Bianca Pitzorno su Quentin Blake Il mio incontro con Quintino, come lo abbiamo ribattezzato scherzosamente con l‟editor e le redattrici della Mondadori, risale al 1990. Lo conoscevo già come illustratore di Rohal Dahl e come autore di bellissimi album in cui figurava anche come creatore del testo. Ma non credevo che accettasse di illustrare libri di autori stranieri a lui sconosciuti, e dunque non mi ero neppure permessa la minima speranza di poter avere i suoi disegni per un mio romanzo. Oltretutto nessuno dei miei libri è stato tradotto in inglese, lingua che io stessa leggo bene, ma non scrivo e parlo solo sommariamente, per cui ci sarebbe stato tra noi il grosso scoglio della comunicazione. Avevo già pubblicato una ventina di romanzi e quello delle illustrazioni era sempre stato per me un tema dolente: nello scrivere immaginavo i personaggi con precise fisionomie, con pettinature, abbigliamento, posture, gestualità molto ben definite. Spesso mi ispiravo a ritratti o fotografie che tenevo sotto gli occhi per tutto il tempo della scrittura. Ma raramente avevo trovato qualcuno che me li “restituisse” disegnandoli come li avevo pensati. In genere anzi gli illustratori – tranne poche eccezioni - si facevano un punto d‟onore di interpretare molto liberamente il testo, spesso senza neppure leggerlo sino in fondo, per salvaguardare, dicevano, la propria autonomia d‟artista. Nel 1990 mi fu chiesto da Margherita Forestan, direttrice editoriale della Mondadori, con la quale avevo già pubblicato diversi romanzi, di tradurre un poemetto per bambini di Sylvia Plath intitolato The Bed Book, che Quentin Blake aveva illustrato in modo splendido. Non è mai facile tradurre la poesia, specie se destinata ai bambini, che esigono anche nella traduzione rime e ritmo, impossibili da “trasferire” da una lingua all‟altra rispettando alla lettera il significato. Nel caso del passaggio dall‟inglese all‟italiano c‟è poi il problema delle molte parole tronche e mono o bisillabe di quella lingua che non hanno un corrispettivo della stessa misura e accentuazione nella nostra, oltre che della sintassi meno articolata. Comunque, anni prima mi ero già misurata con un libro di poemetti di Tolkien, e affrontai con coraggio la nuova sfida. Nella “traduzione adattata” mi furono di grandissimo aiuto i disegni di Blake, che a sua volta aveva interpretato e”„allargato” il senso ironico e assurdo delle brevi strofe allusive di Sylvia Plath. Per ringraziarmi di questa fatica, Margherita Forestan decise di farmi un regalo e osò chiedere a Quentin Blake se fosse disposto a illustrare la nuova edizione del mio La Casa sull‟Albero. Per quanto ne so, era la prima volta che gli veniva chiesto di illustrare un libro straniero, e neppure tradotto in inglese! Quentin non solo accettò, ma venuto a sapere che i due personaggi erano reali e non immaginari, chiese di vedere le foto mie e quelle di Aglaia, e così quando arrivarono i disegni ebbi la doppia sorpresa di scoprire chi era il mio nuovo illustratore, e di trovare sulla carta il mio ritratto e quello della mia piccola amica ispiratrice. Ritratti nello stile aguzzo e puntuto di Quintino, naturalmente, ma riconoscibili e sempre fedeli ai diversi brani che dovevano illustrare. Mi chiedevo come se la fosse cavata col testo, che gli era stato mandato in italiano, accompagnato da un breve riassunto in inglese, e mi stupivo per la precisione dei dettagli che io avevo descritto con le parole. Incoraggiate dalla prima esperienza nel 1992 Margherita ed io chiedemmo a Quentin Blake di illustrare “Ascolta il mio Cuore”. Poiché questa volta il romanzo non era tanto breve, l‟ambiente era molto definito, e le vicende complesse, non ci limitammo a mandargli il testo italiano accompagnato dal riassunto, ma io stessa suggerii i brani che mi sembravano più adatti ad essere illustrati, “ordinando gli” in un certo modo come dovevano essere le tavole. Un “artista” italiano