alla Chiesa stessa. La crisi della comunicazione della fede rinvia la 3 Sinodo dei Vescovi, XIII Assemblea generale ordinaria, La Nuova Evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana. Lineamenta, Libreria Editrice Vaticana, 2001, p. 12. 6 Chiesa ad un rinnovato ascolto. Il secondo annuncio domanda un secondo ascolto. L’affermazione più forte in questo senso è che il problema dell’evangelizzazione non è un problema catechistico, ma ecclesiologico. Benedetto XVI utilizza il termine “tattica” per evitare questo fraintendimento: «Non si tratta qui di trovare una nuova tattica per rilanciare la Chiesa. Si tratta piuttosto di deporre tutto ciò che è soltanto tattica e di cercare la piena sincerità… portando la fede alla sua piena identità, togliendo da essa ciò che solo apparentemente è fede, ma in verità è convenzione e abitudine» (Discorso ai cattolici impegnati nella chiesa e nella società, viaggio in Germania, 25 settembre 2011). b) L’evangelizzazione nel segno della reciprocità. Come metteremo in atto nelle nostre comunità questo “secondo ascolto” come premessa per un “secondo annuncio”? Nel modo seguente. Il Signore ci precede nel nostro compito di evangelizzazione. Egli è già misteriosamente presente, tramite il suo Spirito, nel cuore degli adulti verso i quali andiamo. In fondo il nostro compito non è di far nascere la fede (questo è opera dello Spirito Santo), ma va piuttosto nella linea dello “svelamento”, del “riconoscimento” di una presenza che ci precede: « andare verso gli altri per scoprire con loro, nei loro luoghi di vita, nel cuore della loro esistenza, le tracce del Risorto che sempre ci precede, che è già là in incognito» (André Fossion). La sfida e il guadagno più grande dell’impegno della catechesi degli adulti sta proprio in questa direzione. Spostandoci nei luoghi degli altri, ci viene donata una Parola di Dio per noi, comincia per noi il secondo ascolto. Saranno questi accompagnamenti e questi accompagnati ad essere, per noi, una nuova opportunità di rinascita. Nel compito di evangelizzazione, non sappiamo poi bene chi evangelizza chi. Di fatto è una reciproca evangelizzazione, perché mentre noi portiamo una pagina di vangelo agli adulti, questi, se raggiunti nella loro profonda umanità, ne hanno una per noi, una parola di Vangelo che lo Spirito da tempo aveva riservato in loro per noi. E’ così che insieme, riscopriremo tutti il vangelo con occhi e con cuore nuovo. Conclusione Avrete notato che in questo mio dialogo ho sempre proceduto rovesciando le prospettive: non chiedersi cosa hanno da portare gli adulti, ma cosa abbiamo da offrire noi; non concentrarsi solo su quale vangelo è bene che sentano da noi, ma quale vangelo sono in grado di sentire loro; non partire da dove siamo arrivati noi, ma da dove si trovano loro; non pensare solo che i genitori sono i primi catechisti dei loro bambini, ma pensare anche che i bambini sono i primi catechisti dei loro genitori; non pensare che noi abbiamo da portare agli adulti qualcosa che loro non hanno, ma pensare piuttosto che il nostro compito è di aiutarli a riconoscere la presenza di Dio che è già in loro, in modo che possano, come Giacobbe, svegliarsi dal sonno e dire: «Il Signore era qui e io non lo sapevo!» (Gen 28,16); non pensare che noi sappiamo che cosa è il vangelo e gli altri no, ma pensare che dobbiamo noi tornare a leggere il vangelo con occhi nuovi; infine non credere che saremo capaci di leggere il vangelo con occhi nuovi da soli, ma pensare che saranno gli occhi degli altri, dei lontani soprattutto, a risvegliare in noi uno stupore dimenticato, una gioia perduta, un tesoro tornato sotto terra, una perla di grande valore ormai appannata. La catechesi degli adulti non è solo il nodo centrale dell’evangelizzazione: è anche il nodo centrale della conversione della comunità ecclesiale al suo Signore, che sembra ancora una volta rivolgerle la parola dell’Apocalisse: «Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua perseveranza… Ho però da rimproverati di avere abbandonato il tuo primo amore» (Ap 2,2.4); e ancora: «Conosco le tue opere… Sii vigilante, rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire…Ricorda dunque come hai ricevuto e ascoltato la Parola, custodiscila e convertiti» (Ap. 3, 1-3). E’ questo il paradosso bello della nuova evangelizzazione: l’autoevangelizzazione della comunità ecclesiale non sola, ma insieme con le donne e gli uomini di oggi, insieme alle persone vicine e a quelle lontane, a quelle in regola e a quelle non in regola, insieme ai separati e divorziati, insieme 7 agli ammalati, alle persone colpite dalla malattia, a chi non ha lavoro, a chi pena a sbracare il lunario, a chi è ferito dalla vita. L’augurio è proprio questo: andiamo con più coraggio verso forme di annuncio nei luoghi abitati dalla gente, cioè nei nostri luoghi. E’ lì che il Signore ci attende. 8