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Con i passi
del Concilio
Traccia di riflessione
sulle quattro Costituzioni conciliari
per la catechesi degli adulti
Mons. Giacomo Lanzetti, vescovo di Alba
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UNO SGUARDO
SUL “FENOMENO” CONCILIO
Un concilio “imprevedibile”
I cinquant’anni che ci separano dall’apertura del Concilio Vaticano II hanno registrato una tale
accelerazione di fatti, così profondi cambiamenti nel mondo e nella società, nelle famiglie e nelle
persone, da rendere quasi irriconoscibili quei tempi e collocarli in un passato non facilmente decifrabile. La Chiesa, da parte sua, è stata investita da un processo di trasformazioni “inedito e, per
certi aspetti neppure ipotizzato in queste proporzioni”, che induce a riconoscere che si tratta di una
“crisi epocale, tanto generalizzata e inedita da potersi ritenere la più grave nella storia della Chiesa”
(G. Ringhini).
In queste condizioni non stupisce che le decisioni del Concilio, nei decenni che lo seguirono,
abbiano percorso complicati meandri di interpretazione e realizzazione, tali da richiedere lo sforzo
di valenti storici per fornire un quadro complessivo che possa presentare le credenziali della completezza e dell’imparzialità. Non è questa l’intenzione che mi motiva nella stesura di questo e dei prossimi articoli sul Concilio.
E tuttavia già questi cenni inducono a considerare come degne di particolare attenzione le voci
degli ultimi “testimoni oculari” che restano. Quella di mons. Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, si
leva spesso con accenti ricchi di accoramento e patos, oltre che di non comune chiarezza. Lo ha
fatto anche recentemente, definendo senza mezzi termini uno dei caratteri essenziali del “fenomeno”
Concilio: “Un’assemblea che fece maturare i Vescovi, sotto la guida del Papa, verso conclusioni
impreviste all’inizio”. Chi ricorda quegli anni sa che nella Chiesa convivevano a fatica istanze diverse: da una parte un interessante rinnovamento teologico e il fiorire di “movimenti” (biblico, liturgico, ecumenico, missionario e mariano), dall’altra l’emergere sempre più impetuoso di problemi –
l’emarginazione del ruolo sociale della Chiesa, la crisi del clero, la distanza tra le masse operaie e le
giovani generazioni, il rapporto difficile con la modernità, la diffusione dell’ateismo, le divisioni tra
le confessioni cristiane… Il risultato, come dice un autorevole teologo del tempo, è che, se “la
Chiesa ci appariva dal di fuori come una grande e potente organizzazione, una città fortificata di cui
si contemplano le mura” (Y. Congar), sia la pastorale interna, sia i rapporti con la società e il mondo
di giorno in giorno rivelavano sempre più impietosamente tutti i limiti di un pervicace tradizionalismo e di una chiusura insieme pavida e a volte non scevra di sufficienza1. Ad essi non parevano in
Tutti questi motivi inducono a guardare con ammirazione il coraggio del vecchio Papa Giovanni XXIII di indire, a
distanza di un secolo dall’ultimo, un nuovo Concilio ecumenico. I suoi intenti meritano di essere ricordati almeno
citando il suo memorabile discorso di apertura ufficiale del Concilio, Gaudet Mater Ecclesia, in cui definì i Concili
ecumenici “celebrazione solenne dell’unione di Cristo e della sua Chiesa”; ribadì l’intenzione che il Vaticano II venisse inteso in continuità con il passato, attraverso una “rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto l’insegnamento
della Chiesa nella sua interezza e precisione”; affermò che comunque ci si attendeva un “balzo innanzi” per venire
incontro ai bisogni odierni. Per farlo, offriva il criterio della fiducia, contrastando le opinioni pessimistiche dei “profeti di sventura” che “nei tempi moderni non vedono che prevaricazione e rovina”.
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grado di porre rimedio i documenti che la Curia aveva predisposto per la discussione conciliare,
tant’è che la loro inadeguatezza a rispondere all’istanza di “aggiornamento” che aveva indotto Papa
Giovanni XXIII a porsi coraggiosamente alla testa di un inesplorato cammino ecclesiale, venne presto smascherata2. Lo Spirito aveva preso per mano l’assemblea dei Vescovi e la guidava su strade
impervie ma ben diversamente promettenti. Ne è testimonianza la “parresia” – la libertà e il coraggio di parlare francamente – che ha permesso ai Padri ed alla Chiesa di “maturare” convincimenti
prima patrimonio di frange di teologi o di gruppi minoritari. La leadership del Concilio passò così ai
Vescovi aperti al rinnovamento, e teologi, guardati per anni con sospetto, divennero periti ufficiali.
Le quattro Costituzioni conciliari
Per forza di cose soffermerò la mia attenzione – e la modesta analisi che è nelle mie competenze,
dapprima di stupito “spettatore” (come studente di teologia) e poi di diretto interessato alla realizzazione delle indicazioni conciliari (come giovane sacerdote e in seguito come parroco e vescovo) – ai
quattro documenti più importanti (chiamate “Costituzioni”), riservando solo qualche cenno ad altri
testi minori, ma a volte anche più “esplosivi” nelle loro novità (i nove “decreti” e le tre “dichiarazioni”). È comunque evidente che questo anniversario, che ha originato l’iniziativa dell’Anno della
Fede, contiene un esplicito invito per tutti a riprendere in mano l’insieme dei documenti del Concilio
per trovare il modo, come anche fa la nostra Diocesi, di ripercorrerli con una certa organicità e completezza.
Mi rifaccio ancora alle parole di mons. Bettazzi per un’essenziale definizione delle quattro
Costituzioni: esse “rivalutano il contatto attuale con Dio nella sua Parola” (Dei verbum sulla Divina
Rivelazione), e “l’immersione nello Spirito effuso da Cristo morto e risorto presente sull’altare”
(Sacrosantum concilium sulla Sacra Liturgia); “presentano una Chiesa in cui emerge come prioritario il popolo di Dio, di cui la gerarchia è al servizio, con la dimensione della comunione, dalla collegialità episcopale ai consigli pastorali parrocchiali” (Lumen gentium sulla Chiesa), e che “si sente al
servizio di un’umanità vivificata comunque dallo Spirito di Dio, con una prospettiva di supernaturalità che va al di là dei nostri schemi scolastici” (Gaudium et spes, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo).
Difficoltà e resistenze, aperture e sperimentazioni
Sono forse sufficienti questi cenni per dare l’idea della portata delle novità che il Concilio ha rappresentato fin da subito: davvero il vento dello Spirito, come il giorno di Pentecoste, ha spalancato
porte e finestre di una Chiesa arroccata su se stessa, chiusa nelle sue ormai anguste certezze e nelle
Al riguardo mi pare particolarmente efficace, e perciò degna di citazione, la seguente sintesi: “Il Concilio è stato il
frutto dei movimenti di rinnovamento teologico del XX secolo: negli studi biblici, patristici e medievali; nella teologia liturgica; nei nuovi, più positivi incontri con la filosofia moderna; nel ripensamento della relazione Chiesamondo; nella ridefinizione del ruolo dei laici nella Chiesa. Nei decenni precedenti il Concilio, molti, se non tutti,
questi movimenti erano stati in qualche misura sospettati o ufficialmente disapprovati – se ne coglie l’eco nei testi
preparatori del Vaticano II. Quando questi testi vennero fortemente criticati per la loro distonia dal rinnovamento
teologico e pastorale già intrapreso, durante la prima sessione del Concilio (1962), si trattò di un momento veramente drammatico” (A. Komonchak).
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sue nuove paure, sempre meno capace di parlare ai credenti e alla società. I Padri conciliari hanno
avuto il coraggio di non nascondersi nessuna delle difficoltà del momento e delle sfide a cui dovevano rispondere, anzi le hanno considerate “segni dei tempi”, tracce da interpretare della presenza di
un Dio del tutto intenzionato ad amare anche gli uomini del secolo XX… E di quelli successivi, perché ben presto i Padri, e la Chiesa, ebbero chiara l’impressione di attraversare dei punti di non ritorno, oltre i quali la Chiesa tutta avrebbe dovuto “camminare insieme” (per ricordare il titolo di una
fondamentale lettera pastorale del card. Pellegrino di quegli anni) anche nel futuro.
Che l’impresa non fosse facile apparve fin dall’inizio: dalle finestre spalancate, insieme all’ebbrezza di una nuova libertà – delle coscienze, dei figli di Dio, dei rapporti dentro e fuori la Chiesa
– si intravedeva una spessa coltre di paure che assunsero presto le sembianze di ostili resistenze al
cambiamento, considerato tradimento dell’irrinunciabile tradizione secolare della Chiesa.
Atteggiamento che rifiutava di prendere atto che una parola d’ordine (assieme ad “aggiornamento” e “sviluppo”) che i padri conciliari si erano data era, secondo il neologismo coniato da Pèguy
e ripreso in chiave teologica da Congar, ressourcement, nel senso di “ritorno alle fonti”, per leggere il passato “come norma in base alla quale giudicare il presente”, per ritornare alla parola della
Bibbia, alle origini cristiane prima che venissero tradotte negli schemi concettuali della cultura
greca, ai Padri della Chiesa e al loro linguaggio.
