1 I CREDITI: APPROFONDIMENTI 2 1. I crediti: l’esposizione in bilancio Per quanto riguarda i CREDITI, li ritroviamo in tutte e quattro le macroclassi dell’Attivo Circolante. A) Crediti verso soci per versamenti ancora dovuti, con separata indicazione della parte già richiamata. Si tratta dei crediti vantati verso i sottoscrittori del capitale di rischio e rappresenta una rettifica indiretta della macroclasse A del passivo “Patrimonio netto”. B) Fra le immobilizzazioni finanziarie, alla voce 2 troviamo i crediti di finanziamento, indipendentente dalla loro scadenza, secondo la seguente suddivisione: 2) Crediti (con separata indicazione, per ciascuna voce dei crediti, degli importi esigibili entro l’esercizio successivo) verso: a) imprese controllate b) imprese collegate c) imprese controllanti d) altre imprese C) Nella classe CII dell’Attivo circolante troviamo i crediti di funzionamento indipendentente dalla loro scadenza (con separata indicazione, per ciascuna voce dei crediti, degli importi esigibili entro l’esercizio successivo): 1) verso clienti 2) vero imprese controllate 3) verso imprese collegate 4) verso controllanti 4-bis) crediti tributari 4-ter) imposte anticipate 5) verso altri Le voci 4-bis e 4-ter sono state introdotte dal D.Lgs. n° 6/2003 e si riferiscono a poste che, in precedenza, andavano ricomprese nella voce n° 5 “crediti verso altri”. La voce n° 5 (Altri) è residuale e può comprendere crediti per depositi cauzionali a breve, crediti verso dipendenti, ecc.. D) Nella macroclasse D, fra i ratei ed i risconti troviamo infine i ratei attivi che sono particolari classi di crediti. Come si comprende, le poste contabili più importanti relative ai crediti sono quelle contenute nelle immobilizzazioni e nell’attivo circolante (macroclassi B e C). 2. I crediti commerciali valutati secondo la normativa civilistica ed i principi contabili nazionali. Per il codice civile i crediti devono essere iscritti al presumibile valore di realizzazione, cioè al netto di eventuali fondi di svalutazione. Il codice non specifica quali crediti debbano essere svalutati, quindi in linea di principio tale criterio deve valere per tutti i crediti, qualora ne ricorrano i presupposti (ovvero il rischio di insolvenza). Tuttavia, non tutte le classi sono soggette al medesimo rischio di insolvenza. Esso deve essere ritenuto nullo per i ratei attivi e molto basso per i crediti verso i soci. È inoltre difficilmente ipotizzabile che i crediti vantati verso lo stato, enti pubblici, ecc. possano non essere integralmente recuperati. Sono dunque a “rischio di insolvenza” i crediti, sia commerciali che finanziari vantati vantati verso soggetti diversi da quelli sopra riportati. 3 Come anticipato, il criterio fondamentale inerente la valutazione dei crediti è, anzitutto, una regola di buon senso. Invero, sia secondo il dettato civilistico, che quello dei principi contabili nazionali – i quali sono praticamente identici – essi devono essere iscritti al «valore di realizzo presunto». Più precisamente, il punto 8) dell’art. 2426 c.c., riguardante i criteri di valutazione dei crediti, stabilisce che essi «[...] devono essere iscritti secondo il valore presumibile di realizzazione», mentre i principi contabili stabiliscono che i «[...] crediti vanno esposti in bilancio al valore di presunto realizzo». Ciò posto, occorre rilevare che il codice civile, una volta enunciato il principio generale di valutazione, nulla indica rispetto alle concrete metodologie da adottare. Come per le altre voci di bilancio, il valutatore deve perciò fare riferimento alla prassi ed ai principi contabili. I principi contabili, in particolare, si soffermano diffusamente sulla valutazione dei soli crediti commerciali. Ciò in quanto essi rappresentano normalmente la parte preponderante o esclusiva dei crediti iscritti in bilancio di un’azienda industriale, commerciale o di servizi. Secondariamente, la valutazione dei crediti finanziari può desumersi, con gli opportuni adattamenti, da quella dei crediti commerciali. Peraltro, la richiamata norma generale del codice del presunto realizzo, apparentemente semplice, è di non agevole applicazione. In termini concreti, per determinare il valore da attribuire ai crediti in bilancio i principi contabili nazionali segnalano che occorre, anzitutto, prendere le mosse dal loro valore nominale. Esso rappresenta, ovviamente, un valore ideale, il quale molto difficilmente