Corso di PSICOLOGIA MEDICA (Prof. BELLOMO) Le Influenze della Cultura nella Pratica Medica ( Dott.ssa Madia Ferretti) Questa lezione si propone di analizzare le influenze che la cultura esercita nell’ambito della pratica medica. A tale scopo si farà riferimento all’antropologia culturale, alle sue suggestioni, alle sue idee, ai suoi metodi, impiegandoli come strumenti attraverso cui comprendere l’ambiguità (intesa come apertura a molteplici variabili) presente in ogni situazione assistenziale. Il fine è quello di poter affrontare, nel migliore dei modi, la difficoltà interpretativa che caratterizza la relazione assistente/assistito. Possiamo definire l’antropologia culturale come lo studio dell’uomo in relazione al suo ambiente culturale e biologico, pertanto i suoi campi d’indagine sono: 1. l’uomo; 2. le sue relazioni con gli altri uomini; 3. il rapporto di individui e gruppi tra loro e con l’ambiente. In breve, l’antropologia in quanto “studio dell’uomo” fornisce i parametri alla medicina in quanto “studio per l’uomo” poiché: 1) l’Antropologia come conoscenza dell’estraneo interviene nel fenomeno sempre più frequente e complicato della cura allo straniero ( sempre più spesso il medico è chiamato ad incontrare persone che non fanno parte del suo abituale ambiente geografico, e a prestare la dovuta assistenza sia per scelta professionale che per etica) 2) l’Antropologia come studio dei sottogruppi interviene nei casi in cui all’interno di una stessa cultura coesistono, perché sorti ex novo o perché rimasti dal passato, sistemi di cura diversi (da intendersi sia come medicina alternativa quale per esempio l’agopuntura, l’omeopatia, l’osteopatia, ecc., che come medicina tradizionale, rappresentata da sopravvissute forme di cura popolari) 1 3) l’Antropologia come analisi delle dinamiche interne ai gruppi ne studia l’uso nella pratica medica. 4) l’Antropologia come scienza dell’individuo in quanto esponente di una particolare cultura/subcultura analizza il confine tra “normale e anomalo”, quindi la misura in cui una persona, affetta da un disturbo o da un disagio, può essere oggetto di stigmatizzazione e per questo tendere a negare o distorcere il suo problema di fronte al medico. 5) l’Antropologia come studio delle relazioni umane studia il rapporto medico-paziente contestualizzandone l’interazione. La collaborazione tra medicina e antropologia non è una realtà nuova, essa nacque dalla convinzione, diffusa in passato, del particolare legame esistente tra alcune patologie e determinate razze. Tale convinzione derivava dall’opinione che ad ogni etnia sia collegato un bagaglio genetico standard. Questa erronea credenza ha generato una serie di assunti stereotipanti per cui: 1) una patologia può venire considerata congenita anche in assenza di dettagliati accertamenti su ulteriori fattori ad essa connessi (per es. l’osteoporosi nei bianchi); 2) un fenomeno patologico può venire associato (positivamente o negativamente) ad un concetto razziale, per cui essere poi esteso a tutti gli appartenenti alla “razza” in questione ( per es. tutti i neri sono immuni da osteoporosi). Oggi, studi comparati hanno evidenziato come, al contrario, le caratteristiche psicofisiche che contraddistinguono gli esseri umani siano paradossalmente più simili tra popolazioni diverse che tra singoli individui. La naturale conseguenza è che il concetto di razza non ha più nessuna validità scientifica né giustificazione se considerato in qualità di parametro biologico e non esclusivamente nell’accezione di sistema simbolico e sociale di classificazione ( quindi agente su un piano assolutamente diverso). 2 Al fine di elaborare adeguate procedure terapeutiche, quindi, la medicina moderna tende a sostituire sempre più spesso l’obsoleta nozione di razza (intesa come condizione subita dalla natura) con quella di identità etno-culturale (intesa, invece, come identificazione agita nei confronti di un contesto). La sequenza: Razza → Patrimonio Genetico → Patologia Va pertanto trasformata in: ↓ Cultura → Identità Etnica → Malattia Ciò è particolarmente evidente se si considerano le ricadute di natura psicologica cui va incontro il paziente dopo essere venuto a conoscenza di una diagnosi: il processo di adattamento alla malattia, il rapporto con il trattamento e le prescrizioni, sono, infatti, condizionati