Come uscire dalla trappola del debito pubblico Non saranno i tagli alle spese, la cessione di patrimoni dello Stato o l’aumento delle tasse a risolvere il problema. La questione, più che economica, è politica. E le proposte non mancano di Stefano Sylos Labini L’Italia è prigioniera del debito pubblico, che impedisce di mettere all’opera qualsiasi tipo di politica espansiva. D’altro canto, è incontestabile che il risanamento delle finanze statali durante una recessione mandi a picco l’economia e spinga al rialzo il rapporto tra debito e Pil: questa è la pesantissima eredità lasciata dalla politica economica del governo Monti, che ha fatto lievitare tale rapporto sino al massimo storico del 130 per cento. E le agenzie di rating puniscono implacabilmente ogni aumento del rapporto tra debito e Pil, declassando il merito di credito del nostro paese e alimentando così la spirale recessiva. Siamo dunque precipitati in una trappola che ci sta trascinando a fondo. Come uscirne? La strada maestra sarebbe quella di costruire finalmente un’Europa federale sul modello degli Stati Uniti, mettendo in comune i debiti pubblici dei singoli Stati europei, lanciando gli eurobond per finanziare un grande piano di sviluppo a livello continentale e trasformando la Banca centrale europea in un vero prestatore di ultima istanza. Ma sappiamo che una tale strategia richiederebbe la costituzione di un gruppo di paesi in grado di spazzare via le resistenze tedesche. E ciò non è attuabile in tempi brevi. Allora dobbiamo trovare altre strade: una di queste è rappresentata dalla ristrutturazione del debito pubblico proposta da Beppe Grillo, una misura che nel 2012 è stata attuata in Grecia con risultati inferiori alle attese. Ma ci sarebbero anche altre possibilità, a cominciare da quella illustrata da Massimo Mucchetti in un articolo sul Corriere della Sera del 7 settembre 2011 (“Il peccato tedesco sul debito”), secondo cui l’Italia potrebbe deconsolidare dal suo debito pubblico circa 100 miliardi di euro che la Cassa depositi e prestiti usa per gli enti locali, i quali la scelgono su un mercato bancario libero. La Cdp è controllata per il 70 per cento dal Tesoro e per il restante 30 da fondazioni bancarie e soggetti privati ed emette obbligazioni che godono della garanzia statale e sono collocate dalle Poste sotto forma di buoni e di libretti. Si tratta di circa 300 miliardi di euro, due terzi reinvestiti in titoli di Stato e un terzo in mutui agli enti locali. In più, la Cdp emette obbligazioni non garantite per 20 miliardi destinate alle iniziative delle imprese e detiene partecipazioni rilevanti di società quotate. Ma il suo debito è, per tutta la parte coperta da garanzia pubblica, conteggiato nel debito pubblico. Ben diversa è la situazione in Germania, che non include nel suo debito pubblico le passività del Kreditanstalt fuer Wiederaufbau (Kfw), posseduto all’80 per cento dallo Stato e al 20 per cento dai Laender. Tali passività sono pari a 428 miliardi di euro e sono interamente garantite dalla Repubblica federale, con il risultato che il tasso sulle obbligazioni è equivalente a quello dei bund. Ma, a differenza dei bund, non entrano nel conto del debito pubblico, evitando di far salire il rapporto tra debito e Pil della Germania da circa l’80 per cento a quasi il 100 per cento, alla stregua di un paese “vizioso” del Sud Europa. Non solo: se nel nostro paese ci fossero enti creditizi di proprietà pubblica, come accade in Germania, essi potrebbero ricevere la liquidità fornita dalla Banca centrale europea al tasso privilegiato dello 0,75 per cento per comprare i titoli di Stato italiani immessi sul mercato, spegnendo immediatamente la febbre da spread. In questo scenario, lo Stato pagherebbe gli interessi su Bot e Btp a se stesso, in quanto sarebbe debitore di una banca di cui è il proprietario. Così quei soldi tornerebbero allo Stato, oppure andrebbero a ricostituire le riserve della banca stessa, che sarebbe in grado di svolgere al meglio le proprie funzioni e di comprare i titoli senza più chiedere soldi alla Bce. Pertanto, l’Italia potrebbe nazionalizzare una banca, come per esempio il Monte dei Paschi di Siena, usandola come veicolo per sostenere i titoli di Stato e abbattere il tasso di interesse. Un’altra strada che potrebbe essere percorsa è quella di utilizzare i titoli pubblici (bot) come moneta complementare. I titoli pubblici potrebbero dunque costituire una massa monetaria gigantesca in grado di finanziare lo sviluppo dell’economia nazionale, trasformando la debolezza che deriva dall’enorme debito pubblico in un punto di forza. La possibilità che i titoli pubblici possano essere utilizzati negli scambi e negli investimenti sostituendo la moneta non sembra che sia stata compresa appieno sul piano teorico; sul piano pratico invece si era capito molto bene visto che con i titoli pubblici si pagavano anche le tangenti. Per attuare una strategia di questo tipo sarebbe essenziale la trasformazione del debito estero in debito interno, poiché se i titoli sono accumulati all’estero essi non circolano e di conseguenza perdono la loro funzione monetaria. Si eviterebbero inoltre operazioni di natura speculativa da parte delle grandi banche d’affari, stabilizzando il valore dei titoli pubblici, come accade in Giappone – un paese che ha un rapporto tra debito pubblico e Pil doppio rispetto all’Italia, ma non ha il problema dello spread –, in cui è prevista l’emissione di particolari certificati del Tesoro, con rendimenti sicuri e ancorati all’inflazione, da riservare al risparmio delle famiglie. Si potrebbe allora nazionalizzare una parte consistente dei bot e bisognerebbe costruire un sistema di compensazione fra imprese per far funzionare i titoli pubblici non come riserva di valore, ma come moneta complementare. In una tale strategia, la Banca d’Italia potrebbe avere un ruolo di stabilizzatore e di garante del valore dei titoli pubblici, i quali potrebbero circolare ed essere usati nel mercato interno come strumenti di pagamento alternativi alla moneta ufficiale. Da queste brevi considerazioni, risulta chiaro che la risoluzione del problema del debito pubblico è una questione politica più che economica: non saranno i tagli alle spese, la cessione del patrimonio dello Stato e gli aumenti delle tasse ad alleviare il problema, ma, al contrario, è indispensabile una forte iniziativa politica per cambiare radicalmente la situazione.