LADOMENICA
DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012
NUMERO 396
DIREPUBBLICA
CULT
Sherlock
Holmes
&
All’interno
La copertina
Usare o avere?
Dai libri ai film,
la proprietà
al tempo del web
Moby
Dick
FERRARIS E RODOTÀ
La recensione
Call center
e stranieri
l’altra faccia
della Germania
GIORGIO FALCO
L’intervista
Russell Banks
“Una storia etica
dei grandi tabù
americani”
SEBASTIANO TRIULZI
Un viaggio a bordo di una baleniera,
i ghiacci, la caccia, la felicità
FOTO © 2012 THE BRITISH LIBRARY BOARD
Diario segreto di uno studente
chiamato Arthur Conan Doyle
L’attualità
Finale di party
così l’Italia
divenne Babilonia
FILIPPO CECCARELLI
L’anniversario
Urania, i racconti
che vengono
da altri pianeti
VALERIO EVANGELISTI, CARLO
FRUTTERO e MARIO MONICELLI
ARTHUR CONAN DOYLE
C
Lunedì 8 marzo
A bordo della Hope
Lerwick
arissima Signora Madre, ecco che con l’aiuto di una
penna d’oca e una boccetta di inchiostro posso comunicarle tutte le notizie dal Nord: il postale a vapore ieri è arrivato
con la sua lettera e un’altra molto cortese da quella cara ragazza,
Letty, che pare essersi fatta l’idea che io stia andando in Groenlandia a superare un esame o ad affrontare un consesso medico, a giudicare dagli auguri che mi fa e di come racconta che tornerò medico
di grande esperienza. Che piccola anima cara che è! Sono arrivati anche lo Scotsmane le pinze chirurgiche. […] Più di ogni altra cosa, sarà
lieta di sapere che non sono mai stato più felice in vita mia. In me ho
una forte vena bohémien, temo, e la vita mi sembra meravigliosa. Gli
uomini a bordo sono buoni e onesti compagni, robusti e ben piantati. Non ha idea di quanto alcuni di loro siano istruiti. Il capo mec-
canico l’altra sera è salito dal deposito del carbone e mi ha intrattenuto parlando di darwinismo, sul ponte, sotto la luna piena. Poi mi
ha avvinto parlando delle obiezioni al Pentateuco di Colenso, e ha tirato fuori il meglio da me. Anche il capitano è un uomo ben istruito.
[…] Sull’isola non ci sono alberi. Andati a cena venerdì da Tait, il nostro agente, ben rimpinzati, champagne e cose di quel tipo, ma alquanto stancante. A proposito, a bordo abbiamo champagne pregiato e ogni vino possibile, e siamo rimpinzati come maiali. Non so
che cosa significhi mangiare con appetito da tempo, vorrei fare più
esercizio fisico, è solo questo che vorrei. Tiro un po’ di box, ma in pratica questo è tutto. Siamo arrivati appena in tempo per evitare la furia piena della tempesta di vento dell’altro giorno. Il capitano dice
che se ci fossimo trovati ancora al largo avremmo perso le nostre barche e i frangiflutti e forse anche gli alberi di maestra. Ora il tempo è
migliorato. Immagino che salperemo giovedì.
(segue nelle pagine successive )
con un articolo di GABRIELE PANTUCCI
La danza
Con Akram Khan
itinerario poetico
tra Oriente
e Occidente
LEONETTA BENTIVOGLIO
Il libro
Una certa
idea di mondo:
“Il puzzle
di Bolaño”
ALESSANDRO BARICCO
llaa RReeppuubbbblliiccaa
DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012
■ 32
LA DOMENICA
La copertina
Sherlock Holmes
& Moby Dick
Quando era ancora studente Conan Doyle si imbarcò
per la Groenlandia come medico di bordo. Tra ghiacci,
foche, orsi polari e la caccia al “grande pesce”, il futuro
creatore del detective di Baker Street tenne un diario
che ora viene pubblicato dalla British Library
Eccolo in esclusiva per “Repubblica”
Sir Arthur e la balena
indagine in alto mare
ARTHUR CONAN DOYLE
(segue dalla copertina)
Q
uesto, mia cara signora
madre, è quanto le posso
dire nel complesso. Che
Dio la protegga mentre sono via. Avrà mie notizie in
poco meno di due mesi.
C’è una legge del parlamento che ci
proibisce di ammazzare anche una sola foca prima del 2 aprile, ed ecco perché ci tratteniamo qui. Cari saluti a tutti ed estenda i miei saluti a Greenhill.
Il vostro figlio che vi adora,
ACD
Venerdì 19 marzo
C’è una spessa nebbia e ammassi di
ghiaccio ne emergono in lontananza.
Si vedeva fino a cento iarde in ogni direzione. Superate due grandi foche dal
cappuccio, un maschio e una femmina, ferme su una lastra di ghiaccio. Abbiamo provato il richiamo e il maschio
di sicuro si è bloccato e ha ascoltato,
mentre la femmina non è stata altrettanto influenzabile, ma si è subito spostata. Il maschio sarà stato lungo circa
dieci piedi, penso, e la femmina sette o
otto. Spero che la nebbia si diradi. Pioviggina un poco. La nebbia si è mantenuta tutto il giorno, fino a quando ci
siamo coricati la sera. Cane e Stewart
hanno combattuto un incontro di pugilato di sera. Parlato di letteratura con
il capitano: pensa che Dickens goda di
una reputazione molto piccola se paragonato a Thackery. Buckland pare un’adorabile piccola insenatura.
Sabato 3 aprile
È un lavoro crudele
prendere a mazzate le
teste di quelle piccole
foche che ti supplicano e
ti guardano dritto negli
occhi con i loro occhioni scuri. Abbiamo tirato su le scialuppe e iniziato a fare i preparativi, il che significa che ci si
aggrappava con le mani alla fiancata
della nave, e si saltava da un pezzo di
ghiaccio galleggiante a un altro, ammazzando tutto ciò che era possibile
avvistare, mentre la nave a vapore arrivava subito dietro e raccoglieva le pelli. Occorre un bel po’ di destrezza per
capire quale lastra di ghiaccio è in grado di reggere il tuo peso e quale no. Io
non vedevo l’ora di iniziare, ma nel salire a bordo sono scivolato in mezzo a
due blocchi di ghiaccio galleggianti e
sono stato tirato fuori dall’acqua da un
gancio d’accosto. Mi sono cambiato gli
abiti e ho ricominciato, e sono riuscito
a uccidere un paio di foche e a trascinarne i resti dopo averli scuoiati verso
il fianco della nave. Oggi in totale abbiamo preso 760 foche. Lavoro poco
redditizio, credo, ma speriamo in bene. Dopo tutto sono le balene quelle
più redditizie.
Domenica 11 aprile
Giorno funesto nella crociera della
nave. Il povero Andrew era molto più
su e pareva stare meglio di mattina, ma
a cena ha preso del pudding di prugne
ed è peggiorato. Sono subito sceso da
lui e nel giro di dieci minuti mi è spirato letteralmente tra le braccia. Povero
vecchio!
Giovedì 8 luglio
Altra giornata memorabile. Salpati
sul filo di una forte raffica di vento in mezzo ad acque azzurrissime, con l’Eclipse davanti a noi. Intorno all’una una balena, la
prima che avvistiamo da domenica, si è
avvicinata alla nave
del capitano David;
lui ha fatto calare tre
barche per andarle
dietro e l’ha inseguita fino alle quattro
del pomeriggio, quando è riuscito a
prendere velocità, e alle otto l’ha affiancata e a mezzanotte era già scuoiata. Noi abbiamo saltellato qua e là sperando che il suo pesce venisse nella nostra direzione, ma intorno alle quattro
dal colombiere è arrivato il grido tanto
atteso: «C’è un altro pesce a mascone,
signore!». Mathieson e Bob Cane sono
scesi in barca per inseguirlo, e ben presto ne abbiamo perso le tracce fra il
ghiaccio, e ci siamo ammassati sul
fianco del ponte per aspettare. Poi è salito un mormorio di disappunto quando abbiamo visto una grossa balenottera comune emergere vicino alla nave, perché le balenottere comuni e le
balene “giuste” sono nemiche mortali,
e abbiamo temuto che la nostra preda
si sarebbe spaventata. Sono sceso in
cabina per lenire il mio disappunto con
una fumata, quando ho sentito il capitano urlare dal colombiere: «Un tirante! Un tirante!», che è il segnale che il
pesce è colpito. Siamo caracollati fuori, molti degli uomini semisvestiti, e sono partite cinque baleniere verdi lunghe per supportare la barca
“veloce” e la sua compagna.