dai modelli di malattia che la cultura di appartenenza gli propone. A sottolineare l’importanza di questa nuova prospettiva, si aggiunge che l’analisi delle statistiche su SALUTE-MALATTIA ha evidenziato come le maggiori cause di malattia siano riconducibili a COMPORTAMENTI A RISCHIO, STILI DI VITA, e quindi a elementi CULTURALMENTE DETRMINATI, sottolineando come essi arrivino a influenzare molte funzioni fisiologiche ( si pensi alla dieta, l’uso di alcool, di tabacco, i comportamenti sessuali ecc. fino ad arrivare agli stili di vita altamente stressanti tipici delle società occidentali). Sinteticamente possiamo individuare 5 funzioni principali che la cultura riveste nei confronti della biomedicina: 1. La cultura come strumento interpretativo ed esplicativo di comportamenti patologici, che permette di evidenziare la natura non patologica di determinati comportamenti altrimenti classificabili come tali 2. La cultura come agente patogeno e patoplastico, che permette di sapere come alcuni eventi o situazioni possano generare o accrescere patologie (per es. l’assunzione di droghe o alcool, alcune pratiche di allevamento dei bambini, ecc.) 3 3. La cultura come fattore diagnostico e nosologico, che consente di evitare la classificazione di patologie o comportamenti intrinseci ad alcune culture in categorie appartenenti al sistema classificatorio dominante 4. La cultura come fattore protettivo e terapeutico, che mette in risalto come alcuni comportamenti o abitudini possano fungere da “cuscinetto” per alcune forme patologiche ( è ciò che fanno le famiglie estese nella lotta allo stigma, o le credenze religiose nei processi di guarigione e recupero) 5. La cultura come elemento nella gestione e strutturazione di servizi clinici , che promuove la consapevolezza di differenze nei bisogni assistenziali, e quindi permette un’erogazione di servizi più mirata ed efficace. Arrivare a tali determinazioni non è stato semplice, ed è soprattutto grazie al lavoro di alcuni pionieri, operanti nel campo delle “malattie mentali” dove il legame patologiacultura diventa particolarmente pregnante, che oggi la visione della malattia e del “malato” stanno cambiando. Un breve excursus storico può servire a chiarire le idee sui passi fatti e aprire nuove prospettive su quelli ancora da compiersi. Fu J.C.D. Carothers, psichiatra inglese in missione militare in Africa, uno tra i primi medici ad accorgersi delle potenzialità eziologiche della cultura, quando evidenziò come il fenomeno patologico dei “Mau Mau”, fino a quel momento ritenuto di origine biologica fosse invece imputabile a particolari caratteristiche culturali proprie della popolazione keniota dei Kikuyu. A lui seguì Fanon (1925-1961), che spostò acutamente l’accento dalla riflessione sulla natura dell’altro a quella sulla relazione con l’altro e individuò, quali cause di alcune condotte psicopatologiche, i fenomeni di mimesi e di ibridazione culturale cui sono soggette le popolazioni dominate (tesi resa attualissima dal moderno e discusso fenomeno della globalizzazione). G. Deveraux(1908-1985), tutt’oggi considerato il padre del “Metodo Complementarista”, mise in luce come l’eventualità che una sorta di “Controtransfert Culturale” del medico ( cioè l’insieme di assunti dettati dalla propria cultura e di cui, molte volte è egli stesso “portatore inconsapevole”) possa interferire con il percorso di guarigione del paziente; criticò l’universalità di assunti fino ad allora ritenuti “normali”( come per es. il complesso di Edipo); estese le sue analisi alle società occidentali, fino ad allora rimaste al di fuori da questo tipo di osservazione, e diede avvio a studi sistematici sull’interazione tra 4 psiche e cultura. Alla lista non può mancare l’italiano Ernesto de Martino (1908-1965), singolare figura di etnologo, antropologo e storico, il cui contributo può dirsi basilare. Egli individuò, infatti, il gap esistente, nell’ambito di una medesima cultura, tra le sue forme ufficiali e le sue forme subalterne, zone d’ombra inaccessibili alla comune ragione, ed inoltre elaborò le categorie della “Presenza” e della “Crisi della Presenza” . Numerosi altri studiosi hanno “battuto” vie inconsuete nell’ambito del rapporto malattia/cultura, fino a giungere a Tobie Nathan, attualmente operante a Parigi e il cui