Per dirla quasi a modo di slogan, il Vaticano II non ha rappresentato una rottura con la tradizione, ma “una demolizione critica delle restrizioni degli ultimi secoli, ottenuta mediante la vivificazione dell’antica tradizione” (O.H. Pesch): “le sterzate del Concilio hanno un’intenzione correttiva, interpretativa e di migliore aderenza alla Chiesa sia escatologica che apostolica”
(R.
Bertacchini). O, meno icasticamente: “Il Concilio si concepì come erede della tradizione e, dall’altra parte, come suo interprete autentico per una nuova situazione contraddistinta da un rapido e
profondo cambiamento” (W. Kasper). Ne seguirono anni e decenni di coraggiose aperture e promettenti sperimentazioni, accompagnate da diffuse nostalgie del passato capaci di rifiuti, retromarce, annacquamenti, tradimenti.
Tanto che, ancora a distanza di decenni, il teologo Ruggeri e lo storico Melloni si chiedevano:
Chi ha paura del Vaticano II? (Carroccio 2009). Personalmente concordo con i molti che rifiutano
di interpretare il Concilio con le inadeguate categorie di “rottura” o “continuità”, e consento con
Ruggeri che definisce l’evento come “esperienza della sovranità e della libertà del Vangelo e di
sguardo amico sulla storia, che permise alla Chiesa (…) di non usare più ‘il bastone della disciplina’, ma ‘la medicina della misericordia’ nel suo cammino in compagnia degli uomini peccatori e
bisognosi di speranza”.
Concilio “pastorale” dagli esiti contrastati
Da un simile atteggiamento “spirituale” non potevano che nascere documenti che chiedevano di
essere interpretati superando sia la dicotomia continuità-rottura, sia il riduzionismo che taluni hanno
voluto leggere nell’aggettivo pastorale, riferito non solo alla Costituzione più innovativa (quella
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo), ma all’intero Concilio per l’assenza di formulazioni dogmatiche. In verità il Concilio ha recuperato importanti elementi dottrinali che erano stati relativamente dimenticati nei secoli precedenti: per esempio la collegialità episcopale, il sacerdozio di tutti
battezzati, la teologia della Chiesa locale, l’importanza della Sacra Scrittura…
Questo recupero ha consentito di collocare altri elementi dottrinali in contesti più ampi e più ricchi di quelli in cui erano precedentemente posti. E inoltre ha così pienamente realizzato l’invito di
Papa Giovanni di offrire una visione positiva della fede, per di più in un linguaggio accessibile e
rinunciando agli “anatemi” tipici dei precedenti concili. Insomma, “l’attributo ‘pastorale’ non sminuisce quel Concilio di fronte a quelli ‘dogmatici’, ma al contrario lo qualifica, dato che un dogma
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non acquisisce la sua compiuta efficacia se non viene accolto e vissuto dal popolo di Dio”
(Bettazzi)3.
E tuttavia si è rivelato impietosamente vero che, se un dogma non immediatamente si può prestare
a interpretazioni diverse, così non è stato per i documenti “pastorali” del Vaticano II. Tant’è vero che
il tema della loro interpretazione e conseguente ricezione ha attraversato drammaticamente tutti i
decenni successivi, con vistose e laceranti conseguenze su molti “fronti” ecclesiali, che il filosofo
Prini ha così sintetizzato: “Molti credenti, e anche parte del clero, vivono in uno stato di sofferto scisma silenzioso”. E altri, ancora più radicalmente: “Del Vaticano II si diceva che era solo un inizio,
che la sua ricezione avrebbe portato finalmente la Chiesa a essere compagna di strada dell’uomo,
viandante con lui nel cammino della storia, testimone di una speranza e non detentrice di una verità4.
Occorrevano fede e gusto del rischio. Ha prevalso invece la paura. E gli effetti catastrofici sono ora
sotto gli occhi di tutti: una progressiva settarizzazione del cattolicesimo (…); quadri di riferimento
linguistici, simbolici e concettuali ormai incomprensibili agli stessi fedeli; incomunicabilità con un
mondo pluralistico (…); scarso rispetto per la libertà di coscienza, che invece il Concilio aveva riconosciuto come diritto inalienabile della persona (…); poco casti connubi con la politica alla ricerca
di sostegni esterni …” (G. Piccioli5).
Certo simili esiti erano l’ultimo degli intenti dei Padri conciliari. Ma non del tutto imprevedibili,
se è fondata l’opinione di J.H. Newman, secondo cui “è raro che a un Concilio non segua una gran-
Lo storico gesuita J. O’Malley, in uno studio esemplare (Che cosa è successo nel Vaticano II?, Vita e Pensiero, 2010)
fa notare che nei testi del Concilio per la prima volta non ci sono ordinanze prescrittive con relativa anatema ai trasgressori; né ci sono dogmi o definizioni dottrinali. A riguardo del “genere letterario” adottato dai documenti conciliari, J. O’Malley osserva: “Esso mira a conquistare l’assenso interiore, non a imporre la conformità dall’esterno.
Insegna, ma mediante il suggerimento, l’accenno e l’esempio piuttosto che con il pronunciamento magisteriale; è uno
strumento di persuasione, non di coercizione”. E a riguardo delle parole al servizio di tali intenti, fa notare sia quelle
adottate (popolo di Dio, fratelli e sorelle, collegialità, cooperazione, associazione, dialogo, conversazione, pellegrina –
la Chiesa –, servo – il presbitero –, sviluppo, progresso, evoluzione, coscienza, mistero, santità…) e quelle evitate,
tutte quelle “di estraniazione, esclusione, inimicizia, quelle di minaccia e intimidazione, quelle di sorveglianza e punizione”.
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Al riguardo trovo particolarmente illuminante la seguente affermazione del card. Kasper: “San Bonaventura dice: noi
non possediamo la verità, è la verità che ci possiede. Il dogma stesso è come il dito puntato verso il Mistero. Ciò che
conta è la realtà del Mistero, ciò che il Mistero stesso opera, e che viene prima della definizione dogmatica. La
Tradizione, il depositum fidei, la custodia della verità di fede è essenziale nella vita della Chiesa. Ma il ‘tesoro’ a cui
rimandano e accennano tutte le formule di fede custodite dalla Tradizione è Cristo stesso. Ed è lui che tradit, che trasmette la vita alla Chiesa di generazione in generazione. È lui il soggetto della Tradizione. Il magistero ecclesiastico è
solo un umile servitore di questa sua azione. E la fede non si ferma alla ripetizione delle formule, ma è il riconoscimento della realtà che dalle formule viene indicata. Insomma, anche quando ripetiamo i dogmi, quando ad esempio
recitiamo il Credo, compiamo prima di tutto un gesto di preghiera, di domanda allo Spirito. Non affermiamo un
nostro possesso”.
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Il direttore editoriale di Garzanti si è così espresso in occasione di una recensione del citato volume sul Concilio di
O’Malley: si tratta di una voce, per così dire, “esterna” al mondo ecclesiale, ma non per questo meno interessante e
degna di ascolto. Sulla medesima linea mi pare significativa l’opinione che un altro “laico” propone in un suo studio
sociologico (M. Marzano, Quel che resta dei cattolici, Feltrinelli 2012), che tra l’altro utilizza tre immagini per fotografare l’attuale stato del cattolicesimo in Italia: quella di un banco vuoto, per indicare il costante allontanamento, di
un paese sempre più secolarizzato, da quella che per secoli è stata la sua Chiesa; quella del fortino assediato, per
descrivere il sentimento della gerarchia, secondo cui l’istituzione Chiesa è circondata da nemici agguerriti, eppure
intenzionata a resistere, a non cambiare; e infine quella di un piccolo porto, rappresentato dai movimenti ecclesiali,
interpretati come le nuove sette cattoliche, unica vera novità degli ultimi decenni. Probabilmente prima di scandalizzarsi di simili modi di guardare – e giudicare – la Chiesa (nei suoi esiti post-conciliari), sarebbe bene trovare il coraggio di prenderli sul serio nella loro, almeno parziale, verità e interrogarci sulle nostre responsabilità e inadempienze…
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de confusione”; a maggior ragione a motivo dell’apertura, persino della profeticità di molta parte dei
documenti approvati. “Sino a ieri si accusava la Chiesa romana di lentezza e persino di immobilismo. Il Concilio di Trento arrivò troppo tardi per arginare le devastazioni della Riforma; la crisi precedeva il Concilio. Questa volta avviene pressoché l’inverso; il Concilio precede la crisi e lo choc è
così forte che molti credenti ne sono turbati, non facendo alcuna distinzione tra i principi permanenti
e le loro applicazioni alle nuove situazioni” (G. Philips). E comunque anche i vescovi, nel sinodo
straordinario convocato per celebrare il 20° anniversario della chiusura del Vaticano II, hanno
dichiarato: “In nessun modo si può affermare che tutto quanto è avvenuto dopo il Concilio è stato
causato dal Concilio”. Il fatto è che nel tempo postconciliare sono esplose crisi profonde di vario
segno, che hanno, tra l’altro, investito la Chiesa specie nei paesi di vecchia tradizione cristiana, al
punto da far dire a J.B. Metz che, al “secolo della Chiesa”, sta sostituendosi un “secolo dell’esodo
massiccio dalle chiese”. Sarebbe comunque improprio e anche superficiale puntare il dito sul
Concilio, trascurando le reali proporzioni di un fenomeno che ha radici ben più vaste e dimenticando i molteplici cambiamenti positivi che esso ha prodotto. Un giudizio equilibrato richiederebbe il
confronto con la situazione precedente e la previsione di quale sarebbe stata la situazione odierna se
non ci fosse stato il Vaticano II.