si traduce tale e quale senza subire variazioni. Ciò in quanto il valore dell’effettivo incasso può risultare diminuito per i seguenti motivi: – perdite di inesigibilità; – resi e rettifiche di fatturazione; – sconti ed abbuoni; – interessi non maturati; – altre cause. Ferma restando la possibile incidenza di tutti i fattori citati sul valore dei crediti iscrivibile in bilancio, le perdite di inesigibilità rappresentano senz’altro quello più importante. Per questo motivo, la prassi contabile prevede un intervento specifico, da attuare mediante svalutazione del valore nominale dei crediti per mezzo dell’accensione di un’apposita posta correttiva denominata «fondo rischi su crediti» o «fondo svalutazione crediti». A fronte della costituzione del fondo in questione viene inserito nel conto economico uno specifico accantonamento pari al valore delle perdite presunte, la cui determinazione risulta di solito alquanto complessa ed aleatoria. Una tale difficoltà scaturisce dal fatto che in azienda si ha soltanto la percezione di elementi difficilmente conoscibili alla chiusura dell’esercizio, per cui si è costretti a ricorrere ad astrazioni e congetture, la cui fondatezza è verificabile esclusivamente ex post. Naturalmente, la sovrastima o la sottovalutazione di tale quota di costo, espressione dell’aliquota di perdita temuta, incide sulla determinazione dell’utile dell’esercizio e, di riflesso, sulla consistenza contabile del patrimonio aziendale. 4 Gli amministratori devono, quindi, svolgere un’accurata analisi del rischio di insolvenza gravante sui crediti, da considerare singolarmente e nel loro complesso, per definire il valore più attendibile da iscrivere in bilancio. Tale operazione, ovviamente, richiede l’attenta considerazione della situazione in cui versa l’impresa e le delle tendenze e delle condizioni del mercato in cui essa opera. Oltre a ciò, occorre considerare le doti di moralità, le abitudini e le condizioni economiche dei debitori. Infine, devono essere attentamente valutate anche le garanzie fornite a supporto. Ciò posto, secondo i principi contabili nazionali, allo scopo di stanziare un adeguato fondo svalutazione, si deve procedere come segue: – analizzare i singoli crediti e le correlative perdite presunte per ciascuna situazione di inesigibilità già manifestatasi; – stimare le ulteriori perdite presunte in base all’esperienza e ad ogni ulteriore elemento utile; – valutare l’andamento degli indici di «anzianità» globale dei crediti rispetto a quelli degli esercizi precedenti; – tener conto delle condizioni economiche generali, di settore e di «rischio paese». Ad integrazione o in sostituzione del suddetto procedimento (analitico), in determinate circostanze, si suggerisce la possibilità di stimare le perdite presunte per mezzo di un procedimento più semplice (sintetico) che si avvale di formule pratiche (utilizzo di percentuali) che dovrebbero però essere sottoposte a verifica periodica. Peraltro, viene segnalato come tali formule siano ritenute accettabili solo qualora conducano a risultati sostanzialmente analoghi a quelli ottenuti utilizzando il metodo analitico precedentemente descritto. A ben vedere, tuttavia, talvolta la stima sintetica può rappresentare addirittura una scelta obbligata, o comunque preferibile. Ad esempio, essa è senz’altro di più agevole applicazione in presenza di numerosi crediti di piccolo importo unitario e conduce, di norma, a risultati sufficientemente affidabili quando tali crediti sono marcatamente eterogenei. Un’alternativa, che è anche una via di mezzo fra i due procedimenti (procedimento misto), può essere quella di raggruppare i crediti per categorie omogenee (ad esempio: sicuramente solvibili, leggermente incerti, altamente incerti, sicuramente insolvibili) e applicare percentuali di svalutazione differenziate per ciascuna di tali categorie. In definitiva, i procedimenti sintetici (o misti) per la valutazione globale dei crediti sono i più utilizzati e comportano, come segnalato, l’uso di percentuali di svalutazione da applicare al loro valore nominale. I più comuni prevedono l’utilizzo di percentuali presunte di svalutazione, oppure calcolate in funzione di dati storici – quali il confronto fra le perdite su crediti subite nel periodo e le vendite effettuate nel medesimo – oppure, ancora, l’applicazione di percentuali diverse in funzione dell’«età» dei crediti. Ad ogni buon conto, il metodo migliore