LADOMENICA DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012 NUMERO 396 DIREPUBBLICA CULT Sherlock Holmes & All’interno La copertina Usare o avere? Dai libri ai film, la proprietà al tempo del web Moby Dick FERRARIS E RODOTÀ La recensione Call center e stranieri l’altra faccia della Germania GIORGIO FALCO L’intervista Russell Banks “Una storia etica dei grandi tabù americani” SEBASTIANO TRIULZI Un viaggio a bordo di una baleniera, i ghiacci, la caccia, la felicità FOTO © 2012 THE BRITISH LIBRARY BOARD Diario segreto di uno studente chiamato Arthur Conan Doyle L’attualità Finale di party così l’Italia divenne Babilonia FILIPPO CECCARELLI L’anniversario Urania, i racconti che vengono da altri pianeti VALERIO EVANGELISTI, CARLO FRUTTERO e MARIO MONICELLI ARTHUR CONAN DOYLE C Lunedì 8 marzo A bordo della Hope Lerwick arissima Signora Madre, ecco che con l’aiuto di una penna d’oca e una boccetta di inchiostro posso comunicarle tutte le notizie dal Nord: il postale a vapore ieri è arrivato con la sua lettera e un’altra molto cortese da quella cara ragazza, Letty, che pare essersi fatta l’idea che io stia andando in Groenlandia a superare un esame o ad affrontare un consesso medico, a giudicare dagli auguri che mi fa e di come racconta che tornerò medico di grande esperienza. Che piccola anima cara che è! Sono arrivati anche lo Scotsmane le pinze chirurgiche. […] Più di ogni altra cosa, sarà lieta di sapere che non sono mai stato più felice in vita mia. In me ho una forte vena bohémien, temo, e la vita mi sembra meravigliosa. Gli uomini a bordo sono buoni e onesti compagni, robusti e ben piantati. Non ha idea di quanto alcuni di loro siano istruiti. Il capo mec- canico l’altra sera è salito dal deposito del carbone e mi ha intrattenuto parlando di darwinismo, sul ponte, sotto la luna piena. Poi mi ha avvinto parlando delle obiezioni al Pentateuco di Colenso, e ha tirato fuori il meglio da me. Anche il capitano è un uomo ben istruito. […] Sull’isola non ci sono alberi. Andati a cena venerdì da Tait, il nostro agente, ben rimpinzati, champagne e cose di quel tipo, ma alquanto stancante. A proposito, a bordo abbiamo champagne pregiato e ogni vino possibile, e siamo rimpinzati come maiali. Non so che cosa significhi mangiare con appetito da tempo, vorrei fare più esercizio fisico, è solo questo che vorrei. Tiro un po’ di box, ma in pratica questo è tutto. Siamo arrivati appena in tempo per evitare la furia piena della tempesta di vento dell’altro giorno. Il capitano dice che se ci fossimo trovati ancora al largo avremmo perso le nostre barche e i frangiflutti e forse anche gli alberi di maestra. Ora il tempo è migliorato. Immagino che salperemo giovedì. (segue nelle pagine successive ) con un articolo di GABRIELE PANTUCCI La danza Con Akram Khan itinerario poetico tra Oriente e Occidente LEONETTA BENTIVOGLIO Il libro Una certa idea di mondo: “Il puzzle di Bolaño” ALESSANDRO BARICCO llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012 ■ 32 LA DOMENICA La copertina Sherlock Holmes & Moby Dick Quando era ancora studente Conan Doyle si imbarcò per la Groenlandia come medico di bordo. Tra ghiacci, foche, orsi polari e la caccia al “grande pesce”, il futuro creatore del detective di Baker Street tenne un diario che ora viene pubblicato dalla British Library Eccolo in esclusiva per “Repubblica” Sir Arthur e la balena indagine in alto mare ARTHUR CONAN DOYLE (segue dalla copertina) Q uesto, mia cara signora madre, è quanto le posso dire nel complesso. Che Dio la protegga mentre sono via. Avrà mie notizie in poco meno di due mesi. C’è una legge del parlamento che ci proibisce di ammazzare anche una sola foca prima del 2 aprile, ed ecco perché ci tratteniamo qui. Cari saluti a tutti ed estenda i miei saluti a Greenhill. Il vostro figlio che vi adora, ACD Venerdì 19 marzo C’è una spessa nebbia e ammassi di ghiaccio ne emergono in lontananza. Si vedeva fino a cento iarde in ogni direzione. Superate due grandi foche dal cappuccio, un maschio e una femmina, ferme su una lastra di ghiaccio. Abbiamo provato il richiamo e il maschio di sicuro si è bloccato e ha ascoltato, mentre la femmina non è stata altrettanto influenzabile, ma si è subito spostata. Il maschio sarà stato lungo circa dieci piedi, penso, e la femmina sette o otto. Spero che la nebbia si diradi. Pioviggina un poco. La nebbia si è mantenuta tutto il giorno, fino a quando ci siamo coricati la sera. Cane e Stewart hanno combattuto un incontro di pugilato di sera. Parlato di letteratura con il capitano: pensa che Dickens goda di una reputazione molto piccola se paragonato a Thackery. Buckland pare un’adorabile piccola insenatura. Sabato 3 aprile È un lavoro crudele prendere a mazzate le teste di quelle piccole foche che ti supplicano e ti guardano dritto negli occhi con i loro occhioni scuri. Abbiamo tirato su le scialuppe e iniziato a fare i preparativi, il che significa che ci si aggrappava con le mani alla fiancata della nave, e si saltava da un pezzo di ghiaccio galleggiante a un altro, ammazzando tutto ciò che era possibile avvistare, mentre la nave a vapore arrivava subito dietro e raccoglieva le pelli. Occorre un bel po’ di destrezza per capire quale lastra di ghiaccio è in grado di reggere il tuo peso e quale no. Io non vedevo l’ora di iniziare, ma nel salire a bordo sono scivolato in mezzo a due blocchi di ghiaccio galleggianti e sono stato tirato fuori dall’acqua da un gancio d’accosto. Mi sono cambiato gli abiti e ho ricominciato, e sono riuscito a uccidere un paio di foche e a trascinarne i resti dopo averli scuoiati verso il fianco della nave. Oggi in totale abbiamo preso 760 foche. Lavoro poco redditizio, credo, ma speriamo in bene. Dopo tutto sono le balene quelle più redditizie. Domenica 11 aprile Giorno funesto nella crociera della nave. Il povero Andrew era molto più su e pareva stare meglio di mattina, ma a cena ha preso del pudding di prugne ed è peggiorato. Sono subito sceso da lui e nel giro di dieci minuti mi è spirato letteralmente tra le braccia. Povero vecchio! Giovedì 8 luglio Altra giornata memorabile. Salpati sul filo di una forte raffica di vento in mezzo ad acque azzurrissime, con l’Eclipse davanti a noi. Intorno all’una una balena, la prima che avvistiamo da domenica, si è avvicinata alla nave del capitano David; lui ha fatto calare tre barche per andarle dietro e l’ha inseguita fino alle quattro del pomeriggio, quando è riuscito a prendere velocità, e alle otto l’ha affiancata e a mezzanotte era già scuoiata. Noi abbiamo saltellato qua e là sperando che il suo pesce venisse nella nostra direzione, ma intorno alle quattro dal colombiere è arrivato il grido tanto atteso: «C’è un altro pesce a mascone, signore!». Mathieson e Bob Cane sono scesi in barca per inseguirlo, e ben presto ne abbiamo perso le tracce fra il ghiaccio, e ci siamo ammassati sul fianco del ponte per aspettare. Poi è salito un mormorio di disappunto quando abbiamo visto una grossa balenottera comune emergere vicino alla nave, perché le balenottere comuni e le balene “giuste” sono nemiche mortali, e abbiamo temuto che la nostra preda si sarebbe spaventata. Sono sceso in cabina per lenire il mio disappunto con una fumata, quando ho sentito il capitano urlare dal colombiere: «Un tirante! Un tirante!», che è il segnale che il pesce è colpito. Siamo caracollati fuori, molti degli uomini semisvestiti, e