Io sono salito sulla barca di
Peter McKenzie. Ci eravamo
appena distaccati dal fianco
della nave quando il timoniere della barca ha annunciato
che il pesce era risalito su e stava sferzando l’acqua, con pinna
e coda.
A quel punto abbiamo capito
che il lavoro era pronto per noi,
perché quando un pesce rimane
pochissimo tempo sott’acqua,
dopo essere stato colpito, vuol dire che sta riservando tutte le sue
energie per una battaglia con le barche. Se la balena va giù e rimane sotto per mezz’ora generalmente è talmente esausta quando torna in superficie che è una preda facile. Le barche si sono avvicinate e Hulton e Carner hanno sparato sulla balena e han-
no accelerato. Noi eravamo la barca
successiva e ci siamo avvicinati alla testa del pesce, trafiggendolo in profondità nel collo. La balena ha avuto una
sorta di tremito e si è messa a nuotare a
tutta velocità lungo la superficie. Buchan ha accostato la sua barca alla testa mentre il pesce avanzava, una manovra scriteriata che ha fatto rovesciare in aria la prua della barca, finendo
per farla atterrare sul dorso dell’animale fra le urla degli uomini e lo schiocco dei remi, e Buchan che gridava: «Tirate! Remate! Indietro! Tenete l’acqua!
Tirate! Di che diavolo avete paura?». Io
ho detto a Peter: «Preparati a raccoglierli!», ma loro sono riusciti a rimettersi in acqua senza incidenti. La bestia
si è reimmersa sotto la barca, ma poco
dopo è ricomparsa e Buchan e Rennie
le hanno sparato addosso. È tornata
sotto, ma è risalita su proprio in mezzo
alle nostre tre barche, e poi è cominciato il divertimento.
Ci siamo accostati e abbiamo conficcato i nostri arpioni per
cinque piedi
o giù di lì, le tre barche hanno cercato di
tenersi accanto a lei mentre cercava di
ruotare su stessa per sollevare la sua
enorme coda sopra di noi. A un certo
punto è quasi riuscita a rovesciare la
nostra barca emergendo sotto di noi,
ma siamo riusciti a raddrizzarla. Poi ci
siamo tenuti a distanza mentre si scatenava nelle ultime convulsioni, sferzando l’acqua e sollevando schiuma,
poi si è lentamente girata sulla schiena
ed è morta. Noi ci siamo alzati sulle barche e abbiamo gridato tre urrà di tutto
cuore. L’abbiamo trainata fino alla nave e all’una era stata issata a bordo. Era
un bel pesce, ogni fanone era lungo nove piedi, e frutterà circa dodici tonnellate di olio. Vale più o meno mille sterline, grazie al lei il nostro viaggio non si
trasformerà in un insuccesso.
Traduzione Anna Bissanti
e Fabio Galimberti
© 2012 The Conan Doyle
Estate Ltd
llaa RReeppuubbbblliiccaa
DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012
■ 33
La straordinaria avventura
del vero dottor Watson
GABRIELE PANTUCCI
nun pomeriggio freddo e umido a Edimburgo, mentre
ero impegnato a studiare per uno di quegli esami che
immiseriscono la vita di uno studente di medicina, entrò Currie, un compagno di corso...». Chi scrive potrebbe essere il dottor Watson all’inizio di un’avventura di Sherlock Holmes. Invece è “soltanto” Arthur Conan Doyle, ventenne e al terzo anno di medicina e questa è una storia vera. In pochi minuti Currie lo persuade a interrompere l’anno accademico per
unirsi, come medico di bordo, a una spedizione di caccia alle
balene nel mare artico. Conan Doyle diventa uno dei 56 membri dell’equipaggio della Hope.
La baleniera, guidata dal Capitano John Gray, il 28 febbraio
1880 lascia a vele spiegate il piccolo porto di Peterhead, circa
venti chilometri a nord di Aberdeen. Il racconto del viaggio è
tutto in un diario tenuto dal futuro creatore di Sherlock Holmes
con tanto di disegni e annotazioni (alcuni illustrano queste pagine) che ora la British Library pubblica in edizione fac-simile
in accordo con l’Arthur Conan Doyle Estate con il titolo Dangerous Work. La Hope è una delle navi migliori della sua categoria, lunga circa quindici metri e larga nove, con motore a vapore per potenziare la velatura. Conan Doyle ha con sé libri di filosofia, poesia e letteratura, oltre a diversi album da riempire.
Sarà pagato due sterline e dieci scellini al mese (900 sterline attuali), oltre a uno scellino per ogni tonnellata d’olio che la nave
realizzerà dagli animali catturati. La Hope fa scalo alle Shetland
colta dalla burrasca sino all’11 marzo, quando riprende il viaggio verso la Groenlandia. Conan Doyle registra tutto: la morte
di un marinaio di peritonite, l’arrivo tra i ghiacci, la caccia alle
foche e alle balene, le cadute in mare, gli animali uccisi. A spedizione conclusa il Capitano Gray offre a Conan Doyle di raddoppiargli lo stipendio per tornare l’anno successivo. L’idea di
lavorare come medico di bordo — con la possibilità di fare anche il fiociniere — è accattivante per il giovane studente, ma sua
madre lo obbliga a tornare agli studi. Non è l’unica volta che la
donna interviene nella vita del figlio. Anni dopo lo obbligherà a
rispettare la volontà dei lettori, riprendendo le storie di Holmes.
Arthur, infatti, se ne era stancato e aveva “ucciso” il celebre detective con il nemico Moriarty in Svizzera.
LE IMMAGINI
Documenti (schizzi
e appunti) e immagini
che illustrano queste
pagine sono tratti
da Dangerous Work Diario di un’avventura
artica di Arthur
Conan Doyle
(Jon Lellenberg
e Daniel Stashower,
2012). Nella foto
qui sopra, scattata
il 12 luglio 1880,
Conan Doyle
è il terzo da sinistra
In copertina,
elaborazione grafica:
Sherlock Holmes
e la foto della nave
“Hope”
© RIPRODUZIONE RISERVATA
FOTO © 2012 THE CONAN DOYLE ESTATE LTD
FOTO © HULL MUSEUMS
«I
llaa RReeppuubbbblliiccaa
DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012
■ 34
LA DOMENICA
L’attualità
Album
Il party in stile “Odissea” dei consiglieri
della Regione Lazio è solo l’ultima puntata
di un Carnevale della Repubblica sempre
a favore di obiettivo. Quello di Umberto
Pizzi, il fotografo testimone
di un’escalation da vent’anni a oggi
Italia
Babilonia M
FILIPPO CECCARELLI
a nella festa, molto
più spesso di quanto
si creda, è inscritto il
segno della fine. La
festa dei maiali, per
esempio, ancelle,
anfore, mojito, tableau vivant di sconsiderata allegria paganeggiante. Nel video del backstage, quando tutto si è
consumato e quasi albeggia, il festeggiato Ulisse De Romanis guarda il cielo,
profondamente inspira e con appagato
sollievo scandisce: «Ce l’abbiamo fatta». Mica tanto. Deve attaccarsi, il fe-
steggiato, al fatto che i maiali erano parte indispensabile della coreografia per
via della maga Circe. E già, Odissea, libro
X: solo che in quel carnevale fuori stagione mancava un Euriloco a dare l’allarme: «Oh sventurati, ove ne andiamo?/ Qual mai ci punge del disastro sete?». Troppo tardi per ammettere, come
lo sconsolato ex ministro di Forza Italia
Galan: avevamo immaginato una rivoluzione liberale e siamo finiti così, con
le maschere dei maiali.
Anche nell’agenda su cui vent’anni
or sono il fidato portiere dell’hotel Plaza segnava i recapiti delle amiche dell’allora ministro De Michelis si trovò
traccia di una “Maga Circe”, con relativo numero di telefono. Anche De Michelis adorava la notte, le feste, le donne, forse anche le maghe. Lo chiamavano “Ciccio ballerino”, “Avanzo da balera”, oppure, vedi un po’, “De Maialis”, o
“De Maritozzis”, per l’innata voracità.