Alla luce di quanto detto – e delle intenzioni del Papa nel proporre l’Anno della Fede - è nostro
impegno evitare di considerare il Concilio un evento ormai sorpassato e consegnato agli archivi; al
contrario si tratta di proseguirlo, renderlo vivo, attualizzarlo e, in alcuni punti, superarlo, seguendo il
suo percorso. È ciò che – nei limiti enunciati – cercherò di fare negli articoli seguenti, delineando le
linee portanti delle quattro Costituzioni, sia nelle loro istanze più significative, sia in quelle non del
tutto realizzate, che anche oggi si impongono alla nostra fedeltà ai “segni dei tempi”.
✢ Giacomo Lanzetti, vescovo
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2. “CULMINE E FONTE”
DELLA VITA CRISTIANA
La Messa: da “oggetto misterioso” a “mistero” centrale della fede
Il primo documento approvato dai padri conciliari – il 4 dicembre 1963, al termine della seconda
sessione e con una votazione plebiscitaria: 2147 voti favorevoli e 4 contrari – fu la Costituzione
Sacrosantum Concilium sulla liturgia. La riforma della Messa che da essa ebbe origine diede subito
il senso dei radicali cambiamenti cui il Concilio non si era sottratto dal porre mano, vero “cuneo”
inserito con forza tra le resistenze e le oscurità di quella stagione ecclesiale, e che Giovanni Paolo II
definirà il “frutto più visibile di tutta l’opera conciliare” (Lett. Ap. Vicesimus quintus annus, 12). In
realtà, pur nella sua straordinaria forza innovativa, essa fu il risultato di molti decenni di un “movimento liturgico” che aveva operato spesso in modo sotterraneo, ma i cui frutti venivano ora messi a
disposizione di tutta la Chiesa.
Chi ricorda com’erano generalmente le Messe pre-conciliari può cogliere bene la portata dei cambiamenti, che hanno per così dire “rovesciato” tutto l’impianto precedente e ormai di vecchissima
data. Ad una fruizione individuale si sostituiva la partecipazione comunitaria; la sovrapposizione
disordinata di pratiche devozionali lasciava il posto ad una consapevole adesione al mistero pasquale
di Cristo; la lingua latina, che aveva cristallizzato un distacco profondo tra fedeli e Parola di Dio, tra
fedeli ed azione sacra, lasciava il posto all’italiano, che invogliava ad un accostamento consapevole
ai testi liturgici e permetteva una relazione diversa tra credenti e credo celebrato e realizzato; persino
provvedimenti non propriamente centrali – quali l’introduzione della preghiera dei fedeli, il segno
della pace, la comunione in mano – sono stati segnali significativi di una nuova modalità di coinvolgimento nella liturgia, così che i fedeli, da semplici spettatori, imparavano a diventare attivi partecipanti; in una parola, l’oggetto misterioso – e un po’ magico – che era la Messa tradizionale, veniva
sottoposto ad un rinnovamento che poneva al centro della vita cristiana e della pastorale la celebrazione del mistero pasquale e l’incontro con il Signore: davvero l’eucaristia ha potuto mostrare la sua
natura di grembo e cuore della Chiesa e avviare i credenti al superamento di una forma di cristianesimo diventata abitudine, per riscoprire la fede come relazione personale e profonda con Gesù
Cristo.
In sintesi tutti i temi del Concilio
La Sacrosantum Concilium ha anticipato le grandi prospettive delle successive Costituzioni: l’importanza della Parola di Dio nella vita di fede, la Chiesa mistero e sacramento in Cristo, l’essenziale
nesso fede-vita. In primo luogo il diverso “spiegamento” della Bibbia nel corso di tre anni ha aperto
panorami di conoscenza dell’azione di Dio nella storia degli uomini – anche ai nostri giorni – prima
impensati: davvero si è realizzato uno dei moniti principali della Costituzione: “La mensa della
Parola di Dio sia preparata ai fedeli con maggiore abbondanza, siano aperti più largamente i tesori
della Bibbia” (51). Parimenti la riscoperta della Chiesa come popolo sacerdotale di Dio, corpo di
Cristo, dimora e frutto dello Spirito, è stato un altro dei risultati spalancati alla realizzazione delle
diverse ministerialità. Così come l’essenziale nesso tra celebrazione e vita, fortemente evidenziato
dal documento, ha reso i fedeli sempre più consapevoli delle dimensioni “pratiche” della fede.
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Con questo documento si apriva una nuova era, una bella stagione di rinnovamento liturgico che,
senza rinnegare la tradizione, con coraggio veniva incontro alle mutate situazioni ed esigenze. Esso
fu presto visto come il “cuore del Concilio”, la più originale espressione dell’aggiornamento della
Chiesa proclamato da Papa Giovanni XXIII, il primo e più importante strumento per promuovere la
vita cristiana a le riforma della Chiesa (cfr 1), confermando l’intuizione di Paolo VI: cominciare
dalla riforma della liturgia per attivare la riforma della Chiesa. Non per nulla egli, concludendo quella sessione conciliare, ebbe accenti particolarmente solenni (per quanto ancora segnati dal “noi
maiestatico”): “Esulta l’animo nostro per questo risultato. Noi vi ravvisiamo l’ossequio alla scala
dei valori e dei doveri: Dio al primo posto, la preghiera prima nostra obbligazione; la liturgia, prima
fonte della vita divina a noi comunicata, primo dono che noi possiamo fare al popolo cristiano con
noi credente e orante, e primo invito al mondo perché sciolga in preghiera beata e verace la muta sua
lingua e senta l’ineffabile potenza rigeneratrice del cantare con noi le lodi divine e le speranze
umane per Cristo e nello Spirito Santo”.
Entusiasmo sincero e qualche eccesso
L’entusiasmo con cui le disposizioni della Costituzione furono accolte testimonia che era stato
centrato l’obiettivo di avvicinare la liturgia ai fedeli e i fedeli alla liturgia, favorendo la loro partecipazione attiva: sparirono i rosari dalle mani dei presenti, si moltiplicarono iniziative di gruppi liturgici che coinvolsero animatori, cantori, ministranti in un prezioso servizio a favore dell’intera comunità. Davvero niente poteva più essere come prima: una ventata d’aria fresca aveva investito le
nostre assemblee domenicali. Era come se, improvvisamente, esse fossero state indotte a smettere il
loro compassato – e logoro – vestito d’altri tempi, per indossarne uno nuovo, fresco e colorato,
gioioso e attraente. Non stupisce che questa euforia si sia declinata anche in manifestazioni ingenue
e non propriamente adeguate, che hanno assunto le modalità della superficialità, dell’improvvisazione, della banalizzazione, dell’invasione verbale, della manipolazione di testi e riti: il fatto è che dopo
secoli di immobilismo, lo spazio aperto alla partecipazione di tutti a volte ha dato alla testa ed è
stato riempito con una baldanza probabilmente eccessiva. E tuttavia ritengo che solo spiriti fortemente viziati da preconcetti o animi biliosi possano ritenere le liturgie precedenti migliori delle
attuali. Le incertezze e gli eccessi, le carenze e i ritardi nella realizzazione della riforma liturgica
non offuscano la gran mole di bene che essa ha apportato. Si tratta ora di riprenderla in mano, perché possa essere nuovamente fonte di ispirazione di apertura a Dio, di unione con Cristo e i fratelli,
di vita cristiana: si tratta di non accontentarsi dei risultati raggiunti e di non rassegnarsi ai limiti
emersi.
Una riforma sempre da rinnovare
A cinquant’anni dalla riforma liturgica, se mai mi sembra si debba denunciare un ritorno al formalismo, un ispessimento della ritualità, un sedimentare di usi e pratiche che, nel loro insieme,
rischiano di offuscare il senso originario del dettato conciliare, consegnando intere assemblee alla
passività e alla stanchezza. Azzardando un paragone, se è vero quanto sostiene Chesterton che affinché un matrimonio funzioni, nel corso degli anni occorre innamorarsi più volte della medesima persona, lo stesso vale per la riforma liturgica: non basta che esteriormente sia diventata prassi corrente
nelle nostre parrocchie; se periodicamente non se ne ripercorrono le motivazioni e non si aderisce –
specie comunitariamente – alle loro istanze più profonde, si rischia di cadere in una routine capace
di svuotare di significato tutto l’impianto riformatore, sostituendo ad una partecipazione consapevole un ritualismo stanco e vuoto, ad un vecchio formalismo uno nuovo fatto di celebrazioni senza ani9
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mazione, stanche e piatte, assemblee senza coscienza della propria dignità e funzione, passive e
mute, a tal punto da rendere l’azione liturgica qualcosa di impassibile e immutabile, quasi del tutto
priva delle indispensabili dimensioni estetica ed affettiva. Specie, ma non solo, in occasione dei riti
di passaggio (nascita, adolescenza, matrimonio, morte) è forte tra la nostra gente la richiesta di parole e simboli che, provenendo da una lunga tradizione di fede, possano ancora oggi offrirsi come
legami significativi ad un senso desiderato, che impedisca di consegnare la vita alla banalità e alla
disperazione.