sono partite cinque baleniere verdi lunghe per supportare la barca “veloce” e la sua compagna. Io sono salito sulla barca di Peter McKenzie. Ci eravamo appena distaccati dal fianco della nave quando il timoniere della barca ha annunciato che il pesce era risalito su e stava sferzando l’acqua, con pinna e coda. A quel punto abbiamo capito che il lavoro era pronto per noi, perché quando un pesce rimane pochissimo tempo sott’acqua, dopo essere stato colpito, vuol dire che sta riservando tutte le sue energie per una battaglia con le barche. Se la balena va giù e rimane sotto per mezz’ora generalmente è talmente esausta quando torna in superficie che è una preda facile. Le barche si sono avvicinate e Hulton e Carner hanno sparato sulla balena e han- no accelerato. Noi eravamo la barca successiva e ci siamo avvicinati alla testa del pesce, trafiggendolo in profondità nel collo. La balena ha avuto una sorta di tremito e si è messa a nuotare a tutta velocità lungo la superficie. Buchan ha accostato la sua barca alla testa mentre il pesce avanzava, una manovra scriteriata che ha fatto rovesciare in aria la prua della barca, finendo per farla atterrare sul dorso dell’animale fra le urla degli uomini e lo schiocco dei remi, e Buchan che gridava: «Tirate! Remate! Indietro! Tenete l’acqua! Tirate! Di che diavolo avete paura?». Io ho detto a Peter: «Preparati a raccoglierli!», ma loro sono riusciti a rimettersi in acqua senza incidenti. La bestia si è reimmersa sotto la barca, ma poco dopo è ricomparsa e Buchan e Rennie le hanno sparato addosso. È tornata sotto, ma è risalita su proprio in mezzo alle nostre tre barche, e poi è cominciato il divertimento. Ci siamo accostati e abbiamo conficcato i nostri arpioni per cinque piedi o giù di lì, le tre barche hanno cercato di tenersi accanto a lei mentre cercava di ruotare su stessa per sollevare la sua enorme coda sopra di noi. A un certo punto è quasi riuscita a rovesciare la nostra barca emergendo sotto di noi, ma siamo riusciti a raddrizzarla. Poi ci siamo tenuti a distanza mentre si scatenava nelle ultime convulsioni, sferzando l’acqua e sollevando schiuma, poi si è lentamente girata sulla schiena ed è morta. Noi ci siamo alzati sulle barche e abbiamo gridato tre urrà di tutto cuore. L’abbiamo trainata fino alla nave e all’una era stata issata a bordo. Era un bel pesce, ogni fanone era lungo nove piedi, e frutterà circa dodici tonnellate di olio. Vale più o meno mille sterline, grazie al lei il nostro viaggio non si trasformerà in un insuccesso. Traduzione Anna Bissanti e Fabio Galimberti © 2012 The Conan Doyle Estate Ltd llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012 ■ 33 La straordinaria avventura del vero dottor Watson GABRIELE PANTUCCI nun pomeriggio freddo e umido a Edimburgo, mentre ero impegnato a studiare per uno di quegli esami che immiseriscono la vita di uno studente di medicina, entrò Currie, un compagno di corso...». Chi scrive potrebbe essere il dottor Watson all’inizio di un’avventura di Sherlock Holmes. Invece è “soltanto” Arthur Conan Doyle, ventenne e al terzo anno di medicina e questa è una storia vera. In pochi minuti Currie lo persuade a interrompere l’anno accademico per unirsi, come medico di bordo, a una spedizione di caccia alle balene nel mare artico. Conan Doyle diventa uno dei 56 membri dell’equipaggio della Hope. La baleniera, guidata dal Capitano John Gray, il 28 febbraio 1880 lascia a vele spiegate il piccolo porto di Peterhead, circa venti chilometri a nord di Aberdeen. Il racconto del viaggio è tutto in un diario tenuto dal futuro creatore di Sherlock Holmes con tanto di disegni e annotazioni (alcuni illustrano queste pagine) che ora la British Library pubblica in edizione fac-simile in accordo con l’Arthur Conan Doyle Estate con il titolo Dangerous Work. La Hope è una delle navi migliori della sua categoria, lunga circa quindici metri e larga nove, con motore a vapore per potenziare la velatura. Conan Doyle ha con sé libri di filosofia, poesia e letteratura, oltre a diversi album da riempire. Sarà pagato due sterline e dieci scellini al mese (900 sterline attuali), oltre a uno scellino per ogni tonnellata d’olio che la nave realizzerà dagli animali catturati. La Hope fa scalo alle Shetland colta dalla burrasca sino all’11 marzo, quando riprende il viaggio verso la Groenlandia. Conan Doyle registra tutto: la morte di un marinaio di peritonite, l’arrivo tra i ghiacci, la caccia alle foche e alle balene, le cadute in mare, gli animali uccisi. A spedizione conclusa il Capitano Gray offre a Conan Doyle di raddoppiargli lo stipendio per tornare l’anno successivo. L’idea di lavorare come medico di bordo — con la possibilità di fare anche il fiociniere — è accattivante per il giovane studente, ma sua madre lo obbliga a tornare agli studi. Non è l’unica volta che la donna interviene nella vita del figlio. Anni dopo lo obbligherà a rispettare la volontà dei lettori, riprendendo le storie di Holmes. Arthur, infatti, se ne era stancato e aveva “ucciso” il celebre detective con il nemico Moriarty in Svizzera. LE IMMAGINI Documenti (schizzi e appunti) e immagini che illustrano queste pagine sono tratti da Dangerous Work Diario di un’avventura artica di Arthur Conan Doyle (Jon Lellenberg e Daniel Stashower, 2012). Nella foto qui sopra, scattata il 12 luglio 1880, Conan Doyle è il terzo da sinistra In copertina, elaborazione grafica: Sherlock Holmes e la foto della nave “Hope” © RIPRODUZIONE RISERVATA FOTO © 2012 THE CONAN DOYLE ESTATE LTD FOTO © HULL MUSEUMS «I llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012 ■ 34 LA DOMENICA L’attualità Album Il party in stile “Odissea” dei consiglieri della Regione Lazio è solo l’ultima puntata di un Carnevale della Repubblica sempre a favore di obiettivo. Quello di Umberto Pizzi, il fotografo testimone di un’escalation da vent’anni a oggi Italia Babilonia M FILIPPO CECCARELLI a nella festa, molto più spesso di quanto si creda, è inscritto il segno della fine. La festa dei maiali, per esempio, ancelle, anfore, mojito, tableau vivant di sconsiderata allegria paganeggiante. Nel video del backstage, quando tutto si è consumato e quasi albeggia, il festeggiato Ulisse De Romanis guarda il cielo, profondamente inspira e con appagato sollievo scandisce: «Ce l’abbiamo fatta». Mica tanto. Deve attaccarsi, il fe- steggiato, al fatto che i maiali erano parte indispensabile della coreografia per via della maga Circe. E già, Odissea, libro X: solo che in quel carnevale fuori stagione mancava un Euriloco a dare l’allarme: «Oh sventurati, ove ne andiamo?