progetto assolutamente rivoluzionario consiste nel promuovere un’alleanza terapeutica in cui “l’altro” è visto non solo come portatore di patologie nuove, ma anche come fonte di nuovi modi di affrontarle e risolverle. La convinzione che anima questo modo di intendere la relazione medico-paziente è che ciò che conta, per l’efficacia della cura, è anzitutto la ricerca di un sistema di pensiero idoneo alla costruzione di legami psichici efficaci: fondamentale, cioè, non è il grado di verità delle interpretazioni, ma la conseguenza della loro messa in atto. Nato come metodo per lo studio dell’altro, nel primitivo senso di straniero, il legame tra antropologia e medicina si è spostato col tempo, come abbiamo visto, ad analizzare in modo nuovo, critico e consapevole, forme patogene e patologiche appartenenti al nostro mondo. Sempre più, infatti, la presenza di problematiche drammatiche per la loro potenza distruttiva, richiama l’attenzione del medico sui fenomeni tipici delle società iperindustrializzate: i disturbi alimentari, i fenomeni di incesto nelle adozioni, le psicosi brevi negli adolescenti, la personalità di tipo A, gli stati alterati di coscienza, il disturbo post-traumatico da stress tipico dei rifugiati o dei sopravvissuti a guerre o a catastrofi naturali, per non parlare del fenomeno tutto occidentale della scissione che sottostà al comportamento dei serial-killers. Il confronto con questi e altri fenomeni non può lasciare il medico indifferente, ma lo esorta a continui e rapidi cambiamenti nelle proprie usuali griglie interpretative e nosologiche, pena il crollo dell’intera impalcatura etica ed ideologica che ha animato la medicina fino ad ora. Negli ultimi anni l'interesse scientifico verso tali eventi è notevolmente aumentato. Tra i tanti, un’attenzione particolare In virtù della capacità di influenzare il percorso terapeutico dei pazienti, meritano sette e gruppi di guarigione, raggruppati intorno a figure taumaturgiche e carismatiche, oggi quanto mai presenti nella nostra società e, non di rado, preferiti alla medicina ufficiale. Uno studio approfondito di questa realtà è utile a sostituire 5 la paura con la conoscenza e a trarre vantaggio dalla comprensione dei meccanismi operanti al loro interno. Questi gruppi hanno in comune la cosiddetta “caratteristica carismatica”: una struttura di base che si regge sull’attribuzione di poteri superiori al leader o alla missione del gruppo. A livello strutturale, possono essere formati da una dozzina o poco più di seguaci fino a centinaia o migliaia e sono caratterizzati dai seguenti elementi psicologici: a. i seguaci hanno un sistema comune di fede, b. dimostrano un alto livello di coesione sociale, c. sono fortemente influenzati dalle norme comportamentali di gruppo, d. attribuiscono potere carismatico (o talvolta divino) al gruppo o alla sua leadership. e. Alla base della tipicità dei comportamenti di chi vi aderisce, vi è, appunto, un sistema di fede comune per cui i seguaci tendono a preoccuparsi molto del benessere reciproco e ad impegnarsi a fondo in attività collettive. La loro considerevole coesione sociale, essenziale per l'integrità del gruppo, si riflette nella stretta interrelazione tra l'esistenza del singolo e quella di tutti gli associati e si manifesta attraverso la pratica di frequenti riunioni. Tale caratteristica, specifica di questo tipo di affiliazioni, assolve al duplice scopo di perno per le funzioni di gruppo e di occasione per rinvigorirne la coesione: per un associato a gruppi di culto (o, come si è potuto riscontrare, anche per chi aderisce a gruppi di autosostegno, terapeutici o di mutuo aiuto) è fondamentale essere sempre al corrente dei futuri appuntamenti collettivi, anzi, un membro può essere emotivamente molto vulnerabile all'interruzione dell’abituale routine, tanto che mancare ad un incontro può arrivare a generare un forte senso d’angoscia (lo sanno bene i medici che devono gestire i ricoveri, per esempio, dei Testimoni di Geova!). Le norme di comportamento, poi, giocano un ruolo fondamentale nel canalizzare la condotta dei membri, i quali vi fanno appello soprattutto quando si trovano in situazioni nuove, come è il caso delle malattie, alle quali reagiscono in maniera pressocchè standardizzata. A livello medico è interessante notare come, in questi