Se, come afferma un noto adagio teologico, ecclesia semper est reformanda, la priorità data dal
Concilio alla riforma liturgica continua ad additare da dove cominciare. E in questo senso l’Anno
della Fede, con il suo invito a riprendere in mano i documenti del Concilio, può essere un‘occasione
da non perdere da parte di tutti. Perché è un compito mai esaurito quello di “formarsi alla liturgia”,
di “iniziarsi” ad essa lungo tutte le linee essenziali tracciate dal documento. Innanzitutto quella
biblica: nonostante i significativi progressi compiuti da molti nell’accostamento alla Bibbia, che ha
cessato di essere un libro “proibito” alla maggioranza dei cristiani, continua ad essere necessario che
“venga favorita un’appassionata e viva conoscenza della sacra Scrittura” (24); e poi quella ecclesiologica, perché è attraverso la liturgia che i cristiani in primo luogo fanno esperienza della presenza
di Cristo nella Chiesa; e infine quella esistenziale, dal momento che tutti i credenti sono chiamati a
“esprimere nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede” (10). Per tutti questi motivi, la riforma liturgica non può che continuare, in vista di una riforma spirituale della Chiesa a partire dalla
liturgia.
Come si può capire, l’insegnamento del Concilio Vaticano II possiede una carica di novità che
non si è ancora esaurita. In un mondo che rischia di perdere il senso di Dio, invischiato com’è in una
crisi di fede ampia e generalizzata, il ritorno alla liturgia come l’ha voluta il Concilio può fare riscoprire a molti il varco verso il divino, aprire al primato di Dio e dell’incontro con lui che è il fulcro
della Messa. Infatti, pur non esaurendo la vita della Chiesa, la liturgia è “culmine e fonte” di vita cristiana (cfr 9-10), e la partecipazione “piena, consapevole e attiva” (14), che è l’obiettivo che il documento si propone, è condizione indispensabile perché ogni cristiano, in comunione con il sacrificio
di Cristo, offra a Dio il culto spirituale a lui gradito. Si tratta di un’opera di interiorizzazione, cioè di
adesione personale ai misteri di salvezza celebrati e vissuti, che solo è in grado di garantire un’esteriorizzazione capace di esprimere ciò che si è vissuto in profondità.
✢ Giacomo Lanzetti, vescovo
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3. UN NUOVO VOLTO DI CHIESA
La Chiesa al centro
Un dubbio l’assise conciliare non l’ha lasciato: da essa è emerso un volto di Chiesa molto rinnovato. Ne abbiamo trovato tracce consistenti nella Costituzione sulla liturgia. La seconda approvata,
la Lumen gentium, è quella che ne offre la descrizione dettagliata e profonda. Veramente il Vaticano
II, come ha scritto Karl Rahner, è stato “un Concilio della Chiesa sulla Chiesa”, non nel registro di
un “ecclesiocentrismo apologetico” (come certa teologia del recente passato avrebbe imposto; non
però quella di Y. Congar, teologo condannato 10 anni prima del Concilio, che ha proposto l’impianto
della Costituzione!), ma con l’intento di ricollocare la Chiesa all’interno del piano divino nello svolgimento della storia contemporanea. Le due direzioni di approfondimento che caratterizzano il
documento sono ben definite da espressioni destinate a diventare tra le più note della storia conciliare: ecclesia ad intra (“Chiesa, cosa dici di te stessa?”), ecclesia ad extra (la Chiesa in dialogo con il
mondo); o, in altre parole: quid est ecclesia?, e quid agit ecclesia? A riguardo del primo quesito,
vengono affrontati il nodo del rapporto fra identità e cambiamento in un’istituzione che è nella storia
ma si vive anche trascendentalmente, e quello del rapporto fra centro e periferia, cioè collegialità del
Papa e dei Vescovi e chiese locali; a riguardo del secondo interrogativo, quello del modo in cui la
Chiesa si situa nel mondo e si rivolge ad esso. Ne è nata una nuova coscienza di Chiesa, analizzata
nella sua origine e natura, nella sua missione e relazioni.
In realtà l’attenzione principale della Costituzione è rivolta ai problemi interni della Chiesa ed
alla sua riforma, mentre ai problemi esterni sarà dedicata la Costituzione Gaudium et spes, di cui
parlerò in un altro articolo. E comunque la centralità della Lumen gentium è dimostrata dal fatto
che tutti i documenti approvati dal Concilio possono essere ricondotti e collegati alla struttura di
questo: “Nessun contesterà che la Costituzione del Vaticano II sulla Chiesa sia da considerare
come la pietra angolare di tutti i decreti pubblicati (…). Tutti i documenti si appoggiano direttamente o indirettamente su di essa” (G. Philips). In sintesi, in particolare il “mistero trinitario”
(capitolo I) che abita la Chiesa fonda le radici nella parola di Dio (cfr Costituzione Dei verbum
sulla divina rivelazione) ed è celebrato nella liturgia (cfr Sacrosantum concilium, su cui già mi
sono soffermato); al tema del popolo di Dio (II capitolo) sono riconducibili parecchie riflessioni
della Gaudium et spes e vari decreti; sul III capitolo (La Costituzione gerarchica della Chiesa) si
fondano i decreti sui Vescovi e sui sacerdoti; infine la questione dei laici, trattata esplicitamente
nel capitolo IV, ritorna nel decreto sull’apostolato dei laici, oltre che, ampiamente, ancora nella
Gaudium et spes.
Prima il popolo di Dio, ma non senza ambiguità
Per delineare i tratti salienti e le novità della Lumen gentium, non si può fare a meno di iniziare
segnalando che l’ordine dei capitoli antepone la trattazione del “popolo di Dio” a quello della gerarchia: non si tratta di un fatto esteriore e di poco conto, ma della proclamazione della profonda unità
di tutti i credenti, accomunati dalla fede e dai doni battesimali; grazie ad essi tutti partecipano della
funzione regale, sacerdotale e profetica di Gesù, precedentemente alle divisioni dei vari ministeri,
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tutti comunque finalizzati all’edificazione dell’unico corpo ecclesiale. Una simile impostazione
segna un punto di rottura nei confronti del modo in cui per secoli la Chiesa si era pensata e realizzata, come “società perfetta”, dai rilevanti caratteri esteriori e giuridici, basata sulla rigida divisione
dei credenti in due categorie contrapposte, i chierici e i laici. Il documento fa piazza pulita di tutto
ciò e, almeno nel capitolo in questione, proclama la pari dignità e responsabilità di tutti i cristiani.
In realtà molti commentatori fanno notare che nella Costituzione coesistono, non bene integrati, il
modello ecclesiale di comunione (evidenziato nel capitolo II) ed il modello gerarchico (capitolo III).
A livello strutturale, il primo mette l’accento sulle chiese locali, dando ai Vescovi competenze e
autorità e promuovendo anche il mondo laico, non più relegato alla passività e recettività nei confronti di decisioni magisteriali o di cure pastorali; al contrario il modello gerarchico, enfatizzando il
potere, tende a mettere in secondo piano, a controllare e arginare le forze vitali delle chiese locali.
Di qui una lunghissima serie di tensioni, sia a livello teorico di interpretazione, sia a livello pratico di rapporti tra le varie componenti della Chiesa, che hanno segnato dolorosamente gli anni successivi al Concilio, rischiando in più occasioni di offuscarne quasi del tutto la forza propulsiva, e
sostituendo le gagliarde speranze con quella che a molti è sembrata una troppo prudente e soffocante
“normalizzazione”, che ha finito per scontentare “conservatori” e “progressisti” e restituire la Chiesa
a un clericalismo che si riteneva definitivamente chiuso.
Largo ai laici, ma fino a un certo punto
È vero che provvidenzialmente, proprio in seguito agli input conciliari, molti laici si sono sentiti
Chiesa come mai era successo in precedenza e si sono attrezzati per fare sentire la loro voce e assumere le responsabilità che il Battesimo conferiva loro. Questo fatto ha aperto molte strutture pastorali a competenze prima latenti, che hanno rinnovato profondamente il volto di comunità e gruppi. E
tuttavia ciò non è avvenuto senza incorrere in due pericoli: da una parte la rivendicazione, per così
dire “politica”, del diritto di parola e di intervento, mutuata da modelli “democratici” estranei alla
dimensione “comunionale” della Chiesa; dall’altra limitando il proprio interesse ad ambiti eccessivamente intra-ecclesiali (la catechesi, la liturgia, la carità …), a scapito della coerenza e della testimonianza di essere Chiesa nei luoghi feriali della vita: la famiglia, il lavoro, la politica … Al riguardo c’è chi arriva a osservare che “di fatto le responsabilità dei laici (per non parlare delle donne)
nella vita della Chiesa sono persino arretrate rispetto a ruoli occupati, ad esempio negli anni
Cinquanta, ai tempi della nascente e ancora in gran parte sconosciuta teologia del laicato” (O.