/ Qual mai ci punge del disastro sete?». Troppo tardi per ammettere, come lo sconsolato ex ministro di Forza Italia Galan: avevamo immaginato una rivoluzione liberale e siamo finiti così, con le maschere dei maiali. Anche nell’agenda su cui vent’anni or sono il fidato portiere dell’hotel Plaza segnava i recapiti delle amiche dell’allora ministro De Michelis si trovò traccia di una “Maga Circe”, con relativo numero di telefono. Anche De Michelis adorava la notte, le feste, le donne, forse anche le maghe. Lo chiamavano “Ciccio ballerino”, “Avanzo da balera”, oppure, vedi un po’, “De Maialis”, o “De Maritozzis”, per l’innata voracità. Da vicepresidente del Consiglio si fece scrivere e pubblicò a suo nome addirittura una guida alle discoteche e la presentò al “Bandiera gialla” con le ballerine del Cacao Meravigliao. Forse anche sulle colline riminesi, quella notte, c’era in agguato l’ombra della prossima caduta. Eppure, rispetto ai gaudenti di oggi, forse per ragioni anagrafiche, comunque De Michelis sembra un frate trappista che vende marmellate ai gitanti della domenica. Ne Gli ultimi giorni di Pompei di Edward Bulwer-Lytton un incombente pericolo minaccia l’atmosfera gioiosa della città aleggiando sopra le feste. L’eruzione del vulcano è vicina. Se l’immagine di Pompei può suonare scontata nel tran-tran dei crolli ormai abituali, c’è sempre la Babilonia dell’Apocalisse: «Guai, guai, immensa città,/ i re della terra si sono prostituiti con essa/ in un’ora sola fu ridotta a un deserto!». La crisi economica ha ritmi un po’ più lenti, ma di colpo rende terribile e pazzesco ciò che fino a ieri era agognato, accettato o sopportato con un sorriso o un’alzata di sopracciglio. Al colmo dell’allegro disastro e della desolante baldoria, la Roma pompeiana e/o babilonica ha un unico vero e ubiquo testimone e visionario: Umberto Pizzi, il foto-poeta dei “Cafonal” llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 30 SETTEMBRE ■ 35 di Dagospia, il Petronio della disfatta imminente e di quella che ha già conquistato i giornali e gli schermi. Il Guardiano della Torre del “Panopticon” o galera perfetta per aspiranti galeotti. Inconfondibilmente sue sono le foto di queste pagine, a lui soprattutto si deve l’illustrazione del degrado pure estetico, anzi soprattutto estetico, di una classe dirigente ormai intrecciatasi con la pretesa aristocrazia del presenzialismo compulsivo, vip, “svip”, “gnocche”, “carampane”, “prezzemolini” e “morti di fama”. Se la tv aveva già ben cominciato a storcere i politici nei primissimi anni Ottanta, quando il povero Enzo Tortora, con la collaborazione di Guido Quaranta, li aveva convinti a ballare e a cantare con una gabbia di uccellini in mano, o scendendo le scale alla Wanda Osiris o addirittura immergendosi nelle fredde acque al suono di “Con le pinne fucile ed occhiali”, Pizzi sostiene di aver cominciato a capire che tutto correva ormai a rotta di collo a una festa del 1994: c’era una anonima ragazza finita su un tavolo, le gettavano addosso dello champagne, lui scattava e lei era contenta, e tutti intorno anche. E arrivarono a Roma i La Russa con gli occhi spiritati, i leghisti con i loro improvvidi sgomenti, i berlusconiani inauguravano il sogno di una seconda dolce vita, quelli di sinistra gli tenevano testa, pure loro sciaguratamente mondani, festosi, vanitosi e salottieri. Per qualche tempo Pizzi, che agli ideali della sua gioventù di comunista non aveva saputo rinunciare, restò convinto di svolgere un’azione per così dire sovversiva, un lavoro di denuncia e di smascheramento, come quando gira- va nei paesi del Terzo Mondo. Ma presto dovette accorgersi che i ricchi e i famosi del Primo lo volevano alle proprie feste. Lo invitavano, gli offrivano da bere, desideravano farsi la foto con lui. Quando nel 2008 uscì il primo, immane volume di Cafonal, il pontefice massimo dell’intrattenimento regolamentato e addomesticato, il presidente del “terzo ramo del Parlamento”, insomma Bruno Vespa dedicò a Pizzi e a Roberto D’Agostino una trasmissione di due ore. Detto altrimenti: il sistema si difendeva inglobando, celebrando, normalizzando. Bene, dinanzi a queste immagini per tanti versi profetiche, o addirittura apocalittiche nel senso che più di tante altre sollevano il velo su quanto il potere andava allestendo per accecarsi, per perdersi, viene oggi il dubbio che quell’addomesticamento, quella consacrazione, quella normalizzazione altro non fossero che un vano esorcismo. Co- sa non si è visto mentre la crisi economica covava le sue uova avvelenate! Schizzi di spumante, sbaffi di panna, capezzoli di ministre, andature malferme, cosce aperte, pupille in sospetto dilatamento, enormi porchette, una proliferazione di nani e ballerine, ma letteralmente. Ed era come se le visioni premessero sulla scena pubblica fino a volerla sfondare a colpi di euforia, capricci, esibizionismi, vanagloria. A rivederla con gli occhi del presente sembra l’escalation di un sogno selvaggio. Esuberanza di corpi, ubriachezza d’animo, desolazione intellettuale. Carne desiderata, frolla, plastificata. Poi le maschere, i travestimenti: senatori Pulcinella, deputati indossatori, antichi romani, cortigiani cinquecenteschi, cavalieri di Malta, cacciatori di leoni, sceicchi, bodyguard, zingari, gentiluomini di campagna, ciclisti, ecclesiastici, tutto. E poi, ancora, torte spaventose che nessuno vorrebbe mai nemmeno assaggiare, messaggi che si stagliano sulla glassa mentre tutto intorno scoppiano fuochi d’artificio. E animali, sì, anche animali vivi, la modella con il maialino, la signora con il cagnolino col suo bel cappottino, la pazza con il serpente. Ma intanto i simboli chiedevano il riscatto a un’umanità che magari credeva pure di divertirsi, mentre correva verso il precipizio. Il tramonto della vergogna, la morte del pudore. Altro che trash, altro che festa di Ulisse: è da anni che va in scena la festa del peggio, la festa del baratro, la festa del nulla. Forse anche Umberto Pizzi, di fronte alle sue immagini, comincia a fare una faccia strana. Forse è proprio lì dentro che si vede la fine, Babilonia o Pompei non è che faccia molta differenza. © RIPRODUZIONE RISERVATA llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012 ■ 36 LA DOMENICA L’anniversario Altri mondi Quando le storie cadono dalle stelle VALERIO EVANGELISTI essi i miei primi due Urania a undici anni, nel 1963. re ai miei genitori per metterli in guardia. Leggevo Urania, ero La collana aveva infatti la mia stessa data di nasci- sulla via della perdizione (in realtà leggevo molto altro, ma non ta (1952), con qualche mese di differenza. Me li re- contava). galò un’amica di mia madre, e contenevano, per Quali le colpe della fantascienza? 1) trattava di cose non vepura combinazione, due romanzi dello stesso au- re; 2) faceva paura. In effetti ambedue i capi di imputazione eratore, Damon Knight. Il primo, Il pianeta dei super- no fondati. Per fare un esempio, i due romanzi di Damon Knistiti, descriveva un universo futuro in cui la Terra, completa- ght che ho citato (scritti negli anni Cinquanta) non narravano mente inquinata e devastata dalle guerre, era stata abbando- fatti reali. Lo sarebbero diventati, quale problematica, un vennata dai suoi abitanti. Questi erano stati ospitati su lontani pia- tennio dopo. E la paura c’era, di fronte all’ignoto totale che inneti della galassia popolati da razze ripugnanti di aspetto, ma combeva su un undicenne italiano riguardo al futuro. Rimasi a civilissime ed evolute. Accecati dal razlungo paralizzato davanti a un titolo: zismo e da una malintesa idea di supeL’incubo sul fondo, di Murray Leinster. riorità, un gruppetto di terrestri riarma Mi spaventava, non osavo sfogliarlo l’ultima astronave da guerra rimasta (quando lo lessi, finalmente, risultò una nelle loro mani, e intraprende una guerboiata). Teniamo presente che, in quelra di sterminio contro coloro che chial’epoca, la gente sveniva di paura alla vima «gli insetti», distruggendo civiltà e sione del film La mummia, con Peter culture intere. La sconfitta degli avvenCushing e Christopher Lee. turieri prepara, per le comunità degli Un brivido, non tanto di terrore esuli dalla terra, un finale triste