contesti, si verifichino casi in cui i cambiamenti del comportamento arrivino ad imitare i sintomi di alcune patologie, e questo perché, in molti gruppi a matrice mistico-religiosa, le esperienze trascendentali, 6 spesso allucinatorie, sono piuttosto comuni: un compagno morto sta “letteralmente” accanto a un seguace, o un personaggio storico gli porta consigli d'ispirazione divina. Ciò induce i membri a sperimentare esperienze emotive piuttosto intense, come euforia o malessere profondi, le quali provocano episodi patologici in individui che altrimenti non manifestano anomalie. L’analisi di tali dinamiche, tuttavia, ha portato antropologi e sociologi a sottolineare come, al di là di possibili implicazioni negative, un gruppo nasca essenzialmente per raggiungere obiettivi pratici, trasformandosi solo in seguito in una sorta di dipendenza. L’adesione a tale tipologia di gruppi, in effetti, ha molto in comune con altri tipi di dipendenza (tossicodipendenza, alcoolismo, gioco ecc.) in quanto presenta, come costante di base, una marcata correlazione fra il grado di affiliazione e il reale sollievo dall'angoscia che si avverte entrandovi. Uno tra i primi tentativi di “trasferire” i vantaggi di simili esperienze nel trattamento di pazienti si deve allo pneumologo statunitense J.H. Prat che, nel 1908, lavorando con soggetti tubercolotici, notò come il sostegno psicologico offerto dal lavoro di gruppo contribuiva a favorirne il miglioramento anche da un punto di vista fisiologico. Nel 1919 tale metodo venne adottato per la prima volta in un ospedale psichiatrico, dove il dottor L.C. Marsh ne sperimentò un uso ancora diverso, avviando una serie di incontri sistematici tra il personale istituzionalizzato al fine di migliorarne il grado di efficienza. Da allora molti passi sono stati fatti e oggi, anche grazie ad una collaborazione sempre più feconda tra la medicina e le altre branche delle scienze dell’uomo, si è giunti alla determinazione che l’analisi del rapporto corrente tra individuo e gruppo di appartenenza sia essenziale, non solo per costituire un quadro diagnostico esaustivo, ma anche per programmare un intervento terapeutico funzionale. E’ questo il tipo di approccio su cui si basa la nuova visione della salute promossa dall’OMS, la quale ha sancito il passaggio dal cosiddetto “modello biomedico” a quello “biopsicosociale”, che fà risiedere il benessere (o il malessere) dell’individuo non solo nel suo organismo biologico, ma anche nella qualità delle sue relazioni con il contesto. Quando un soggetto si ammala, infatti, la sua situazione nel gruppo si modifica, e con essa l’assetto del gruppo stesso. Questo perchè la malattia impone all’individuo un rapporto particolare nei confronti delle consuete pratiche e norme sociali. La conoscenza e l’uso di gruppi, quindi, possono rivelarsi strumenti preziosi in questi casi, dal momento che, le difficoltà esplicitate nel setting possono servire da segnale per leggere quanto un 7 eventuale stato di disagio sia imputabile esclusivamente al rapporto con se stesso, o quanto sia indotto, o almeno favorito, dall’azione del gruppo di riferimento. Come si è detto, infatti, la malattia costringe tutta la rete relazionale del paziente a modificare gli equilibri al suo interno. Favorire quella che abbiamo definito “funzione protettiva e terapeutica della cultura” consente l’avvio di una serie di reazioni a catena che porta, in un primo momento, le famiglie dei pazienti ad organizzarsi intorno al “malato” in modo da accrescere il grado di assistenza e di tolleranza di fronte al problema, e ne favorisce, poi, la prognosi di riadattamento, contribuendo con un’efficace azione di rinforzo alla terapia medica. Si intuisce quindi che una “rivisitazione” in chiave antropologica del rapporto medico-paziente, può essere di grande aiuto per l’attivazione di quelle dinamiche positive necessarie al buon esito di un trattamento. In ogni relazione, infatti, entrambi gli attori portano con sè visioni della realtà che nella migliore delle ipotesi potranno essere simili, ma non saranno mai coincidenti. Anche la relazione di cura risente della specificità che caratterizza i due protagonisti e, per questo, può considerarsi un vero e proprio incontro tra culture, in cui il paziente è rappresentante della cultura del suo gruppo di