Da vicepresidente del Consiglio si fece
scrivere e pubblicò a suo nome addirittura una guida alle discoteche e la presentò al “Bandiera gialla” con le ballerine del Cacao Meravigliao. Forse anche
sulle colline riminesi, quella notte, c’era in agguato l’ombra della prossima
caduta. Eppure, rispetto ai gaudenti di
oggi, forse per ragioni anagrafiche, comunque De Michelis sembra un frate
trappista che vende marmellate ai gitanti della domenica.
Ne Gli ultimi giorni di Pompei di
Edward Bulwer-Lytton un incombente pericolo minaccia l’atmosfera
gioiosa della città aleggiando sopra le
feste. L’eruzione del vulcano è vicina.
Se l’immagine di Pompei può suonare
scontata nel tran-tran dei crolli ormai
abituali, c’è sempre la Babilonia dell’Apocalisse: «Guai, guai, immensa
città,/ i re della terra si sono prostituiti
con essa/ in un’ora sola fu ridotta a un
deserto!». La crisi economica ha ritmi
un po’ più lenti, ma di colpo rende terribile e pazzesco ciò che fino a ieri era
agognato, accettato o sopportato con
un sorriso o un’alzata di sopracciglio.
Al colmo dell’allegro disastro e della
desolante baldoria, la Roma pompeiana e/o babilonica ha un unico vero e
ubiquo testimone e visionario: Umberto Pizzi, il foto-poeta dei “Cafonal”
llaa RReeppuubbbblliiccaa
DOMENICA 30 SETTEMBRE
■ 35
di Dagospia, il Petronio della disfatta
imminente e di quella che ha già conquistato i giornali e gli schermi. Il
Guardiano della Torre del “Panopticon” o galera perfetta per aspiranti galeotti. Inconfondibilmente sue sono le
foto di queste pagine, a lui soprattutto
si deve l’illustrazione del degrado pure
estetico, anzi soprattutto estetico, di
una classe dirigente ormai intrecciatasi con la pretesa aristocrazia del presenzialismo compulsivo, vip, “svip”,
“gnocche”, “carampane”, “prezzemolini” e “morti di fama”.
Se la tv aveva già ben cominciato a
storcere i politici nei primissimi anni
Ottanta, quando il povero Enzo Tortora, con la collaborazione di Guido Quaranta, li aveva convinti a ballare e a cantare con una gabbia di uccellini in mano, o scendendo le scale alla Wanda
Osiris o addirittura immergendosi nelle fredde acque al suono di “Con le pinne fucile ed occhiali”, Pizzi sostiene di
aver cominciato a capire che tutto correva ormai a rotta di collo a una festa del
1994: c’era una anonima ragazza finita
su un tavolo, le gettavano addosso dello champagne, lui scattava e lei era contenta, e tutti intorno anche.
E arrivarono a Roma i La
Russa con gli
occhi spiritati,
i leghisti con i
loro improvvidi sgomenti, i
berlusconiani
inauguravano
il sogno di una
seconda dolce
vita, quelli di
sinistra gli tenevano testa,
pure loro sciaguratamente
mondani, festosi, vanitosi e salottieri.
Per qualche tempo Pizzi, che agli ideali della sua gioventù di comunista non
aveva saputo rinunciare, restò convinto di svolgere un’azione per così dire
sovversiva, un lavoro di denuncia e di
smascheramento, come quando gira-
va nei paesi del Terzo Mondo. Ma presto dovette accorgersi che i ricchi e i famosi del Primo lo volevano alle proprie
feste. Lo invitavano, gli offrivano da
bere, desideravano farsi la foto con lui.
Quando nel 2008 uscì il primo, immane volume di Cafonal, il pontefice
massimo dell’intrattenimento regolamentato e addomesticato, il presidente del “terzo ramo del Parlamento”, insomma Bruno Vespa dedicò a Pizzi e a
Roberto D’Agostino una trasmissione
di due ore. Detto altrimenti: il sistema
si difendeva inglobando, celebrando,
normalizzando.
Bene, dinanzi a queste immagini per
tanti versi profetiche, o addirittura apocalittiche nel senso che più di tante altre sollevano il velo su quanto il potere
andava allestendo per accecarsi, per
perdersi, viene oggi il dubbio che quell’addomesticamento, quella consacrazione, quella normalizzazione altro
non fossero che un vano esorcismo. Co-
sa non si è visto mentre la crisi economica covava le sue uova avvelenate!
Schizzi di spumante, sbaffi di panna,
capezzoli di ministre, andature malferme, cosce aperte, pupille in sospetto dilatamento, enormi porchette, una proliferazione di nani e ballerine, ma letteralmente. Ed era come se le visioni premessero sulla scena pubblica fino a volerla sfondare a colpi di euforia, capricci, esibizionismi, vanagloria.
A rivederla con gli occhi del presente sembra l’escalation di un sogno selvaggio. Esuberanza di corpi, ubriachezza d’animo, desolazione intellettuale. Carne desiderata, frolla, plastificata. Poi le maschere, i travestimenti:
senatori Pulcinella, deputati indossatori, antichi romani, cortigiani cinquecenteschi, cavalieri di
Malta, cacciatori di
leoni, sceicchi, bodyguard, zingari, gentiluomini di campagna,
ciclisti, ecclesiastici,
tutto. E poi, ancora,
torte spaventose che
nessuno vorrebbe mai
nemmeno assaggiare,
messaggi che si stagliano sulla glassa
mentre tutto intorno
scoppiano fuochi
d’artificio. E animali,
sì, anche animali vivi,
la modella con il maialino, la signora con il
cagnolino col suo bel
cappottino, la pazza
con il serpente.
Ma intanto i simboli chiedevano il riscatto a un’umanità che
magari credeva pure di divertirsi,
mentre correva verso il precipizio. Il
tramonto della vergogna, la morte del
pudore. Altro che trash, altro che festa
di Ulisse: è da anni che va in scena la festa del peggio, la festa del baratro, la festa del nulla. Forse anche Umberto
Pizzi, di fronte alle sue immagini, comincia a fare una faccia strana. Forse è
proprio lì dentro che si vede la fine, Babilonia o Pompei non è che faccia molta differenza.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
llaa RReeppuubbbblliiccaa
DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012
■ 36
LA DOMENICA
L’anniversario
Altri mondi
Quando le storie
cadono dalle stelle
VALERIO EVANGELISTI
essi i miei primi due Urania a undici anni, nel 1963. re ai miei genitori per metterli in guardia. Leggevo Urania, ero
La collana aveva infatti la mia stessa data di nasci- sulla via della perdizione (in realtà leggevo molto altro, ma non
ta (1952), con qualche mese di differenza. Me li re- contava).
galò un’amica di mia madre, e contenevano, per
Quali le colpe della fantascienza? 1) trattava di cose non vepura combinazione, due romanzi dello stesso au- re; 2) faceva paura. In effetti ambedue i capi di imputazione eratore, Damon Knight. Il primo, Il pianeta dei super- no fondati. Per fare un esempio, i due romanzi di Damon Knistiti, descriveva un universo futuro in cui la Terra, completa- ght che ho citato (scritti negli anni Cinquanta) non narravano
mente inquinata e devastata dalle guerre, era stata abbando- fatti reali. Lo sarebbero diventati, quale problematica, un vennata dai suoi abitanti. Questi erano stati ospitati su lontani pia- tennio dopo. E la paura c’era, di fronte all’ignoto totale che inneti della galassia popolati da razze ripugnanti di aspetto, ma combeva su un undicenne italiano riguardo al futuro. Rimasi a
civilissime ed evolute. Accecati dal razlungo paralizzato davanti a un titolo:
zismo e da una malintesa idea di supeL’incubo sul fondo, di Murray Leinster.
riorità, un gruppetto di terrestri riarma
Mi spaventava, non osavo sfogliarlo
l’ultima astronave da guerra rimasta
(quando lo lessi, finalmente, risultò una
nelle loro mani, e intraprende una guerboiata). Teniamo presente che, in quelra di sterminio contro coloro che chial’epoca, la gente sveniva di paura alla vima «gli insetti», distruggendo civiltà e
sione del film La mummia, con Peter
culture intere. La sconfitta degli avvenCushing e Christopher Lee.