e amaro. quanto di vertigine, percorse tutta la Il secondo romanzo, Il lastrico delmia adolescenza e incise senza dubbio l’inferno (fatto, secondo il proverbio, di sulla mia formazione. Anche le storie buone intenzioni), era ambientato in più povere e banali contenevano a volLE NUOVE USCITE un’epoca futura meno remota. Vi venite uno spunto geniale, un’idea inquiePer celebrare i 60 anni Urania va inventata una forma di condizionatante, un risvolto sorprendente che inesce con formato e grafica nuove mento psichico capace di provocare alduceva a riflettere. Con autori come Il primo titolo è L’ultimo teorema lucinazioni a chiunque fosse sul punto Philip K. Dick, il mio favorito, si toccava di Arthur C. Clarke e Frederik Pohl di commettere un crimine. Solo che il terreno filosofico; con James Ballard la Il secondo, a novembre, sarà firmato della tecnica si impadronivano alcune pura letteratura; con lo scrittore trotzkida Alberto Furlan, vincitore multinazionali, e la applicavano a chi sta Mack Reynolds la critica sociale più del Premio Urania 2012. Il premio stesse per comperare le merci di un aspra e pungente. Né posso dimenticasegnala dal 1989 il miglior libro concorrente. In tal modo il mondo si re che fu su Urania che conobbi per la di fantascienza italiano. Tra i vincitori, suddivideva in spicchi, dominati ognuprima volta Mikhail Bulgakov, grazie al Valerio Evangelisti. L’illustratore no da una corporation e chiusi alle merracconto Terrore sul kolkhoz(in seguito ufficiale di tutte le copertine ci rivali. Il romanzo narra la storia di un noto come Le uova fatali). è Franco Brambilla giovane che non è stato condizionato, e Ma non voglio soffermarmi su autori vaga tra le diverse aree mercantili alla rinoti e meno noti, a me graditi oppure cerca di ribelli come lui. sgraditi. La collana, in confezione non Leggevo tutto ciò nel 1963, e chi risempre degna (era pessima abitudine cordi com’era l’Italia allora capirà la mia felice sorpresa. Nella di Fruttero e Lucentini accorciare i romanzi per adattarli al nunarrativa corrente, pur stilisticamente più rifinita, c’era poco mero di pagine ridotto), sprigionava nel suo assieme un senso che somigliasse a tematiche così vaste (pur essendo ancora di libertà dovuto alla moltiplicazione dei futuri possibili, alla bambino, rifiutavo i testi concepiti per la mia età). Diventai un nozione di alternativa. Poi arrivò il giorno del 1994 in cui io steslettore affezionato di Urania, mi procurai i numeri arretrati e, so fui pubblicato da Urania, evento che cambiò la mia vita. Ma col poco che avevo in tasca, quelli in uscita. Fu una lotta duris- già i mitici fascicoli bordati di bianco, da decenni, avevano mosima e clandestina. Gli insegnanti — ricordo in particolare una dificato il mio modo di pensare, di interpretare il reale, di soprofessoressa di italiano, al ginnasio — le ritenevano letture gnare — in una parola, il mio modo di esistere. scadenti e diseducative. La suddetta docente arrivò a telefona© RIPRODUZIONE RISERVATA L llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012 ■ 37 Il 10 ottobre 1952 nasceva la collana di Mondadori che fece conoscere ai lettori italiani le astronavi di Asimov, i pianeti esplorati da Clarke, le cronache extraterrestri di Bradbury. Quei libri scelti per molto tempo da Fruttero e Lucentini, rivestiti da copertine d’avanguardia, codificarono un genere. Che oggi ritorna Giorgio Monicelli raccontato da Mario Il ricordo di un curatore speciale Così mio fratello inventò la fantascienza La fragilità dell’uomo spiegata dai marziani MARIO MONICELLI CARLO FRUTTERO iorgio era più grande di me di sette o otto anni: tra noi c’è un altro fratello, Franco, poi vengo io e quindi Mino che ne ha quasi cinque meno di me. Voglio precisare che Giorgio era figlio di un’altra madre, un’attrice teatrale molto nota ai primi del Novecento: mio padre aveva avuto con lei una relazione, ma la signora non aveva mai voluto sposarlo. Ricordo che da ragazzo andavo spesso a trovare Giorgio in casa dell’altra signora. Mio fratello aveva soltanto la licenza liceale, non so se si fosse mai iscritto all’università; trovò presto da guadagnare come traduttore e mio padre, da parte sua, aveva altre gatte da pelare, per cui non fece sforzi particolari per convincerlo a continuare gli studi. Giorgio è entrato alla Mondadori e piano piano si è fatto strada. Ha curato diverse collane e per la Medusa ha scoperto molte belle cose. [...] Era un appassionato di astrofisica, leggeva trattati divulgativi e ricordo che nei primi anni Trenta voleva spiegarmi la relatività di Einstein, una cosa che non capiva neanche lui! Credo che Urania sia nata da questa passione, Giorgio aveva avuto l’intuizione che dovesse essere una collana popolare. Leggeva l’inglese e quindi aveva a disposizione testi che non arrivavano in Italia. Traduceva anche, ma non parlava né capiva la lingua viva: aveva imparato l’inglese sulla carta e leggeva quei segni come fossero il sanscrito… Per cominciare, e prima di collaborarvi stabilmente, Giorgio acchiappò da Mondadori qualche traduzione dal francese; in seguito si trasferì a Milano ed entrò nella casa editrice come correttore di bozze e traduttore. Mio fratello era considerato un artista, un rompiballe; come il suo amico Cesare Zavattini non voleva orari fissi, arrivava in ritardo e perciò veniva continuamente multato. [...] Giorgio passava le sue nottate con un tipo ancora poco considerato nell’ambiente, Giorgio Scerbanenco, giornalista e autore di racconti gialli ambientati a Milano in un’epoca in cui si doveva ambientare tutto in Inghilterra o chissà dove. Frustrati, gran bevitori di vino tutti e due, la sera erano sempre ubriachi, in quegli anni anteguerra. [...] Voglio ancora dire che mio fratello è stato il primo ad aver tradotto in ltalia Malcolm Lowry, anche se quando lo scrittore venne in Italia per conoscere il suo traduttore, i due non riuscivano a comunicare! Allora si misero a bere barbera e a sghignazzare, insieme a Scerbanenco, come si può immaginare. (Testo tratto da un’intervista raccolta per Urania da Lorenzo Caldelli nel 1997) ra l’11 settembre e quello che scorreva sullo schermo era effettivamente una copertina di Urania, due grattacieli stroncati da due aerei, fiamme, fumo, gente che si gettava dalle finestre, l’America under attack. Di scene del genere ne avevamo lette e pubblicate non poche nel corso degli anni. Gli attaccanti potevano essere extraterrestri ovvero sovietici, una setta segreta con vertiginose ambizioni di conquista mondiale ovvero un gigantesco asteroide. Ma l’immagine era quella, lievemente, come dire, démodée, archiviata nella memoria di tutti i lettori di Urania [...] Avremmo pubblicato un romanzo del genere su Urania? Certo, e anzi, l’abbiamo fatto più di una volta. Ma non dico questo per sollevare la tediosa questione circa il valore profetico della fantascienza, su quante cioè delle sue previsioni si siano o no avverate. Urania non fu mai concepita e letta come una specie di manuale ad uso di maghi, veggenti, chiromanti. Con un occhio riconoscente ai due grandi precursori, Jules Verne e H. G. Wells, si trattò sempre soltanto di ipotesi, estrapolazioni, intuizioni più o meno plausibili, scritte più o meno bene, con un fondamento scientifico, sociologico, politico più o meno coerente. Ma di fronte al crollo delle Torri Gemelle di New York il lettore abituale di Urania non può essere caduto totalmente dalle nuvole. Terribile, straziante spettacolo. Eppure possibile, e in senso lato prevedibile. Il fatto è che al di là dei dettagli, di ogni caso specifico, Urania, tutta la fantascienza, ha avuto la funzione (si potrebbe dire il merito?) di far pervenire ai suoi lettori un rintocco in assonanza con quello celebre del poeta John Donne, «per chi suona la campana». Nessuno è al sicuro, nessuno si salva, la nostra civiltà è fragilissima e può crollare in ogni momento, anche nel modo brutale, figurativamente rozzo, di un aereo dirottato che centra un grattacielo, di una mano guantata che infila una busta velenosa in una cassetta postale. Così va il mondo, così vanno tutti i mondi possibili e impossibili tra Vigevano e le più remote galassie. (Testo tratto da Urania. 