appartenenza, mentre il medico di quella del suo gruppo e del gruppo professionale che lo ha accreditato. Ne deriva uno degli aspetti meno evidenti, sebbene più pregnanti di tale relazione, cioè il processo di acculturazione cui, inconsapevolmente, viene sottoposto il paziente. In pratica ciò che gli si chiede, sebbene in modo implicito, è di compiere un salto tale da bypassare le barriere comunicative esistenti, accedere al “mondo altro” del suo medico, traslarne i significati ed infine omologarsi ad essi. Esiste, quindi, un senso di “estraneità” che va oltre le differenze geolinguistiche, ma non per questo è meno pericoloso. Ed è proprio sul rischio che l’ambiguità genera in contesti insospettabili, che il sapere antropologico interviene affiancando concretamente quello medico, e non solo per scongiurare l’eventualità che la presenza di sincretismi possa confondere e ostacolare la comprensione dei fenomeni patologici, ma anche perchè, dove non esiste affinità tra cultura del paziente e cultura del terapeuta, non può esservi consenso sul progetto terapeutico, destinato inevitabilmente all’insuccesso. A questo proposito, studi recenti hanno dimostrato come, al contrario, il largo consenso nei confronti delle pratiche mediche tradizionali, alterative alla medicina ufficiale, sia da reperire proprio in quelle dinamiche comunicative e relazionali che le prime mettono 8 in atto. Al malato che chiede spiegazioni, il terapeuta tradizionale risponde con un sapere condiviso, un codice culturale che entrambi riescono a padroneggiare. Volendo cogliere i momenti salienti di tali sistemi di cura, possiamo affermare che, ogni processo ha inizio con l’individuazione delle cause della malattia, le quali possono spaziare dall’elemento naturale a quello magico o psico-emotivo, anzi il più delle volte essi coesistono. Il passo successivo consiste nell’allacciare il problema del come a quello del perché, operazione che permette di compiere un salto dalla dimensione oggettiva e passiva del malato (tipica della biomedicina) ad una prospettiva soggettiva ed attiva. Pertanto, la differenza fondamentale tra medicina non ortodossa e medicina ufficiale risiede, essenzialmente, nel fatto che, mentre per la prima la questione terapeutica è strettamente legata alla questione del perché, un perché che si può facilmente rapportare alla soggettività del malato, al contrario la seconda considera ogni malattia come frutto di agenti neutrali. Il successo di tale sistema risiede, dunque, nel fatto che non si interessa alla malattia, ma al malato, dà voce al suo stare male e lo colloca in una dimensione logico-causale che egli stesso può controllare A fini esemplificativi possiamo sintetizzare le caratteristiche principali delle due opzioni terapeutiche come segue: Elementi caratterizzanti la medicina tradizionale Elementi caratterizzanti la biomedicina Nessuna discontinuità tra modello "domestico" e prestazioni assistenziali Frattura con i propri "mondi vitali" soprattutto se ospedalizzati Sensazione di una sinergia protettiva e rassicurante tra familiare e "medico di capezzale" Semplificazione delle procedure diagnostiche-terapeutiche Sicurezza, o quasi, di una “fine” con i familiari intorno Sensazione di essere ancora un soggetto ascoltato e corresponsabile di decisioni. Emarginazione istintiva da parte dei saniattivi, ("non sta bene, è fuori gioco, inutile sentirlo") Possibili contenziosi tra familiari circa la presa in carico, a rotazione o meno Difficoltà di tempo nello stabilire relazioni "terapeutiche" con un familiare infermo Negligenza nella somministrazione di farmaci prescritti e/o nella dietetica consigliata Se il fine di una buona medicina è quello di attuare le pratiche terapeutiche migliori, il compito di chi lavora per le persone, siano esse di culture palesemente differenti o meno, non può prescindere dalla comprensione del sistema di credenze, valori, significati a cui queste persone fanno riferimento, dall’interpretare la loro esperienza per riuscire a 9 cogliere i processi di attribuzione e creazione di significato, perchè, e non può essere dimenticato, l’approccio alla malattia non può fare a meno di essere stabilito attraverso criteri che fanno riferimento al sociale: una patologia diventa una “malattia” solo in una società sensibile a riconoscerla come tale. 10