turieri prepara, per le comunità degli
Un brivido, non tanto di terrore
esuli dalla terra, un finale triste e amaro.
quanto di vertigine, percorse tutta la
Il secondo romanzo, Il lastrico delmia adolescenza e incise senza dubbio
l’inferno (fatto, secondo il proverbio, di
sulla mia formazione. Anche le storie
buone intenzioni), era ambientato in
più povere e banali contenevano a volLE NUOVE USCITE
un’epoca futura meno remota. Vi venite uno spunto geniale, un’idea inquiePer celebrare i 60 anni Urania
va inventata una forma di condizionatante, un risvolto sorprendente che inesce con formato e grafica nuove
mento psichico capace di provocare alduceva a riflettere. Con autori come
Il primo titolo è L’ultimo teorema
lucinazioni a chiunque fosse sul punto
Philip K. Dick, il mio favorito, si toccava
di Arthur C. Clarke e Frederik Pohl
di commettere un crimine. Solo che
il terreno filosofico; con James Ballard la
Il secondo, a novembre, sarà firmato
della tecnica si impadronivano alcune
pura letteratura; con lo scrittore trotzkida Alberto Furlan, vincitore
multinazionali, e la applicavano a chi
sta Mack Reynolds la critica sociale più
del Premio Urania 2012. Il premio
stesse per comperare le merci di un
aspra e pungente. Né posso dimenticasegnala dal 1989 il miglior libro
concorrente. In tal modo il mondo si
re che fu su Urania che conobbi per la
di fantascienza italiano. Tra i vincitori,
suddivideva in spicchi, dominati ognuprima volta Mikhail Bulgakov, grazie al
Valerio Evangelisti. L’illustratore
no da una corporation e chiusi alle merracconto Terrore sul kolkhoz(in seguito
ufficiale di tutte le copertine
ci rivali. Il romanzo narra la storia di un
noto come Le uova fatali).
è Franco Brambilla
giovane che non è stato condizionato, e
Ma non voglio soffermarmi su autori
vaga tra le diverse aree mercantili alla rinoti e meno noti, a me graditi oppure
cerca di ribelli come lui.
sgraditi. La collana, in confezione non
Leggevo tutto ciò nel 1963, e chi risempre degna (era pessima abitudine
cordi com’era l’Italia allora capirà la mia felice sorpresa. Nella di Fruttero e Lucentini accorciare i romanzi per adattarli al nunarrativa corrente, pur stilisticamente più rifinita, c’era poco mero di pagine ridotto), sprigionava nel suo assieme un senso
che somigliasse a tematiche così vaste (pur essendo ancora di libertà dovuto alla moltiplicazione dei futuri possibili, alla
bambino, rifiutavo i testi concepiti per la mia età). Diventai un nozione di alternativa. Poi arrivò il giorno del 1994 in cui io steslettore affezionato di Urania, mi procurai i numeri arretrati e, so fui pubblicato da Urania, evento che cambiò la mia vita. Ma
col poco che avevo in tasca, quelli in uscita. Fu una lotta duris- già i mitici fascicoli bordati di bianco, da decenni, avevano mosima e clandestina. Gli insegnanti — ricordo in particolare una dificato il mio modo di pensare, di interpretare il reale, di soprofessoressa di italiano, al ginnasio — le ritenevano letture gnare — in una parola, il mio modo di esistere.
scadenti e diseducative. La suddetta docente arrivò a telefona© RIPRODUZIONE RISERVATA
L
llaa RReeppuubbbblliiccaa
DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012
■ 37
Il 10 ottobre 1952 nasceva la collana di Mondadori che fece conoscere ai lettori
italiani le astronavi di Asimov, i pianeti esplorati da Clarke, le cronache
extraterrestri di Bradbury. Quei libri scelti per molto tempo
da Fruttero e Lucentini, rivestiti da copertine
d’avanguardia, codificarono un genere. Che oggi ritorna
Giorgio Monicelli raccontato da Mario
Il ricordo di un curatore speciale
Così mio fratello
inventò la fantascienza
La fragilità dell’uomo
spiegata dai marziani
MARIO MONICELLI
CARLO FRUTTERO
iorgio era più grande di me di sette o otto
anni: tra noi c’è un altro fratello, Franco,
poi vengo io e quindi Mino che ne ha quasi cinque meno di me. Voglio precisare che Giorgio era figlio di un’altra madre, un’attrice teatrale molto nota ai primi del Novecento: mio padre
aveva avuto con lei una relazione, ma la signora
non aveva mai voluto sposarlo. Ricordo che da ragazzo andavo spesso a trovare Giorgio in casa
dell’altra signora. Mio fratello aveva soltanto la licenza liceale, non so se si fosse mai iscritto all’università; trovò presto da guadagnare come traduttore e mio padre, da parte sua, aveva altre gatte da pelare, per cui non fece sforzi particolari per
convincerlo a continuare gli studi. Giorgio è entrato alla Mondadori e piano piano si è fatto strada. Ha curato diverse collane e per la Medusa ha
scoperto molte belle cose. [...] Era un appassionato di astrofisica, leggeva trattati divulgativi e ricordo che nei primi anni Trenta voleva spiegarmi
la relatività di Einstein, una cosa che non capiva
neanche lui! Credo che Urania sia nata da questa
passione, Giorgio aveva avuto l’intuizione che
dovesse essere una collana popolare. Leggeva
l’inglese e quindi aveva a disposizione testi che
non arrivavano in Italia. Traduceva anche, ma
non parlava né capiva la lingua viva: aveva imparato l’inglese sulla carta e leggeva quei segni come fossero il sanscrito…
Per cominciare, e prima di collaborarvi stabilmente, Giorgio acchiappò da Mondadori qualche traduzione dal francese; in seguito si trasferì
a Milano ed entrò nella casa editrice come correttore di bozze e traduttore. Mio fratello era considerato un artista, un rompiballe; come il suo
amico Cesare Zavattini non voleva orari fissi, arrivava in ritardo e perciò veniva continuamente
multato. [...] Giorgio passava le sue nottate con
un tipo ancora poco considerato nell’ambiente,
Giorgio Scerbanenco, giornalista e autore di racconti gialli ambientati a Milano in un’epoca in cui
si doveva ambientare tutto in Inghilterra o chissà
dove. Frustrati, gran bevitori di vino tutti e due, la
sera erano sempre ubriachi, in quegli anni anteguerra. [...] Voglio ancora dire che mio fratello è
stato il primo ad aver tradotto in ltalia Malcolm
Lowry, anche se quando lo scrittore venne in Italia per conoscere il suo traduttore, i due non riuscivano a comunicare! Allora si misero a bere barbera e a sghignazzare, insieme a Scerbanenco,
come si può immaginare.
(Testo tratto da un’intervista raccolta per Urania
da Lorenzo Caldelli nel 1997)
ra l’11 settembre e quello che scorreva sullo schermo era effettivamente una copertina di Urania, due grattacieli stroncati da
due aerei, fiamme, fumo, gente che si gettava
dalle finestre, l’America under attack. Di scene
del genere ne avevamo lette e pubblicate non
poche nel corso degli anni. Gli attaccanti potevano essere extraterrestri ovvero sovietici, una
setta segreta con vertiginose ambizioni di conquista mondiale ovvero un gigantesco asteroide. Ma l’immagine era quella, lievemente, come
dire, démodée, archiviata nella memoria di tutti i lettori di Urania [...]
Avremmo pubblicato un romanzo del genere
su Urania? Certo, e anzi, l’abbiamo fatto più di
una volta. Ma non dico questo per sollevare la tediosa questione circa il valore profetico della
fantascienza, su quante cioè delle sue previsioni si siano o no avverate. Urania non fu mai concepita e letta come una specie di manuale ad uso
di maghi, veggenti, chiromanti. Con un occhio
riconoscente ai due grandi precursori, Jules
Verne e H. G. Wells, si trattò sempre soltanto di
ipotesi, estrapolazioni, intuizioni più o meno
plausibili, scritte più o meno bene, con un fondamento scientifico, sociologico, politico più o
meno coerente.
Ma di fronte al crollo delle Torri Gemelle di
New York il lettore abituale di Urania non può
essere caduto totalmente dalle nuvole. Terribile, straziante spettacolo. Eppure possibile, e in
senso lato prevedibile.