50 anni di profezie inserito in I ferri del mestiere di Fruttero & Lucentini (Einaudi) © 2003 Giulio Einaudi editore Spa, Torino; © 2003 e 2004 Giulio Einaudi editore Spa, Torino Prima edizione “Supercoralli” 2003) G © RIPRODUZIONE RISERVATA E © RIPRODUZIONE RISERVATA llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012 ■ 38 LA DOMENICA Spettacoli Realpolitik Quando al Foreign Office scoprono che il regista più famoso del mondo sta per girare un film che dileggia Hitler, scatta l’allarme ATTILIO BOLZONI annoè il 1939, il mese febbraio. A Londra, al ministero degli Esteri, c’è molta inquietudine. Il premier britannico Neville Chamberlaine sta tentando disperatamente di salvare la pace europea con la politica dell’appeasement verso la Germania nazista. Il Patto di Monaco è stato appena siglato, Chamberlaine rende anche omaggio a Mussolini con una visita ufficiale in L’ E Sua Maestà disse “Fermate Chaplin” Italia. In questa situazione di equilibrio instabile al Foreign Office vengono a sapere che Charlie Chaplin — che non ha mai rinunciato alla cittadinanza britannica anche se risiede da trent’anni in America — sta progettando a Hollywood un nuovo film. Ha già deciso il titolo: Il dittatore. Una feroce parodia su Adolf Hitler, il Fuehrer. Downing Street trema. Pensa al danno, all’inutilità degli sforzi per una riappacificazione con Berlino, alle disastrose conseguenze di quel progetto cinematografico. Così il viceministro degli Esteri Richard Austen Butler chiede ai suoi collaboratori d’indagare sulla pellicola, fa contattare Chaplin dai diplomatici di Sua Maestà al consolato di Los Angeles, cerca informazioni sulla sceneggiatura e — soprattutto — spera di visionare il copione prima dell’inizio delle riprese con l’obiettivo «di non arrecare offesa alcuna alla Germania». Il momento storico è delicatissimo, fino ad allora nessuno, neanche negli Stati Uniti, aveva realizzato opere apertamente antinaziste. Inizia così una fitta corrispondenza fra il Foreign Office e la California. LE LETTERE Da sinistra: la richiesta di divieto della proiezione del film in Gran Bretagna; il primo documento ritrovato negli archivi di Kew Gardens: è la lettera del 22 febbraio 1939 con cui E. H. Keeling informa il viceministro Butler che Chaplin sta per girare il film; la risposta di Butler che si impegna a saperne subito di più A Londra la parola d’ordine è: mantenere buoni rapporti con i nazisti Ecco la storia segreta di una censura llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012 ■ 39 CAPOLAVORO Sopra, Charlie Chaplin in una sequenza del film Il grande dittatore LA DIPLOMAZIA A sinistra, alcuni documenti del carteggio tra il Foreign Office britannico e la California relativo al film di Chaplin In particolare, la lettera dove sono indicati i nomi dei protagonisti del film: il dittatore Adenoid Hynkel e il signor Gasolini, il capo della propaganda Garbage ossia Joseph Goebbels. Ci sono anche i nomi dei paesi: Ptomania (che diventerà Tomania nella versione definitiva del film, cioè la Germania) e Bacteria (l’Italia) I retroscena di questa frenetica attività intorno al film di Charlie Chaplin sono raccontati in un carteggio custodito nei National Archives di Kew Gardens alle porte di Londra, documenti catalogati nel fascicolo “Tna/Pro” che svelano tutta l’ansia dell’Inghilterra per quel film. Ma nel settembre del 1939 l’Europa è già scivolata nel terrore. È appena scoppiata la seconda guerra mondiale. Proprio in quei giorni, dall’altra parte del mondo, a Hollywood, cominciano le riprese del Dittatore, interpretato da Charlie Chaplin in persona. Ormai non fa più paura l’Adolf Hitler sugli schermi, fa paura quello vero. Il primo documento ritrovato negli archivi di Kew Gardens porta la data del 22 febbraio 1939. E. H. Keeling, un parlamentare di Westminster, scrive al viceministro Butler per informarlo che «Charlie Chaplin sta preparando a Hollywood un film intitolato Il dittatore». Keeling ha appreso la notizia da un suo collega deputato, che gli ha anche inviato un messaggio: «Risulta decisamente inopportuno che una simile pellicola sia proiettata nel Regno Unito. Mi auguro che il governo britannico informi immediatamente le persone eventualmente interessate al finanziamento e alla distribuzione del film (l’americana United Artist, ndr) che la sua circolazione sarà vietata nel nostro paese». Butler risponde a direttamente a Keeling: «Cercheremo di saperne di più». Tre mesi dopo, il 17 maggio, Sir Francis Edward Evans, console britannico a Los Angeles, comunica al Foreign Office: «Purtroppo non siamo in possesso di notizie soddisfacenti sul film di Chaplin. Non ne conosciamo i dettagli. Sappiamo solo che la pellicola mette in scena un dittatore, “Adenoid Hynkel”, che è in competizione con “Gasolini” (poi “Benzino Napaloni”, ndr), un altro tiranno. Risulta ovvio che le identità dei prototipi di questi due personaggi nulla concedono all’immaginazione dello spettatore. Soprattutto se uno porterà i celebri baffetti, una caratteristica molto marcata che non è del solo Chaplin. La rivalità fra i due dittatori è affrontata in forma di satira, come nella sequenza dal barbiere. Sono seduti uno accanto all’altro e ognuno solleva la sua poltrona con una leva per apparire più alto. Il capo della propaganda di Hynkel è “Garbage” (“Spazzatura”, ma nel film poi diventerà “Garbitsch”, ossia Joseph Goebbels, il capo della propaganda del Terzo Reich, ndr). I paesi del copione cinematografico sono “Ptomania” (la Germania, “Toma- nia” nella versione definitiva del film, ndr) e “Bacteria” (l’Italia, ndr)». Scrive ancora il console di Los Angeles: «Abbiamo poi appreso alcune informazioni sulla qualità della satira di Chaplin, che è amara e grottesca. Lo abbiamo incontrato personalmente. L’attore ha messo mano alla produzione della pellicola con una foga che rasenta il fanatismo. Le sue simpatie razziali e sociali vanno a quelle classi e a quei gruppi che più soffrono la repressione dei regimi dittatoriali. Ci ha poi detto di essere fermamente deciso ad assicurare una distribuzione al film, anche a costo di attingere alla sua considerevole fortuna personale. A quanto pare, il suo unico obiettivo consiste nel poter sferrare un attacco diretto (a Hitler e a Mussolini, ndr). Stando così le cose, riteniamo che andremmo incontro a I DOCUMENTI I documenti sul Grande dittatore di Charlie Chaplin sono stati selezionati da Mario J. Cereghino negli archivi nazionali britannici di Kew Gradens e sono consultabili, in copia digitale degli originali, presso l’Archivio Casarrubea di Partinico (Palermo) Info: www.casarrubea.wordpress.com un immediato e definitivo rifiuto da parte di Chaplin se mai provassimo a suggerire modifiche al copione. È certo che non raggiungeremmo risultato alcuno. L’attore ammette con franchezza che il film potrebbe essere proiettato solo negli Stati Uniti». Al console risponde il Foreign Office, a firma Kenney: «Sembra proprio che sia impossibile controllare l’entusiasmo e l’esuberanza di Chaplin nei suoi attacchi ai dittatori!». Alla fine di maggio Sir Evans invia al Foreign Office un rapporto intitolato L’industria cinematografica americana. Fra quelle pagine c’è un breve passaggio dedicato a Chaplin: «Le peculiarità e le idiosincrasie di certi capi di governo europei vanno certo sbeffeggiate. Ma senza esagerare. Chaplin ha messo mano a questa produzione cinematografica con uno zelo quasi fanatico. Impressionano il suo odio e il suo disprezzo verso le personalità che egli intende mettere in satira». Il 16 giugno 1939 Kenney scrive anche a Joseph Brooke-Wilkinson, il responsabile dell’Ente per la censura cinematografica di Londra: «Ti abbiamo segnalato i nostri rapporti su Chaplin affinché tu sia in grado di vagliare il film Il dittatorecon estrema attenzione, e ciò nel caso giunga al tuo ufficio la richiesta del visto censorio per la distribuzione della pellicola in Gran Bretagna». Al Foreign Office si aggrappano perfino a una legge inglese del 1917 che dice: «Non è consentito rappresentare sullo schermo personaggi viventi senza il loro consenso scritto». Nei giorni seguenti il settimanale americano Hollywood Reporter pubblica una dura dichiarazione di Chaplin. Nella Mecca del cinema corre voce che il grande artista sia stato oggetto di “intimidazioni”. L’attore reagisce senza menzionare esplicitamente le pressioni che arrivano da Londra. Però dice: «Sono fermamente deciso a girare questo film. È assolutamente falso che io abbia mai considerato l’idea di rinunciare al progetto. E comunque le censure non mi turbano affatto». Le riprese del Grande dittatore iniziano a Hollywood il 9 settembre 1939. Una settimana prima Gran Bretagna e Francia hanno dichiarato guerra alla Germania. Gli Stati Uniti rimarranno neutrali per altri due anni, fino all’attacco giapponese a Pearl Harbour. Sei mesi sul set. Ce ne vorranno altri sei per il montaggio. Il costo: due milioni di dollari. Nell’ottobre del 1940, a New York, Il grande dittatore viene proiettato in prima mondiale al teatro Capitol di Manhattan, alla presenza di Chaplin e dell’attrice coprotagonista Paulette Goddard. Poco dopo, in novembre, il film riceve il visto di censura britannico e arriva sugli schermi di Londra a dicembre. È subito un grande successo. Il grande dittatore viene naturalmente proibito a Berlino e a Roma. Il Popolo d’Italia, il quotidiano fondato dal Duce, ne scrive con disprezzo all’inizio del 1941: «A Londra il giudeo Chaplin ha finalmente trovato un pubblico degno di lui». La leggenda narra che Hitler — ricevuta una copia della pellicola dall’ambasciata tedesca di Lisbona — abbia assistito alla proiezione del Grande dittatore durante le vacanze di Natale del 1940. Nell’immenso salone della sua residenza di Berchesgtaden sulle Alpi austriache, il “Nido dell’Aquila”. © RIPRODUZIONE RISERVATA llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012 ■ 40 LA DOMENICA Crostini Risotto Involtini Quiche Salsiccia Fette di pane di farro, kamut o castagne leggermente tostate, spalmate con caprino fresco. Sopra, mezzi acini bianchi senza semi e una goccia d’olio Riso brillato nello scalogno, spruzzato di succo d’uva Poi, brodo vegetale A metà cottura, chicchi bianchi. Alla fine, ricotta e noci per mantecare Petto di pollo o filetti di sogliola dorati in olio Prima di fine cottura, acini stufati con burro, brandy e poco zucchero Noce moscata a piacere Farina, acqua e olio per la pasta con cui foderare la teglia. Sopra, una farcia di cipolle a fettine rosolate in olio e peperoncino e mezzi acini bianchi Uva spremuta, filtrata, aggiunta con qualche acino intero alla carne, bucherellata, rosolata e sfumata al vino bianco. Pepe e timo per aromatizzare Qualche acino aggiunto a risotti e insalate, ma anche per ammorbidire selvaggina e salsiccia, oppure per farcire brioche e tortini, budini e sformati I sapori Dolce&salato Non di solo vino vive la stagione della vendemmia LICIA GRANELLO Tacchino empo di vendemmia, tempo di vino. E prima del vino, tempo di uva, che del vino è ingrediente unico e insostituibile. Gli archeologi hanno tracciato i suoi semi, vecchi di quasi diecimila anni: in Francia, proprio come in Italia, fin dal Mesolitico si spremeva per farla poi fermentare. Si beveva, l’uva, mica si mangiava, destino gramo comune alla maggior parte di frutta e verdura, alimenti chissà quanto commestibili, di cui diffidare fino a prova contraria. Come piselli e patate, pere e pomodori, anche l’uva — con la sua buccia ostica, la polpa dolce e insinuante, i semi dall’inquietante amaritudine — ha vissuto una quarantena ultrasecolare, terminata solo alla fine del Seicento, quando i grappoli finalmente dismisero la mera funzione ornamentale per essere amabilmente sbocconcellati durante i pranzi nobiliari. Un secolo più tardi, l’uva verrà sdoganata a tutti gli effetti, assurgendo ad alimento popolare. Da lì in poi, l’uso gourmand dell’uva si è esteso e moltiplicato, perché pochi altri frutti possono vantare tanta policroma duttilità. Non solo le variazioni di colore, a firmare in maniera originale una gran messe di ricette, ma soprattutto quelle ben più dirimenti di profumo e sapore, acidità in primis. Mai come nella cucina dei nostri giorni, infatti, si cercano le note fresche, che sottraggono grassezza alle papille — e conseguente senso di appagamento — per stimolare la curiosità verso la portata seguente, concetto di lunghissimo corso esemplificato dal sorbetto offerto tra un piatto e l’altro. Così, qualche acino d’uva, rigorosamente privato dei semi, aggiunto a risotti e insalate, creme e piatti È ripieno di uva, zucca e erbe il tacchino arrosto ideale per il pranzo della domenica T Il gioco delle strane coppie di pesce, crostini e formaggi, assicura quel quid di morbido asprigno che il palato legge come annuncio di futuro godimento. Anche l’aromaticità dell’uva è fondamentale, basti pensare al piglio grazioso e irriducibile con cui combatte i sentori grezzi della selvaggina, moderandoli, o alla finezza insospettabile che sa regalare alla salsiccia (con il supporto di un bicchiere di rosso sfumato dopo la rosolatura). Ma da Marcellino pane&vino in giù, l’uva è regina delle gastro-coppie di fatto in tandem fedelissimo con il pane. Fresco o raffermo che sia, l’uva lo accompagna in schiacciate e treccine, brioche e tortini, budini e sformati. E aggiungendo lo zucchero — poco, tanto la sua dolcezza contagia allegramente gli altri ingredienti — si spalanca l’universo dei dessert con l’uva: cruda, appassita, sotto alcol, ridotta a mosto, in gelatina, caramellata, farcita (noci, pinoli, formaggio), avvolta nel bacon. Se siete di umore campagnolo, organizzate qualche giorno nelle terre della vendemmia tardiva, tra le uve dei grandi rossi del nord e quelle giallo carico tutto zucchero del sud. Altrimenti, virate in direzione Modena, dove oggi si svolge “Acetaie aperte”, a cura dei consorzi dell’aceto balsamico (il pregiatissimo Tradizionale Dop e il semplice Igp). In