Aime). Ma forse non è bene tacere delle donne, dal momento che “un dato emerge con sufficiente
chiarezza: nonostante il decisivo riconoscimento, a livello teorico, operato dal Concilio della dignità
della donna e del ruolo insostituibile che può e deve svolgere, in forza del Battesimo, nella comunità
ecclesiale come nella società civile, molto rimane da fare per ridimensionare, a livello pratico, il
monopolio clericale e androcentrico sulla storia e sulla vita della Chiesa in nome della vera uguaglianza che vige fra tutti i membri del popolo di Dio” (A. Lebra).
Prospettive ancora da approfondire
Su tutti questi versanti i tempi sembrano maturi perché laici e pastori compiano indispensabili
passi in avanti. Da una parte si tratta di intraprendere, con decisione e senza rimpianti o riserve, un
cammino sinodale in cui ciascuno riconosca la dignità e la responsabilità – in una parola la ricchezza – dell’altro e si senta valorizzato nella propria, in una spiritualità di comunione che non esclude i
carismi e le diversità, ma ne riconosce la reciproca complementarietà. Dall’altra occorre che i laici
siano accompagnati a maturare la consapevolezza delle grazie e dei compiti connessi alla tipica
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indole secolare del loro stato, che li chiama ad essere Chiesa innanzitutto nei vari gangli della
società e del mondo. Infatti non è difficile consentire con chi sostiene che uno dei frutti del Concilio,
che ancora non è maturato, è quello di un laicato “adulto”, che guardi a sé, alla Chiesa e al mondo
con la capacità critica e profetica che sgorga dalla fede battesimale e da una liturgia vissuta in tutte
le sue dimensioni. Una simile “adultità”, è bene ribadirlo, è raggiungibile solo mediante percorsi di
formazione che specie negli ultimi tempi sono stati proposti con crescente frequenza e convinzione,
non sempre parimenti ricambiati da adesioni e partecipazione dello stesso segno. La sfida che la
nuova evangelizzazione consegna all’Anno della Fede è la capacità di vivere le proprie convinzioni
religiose nella secolarità e nella complessità, da parte di un laicato in grado di suscitare domande di
senso negli ambienti di vita degli uomini e di testimoniare in essi una carità che può sgorgare solo
dal Vangelo preso sul serio e vissuto fino in fondo.
Un altro settore delle indicazioni conciliari ha manifestato incertezze e ritardi: la realizzazione di
strutture partecipative che consentissero maggiore autonomia alle chiese locali, e insieme la creazione di una sinodalità autentica che desse corpo alla corresponsabilità dei vescovi nel governo della
Chiesa. Ciò che non è il Sinodo dei Vescovi “che aveva e ha poteri puramente consultivi, e si trova
rispetto all’autorità della Curia romana in condizioni inferiori a quelle di un consiglio pastorale
innanzi al suo parroco” (A. Melloni). Al riguardo in più occasioni il compianto card. Martini - e non
solo – ha fatto notare che la collegialità episcopale non mette in discussione il primato del Papa, ma
esige che cambi il modo di esercitarlo con uno strumento collegiale più universale e più autorevole
del sinodo attuale. Non senza ragione Timothy Radcliffe denuncia come necessario un recupero dell’equilibro tra l’autorità della tradizione (gerarchia), quella della ragione (pensiero teologico) e quella dell’esperienza (del popolo di Dio nel mondo): equilibrio attualmente sbilanciato a favore della
prima autorità.
Dal punto di vista dei fedeli, la proclamata corresponsabilità avrebbe richiesto – ciò che non è
avvenuto se non sporadicamente e molto parzialmente – l’istituzione di luoghi di reciproco ascolto e
di dialogo aperti a tutti i credenti, in cui il sensus fidelium potesse manifestarsi liberamente ed essere
riconosciuto, dal momento che lo Spirito Santo distribuisce pure tra i fedeli di ogni ordine le sue
grazie, “dispensando a ciascuno i propri doni come a lui piace” (1Cor 12,11).
Se queste prospettive saranno prese sul serio e affrontate con coraggio, si potranno smentire le
ricorrenti – non infondate – accuse di “clericalismo” che in più occasioni vengono rivolte ad una
Chiesa, a parere di molti, ancora troppo arroccata in vecchie strutture e in sistemi di “gestione”
tutt’altro che conciliari. Solo a queste condizioni ci si potrà avvicinare a quello che, fin dalle prime
battute, la Costituzione ha presentato come l’essenza e il compito della Chiesa, “sacramento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (1). Neppure troppo implicitamente vi si
dichiara che la Chiesa è il luogo per eccellenza di un’autentica vita fraterna, aperta ai fratelli nella
fede ed al mondo.
Un punto fermo: tutti santi!
Su una convinzione fondamentale la Costituzione ritrova la sua unità e coerenza, quello che dà il
titolo al capitolo V: “L’universale vocazione alla santità”. Vi si enuncia un programma non nuovo
(già formulato da S. Francesco di Sales), ma mai così solennemente sancito, tanto da far considerare
il capitolo come il “cuore” dell’intero documento, il più provocatorio e promettente. Non è fuori
luogo attribuire ad esso – oltre che all’intera Costituzione – l’opinione di uno dei grandi protagonisti
del Concilio, il card. Lercaro, secondo il quale il Vaticano II merita di essere “elevato”, in importanza, al di sopra di altri Concili precedenti ed essere messo in analogia addirittura con il cosiddetto
Concilio di Gerusalemme (51 d.C.), decisivo per aprire l’evangelizzazione al di fuori dei ristretti
recinti del giudaismo. Parimenti il Vaticano II spalancò a tutti i credenti, accomunati dalla medesima
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fede ed animati dal medesimo Spirito, la strada verso la santificazione, meta comune verso cui
orientare il contributo di tutti.
Nonostante le sue grandi aperture e novità, “il Concilio non volle affatto una nuova Chiesa illuminata, ma una Chiesa rinnovata nello spirito del Vangelo e in cammino verso la santificazione personale e verso la riforma. Esso non abbandonò in alcun punto la dottrina tramandata della Chiesa, però
la pose in un orizzonte pastorale, cioè in un orizzonte e in una concezione trinitaria; esso indicò la
via che va da un’identità chiusa a doppia mandata a un’identità della Chiesa aperta, relazionale e
dialogante” (W. Kasper).
Verso questi obiettivi molta parte di Chiesa ha camminato con lena, ma è doveroso ammettere che
ci sono state pure stanchezze che hanno dato luogo a lentezze e delusioni. Un sano realismo ci induce a riconoscere che molto, della Lumen gentium, resta ancora da realizzare e si propone come ulteriore meta di questi nostri anni. Se ha ragione Dossetti quando afferma che il Vaticano II ha fatto
fare alla Chiesa un balzo in avanti di 300 anni, oggi dobbiamo interrogarci se le nostre eccessive
prudenze, le nostre chiusure e paure non ne abbiamo riportato troppo indietro l’orologio.
✢ Giacomo Lanzetti, vescovo
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4. DIO PARLA ANCHE AGLI UOMINI D’OGGI
La centralità della Parola di Dio
Anche per evidenziare l’importanza e la novità della Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, Dei verbum, occorrono definizioni solenni. La sua approvazione a grandissima maggioranza
(2344 sì contro 6 no) non rende giustizia dell’iter laborioso del documento, che ha praticamente
attraversato tutte le sessioni del Concilio, per essere promulgato solo nelle ultime settimane. Esso è
il frutto maturo di iniziative di conoscenza della Bibbia sfociate, a partire dalla fine dell’Ottocento,
in un vero “movimento biblico” che, avviato dalle confessioni protestanti, ha trovato spazio crescente anche nel mondo cattolico. Non a tal punto, tuttavia, da evitare che la Bibbia, alla vigilia del
Concilio, fosse ancora ampiamente considerata un libro riservato ad esperti, al massimo al clero, e
fosse lontana dall’ispirare la fede e la pratica religiosa dei credenti. A questi risultati ha teso l’impegno dei padri conciliari e in buona parte li ha conseguiti.
Già l’uso delle lingue nazionali nelle letture liturgiche aveva aperto a tutti i fedeli panorami inesplorati sia dell’A.T. che del N.T. e aveva indotto molti a fornirsi di strumenti più adeguati per inoltrarvisi. La Dei verbum completa l’operazione, con un testo tanto conciso e agile quanto chiaro e
solenne, che si propone l’obiettivo di enunciare e promuovere la centralità della Parola di Dio negli
studi, nella preghiera, nella vita. Essa prende le mosse dall’affermazione che Dio non lascia solo
l’uomo, ma gli parla. Nella storia l’ha fatto a più riprese e in diversi modi, a partire dalla creazione.
Gesù Cristo è la rivelazione di Dio per eccellenza, continuata poi dallo Spirito Santo.
In concreto, due sono i canali attraverso i quali la rivelazione di Dio raggiunge gli uomini di ogni
tempo: la Scrittura e la tradizione della Chiesa. A riguardo del modo come queste due realtà interagiscono, la Costituzione afferma, con precisione, che sono “congiunte e comunicanti (…), formano
in certo qual modo una cosa sola e tendono allo stesso fine (…); accade così che la Chiesa attinga la
certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura” (9). Non meno importante l’affermazione
della permanente vitalità della tradizione: “Questa tradizione di origine apostolica progredisce nella
Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo” (8).