Il fatto è che al di là dei dettagli, di ogni caso
specifico, Urania, tutta la fantascienza, ha avuto la funzione (si potrebbe dire il merito?) di far
pervenire ai suoi lettori un rintocco in assonanza con quello celebre del poeta John Donne,
«per chi suona la campana». Nessuno è al sicuro, nessuno si salva, la nostra civiltà è fragilissima e può crollare in ogni momento, anche nel
modo brutale, figurativamente rozzo, di un aereo dirottato che centra un grattacielo, di una
mano guantata che infila una busta velenosa in
una cassetta postale.
Così va il mondo, così vanno tutti i mondi possibili e impossibili tra Vigevano e le più remote
galassie.
(Testo tratto da Urania. 50 anni di profezie
inserito in I ferri del mestiere
di Fruttero & Lucentini (Einaudi)
© 2003 Giulio Einaudi editore Spa, Torino;
© 2003 e 2004 Giulio Einaudi editore Spa, Torino
Prima edizione “Supercoralli” 2003)
G
© RIPRODUZIONE RISERVATA
E
© RIPRODUZIONE RISERVATA
llaa RReeppuubbbblliiccaa
DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012
■ 38
LA DOMENICA
Spettacoli
Realpolitik
Quando al Foreign
Office scoprono
che il regista più
famoso del mondo
sta per girare
un film che
dileggia Hitler,
scatta l’allarme
ATTILIO BOLZONI
annoè il 1939, il mese febbraio.
A Londra, al ministero degli
Esteri, c’è molta inquietudine.
Il premier britannico Neville
Chamberlaine sta tentando
disperatamente di salvare la
pace europea con la politica dell’appeasement
verso la Germania nazista. Il Patto di Monaco è
stato appena siglato, Chamberlaine rende anche
omaggio a Mussolini con una visita ufficiale in
L’
E Sua Maestà disse
“Fermate Chaplin”
Italia. In questa situazione di equilibrio instabile
al Foreign Office vengono a sapere che Charlie
Chaplin — che non ha mai rinunciato alla cittadinanza britannica anche se risiede da trent’anni in America — sta progettando a Hollywood un
nuovo film. Ha già deciso il titolo: Il dittatore. Una
feroce parodia su Adolf Hitler, il Fuehrer.
Downing Street trema. Pensa al danno, all’inutilità degli sforzi per una riappacificazione
con Berlino, alle disastrose conseguenze di quel
progetto cinematografico. Così il viceministro
degli Esteri Richard Austen Butler chiede ai
suoi collaboratori d’indagare sulla pellicola, fa contattare Chaplin dai diplomatici di
Sua Maestà al consolato di Los Angeles,
cerca informazioni sulla sceneggiatura e
— soprattutto — spera di visionare il
copione prima dell’inizio delle riprese con l’obiettivo «di non arrecare offesa alcuna alla Germania». Il momento storico è delicatissimo, fino ad allora
nessuno, neanche negli
Stati Uniti, aveva realizzato opere apertamente
antinaziste. Inizia così
una fitta corrispondenza
fra il Foreign Office e la California.
LE LETTERE
Da sinistra: la richiesta di divieto
della proiezione del film in Gran
Bretagna; il primo documento
ritrovato negli archivi di Kew Gardens:
è la lettera del 22 febbraio 1939
con cui E. H. Keeling informa il viceministro
Butler che Chaplin sta per girare il film;
la risposta di Butler che si impegna
a saperne subito di più
A Londra
la parola d’ordine è:
mantenere
buoni rapporti
con i nazisti
Ecco la storia
segreta
di una censura
llaa RReeppuubbbblliiccaa
DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012
■ 39
CAPOLAVORO Sopra, Charlie Chaplin in una sequenza del film Il grande dittatore
LA DIPLOMAZIA
A sinistra, alcuni documenti del carteggio
tra il Foreign Office britannico
e la California relativo al film di Chaplin
In particolare, la lettera dove sono indicati
i nomi dei protagonisti del film: il dittatore
Adenoid Hynkel e il signor Gasolini,
il capo della propaganda Garbage
ossia Joseph Goebbels. Ci sono
anche i nomi dei paesi: Ptomania
(che diventerà Tomania
nella versione definitiva
del film, cioè la Germania)
e Bacteria (l’Italia)
I retroscena di questa frenetica attività intorno
al film di Charlie Chaplin sono raccontati in un
carteggio custodito nei National Archives di Kew
Gardens alle porte di Londra, documenti catalogati nel fascicolo “Tna/Pro” che svelano tutta
l’ansia dell’Inghilterra per quel film. Ma nel settembre del 1939 l’Europa è già scivolata nel terrore. È appena scoppiata la seconda guerra mondiale. Proprio in quei giorni, dall’altra parte del
mondo, a Hollywood, cominciano le riprese del
Dittatore, interpretato da Charlie Chaplin in persona. Ormai non fa più paura l’Adolf Hitler sugli
schermi, fa paura quello vero.
Il primo documento ritrovato negli archivi di
Kew Gardens porta la data del 22 febbraio 1939.
E. H. Keeling, un parlamentare di Westminster,
scrive al viceministro Butler per informarlo che
«Charlie Chaplin sta preparando a Hollywood un
film intitolato Il dittatore». Keeling ha appreso la
notizia da un suo collega deputato, che gli ha anche inviato un messaggio: «Risulta decisamente
inopportuno che una simile pellicola sia proiettata nel Regno Unito. Mi auguro che il governo
britannico informi immediatamente le persone
eventualmente interessate al finanziamento e alla distribuzione del film (l’americana United Artist, ndr) che la sua circolazione sarà vietata nel
nostro paese».
Butler risponde a direttamente a Keeling:
«Cercheremo di saperne di più». Tre mesi dopo,
il 17 maggio, Sir Francis Edward Evans, console
britannico a Los Angeles, comunica al Foreign
Office: «Purtroppo non siamo in possesso di notizie soddisfacenti sul film di Chaplin. Non ne conosciamo i dettagli. Sappiamo solo che la pellicola mette in scena un dittatore, “Adenoid
Hynkel”, che è in competizione con “Gasolini”
(poi “Benzino Napaloni”, ndr), un altro tiranno.
Risulta ovvio che le identità dei prototipi di questi due personaggi nulla concedono all’immaginazione dello spettatore. Soprattutto se uno porterà i celebri baffetti, una caratteristica molto
marcata che non è del solo Chaplin. La rivalità fra
i due dittatori è affrontata in forma di satira, come nella sequenza dal barbiere. Sono seduti uno
accanto all’altro e ognuno solleva la sua poltrona
con una leva per apparire più alto. Il capo della
propaganda di Hynkel è “Garbage” (“Spazzatura”, ma nel film poi diventerà “Garbitsch”, ossia
Joseph Goebbels, il capo della propaganda del
Terzo Reich, ndr). I paesi del copione cinematografico sono “Ptomania” (la Germania, “Toma-
nia” nella versione definitiva del film, ndr) e “Bacteria” (l’Italia, ndr)».
Scrive ancora il console di Los Angeles: «Abbiamo poi appreso alcune informazioni sulla
qualità della satira di Chaplin, che è amara e grottesca. Lo abbiamo incontrato personalmente.
L’attore ha messo mano alla produzione della
pellicola con una foga che rasenta il fanatismo. Le
sue simpatie razziali e sociali vanno a quelle classi e a quei gruppi che più soffrono la repressione
dei regimi dittatoriali. Ci ha poi detto di essere fermamente deciso ad assicurare una distribuzione
al film, anche a costo di attingere alla sua considerevole fortuna personale. A quanto pare, il suo
unico obiettivo consiste nel poter sferrare un attacco diretto (a Hitler e a Mussolini, ndr). Stando
così le cose, riteniamo che andremmo incontro a
I DOCUMENTI
I documenti sul Grande dittatore
di Charlie Chaplin sono stati selezionati
da Mario J. Cereghino negli archivi
nazionali britannici di Kew Gradens
e sono consultabili, in copia digitale
degli originali, presso l’Archivio
Casarrubea di Partinico (Palermo)
Info: www.casarrubea.wordpress.com
un immediato e definitivo rifiuto da parte di Chaplin se mai provassimo a suggerire modifiche al
copione. È certo che non raggiungeremmo risultato alcuno. L’attore ammette con franchezza
che il film potrebbe essere proiettato solo negli
Stati Uniti». Al console risponde il Foreign Office,
a firma Kenney: «Sembra proprio che sia impossibile controllare l’entusiasmo e l’esuberanza di
Chaplin nei suoi attacchi ai dittatori!».