attesa di colmare il vuoto lasciato dai trecentomila litri andati perduti nel terremoto di maggio, sarete accolti in cantine comunque ben attrezzate per gli assaggi, vecchie, preziose e profumate. All’uva, of course. © RIPRODUZIONE RISERVATA Uva Gourmand llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012 ■ 41 Sorbetto Clafoutis Sciroppo di acqua e zucchero, limone e uva privata dei semi. Frullare e far riposare un’ora in freezer Incorporare il bianco a neve e ancora in freezer Pastella di uova, zucchero, burro, farina e scorza grattugiata, versata in una pirofila foderata di acini. Tre quarti d’ora in forno, fino a gonfiarsi Spiedini caramellati Grossi acini, bianchi, rosati e neri, infilzati negli stecchi alternati a tocchi di mele e pere, tuffati in un caramello di zucchero, acqua e limone Stiacciata Sugolo Doppia sfoglia di pasta di pane sovrapposta e sigillata. In mezzo e sopra, acini neri, poco zucchero, un giro d’olio, rosmarino Infornare per un’ora Per il budino d’uva chicchi cotti senz’acqua con stecca di cannella, passati al setaccio, quattro cucchiai di amido di mais per litro di succo. Bollire 5’, raffreddare Gli indirizzi ILLUSTRAZIONE DI CARLO STANGA DOVE DORMIRE A tavola Spalmarla sul pane come i contadini DAI SPADONS Via Divisione Julia 12 Pradamano Tel. 0432-670196 Doppia da 65 euro colazione inclusa LOCANDA TERRA&VINI Via XXIV Maggio Brazzano di Cormons Tel. 0481-60028 Doppia da 95 euro colazione inclusa AGRITURISMO SCACCIAPENSIERI Via Morpurgo 29 Buttrio Tel. 0432-674907 Doppia da 100 euro colazione inclusa DOVE MANGIARE CARLO PETRINI igiate l’uva (dolcetto) e setacciatela ricavandone un mosto privo d’impurità, dei vinaccioli e delle bucce. Unite al succo d’uva le pere sbucciate e affettate, e fate cuocere a fuoco lento per almeno quattro ore, fino a quando avrete ottenuto uno sciroppo denso. Unite delle nocciole dopo averle sgusciate, tostate e pestate in un mortaio». Ecco la cognà (pronuncia cungnà), nella sua versione più semplice. È ciò a cui pensa immediatamente un abitante delle Langhe se pensa all’uva cucinata. Ne esistono versioni più personali, altre più ricche e più dolci, quasi delle marmellate che si spalmavano sul pane. Una volta infatti si cuocevano nel mosto anche fichi freschi, mele renette, scorze di agrumi e, a fine cottura, gherigli di noci, chiodi di garofano e cannella. Come ogni preparazione tradizionale del mondo contadino si esprime in mille varianti e come ogni ricetta antica ci racconta anche dell’economia dei tempi che furono. Tempi in cui la “crisi” era piuttosto una costante, e forse per questo non ci si lamentava troppo. Usare l’uva per produrre cibo e non il vino — oggi la cognà resta come salsa per accompagnare i bolliti e si è diffusa la moda di servirla con le degustazioni di formaggi — ci riporta a quando il vino stesso era inteso come un alimento, imprescindibile nella piccola economia di semi-sussistenza delle nostre campagne. Era un modo in più di sfruttare un prodotto della natura cogliendone tutte le potenzialità, valorizzandone le diversità, evitando sprechi. Oggi resta la tradizione, che si può trasformare in semplice curiosità o in una moda. Ma, se si vuole, è un pezzo di memoria che ci fa riflettere su come le grandi produzioni e le monocolture abbiano finito con l’appiattire anche la diversità culinaria, ricca di genio e praticità, facendoci dimenticare ciò che un tempo era prassi e che non ci sarebbe motivo perché non lo sia più, tanto più in tempi di crisi. «P © RIPRODUZIONE RISERVATA SALE E PEPE Via Capoluogo 19 Stregna Tel. 0432-724118 Chiuso mart. e merc. menù da 30 euro CAMPIELLO Via Nazionale 40 S. Giovanni al Natisone Tel. 0432-757910 Chiuso sab. e dom. menù da 35 euro AL CACCIATORE DELLA SUBIDA Località Monte 22 Cormons Tel. 0481-60531 Chiuso mart. e merc. menù da 45 euro DOVE COMPRARE L’ENOTECA Piazza XXIV Maggio 21 Cormons Tel. 0481-630371 PASTICCERIA DUCALE Piazza Alberto Picco 18 Cividale del Friuli Tel. 0432-730707 CAFFÈ CARDUCCI Via Duca D’Aosta 83 Monfalcone Tel. 0481-412332 LA RICETTA Capesante con bigné all’acciuga e uva caramellata Ingredienti per 4 persone 8 capesante, 4 bignè, 300 gr di panna 50 gr di latte, 4 acciughe 100 gr di parmigiano 150 gr di uva fragola 1 foglio di gelatina 20 acini bianchi e neri 1 cucchiaio di zucchero di canna 1 cucchiaio di vino bianco secco qualche cubetto di pera una noce di burro Bollire 100 gr di panna, il latte e le acciughe, stemperare bene, ridurre a crema densa, far raffreddare e riempire i bignè. Bollire la restante panna fino a ridurre a metà. A fuoco spento, unire il parmigiano, passare al colino e tenere in caldo Frullare l’uva fragola, colare, intiepidire il succo ottenuto senza portarlo a bollore, unire la gelatina ammorbidita in acqua e strizzata, versare su una placchetta, livellando a 2-3 millimetri, mettere in frigo. Saltare in padella con poco burro i quadretti di pera e l’uva separatamente, spolverarli con zucchero di canna, metterli in un piatto. Tirare il fondo di cottura col vino Spadellare le capesante in extravergine. Nel piatto, sovrapporre un cucchiaio di salsa al parmigiano, la gelatina d’uva tagliata a mattonella e le capesante Affiancare il bignè, decorare con i cubetti di pera e i chicchi di uva caramellati ✃ Luisa Valazza è una delle tre cuoche italiane insignite delle Tre stelle Michelin Al “Sorriso” di Soriso, Novara, gestito col marito Angelo, i piatti sono un inno ai colori e ai sapori, come nella ricetta per i lettori di Repubblica llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012 ■ 42 LA DOMENICA L’incontro Ragazze terribili I genitori la volevano magistrato, lei ha cercato di fare il notaio ma alla fine ha ceduto al richiamo della comicità. “Zelig” l’ha lanciata, Sanremo l’ha consacrata e oggi che è la vera star de La7 vuole essere attrice a tutto tondo: “Cinema, teatro e tv appagano tre parti diverse del condominio che è in me. Sì, lo so: il mio mestiere è sintomo di squilibrio” Geppi Cucciari a gli occhi neri e profondi da sarda vera. Comica, conduttrice e attrice dalla battuta veloce e lo sguardo tagliente. Rivelazione della televisione italiana, Geppi Cucciari mette d’accordo intellettuali e telespettatori intorpiditi da anni di telecomando senza emozioni. La nuova più amata dagli italiani arriva all’appuntamento in un albergo romano con abito a fiori e golf leggero sulle spalle. Puntualissima, nonostante i ritmi frenetici del programma G’ Day su La7, rete di cui è la star di punta, e femminile come non si direbbe. Riempie lo spazio con un sorriso dolce sotto lo sguardo carbone. E, di fronte a una colazione mattutina, mentre oscilla tra il rigore della dieta e le tentazioni della gola, smentisce un presente, e un passato, da pestifera. «Sono stata una bambina divertente. Essere divertenti è possedere una sfumatura della simpatia, in modo più o meno conscio. Tendevo a dire quello che pensavo, perché a una bambina era concesso, e tento di farlo ancora oggi. Il mio nome, come si usa in Sardegna, era Maria Giuseppina con la “Madonna” davanti. Mio padre e i miei fratelli, a quattro anni, hanno cominciato a chiamarmi Geppi che non è un nome d’arte come Sting». In famiglia tornava Maria Giuseppina solo quando la rimproveravano: «Era difficile urlare “Geppi”, che sembrava un vezzeggiativo, e non riuscivano a sgridare una bimba con un nome che faceva tenerezza». sto dove volevo e dovevo