Gran parte del documento è però dedicata a quella forma della rivelazione che è la Sacra Scrittura.
Innanzitutto delineando il ruolo dei due attori – Dio e l’uomo – che si incontrano in ciò che chiamiamo
“ispirazione”: Dio ha scelto degli uomini perché, “agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero
come veri autori tutte e soltanto quelle cose che egli voleva che fossero scritte” (11).
L’ultimo capitolo è dedicato alla promozione della Bibbia nella Chiesa: se ne deve favorire in tutti
i modi la comprensione, deve essere costantemente usata come ispirazione della teologia, della catechesi e di ogni iniziativa pastorale; soprattutto se ne deve favorire la lettura, sia comunitariamente
che in privato.
La Bibbia sempre meglio conosciuta
La Dei verbum è stata accolta molto favorevolmente: la Bibbia è stata progressivamente sempre
meglio compresa nel suo valore di dono gratuito di Dio, del suo pensiero, dei suoi progetti, dei suoi
sentimenti nei confronti degli uomini di ogni tempo. Di qui la necessità di porla al centro della vita
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spirituale di ciascuno, innanzitutto dotandosi degli strumenti per comprenderne il vero significato,
oltre l’involucro dei generi letterari e dei limiti degli autori umani. Ciò è possibile solo ad una lettura
“spirituale” non aliena da un approccio critico al testo, che tenga conto sia della progressività della
rivelazione (“I libri del Vecchio Testamento… acquistano e manifestano il loro pieno significato nel
Nuovo Testamento, che essi a loro volta illuminano e spiegano”, 16), sia la loro “cristocentricità”
(solo Gesù “compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina… E non è
da aspettarsi alcun’altra rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro
Gesù Cristo”, 4), il tutto all’interno della grande tradizione della Chiesa (che “adempie il divino
mandato e ministero di conservare e interpretare la Parola di Dio”, 12).
Da allora il movimento biblico ha cessato di essere prerogativa di pochi esperti per incarnarsi in
una miriade di gruppi biblici che in ogni dove hanno favorito l’incontro tra Parola di Dio e ascoltatori sempre più attenti.
Letture parziali e limitate
Certo anche a questo riguardo si può dire che non tutto è stato fatto, né nel migliore dei modi, ma di
sicuro la Chiesa oggi sarebbe profondamente diversa senza il contributo del Concilio alla diffusione
della conoscenza biblica. Probabilmente la fede dei credenti sarebbe ben meno in grado di affrontare le
sfide di grave portata cui oggi è sottoposta. E tuttavia da più parti si segnala un riflusso che avrebbe
depauperato gravemente la portata innovativa della Dei verbum, trasformandola più che altro in una
fonte di citazioni pronte per l’uso, ma incapaci di incidere veramente sia nella pratica pastorale che nella
vita di fede. Infatti si è assistito ad un’operazione di minimizzazione o fraintendimento dell’intento conciliare, scegliendo, invece dell’incontro personale con la Bibbia, l’approccio limitato a lezionari ridotti o
pii commentari privi della forza “tagliente” della Parola di Dio accostata nella sua integrità. Né sono
mancate letture deformate dalla Parola, estrapolata forzatamente dal contesto e piegata a semplice strumento di dimostrazione di tesi precostituite; o letture “politiche” che vedono il testo sacro solo come
sostegno a dottrine sociali preordinate; o letture “magico-meccanicistiche” di taluni gruppi, che aprendo
la Bibbia a caso, ricercano come in una lotteria la citazione per la soluzione ad ogni problema.
Denuncia sofferta di tali storture è il grido lanciato già oltre due decenni fa dal teologo Ardusso:
“Che ne abbiamo fatto delle indicazioni dell’ultimo capitolo della Dei verbum? Quanto, di ciò che
avviene nella nostra Chiesa, è normato, in profondità, dalla Parola di Dio ascoltata, meditata, pregata? Come si può ottenere il discernimento se manca la Parola di Dio quale ‘fondamento e alimento
insostituibile del discernimento spirituale?’ ”.
Credo non possiamo sottrarci troppo sbrigativamente a simili interrogativi, specie in questo Anno
della Fede. Forse, nonostante il Concilio, conserva qualche validità l’antico detto secondo cui la
Bibbia è il libro più diffuso, ma anche il meno letto e conosciuto: ciò sta a significare, come per gli
altri documenti, che le mete da essi indicate continuano a stare di fronte a noi ed a convocare il
nostro impegno: per permettere alla Parola di Dio di guidarci e non solo di essere compresa, di essere “evento” e non solo oggetto di studio, di compiere tutto il cammino che le compete, di ascolto,
comprensione, celebrazione, conversione, attualizzazione-attuazione; in una parola, di essere “seme
che germoglia e cresce” (cfr Mc 4,27).
Se è vero che il Concilio ha effettuato “la riscoperta di elementi andati perduti ma già patrimonio
della Chiesa (la Chiesa come popolo di Dio, sacramento e mistero, la Scrittura, la libertà religiosa,
ecc.)” (O. Aime), tocca a noi, Chiesa e popolo di Dio di oggi, ripercorrere il medesimo cammino per
rifare le stesse scoperte, sperimentarne la verità e la fragranza anche per i nostri giorni, aprirci allo
Spirito che ad ogni generazione rinnova la Chiesa, la educa alla sua vocazione e la indirizza con più
forza alla sua missione.
✢ Giacomo Lanzetti, vescovo
16
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5. UNA CHIESA “AMICA” DEL MONDO
Una “rivoluzione copernicana”
L’ultima Costituzione approvata dal Concilio, la Gaudium et spes, è quella che prende di petto le
relazioni ad extra della Chiesa. Lo fa superando una visione negativa della storia e la condanna della
modernità, che erano correnti negli ambienti ecclesiastici. Lo fa percorrendo fino in fondo l’intuizione dell’adeguatezza del cristianesimo nel rispondere ai bisogni profondi dell’uomo: il cristianesimo
è la via migliore per rendere l’uomo pienamente umano; di qui un atteggiamento “missionario” che
presuppone una forte solidarietà a servizio dell’uomo. Si può dire che questa Costituzione – perseguendo quel progetto di apertura e dialogo, disponibilità, solidarietà e servizio, in una parola di
“riconciliazione con un mondo contro il quale a lungo la Chiesa aveva condotto assalti generali”
(O.H. Pesch) –, realizzi appieno il programma centrale del Vaticano II: rileggere la tradizione in un
quadro culturale che è molto diverso da quello del passato anche recente.
È impossibile, al riguardo, esonerarsi dal citare il solenne, magnifico incipit del documento: “Le
gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti
coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo
e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (1). A ragione, riferendosi precisamente a questa introduzione, il cardinale Tettamanzi parla di una vera e propria “rivoluzione
copernicana” che “si presenta alla stupita considerazione di tutti” e afferma che in essa ”sentiamo,
quanto mai fresco e frizzante, il vento che, attraverso la finestra aperta della Chiesa sul mondo, entra
nella comunità ecclesiale e tutta la invade e la fa muovere”.
Veramente siamo in presenza di un’inversione ad U della rotta della Chiesa, di un autentico uragano di novità che d’un solo colpo abbatte steccati e muri eretti nei secoli a difesa di una Chiesa accerchiata da un mondo considerato ostile. La società e il mondo si presentano ora ai suoi occhi nella
loro valenza anche teologica di realtà “buone”, perché non estranee alla dinamica della salvezza ed
alla presenza dello Spirito del Signore. La Chiesa si apre ad essi con animo di “simpatia”, in atteggiamento di collaborazione e servizio, di attenzione ai “segni” di Dio nel tempo, alla sua azione nel
cuore degli uomini e nelle pieghe della storia. Una Chiesa libera e liberante si propone come amica
e compagna di strada agli uomini d’oggi, nella convinzione di avere non solo da insegnare, ma
anche da imparare e che comunque la ricchezza di cui è portatrice la induce ad essere non altera
padrona della verità e delle coscienze, ma umile servitrice di una crescita da condividere con tutti gli
“uomini di buona volontà” (cfr. nn. 40-44). Una Chiesa che ha in consegna una Parola con l’incarico
di annunciarla perché possa generare una storia della salvezza, ma con la convinzione che è proprio
anche attraverso l’ascolto della cultura che essa può meglio comprendere il Messaggio della rivelazione e umilmente servirla.
Distinzioni, ma non divisioni
Quella che era definita “teologia delle realtà terrestri” trova in questo documento la sua versione
più completa e definitiva, nel doppio versante, da una parte, della rilevanza sociale della missione
della Chiesa e della sua capacità di contribuire efficacemente al bene comune, dall’altra dell’autono17
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mia delle realtà temporali, dotate di fini, regole e strumenti propri. Ne consegue l’affermazione del
valore della “laicità”, che non divide ma stimola la collaborazione fra credenti e non credenti, e il
riconoscimento che la mediazione dai principi all’azione politica spetta ai fedeli laici, ai quali è
aperto l’esito di una “legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali” (75). Di qui, anche,
la distinzione degli ambiti di competenze tra sacerdoti e laici: “Dai sacerdoti i laici si aspettino luce
e forza spirituale: non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che ad ogni
problema che sorge, anche quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta o che a
questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce
della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del magistero” (44).