si sarebbe offeso per questa intromissione. Quintino ci ringraziò, tanto che mi feci più audace e gli feci avere un paio di miserabili schizzi di mio pugno per spiegargli come erano pettinate le tre protagoniste. Capelli lisci, ricci, corti, riga a destra o al centro, nastri e fermacapelli… Con riconoscenza me le ritrovai nei suoi disegni tali e quali le avevo pensate al momento di scrivere. Ma non solo. Le tavole erano piene di dettagli che ero sicura di non avere indicato nelle mie „istruzioni‟ (Per esempio il modello dell‟abito della perfida maestra). Incuriosita, gli feci chiedere da Margherita come avesse fatto a sapere certi particolari, e lui ci spiegò che aveva un amico che leggeva perfettamente l‟italiano, e che avevano adottato il seguente metodo di lavoro. Sedevano entrambi nello studio di Quintino, il quale aveva già letto l‟abstract e le mie istruzioni tradotti in inglese e cominciava a buttare giù lo schizzo della prima tavola. Mentre lui disegnava, l‟amico, tenendo sulle ginocchia la copia del mio manoscritto in italiano, glielo leggeva frase per frase facendogliene la traduzione simultanea. Ecco da dove nascevano tutti quei dettagli! Due anni dopo con lo stesso metodo venne illustrata Polissena del Porcello, e poi Diana, Cupido e il Commendatore. Nel 1998 scrissi Re Mida ha le orecchie d‟asino, ambientandolo in modo molto preciso in un‟estate sarda dei primi anni Cinquanta. A quel punto sapevo che Quintino non si sarebbe offeso se i miei suggerimenti fossero stati ancora più precisi. Così riesumai un filmino a otto millimetri girato da mio padre durante le vacanze del 1953, ne feci una copia in VHS e glielo spedii. E un paio di mesi dopo ritrovai nei suoi schizzi, con emozione e tenerezza, un‟estate precisa della mia infanzia, con le stesse barche a vela, gli ombrelloni, i prendisole di mia madre, il fico nel cortile, il baretto con la pergola d‟uva, il cimitero di paese… tutto uguale a come lo avevo vissuto e visto, e tuttavia interpretato col gusto e la personalità specialissima di Quintino. Nel 2000 fu la volta di Tornatràs. Per questo libro, sapendo che uno dei personaggi determinanti allo scioglimento della vicenda era un gatto, Quintino mi regalò due grandi tavole piene di gatti, anzi, dello stesso gatto in decine e decine di posture e prospettive diverse, perché impaginando lo potessimo usare a nostro piacimento per scansire i brani dove i blocchi di testo lo richiedevano. L‟ultimo dei miei libri illustrato da Quentin Blake fu la raccolta dei romanzi col personaggio di Lavinia edita dalla Mondadori nel 2005 col titolo di Magia di Lavinia e &. Due di questi romanzi erano già stati illustrati, con mia soddisfazione, da Emanuela Bussolanti. Le illustrazioni originarie de La Bambola dell‟Alchimista invece non mi piacevano affatto; il quarto romanzo era inedito, scritto per l‟occasione. Vedere quella che molti lettori chiamano “la saga della cacca” interpretata dalla matita aguzza di Quintino mi procurò ancora una volta una bellissima emozione. Nel frattempo avevo incontrato più volte di persona Quintino in occasione di Fiere del Libro, Festival e occasioni ufficiali. Ci eravamo fatti festa a vicenda, comunicando col mio inglese spezzettato, a cui lui cercava di venire incontro pasticciando in francese. Una volta, sapendo che lo avrei incontrato a Parigi, avevo comprato alla stazione di Milano uno di quei Pinocchietti disarticolati che piacciono tanto ai turisti. Glielo regalai; lui aveva un bel fazzoletto da taschino. Lo tolse e al suo posto ci mise, affacciato, quel Pinocchietto di legno, e lo tenne per tutta la durata del Salon du Livre. Questo è l‟ultimo ricordo affettuoso che conservo di lui. Da allora la vita non ci ha più fatto incontrare, io dopo il 2005 non ho più scritto romanzi adatti ad essere illustrati da lui, e lui ogni tanto mi manda a dire per mezzo di amici comuni: “Ma cosa fai? Guarda che ho nostalgia delle tue storie”.