Alla fine di maggio Sir Evans invia al Foreign Office un rapporto intitolato L’industria cinematografica americana. Fra quelle pagine c’è un breve passaggio dedicato a Chaplin: «Le peculiarità
e le idiosincrasie di certi capi di governo europei
vanno certo sbeffeggiate. Ma senza esagerare.
Chaplin ha messo mano a questa produzione cinematografica con uno zelo quasi fanatico. Impressionano il suo odio e il suo disprezzo verso le
personalità che egli intende mettere in satira».
Il 16 giugno 1939 Kenney scrive anche a Joseph
Brooke-Wilkinson, il responsabile dell’Ente per
la censura cinematografica di Londra: «Ti abbiamo segnalato i nostri rapporti su Chaplin affinché tu sia in grado di vagliare il film Il dittatorecon
estrema attenzione, e ciò nel caso giunga al tuo
ufficio la richiesta del visto censorio per la distribuzione della pellicola in Gran Bretagna». Al Foreign Office si aggrappano perfino a una legge inglese del 1917 che dice: «Non è consentito rappresentare sullo schermo personaggi viventi
senza il loro consenso scritto».
Nei giorni seguenti il settimanale americano
Hollywood Reporter pubblica una dura dichiarazione di Chaplin. Nella Mecca del cinema corre voce che il grande artista sia stato oggetto di
“intimidazioni”. L’attore reagisce senza menzionare esplicitamente le pressioni che arrivano da Londra. Però dice: «Sono fermamente deciso a girare questo film. È assolutamente falso
che io abbia mai considerato l’idea di rinunciare al progetto. E comunque le censure non mi
turbano affatto».
Le riprese del Grande dittatore iniziano a Hollywood il 9 settembre 1939. Una settimana prima
Gran Bretagna e Francia hanno dichiarato guerra alla Germania. Gli Stati Uniti rimarranno neutrali per altri due anni, fino all’attacco giapponese a Pearl Harbour. Sei mesi sul set. Ce ne vorranno altri sei per il montaggio. Il costo: due milioni
di dollari. Nell’ottobre del 1940, a New York, Il
grande dittatore viene proiettato in prima mondiale al teatro Capitol di Manhattan, alla presenza di Chaplin e dell’attrice coprotagonista Paulette Goddard. Poco dopo, in novembre, il film riceve il visto di censura britannico e arriva sugli
schermi di Londra a dicembre. È subito un grande successo.
Il grande dittatore viene naturalmente proibito a Berlino e a Roma. Il Popolo d’Italia, il quotidiano fondato dal Duce, ne scrive con disprezzo all’inizio del 1941: «A Londra il giudeo Chaplin ha finalmente trovato un pubblico degno di
lui». La leggenda narra che Hitler — ricevuta una
copia della pellicola dall’ambasciata tedesca di
Lisbona — abbia assistito alla proiezione del
Grande dittatore durante le vacanze di Natale
del 1940. Nell’immenso salone della sua residenza di Berchesgtaden sulle Alpi austriache, il
“Nido dell’Aquila”.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
llaa RReeppuubbbblliiccaa
DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012
■ 40
LA DOMENICA
Crostini
Risotto
Involtini
Quiche
Salsiccia
Fette di pane di farro, kamut
o castagne leggermente
tostate, spalmate con caprino
fresco. Sopra, mezzi acini
bianchi senza semi
e una goccia d’olio
Riso brillato nello scalogno,
spruzzato di succo d’uva
Poi, brodo vegetale
A metà cottura, chicchi
bianchi. Alla fine, ricotta
e noci per mantecare
Petto di pollo o filetti
di sogliola dorati in olio
Prima di fine cottura,
acini stufati con burro,
brandy e poco zucchero
Noce moscata a piacere
Farina, acqua e olio
per la pasta con cui foderare
la teglia. Sopra, una farcia
di cipolle a fettine rosolate
in olio e peperoncino
e mezzi acini bianchi
Uva spremuta, filtrata,
aggiunta con qualche acino
intero alla carne, bucherellata,
rosolata e sfumata al vino
bianco. Pepe e timo
per aromatizzare
Qualche acino aggiunto a risotti e insalate,
ma anche per ammorbidire selvaggina
e salsiccia, oppure per farcire
brioche e tortini, budini e sformati
I sapori
Dolce&salato
Non di solo vino vive
la stagione della vendemmia
LICIA GRANELLO
Tacchino
empo di vendemmia, tempo di vino. E prima del vino,
tempo di uva, che del vino è ingrediente unico e insostituibile. Gli archeologi hanno tracciato i suoi semi,
vecchi di quasi diecimila anni: in Francia, proprio come in Italia, fin dal Mesolitico si spremeva per farla poi
fermentare. Si beveva, l’uva, mica si mangiava, destino
gramo comune alla maggior parte di frutta e verdura, alimenti chissà quanto commestibili, di cui diffidare fino a prova contraria. Come piselli e patate, pere e pomodori, anche l’uva — con la sua buccia ostica, la polpa dolce e insinuante, i semi dall’inquietante amaritudine — ha vissuto una quarantena ultrasecolare, terminata solo alla fine del Seicento, quando i grappoli finalmente dismisero la
mera funzione ornamentale per essere amabilmente sbocconcellati durante i pranzi nobiliari. Un secolo più tardi, l’uva verrà sdoganata a tutti gli effetti, assurgendo ad alimento popolare.
Da lì in poi, l’uso gourmand dell’uva si è esteso e moltiplicato, perché pochi altri frutti possono vantare tanta policroma duttilità. Non
solo le variazioni di colore, a firmare in maniera originale una gran
messe di ricette, ma soprattutto quelle ben più dirimenti di profumo e sapore, acidità in primis.
Mai come nella cucina dei nostri giorni, infatti, si cercano le note
fresche, che sottraggono grassezza alle papille — e conseguente
senso di appagamento — per stimolare la curiosità verso la portata
seguente, concetto di lunghissimo corso esemplificato dal sorbetto offerto tra un piatto e l’altro. Così, qualche acino d’uva, rigorosamente privato dei semi, aggiunto a risotti e insalate, creme e piatti
È ripieno di uva,
zucca e erbe
il tacchino arrosto
ideale
per il pranzo
della domenica
T
Il gioco
delle strane
coppie
di pesce, crostini e formaggi, assicura quel quid di
morbido asprigno che il palato legge come annuncio di futuro godimento. Anche l’aromaticità
dell’uva è fondamentale, basti pensare al piglio
grazioso e irriducibile con cui combatte i sentori
grezzi della selvaggina, moderandoli, o alla finezza insospettabile che sa regalare alla salsiccia
(con il supporto di un bicchiere di rosso sfumato
dopo la rosolatura). Ma da Marcellino pane&vino
in giù, l’uva è regina delle gastro-coppie di fatto in
tandem fedelissimo con il pane. Fresco o raffermo
che sia, l’uva lo accompagna in schiacciate e treccine, brioche e tortini, budini e sformati. E aggiungendo lo zucchero — poco, tanto la sua dolcezza contagia
allegramente gli altri ingredienti — si spalanca l’universo dei dessert con l’uva: cruda, appassita, sotto alcol, ridotta a mosto, in gelatina, caramellata, farcita (noci, pinoli,
formaggio), avvolta nel bacon.