stare». Della pallacanestro le è rimasto lo spirito di gruppo: «Dietro ogni lavoro ci sono io con i miei autori, ho un forte senso corporativo e tendo a lavorare a lungo con le stesse persone anche perché nella vita si trascorre più tempo con chi si lavora che con chi si ama. Voler bene al proprio vicino di scrivania rende tutto più semplice». Il rigore non le manca: «Pur essendo l’ultima figlia, sono stata educata in una bolla di attenzioni e severità. Non mi è mai stato permesso di studiare un giorno tanto e quello dopo niente, la regola era mai restare indietro. Anche nel basket, quando volevo mollare, me lo hanno impedito. L’allenamento aiuta, la preparazione anche, quando non hai nessun altro talento che non essere te stessa il controllo sulle cose ti dà serenità. E lo eserciti provando, discutendo e cambiando idea sino allo sfinimento». La giornata di Geppi Cucciari non è mai oziosa. Anzi. «Vivo correndo, ora A quattro anni hanno cominciato a chiamarmi Geppi che non è un nome d’arte come Sting Se mi sgridavano tornavo Maria Giuseppina FOTO AGF H ROMA Maria Giuseppina a diciotto anni si diploma a Macomer, Sardegna profonda, con la stessa idea fissa nella testa da quando di anni ne aveva solo sei: studiare teatro. «I miei mi chiesero di laurearmi in giurisprudenza e così mi trasferii a Cagliari. Peccato che, proprio in quell’anno, c’era stato il boom delle matricole iscritte». Era il momento di Mani pulite e, da quattrocento, i sardi che sognavano di diventare Di Pietro, erano diventati tremila. La vita a Cagliari la travolge: il mare, le amiche, la squadra. «Con il basket ero appagata: giocavo in A2 però continuavo a sognare di far ridere la gente e di diventare attrice. Così, a otto esami dal traguardo, ho chiesto ai miei di mandarmi a Milano, giurando che mi sarei comunque laureata». Per Geppi comincia la vita vera: «Il cabaret, e soprattutto Zelig, mi sembravano la scorciatoia per salire sul palco davanti al pubblico». Dopo la laurea però insiste e prova il tirocinio in uno studio notarile: «Anche in questo caso ho agito più da figlia che da amministratrice di me stessa perché mio padre, il grande pragmatico, ci teneva troppo. Mia madre mi ha trasmesso invece un grande senso del dovere e dell’equilibrio». Cose che l’hanno aiutata quando ha dovuto scegliere. Nel lavoro e non solo. Dello sconosciuto mondo dello spettacolo temeva la sfida continua: «E invece l’ho trovato simile a tanti altri. C’è quella fatica, tutta femminile, di conciliare la vita reale con la carriera». Il primo palcoscenico è stato quello del laboratorio Scaldasole. Quindi, finalmente, Zelig. Ma senza mollare i faldoni del notaio: «Facevo una gran confusione tra la vita diurna meticolosa e quella notturna da comica, così, dopo quasi un anno, mi sono licenziata. A quel punto in famiglia mi hanno appoggiata perché ero una dottoressa di studio troppo triste e imprecisa. Il notaio è diventato un mio ammiratore e io ho cominciato a fare quello che desideravo, senza compromessi». La prima volta che si è trovata davanti al pubblico le tremavano le gambe. E confessa che le tremano ancora: «Ho una debolezza che esplode e che non riesco a controllare. Mi è successo a Sanremo. Però, persino nei momenti difficili, non ho ripensamenti perché ho la fortuna di fare quello che ho sempre sognato. Quando ho avuto problemi, ho conosciuto il lusso di potermi fermare e stare in casa mia, l’unico po- che tutti i giorni sono su La7 con G’ Day leggo qualsiasi quotidiano e ho sempre un libro aperto. La diretta mi costringe a tentare di sapere tutto. In principio ero aiutata dall’inconsapevolezza. La televisione s’impara giorno per giorno confrontandosi con i propri limiti e unendo l’esercizio con un folle istinto». In questo il teatro le ha fatto da scuola, ma la televisione è un’altra cosa: «Arriva un momento in cui dimentichi la telecamera e può capitare di essere più irriverente, più cattiva o più disinformata del lecito». Un grande dono è saper ascoltare. «Cosa che aiuta anche nella vita, dove bisogna ascoltare ma anche ricordare». Geppi vive a Milano. Città che ama e che l’ha accolta con affetto, ma che non le impedisce di tornare nella sua Sardegna. Il sorriso diventa più intenso: «La Sardegna è un’isola e questo non fa che esaltare gli aspetti negativi e positivi del suo popolo. La “sardità” si esprime in un forte senso del territorio, della provenienza, del riconoscimento. La memoria felice si trasforma in riconoscenza profonda, quella infausta tende a sfociare nel rancore». Nei suoi primi trentanove anni, l’indaffarata Geppi, ha trovato anche il tempo per scrivere due libri: «È stato liberatorio. Per me che sono un’istintiva era importante potersi isolare e capire le cose». La dedica è stata l’unica cosa su cui non ha avuto dubbi: «Ai miei genitori, con i miei genitori, nonostante i miei genitori». Nella vita si definisce «tradizionalista con un filo di progressismo controllato». Quando è arrivata la proposta di Sanremo, ha avuto solo due settimane per prepararsi: «La prima preoccupazione è stata cosa dico, poi con chi ci vado, infine come mi vesto». Alla fine è andata con i suoi autori e si è fatta vestire da Antonio Marras. Sardo anche lui. Al fianco di tante bellissime non si è sentita a disagio ma, del confronto estetico tra le donne, c’è qualcosa che la innervosisce nel profondo: «Soffro quel ragionamento che presume un contrasto tra bellezza e intelligenza. Un tempo c’era un maschilismo che portava a discriminare tra uomini e donne, ora c’è quello più subdolo che divide le donne capaci e le donne di altro tipo. Io non mi ritengo in contrasto con ciò che è diverso da me, casomai in illuminante e lecita disarmonia». È stata premiata come miglior personaggio televisivo dell’anno ma non le basta. C’è ancora un sogno: «Essere attrice. Quest’estate ero sul set di una commedia di Marco Ponti e di un film in bianco e nero di Paolo Zucca. Nel cinema il risultato è dilazionato nel tempo. Non sai quello che hai fatto, finché non vedi il film finito. È come se tv, teatro e cinema appagassero tre parti diverse del condominio che è in me». Su chi, come lei, ha scelto questo mestiere scherza: «È sintomo di squilibrio». Quando non lavora il tempo libero lo passa a modo suo: «Divento metodica, quasi noiosa. La sera mi alleno a basket e, due volte a settimana, ceno con le mie amiche storiche, sarde come me. Ho scelto di ricominciare ad allenarmi perché mi piace e mi addolora che, aver perso qualche chilo, abbia rappresentato per molti una scelta di vita». Gli amici sono selezionati. «La mia realtà ruota attorno a tre o quattro persone che hanno scelto di frequentarmi, l’uomo che amo, le amiche di sempre, la mia famiglia. Ogni tanto mi unisco ad altri ma non credo nell’alchimia dei gruppi che non si conoscono, messi insieme a tutti i costi». La tostissima Geppi, a sorpresa, non disdegna il lettino dell’analista. Anche quello a modo suo: «Alcuni vanno in analisi per sfogarsi, io non ne ho bisogno perché ho amiche preziose. Ritengo però che se l’analista in un’ora ti dice anche solo una cosa, con la giusta distanza, ne sia valsa comunque la pena». Si avvicina un cameriere per portare via il caffè e lei lo sorprende con una battuta. Una risata e subito lui la guarda con adorazione. Ecco il segreto per conquistare gli uomini. © RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ IRENE MARIA SCALISE