In sintesi la Gaudium et spes riconobbe la liceità del pluralismo delle scelte politiche tra i cattolici,
l’obiezione di coscienza fu accolta con convinzione anche dai credenti, e la Chiesa si rese disponibile al dialogo con il mondo contemporaneo attraverso le nuove (in realtà antichissime, perché bibliche) categorie della ‘lettura dei segni dei tempi’ e del ‘discernimento’, con la “scelta preferenziale
dei poveri” e connotando le missioni con i caratteri della solidarietà e della liberazione della dignità
umana e culturale dei nuovi popoli. “La Chiesa spalancò le finestre e fece entrare aria pulita e fresca
tra le sue mura e invitò popolo e pastori a seguire l’invito evangelico: uscire dal tempio”
(P. Giuntella). Apparve pertanto “naturale” sviluppare la dimensione profetica, intesa come capacità
di discernere negli avvenimenti i segni della presenza e del piano salvifico di Dio. E questo, di fatto,
poteva avvenire solo attraverso la pratica teologico-pastorale del dialogo.
Rischi sempre incombenti
È innegabile che questa istanza abbia goduto di consistenti riscontri nel postConcilio. E tuttavia
non si può non concordare con il teologo Canobbio, secondo il quale, anche se negli ultimi decenni
sono apparsi diversi “modelli ecclesiali/ecclesiologici” che pure hanno dato origine a movimenti di
successo, “se si prescinde dal conclamato ‘dialogo interreligioso’, il tema del dialogo con il mondo
sembra essere retrocesso”. Egli cita a dimostrazione il modello di Chiesa come “città posta sul
monte”, contrapposta a un mondo che potrebbe essere solo attratto dalla luce che brilla “sul moggio”; e poi la Chiesa “popolo tra i popoli”, che si organizza in forme parallele a quelle del mondo;
infine la Chiesa “piccolo gregge degli eletti”, che si isola rispetto alla storia. La sua opinione, sulla
base della Gaudium et spes, “è che a fronte di questi modelli si possa/debba assumere il modello
della condivisione della medesima sorte sia terrena sia celeste: la Chiesa è porzione di mondo e con
tutto il mondo è incamminata verso il Regno e dal resto del mondo può anche imparare (cfr 40 e
44)”1. Occorre prendere le distanze dalla tendenza a coltivare una fede ingessata, che si avvita su di
sé, che riduce la comunità cristiana a “una stufa che riscalda solo se stessa”. È un rischio già denunciato, alla chiusura dell’assise conciliare, dal grande teologo Karl Rahner “Quando con il Concilio la
Chiesa esorta i cristiani a conoscere il loro compito nel mondo d’oggi, a collaborare nella costruzione di un mondo più grande, più libero e più umano, ad avere responsabilità e coraggio, a non aspettare soltanto le direttive della gerarchia, a non domandare soltanto come si debba fare qualcosa per
non offendere Dio, ma a domandare che cosa si possa fare perché la vita diventi più degna d’essere
1
Al riguardo anche un sociologo afferma: “Servirà elaborare un ‘modello’ di Chiesa che sia meno istituzione centralizzata e autoreferenziale, meno clericocentrica e più aperta al dialogo e alla dimensione comunitaria e partecipativa
del suo stesso essere Chiesa come popolo di Dio e comunità dei credenti” (G. Ringhini).
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vissuta, non tradisce affatto il suo Messaggio della croce e dell’aspirazione verso l’eterno, ma
comanda ai suoi fedeli di prendere coscienza cristianamente del loro compito di vivere e testimoniare una vera pietà (…). Il mondo pone oggi particolari obblighi ai cristiani. L’adempimento di questi
obblighi con una pietà politica deve diventare oggi la caratteristica fondamentale della genuina vita
di pietà cristiana”.
Un documento per il futuro o inesorabilmente datato?
Già fin dall’inizio, e non solo nei decenni successivi, attorno al documento si “giocò” un’importante partita che vide in campo agguerrite forze contrapposte, le quali rischiarono di impedirgli di
venire alla luce: da una parte coloro che rifiutavano la sfida della modernità, denunciando il tradimento della vera identità della Chiesa e rifugiandosi nei valori intangibili della tradizione; dall’altra
coloro che ritenevano che proprio l’apertura al mondo dovesse essere la cifra dell’intera impresa
conciliare. Pure il genere letterario del testo, ricco di intuizioni umanistiche, costituì un novità da
molti ritenuta eccessiva. Tali contrasti si manifestarono anche al momento dell’approvazione, con 75
voti contrari contro 2309 favorevoli. Il fatto è che la Costituzione apparve presto come un frutto
acerbo, che veniva consegnato non solo al presente, ma soprattutto al futuro della Chiesa: la
Gaudium et spes è “donata alle generazioni postconciliari non solo perché ‘sia recepita’ e ‘interpretata’, ma in un certo senso perché sia costantemente afferrata, maturata, perfezionata, quasi riscritta”
(L. Sartori).
Da tempo circolano critiche, nemmeno troppo velate, e di segno decisamente opposto, soprattutto all’ottimismo della Gaudium et spes, che sarebbe incompatibile con le condizioni successive
della società e del mondo, radicalmente cambiate, e non in meglio. In effetti, proprio per il suo
taglio pastorale (e non dogmatico), la Costituzione risente più delle altre del clima culturale in
cui, come detto non senza contrasti, è nata. Essa, per esempio, non parla di quel fenomeno, che va
sotto il nome di secolarizzazione, che negli ultimi anni ha segnato più profondamente le culture e
le coscienze; inoltre concentra la sua attenzione sull’ateismo, mentre già a metà degli anni
Settanta il problema, almeno nel Nord del mondo, si stava spostando verso altre sfide. Sul piano
più propriamente politico, il terrorismo, le ripetute crisi economiche legate alla globalizzazione,
l’affermarsi di “poteri forti” a scapito dei diritti di uomini e di popoli – per citare solo tre fattori
macroscopici – hanno drammaticamente stravolto il panorama internazionale e fatto quasi dimenticare le speranze con cui la Chiesa si metteva a disposizione e in sintonia con il mondo. E già
all’indomani della chiusura del Concilio, l’inatteso Sessantotto, con le sue istanze di mutamento
rivoluzionarie e negatrici di ogni eredità e tradizione, fece prevalere la paura anche in molti uomini di Chiesa e fece scendere una gelata su quella che si presentava come una tumultuosa, ma promettente primavera.
E tuttavia, se guardiamo in profondità l’umanità di oggi e i tratti che – insieme ad altri indubbiamente diversi – più criticamente caratterizzano anche la nostra epoca, essi non ci appaiono molto
diversi da quelli che descriva Paolo VI nell’omelia di chiusura del Concilio: “Un tempo, che ognuno
riconosce come rivolto alla conquista del regno della terra piuttosto che al regno dei cieli; un tempo,
in cui la dimenticanza di Dio si fa abituale e sembra, a torto, suggerita dal progresso scientifico; un
tempo, in cui l’atto fondamentale della personalità umana, resa più cosciente di sé e della sua
libertà, tende a pronunciarsi per la propria autonomia assoluta, affrancandosi da ogni legge trascendente; un tempo, in cui il laicismo sembra la conseguenza legittima del pensiero moderno e la saggezza ultima dell’ordinamento temporale della società; un tempo, inoltre, nel quale le espressioni
dello spirito raggiungono vertici d’irrazionalità e di desolazione; un tempo, infine, che registra
anche nelle grandi religioni etniche del mondo turbamenti e decadenze non prima sperimentate”.
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A proposito di “ricezione” della Gaudium et spes e dell’intero Concilio
È evidente a tutti che la ricezione del Concilio ha attraversato varie fasi: all’entusiasmo fece seguito la
delusione; incertezze e stanchezze si accompagnarono a malintesi, resistenze, tentativi di oblio; ripetute
affermazioni della sua permanente validità spesso sono sembrate troppo rituali per incidere veramente.
Oggi, paradossalmente, la sfida della nuova evangelizzazione può costituire per tutti un pressante e
provvidenziale invito a ritrovare, nei documenti del Concilio e nel suo spirito, la linfa adatta per alimentare una nuova stagione di speranza e fiducia. In effetti, la Chiesa non può esimersi dal riconoscere
anche oggi per sé i medesimi compiti di testimonianza ed animazione, certo in una società molto cambiata, perché ormai secolarizzata, multiculturale, multirazziale e multireligiosa; per di più in un contesto
democratico in crisi ed in generale ad un’umanità delusa e in cerca di senso. Lì essa deve, come all’indomani del Concilio, essere testimone di Cristo e operatrice di giustizia.
A riguardo di tutti i documenti del Concilio, ma in particolare della Gaudium et spes, appare vera
e pregnante l’osservazione del teologo Theobald: “Mai era stata espressa in maniera così netta la
coscienza che un’‘età nuova della storia’ necessiti di una reinterpretazione globale della tradizione:
una coscienza che situa il Vaticano II al livello dei più rari e grandi crocevia in cui si sia trovato il
cristianesimo nel corso della sua storia bimillenaria”2. Da ciò il suo convincimento che “la ricezione
come processo imprevedibile o non programmabile fa parte dell’identità stessa del Vaticano II”.