Se siete di umore campagnolo, organizzate qualche giorno nelle terre della vendemmia tardiva, tra le uve dei grandi rossi del nord
e quelle giallo carico tutto zucchero del sud. Altrimenti, virate in direzione Modena, dove oggi si svolge “Acetaie aperte”, a cura dei consorzi dell’aceto balsamico (il pregiatissimo Tradizionale Dop e il
semplice Igp). In attesa di colmare il vuoto lasciato dai trecentomila litri andati perduti nel terremoto di maggio, sarete accolti in cantine comunque ben attrezzate per gli assaggi, vecchie, preziose e
profumate. All’uva, of course.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Uva
Gourmand
llaa RReeppuubbbblliiccaa
DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012
■ 41
Sorbetto
Clafoutis
Sciroppo di acqua
e zucchero, limone e uva
privata dei semi. Frullare
e far riposare un’ora in freezer
Incorporare il bianco
a neve e ancora in freezer
Pastella di uova, zucchero,
burro, farina e scorza
grattugiata, versata
in una pirofila foderata
di acini. Tre quarti d’ora
in forno, fino a gonfiarsi
Spiedini
caramellati
Grossi acini, bianchi, rosati
e neri, infilzati negli stecchi
alternati a tocchi di mele
e pere, tuffati in un caramello
di zucchero, acqua e limone
Stiacciata
Sugolo
Doppia sfoglia di pasta
di pane sovrapposta
e sigillata. In mezzo e sopra,
acini neri, poco zucchero,
un giro d’olio, rosmarino
Infornare per un’ora
Per il budino d’uva chicchi
cotti senz’acqua con stecca
di cannella, passati
al setaccio, quattro cucchiai
di amido di mais per litro
di succo. Bollire 5’, raffreddare
Gli indirizzi
ILLUSTRAZIONE DI CARLO STANGA
DOVE DORMIRE
A tavola
Spalmarla sul pane
come i contadini
DAI SPADONS
Via Divisione Julia 12
Pradamano
Tel. 0432-670196
Doppia da 65 euro
colazione inclusa
LOCANDA
TERRA&VINI
Via XXIV Maggio
Brazzano di Cormons
Tel. 0481-60028
Doppia da 95 euro
colazione inclusa
AGRITURISMO
SCACCIAPENSIERI
Via Morpurgo 29
Buttrio
Tel. 0432-674907
Doppia da 100 euro
colazione inclusa
DOVE MANGIARE
CARLO PETRINI
igiate l’uva (dolcetto) e setacciatela ricavandone un mosto privo d’impurità, dei vinaccioli e delle bucce. Unite al succo d’uva le pere sbucciate e affettate, e fate cuocere a fuoco lento per
almeno quattro ore, fino a quando avrete ottenuto uno
sciroppo denso. Unite delle nocciole dopo averle sgusciate, tostate e pestate in un mortaio». Ecco la cognà
(pronuncia cungnà), nella sua versione più semplice. È
ciò a cui pensa immediatamente un abitante delle Langhe se pensa all’uva cucinata. Ne esistono versioni più
personali, altre più ricche e più dolci, quasi delle marmellate che si spalmavano sul pane. Una volta infatti si
cuocevano nel mosto anche fichi freschi, mele renette,
scorze di agrumi e, a fine cottura, gherigli di noci, chiodi
di garofano e cannella. Come ogni preparazione tradizionale del mondo contadino si esprime in mille varianti e come ogni ricetta antica ci racconta anche dell’economia dei tempi che furono. Tempi in cui la “crisi”
era piuttosto una costante, e forse per questo non ci si
lamentava troppo. Usare l’uva per produrre cibo e non
il vino — oggi la cognà resta come salsa per accompagnare i bolliti e si è diffusa la moda di servirla con le degustazioni di formaggi — ci riporta a quando il vino stesso era inteso come un alimento, imprescindibile nella
piccola economia di semi-sussistenza delle nostre campagne. Era un modo in più di sfruttare un prodotto della natura cogliendone tutte le potenzialità, valorizzandone le diversità, evitando sprechi. Oggi resta la tradizione, che si può trasformare in semplice curiosità o in
una moda. Ma, se si vuole, è un pezzo di memoria che ci
fa riflettere su come le grandi produzioni e le monocolture abbiano finito con l’appiattire anche la diversità culinaria, ricca di genio e praticità, facendoci dimenticare
ciò che un tempo era prassi e che non ci sarebbe motivo
perché non lo sia più, tanto più in tempi di crisi.
«P
© RIPRODUZIONE RISERVATA
SALE E PEPE
Via Capoluogo 19
Stregna
Tel. 0432-724118
Chiuso mart. e merc.
menù da 30 euro
CAMPIELLO
Via Nazionale 40
S. Giovanni al Natisone
Tel. 0432-757910
Chiuso sab. e dom.
menù da 35 euro
AL CACCIATORE
DELLA SUBIDA
Località Monte 22
Cormons
Tel. 0481-60531
Chiuso mart. e merc.
menù da 45 euro
DOVE COMPRARE
L’ENOTECA
Piazza XXIV Maggio 21
Cormons
Tel. 0481-630371
PASTICCERIA DUCALE
Piazza Alberto Picco 18
Cividale del Friuli
Tel. 0432-730707
CAFFÈ CARDUCCI
Via Duca D’Aosta 83
Monfalcone
Tel. 0481-412332
LA RICETTA
Capesante con bigné all’acciuga e uva caramellata
Ingredienti per 4 persone
8 capesante, 4 bignè, 300 gr di panna
50 gr di latte, 4 acciughe
100 gr di parmigiano
150 gr di uva fragola
1 foglio di gelatina
20 acini bianchi e neri
1 cucchiaio di zucchero di canna
1 cucchiaio di vino bianco secco
qualche cubetto di pera
una noce di burro
Bollire 100 gr di panna, il latte e le acciughe, stemperare bene, ridurre a crema
densa, far raffreddare e riempire i bignè. Bollire la restante panna fino a ridurre
a metà. A fuoco spento, unire il parmigiano, passare al colino e tenere in caldo
Frullare l’uva fragola, colare, intiepidire il succo ottenuto senza portarlo
a bollore, unire la gelatina ammorbidita in acqua e strizzata, versare
su una placchetta, livellando a 2-3 millimetri, mettere in frigo. Saltare in padella
con poco burro i quadretti di pera e l’uva separatamente, spolverarli
con zucchero di canna, metterli in un piatto. Tirare il fondo di cottura col vino
Spadellare le capesante in extravergine. Nel piatto, sovrapporre un cucchiaio
di salsa al parmigiano, la gelatina d’uva tagliata a mattonella e le capesante
Affiancare il bignè, decorare con i cubetti di pera e i chicchi di uva caramellati
✃
Luisa Valazza
è una delle tre cuoche
italiane insignite
delle Tre stelle Michelin
Al “Sorriso” di Soriso,
Novara, gestito
col marito Angelo,
i piatti sono un inno
ai colori e ai sapori,
come nella ricetta
per i lettori di Repubblica
llaa RReeppuubbbblliiccaa
DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012
■ 42
LA DOMENICA
L’incontro
Ragazze terribili
I genitori la volevano magistrato,
lei ha cercato di fare il notaio
ma alla fine ha ceduto al richiamo
della comicità. “Zelig” l’ha lanciata,
Sanremo l’ha consacrata e oggi
che è la vera star de La7
vuole essere attrice
a tutto tondo:
“Cinema, teatro
e tv appagano tre parti
diverse del condominio
che è in me. Sì, lo so: il mio
mestiere è sintomo
di squilibrio”
Geppi Cucciari
a gli occhi neri e profondi da sarda vera. Comica, conduttrice e attrice
dalla battuta veloce e lo
sguardo tagliente. Rivelazione della televisione italiana, Geppi Cucciari mette d’accordo intellettuali e telespettatori intorpiditi da anni di telecomando
senza emozioni. La nuova più amata
dagli italiani arriva all’appuntamento
in un albergo romano con abito a fiori e
golf leggero sulle spalle. Puntualissima,
nonostante i ritmi frenetici del programma G’ Day su La7, rete di cui è la
star di punta, e femminile come non si
direbbe. Riempie lo spazio con un sorriso dolce sotto lo sguardo carbone. E,
di fronte a una colazione mattutina,
mentre oscilla tra il rigore della dieta e le
tentazioni della gola, smentisce un presente, e un passato, da pestifera.
«Sono stata una bambina divertente.
Essere divertenti è possedere una sfumatura della simpatia, in modo più o
meno conscio. Tendevo a dire quello
che pensavo, perché a una bambina era
concesso, e tento di farlo ancora oggi. Il
mio nome, come si usa in Sardegna, era
Maria Giuseppina con la “Madonna”
davanti. Mio padre e i miei fratelli, a
quattro anni, hanno cominciato a chiamarmi Geppi che non è un nome d’arte come Sting». In famiglia tornava Maria Giuseppina solo quando la rimproveravano: «Era difficile urlare “Geppi”,
che sembrava un vezzeggiativo, e non
riuscivano a sgridare una bimba con un
nome che faceva tenerezza».
sto dove volevo e dovevo stare». Della
pallacanestro le è rimasto lo spirito di
gruppo: «Dietro ogni lavoro ci sono io
con i miei autori, ho un forte senso corporativo e tendo a lavorare a lungo con
le stesse persone anche perché nella vita si trascorre più tempo con chi si lavora che con chi si ama. Voler bene al
proprio vicino di scrivania rende tutto
più semplice».
Il rigore non le manca: «Pur essendo
l’ultima figlia, sono stata educata in
una bolla di attenzioni e severità. Non
mi è mai stato permesso di studiare un
giorno tanto e quello dopo niente, la regola era mai restare indietro. Anche nel
basket, quando volevo mollare, me lo
hanno impedito. L’allenamento aiuta,
la preparazione anche, quando non
hai nessun altro talento che non essere
te stessa il controllo sulle cose ti dà serenità. E lo eserciti provando, discutendo e cambiando idea sino allo sfinimento».
La giornata di Geppi Cucciari non è
mai oziosa. Anzi. «Vivo correndo, ora
A quattro anni
hanno cominciato
a chiamarmi Geppi
che non è un nome
d’arte come Sting
Se mi sgridavano
tornavo Maria
Giuseppina
FOTO AGF
H
ROMA
Maria Giuseppina a diciotto anni si
diploma a Macomer, Sardegna
profonda, con la stessa idea fissa nella
testa da quando di anni ne aveva solo
sei: studiare teatro. «I miei mi chiesero
di laurearmi in giurisprudenza e così
mi trasferii a Cagliari. Peccato che, proprio in quell’anno, c’era stato il boom
delle matricole iscritte». Era il momento di Mani pulite e, da quattrocento, i
sardi che sognavano di diventare Di
Pietro, erano diventati tremila.
La vita a Cagliari la travolge: il mare,
le amiche, la squadra. «Con il basket ero
appagata: giocavo in A2 però continuavo a sognare di far ridere la gente e di diventare attrice. Così, a otto esami dal
traguardo, ho chiesto ai miei di mandarmi a Milano, giurando che mi sarei
comunque laureata». Per Geppi comincia la vita vera: «Il cabaret, e soprattutto Zelig, mi sembravano la scorciatoia per salire sul palco davanti al pubblico». Dopo la laurea però insiste e
prova il tirocinio in uno studio notarile: «Anche in questo caso ho agito più
da figlia che da amministratrice di me
stessa perché mio padre, il grande
pragmatico, ci teneva troppo. Mia madre mi ha trasmesso invece un grande
senso del dovere e dell’equilibrio». Cose che l’hanno aiutata quando ha dovuto scegliere. Nel lavoro e non solo.
Dello sconosciuto mondo dello spettacolo temeva la sfida continua: «E invece l’ho trovato simile a tanti altri. C’è
quella fatica, tutta femminile, di conciliare la vita reale con la carriera».
Il primo palcoscenico è stato quello
del laboratorio Scaldasole. Quindi, finalmente, Zelig. Ma senza mollare i faldoni del notaio: «Facevo una gran confusione tra la vita diurna meticolosa e
quella notturna da comica, così, dopo
quasi un anno, mi sono licenziata. A
quel punto in famiglia mi hanno appoggiata perché ero una dottoressa di
studio troppo triste e imprecisa. Il notaio è diventato un mio ammiratore e io
ho cominciato a fare quello che desideravo, senza compromessi».
La prima volta che si è trovata davanti al pubblico le tremavano le gambe. E confessa che le tremano ancora:
«Ho una debolezza che esplode e che
non riesco a controllare. Mi è successo
a Sanremo. Però, persino nei momenti
difficili, non ho ripensamenti perché
ho la fortuna di fare quello che ho sempre sognato. Quando ho avuto problemi, ho conosciuto il lusso di potermi
fermare e stare in casa mia, l’unico po-
che tutti i giorni sono su La7 con G’ Day
leggo qualsiasi quotidiano e ho sempre
un libro aperto. La diretta mi costringe
a tentare di sapere tutto. In principio
ero aiutata dall’inconsapevolezza. La
televisione s’impara giorno per giorno
confrontandosi con i propri limiti e
unendo l’esercizio con un folle istinto».
In questo il teatro le ha fatto da scuola,
ma la televisione è un’altra cosa: «Arriva un momento in cui dimentichi la telecamera e può capitare di essere più irriverente, più cattiva o più disinformata del lecito». Un grande dono è saper
ascoltare. «Cosa che aiuta anche nella
vita, dove bisogna ascoltare ma anche
ricordare».
Geppi vive a Milano. Città che ama e
che l’ha accolta con affetto, ma che
non le impedisce di tornare nella sua
Sardegna. Il sorriso diventa più intenso: «La Sardegna è un’isola e questo
non fa che esaltare gli aspetti negativi e
positivi del suo popolo. La “sardità” si
esprime in un forte senso del territorio,
della provenienza, del riconoscimento. La memoria felice si trasforma in riconoscenza profonda, quella infausta
tende a sfociare nel rancore». Nei suoi
primi trentanove anni, l’indaffarata
Geppi, ha trovato anche il tempo per
scrivere due libri: «È stato liberatorio.
Per me che sono un’istintiva era importante potersi isolare e capire le cose». La dedica è stata l’unica cosa su cui
non ha avuto dubbi: «Ai miei genitori,
con i miei genitori, nonostante i miei
genitori». Nella vita si definisce «tradizionalista con un filo di progressismo
controllato». Quando è arrivata la proposta di Sanremo, ha avuto solo due
settimane per prepararsi: «La prima
preoccupazione è stata cosa dico, poi
con chi ci vado, infine come mi vesto».
Alla fine è andata con i suoi autori e si è
fatta vestire da Antonio Marras. Sardo
anche lui. Al fianco di tante bellissime
non si è sentita a disagio ma, del confronto estetico tra le donne, c’è qualcosa che la innervosisce nel profondo:
«Soffro quel ragionamento che presume un contrasto tra bellezza e intelligenza. Un tempo c’era un maschilismo che portava a discriminare tra uomini e donne, ora c’è quello più subdolo che divide le donne capaci e le
donne di altro tipo. Io non mi ritengo
in contrasto con ciò che è diverso da
me, casomai in illuminante e lecita disarmonia».
È stata premiata come miglior personaggio televisivo dell’anno ma non
le basta. C’è ancora un sogno: «Essere
attrice. Quest’estate ero sul set di una
commedia di Marco Ponti e di un film
in bianco e nero di Paolo Zucca. Nel cinema il risultato è dilazionato nel tempo. Non sai quello che hai fatto, finché
non vedi il film finito. È come se tv, teatro e cinema appagassero tre parti diverse del condominio che è in me». Su
chi, come lei, ha scelto questo mestiere scherza: «È sintomo di squilibrio».
Quando non lavora il tempo libero lo
passa a modo suo: «Divento metodica,
quasi noiosa. La sera mi alleno a basket
e, due volte a settimana, ceno con le
mie amiche storiche, sarde come me.
Ho scelto di ricominciare ad allenarmi
perché mi piace e mi addolora che,
aver perso qualche chilo, abbia rappresentato per molti una scelta di vita». Gli amici sono selezionati. «La mia
realtà ruota attorno a tre o quattro persone che hanno scelto di frequentarmi, l’uomo che amo, le amiche di sempre, la mia famiglia. Ogni tanto mi unisco ad altri ma non credo nell’alchimia
dei gruppi che non si conoscono, messi insieme a tutti i costi».
La tostissima Geppi, a sorpresa, non
disdegna il lettino dell’analista. Anche
quello a modo suo: «Alcuni vanno in
analisi per sfogarsi, io non ne ho bisogno perché ho amiche preziose. Ritengo però che se l’analista in un’ora ti dice anche solo una cosa, con la giusta distanza, ne sia valsa comunque la pena». Si avvicina un cameriere per portare via il caffè e lei lo sorprende con
una battuta. Una risata e subito lui la
guarda con adorazione. Ecco il segreto
per conquistare gli uomini.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
‘‘
IRENE MARIA SCALISE
Scarica

DIREPUBBLICA - La Repubblica