Altri, per tratteggiare tale processo – affidato a numerosi fattori, alcuni dei quali imponderabili –
preferiscono evocare l’immagine dell’ “onda lunga, non necessariamente progressiva” (Tangorra)
con cui un Concilio può entrare o non entrare nella vita della Chiesa, diventandone parte integrante.
Di certo la chiusura ufficiale del Concilio non ha segnato la sua reale conclusione, in quanto ha
dato inizio a una fase, tutt’altro che rettilinea, che è altrettanto importante di quella in cui si sono
prodotti i documenti. Per questo non si può non dare ragione al card. Kasper, secondo il quale “il
Concilio non è esaurito”. Se è vero che “il tempo postconciliare portò molte riforme, liturgiche,
pastorali e canoniche, salutate con favore dalla stragrande maggioranza dei fedeli, e introdusse sia
nella pastorale, sia nella teologia rinnovamenti spirituali dal sapore biblico e patristico, (…) non si
giunse tuttavia a una rinnovata Pentecoste e alla sperata primavera spirituale” (…). Al contrario si
manifestarono “una drammatica decadenza della vita religiosa cristiana (…) e un appiattimento
della fede. Non si verificò lo sperato irradiamento missionario. Invece di una nuova gioia nei confronti della Chiesa, crebbero la critica e lo scontento nei suoi riguardi”3. Ciò perché “la teologia, e
È dello stesso parere il già citato sociologo Ringhini, che afferma, con osservazioni generalizzabili oltre al tema settoriale della contrazione di clero, religiosi e suore nella Diocesi di Brescia: “Nel prossimo ventennio il processo di cambiamento entrerà nella sua fase conclusiva che, dati alla mano e salvo provvidenziali imprevisti, svelerà il tramonto o
l’eclissi del clero, in un contesto multiculturale, multietnico e, nello specifico, multireligioso. Sarà eclisse ‘temporanea’
se si riuscirà a trovare il coraggio di intraprendere nuovi e originali percorsi di rivitalizzazione e responsabilizzazione
delle comunità cristiane, di profondo rinnovamento del magistero e di una pastorale realmente in grado di cogliere e
interpretare i ‘segni dei tempi’, le esigenze delle persone e anche di questa società altrettanto profondamente cambiata”.
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Almeno un cenno lo merita il movimento ecumenico, che ebbe dal decreto Unitatis redintegratio un impulso insperato e l’avvio di passi prima impensabili, che però hanno ceduto il posto, a detta di un profondo conoscitore, “a un
inverno cupo dopo la primavera conciliare”. E così, è andato in parte sprecato “questo straordinario quanto inatteso
dono di Dio nel Novecento”, nonostante che “abbiamo un gran bisogno dell’ecumenismo, noi cristiani, come dell’aria
che respiriamo, in quelle che fino a poco tempo fa chiamavamo ‘terre di missione’ e che oggi rappresentano il polmone giovane di un cristianesimo già globale, non meno che nelle nostre aree urbane secolarizzate e spesso persino scristianizzate” (B. Salvarani). Consola e incoraggia, nonostante tutto, la certezza, espressa bene dal teologo valdese
D. Garrone, che la sostanza più intima dell’ecumenismo, per cui molti sperano, pregano ed operano, continua ad essere “il sapere che dove io cerco il volto di Dio trovo sempre qualcun altro, diverso da me, che lo cerca come me e con
cui posso sentirmi compagno di viaggio sulla stessa passione per l’EVangelo”.
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soprattutto l’opinione pubblica ecclesiale, erano troppo poco preparate all’apertura al tempo moderno espressa in particolare nella Costituzione pastorale Gaudium et spes e nella dichiarazione sulla
libertà religiosa Dignitatis humanae”. E comunque onestà vuole che si affermi che “non tutto quello
che è accaduto dopo il Concilio sia accaduto anche a motivo del Concilio”.
Verso il futuro con fiducia e speranza
Un impegno pertanto si impone a tutti noi: la ricerca del significato permanente del Vaticano II, di
ciò che costituisce il punto di non ritorno della sua impresa: gli sviluppi positivi, che pure ci furono,
“fecero proprio, in una maniera inattesa e non pianificata, ma promettente, l’impulso conciliare e
cercano di portarlo avanti (…). La storia della ricezione del Concilio è perciò ancora ben lungi
dall’essere giunta alla sua conclusione. Il potenziale del Concilio per quanto riguarda il futuro è
ancora lontano dall’essere esaurito” (id.).
Non si tratta di opinioni peregrine o minoritarie, né di impegni facoltativi o di poco conto, come
testimoniano le seguenti affermazioni – peraltro più volte ribadite – degli ultimi due pontefici.
Giovanni Paolo II a conclusione del giubileo del Duemila scrisse che nel Concilio ”ci è offerta una
sicura bussola per orientarci nel cammino» di questo terzo millennio (Novo millennio ineunte, 57); e
Benedetto XVI all’indomani della sua elezione affermò che col passare degli anni i documenti del
Concilio “non hanno perso di attualità; i loro insegnamenti si rivelano anzi particolarmente pertinenti in rapporto alle nuove istanze della Chiesa e della presente società globalizzata”.
Se è vero che “la Chiesa sembra oggi molto concentrata su se stessa, sulla propria organizzazione,
sui nuovi equilibri al proprio interno” (A. Torresin), ritornare alla Gaudium et spes – e a tutti i documenti del Concilio – è anche evitare che essa, a dispetto del fatto che “il Concilio ha assunto il
meglio delle esperienze ecclesiali di profezia nel mondo”, rischi “una forma di assuefazione allo status quo, attenta soprattutto a cogliere le opportunità (economiche o di rilevanza d’identità) più che a
essere un pungolo e una parola che inquieta le coscienze” (id.).
Una direzione di marcia è indicata a chiare lettere dall’ “ethos della Gaudium et spes” che è “più
importante delle soluzioni concrete che offriva” (E. Bianchi): ad esso, che ha consentito alla Chiesa
di guardare con fiducia gli uomini e i tempi, le scoperte e i progetti, ancora e sempre, la Chiesa deve
riferirsi ed attingere. È vero che molti di questi sono poi stati smentiti da un’evoluzione che li ha travolti. Ma alla fede della Chiesa non è venuta meno la speranza nel Risorto e nel dinamismo, anche
attuale, del suo Spirito nella storia e nei cuori.
Oggi più che mai la formazione cui tutti ci sottoponiamo deve abilitarci a reggere la sfida del pessimismo e della resa, con una testimonianza di fiduciosa coerenza, con una speranza che dalle fonti
della fede trabocchi nei gangli più critici e sofferenti della società. Insieme, preti e laici, seppure
educati da 50 anni alla scuola del Concilio, sappiamo di non poter essere promossi a pieni voti.
Molta strada ci resta da fare. Questo rotondo anniversario, solennizzato dall’evento mondiale
dell’Anno della Fede, ci sia di stimolo e ci offra un viatico abbondante e appetitoso, cui attingere
con gioia e fiducia, per alimentare, meglio che nel recente passato, fedeltà, coerenza e perseveranza.
✢ Giacomo Lanzetti, vescovo
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ELENCO DEI 16 DOCUMENTI
ELABORATI ED APPROVATI
n° TIPO
1
11 COSTITUZIONE
DOGMATICA
NOME DEL DOCUMENTO
OGGETTO
LUMEN GENTIUM
CHIESA
12
COSTITUZIONE
CONCILIARE
SACROSANCTUM
CONCILIUM
SACRA LITURGIA
13
COSTITUZIONE
DOGMATICA
DEI VERBUM
DIVINA RIVELAZIONE
14
COSTITUZIONE
PASTORALE
GAUDIUM ET SPES
CHIESA NEL MONDO
CONTEMPORANEO
15
DECRETO
CHRISTUS DOMINUS
UFFICIO PASTORALE DEI
VESCOVI
16
DECRETO
UNITATIS
REDINTEGRATIO
ECUMENISMO
17
DECRETO
ORIENTALIUM
ECCLESIARUM
CHIESE ORIENTALI
CATTOLICHE
18
DECRETO
PRESBYTERORUM
ORDINIS
MINISTERO SULLA VITA
SACERDOTALE
19
DECRETO
OPTATAM TOTIUS
FORMAZIONE
SACERDOTALE
10
DECRETO
PERFECTAE
CARITATIS
RINNOVAMENTO DELLA
VITA RELIGIOSA
11
DECRETO
AD GENTES
ATTIVITÀ MISSIONARIA
DELLA CHIESA
12
DECRETO
APOSTOLICAM
ACTUOSITATEM
APOSTOLATO DEI LAICI
13
DECRETO
INTER MIRIFICA
STRUMENTI DI
COMUNICAZIONE SOCIALE
14
DICHIARAZIONE
DIGNITATIS HUMANAE
LIBERTÀ RELIGIOSA
15
DICHIARAZIONE
NOSTRA AETATE
RELAZIONI DELLA CHIESA
CON LE RELIGIONI
NON-CRISTIANE
16
DICHIARAZIONE
GRAVISSIMUM
EDUCATIONIS
SULL’EDUCAZIONE
CRISTIANA
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Con i passi del Concilio