è quello prospettico, ovvero quello che, sulla base della conoscenza passata, tenta di stabilire ciò che ragionevolmente potrà accadere. Pertanto, partendo dalla esperienza maturata, si cerca di individuare una appropriata percentuale di svalutazione, dopo aver escluso i componenti di natura occasionale – quindi non riproducibili – e aver cercato di prendere in considerazione le eventuali condizioni prospettiche connesse ai crediti in atto. 5 Per la determinazione del valore «di presunto realizzo», si deve poi considerare l’eventuale incidenza degli ulteriori elementi rettificativi citati in precedenza, ed in particolare: – resi e rettifiche di fatturazione; – sconti ed abbuoni; – interessi non maturati; – altre cause di minor realizzo. Invero, la possibilità che, dopo la chiusura dell’esercizio, si manifestino restituzioni di prodotti da parte dei clienti, dovrebbe suggerire un congruo stanziamento atto a fronteggiare tale eventualità. I motivi che possono condurre ad una tale eventualità sono numerosi, ma sostanzialmente riconducibili a differenze quantitative o qualitative relativamente ai prodotti consegnati, nonché a ritardi di consegna, ad errori di conteggi o ad altri fattori fisiologici, che, proprio perché ricorrenti nell’ambito delle compravendite, è abbastanza semplice stimare e prevedere. Analogamente, deve essere valutata la possibilità di un minor incasso dovuto alla concessione di sconti o abbuoni, di norma per il pagamento anticipato, o all’applicazione di rettifiche di vario tipo del valore sottoposto a fatturazione. Anche la considerazione degli interessi non maturati o «impliciti» assume rilevanza per la valutazione dei crediti commerciali, in particolare per quelli a medio/lungo termine. Invero, i crediti a lunga scadenza derivano di solito dalla concessione di prestiti, ma, anche se raramente, possono essere costituiti anche da crediti di funzionamento legati alle operazioni caratteristiche di gestione. Sarebbe pertanto scorretto, in questi casi, trascurare l’effetto finanziario causato dalla presenza di un interesse attivo, implicito o solo in parte esplicito, da ricomprendere nel corrispettivo pattuito, ma non ancora maturato del tutto. Si pone allora il problema di determinare il tasso di interesse ed il periodo di tempo, al fine dell’attualizzazione dei crediti stessi, con la possibilità per gli amministratori di formulare giudizi e valutazioni più o meno discrezionali. Dal punto di vista metodologico, il loro valore dovrebbe venire rettificato sulla base del principio della competenza, attraverso l’iscrizione degli interessi da differire temporalmente all’interno dei «risconti passivi». Ad evidenza, tale attualizzazione consente di determinare in modo «corretto» il risultato economico ed il relativo patrimonio di periodo. Nell’attribuzione del valore possono incidere ulteriori cause di minor realizzo legate, ad esempio, al sostenimento di spese in sede di riscossione di alcune particolari classi di crediti, le quali devono essere opportunamente previste. Talvolta, inoltre, un minore realizzo può derivare da contestazioni sorte fra compratore e venditore in materia di inadempienza contrattuale, di vizi occulti e di garanzie accordate. Infine, i crediti espressi in valuta, possono originare un minor realizzo, rappresentato da eventuali differenze negative di cambio. Conseguentemente, deve essere tenuta in debita considerazione anche l’eventuale problematica relativa al rischio di cambio. 6 3. I crediti commerciali valutati secondo la normativa fiscale. Dal punto di vista fiscale la valutazione dei crediti è attualmente disciplinata dall’articolo 106 del testo unico delle imposte sui redditi (T.U.I.R.). Tale articolo, intitolato rappresenta una deroga al principio generale di certezza ed oggettiva determinabilità dei componenti del reddito imposta dall’art. 109 T.U.I.R.. Invero, in virtù del citato art. 106, ai fini del calcolo del reddito imponibile viene ammessa la deduzione di una perdita presunta in relazione all’incasso dei crediti commerciali. Nello specifico, esso permette di dedurre, in ciascun esercizio, accantonamenti nel limite dello 0,50 per cento dell’ammontare complessivo – costituito indifferentemente dal valore nominale o di acquisizione – dei soli crediti commerciali risultanti in bilancio, non coperti da garanzia assicurativa, derivanti dalle cessioni di beni e dalle prestazioni di servizi da cui scaturiscono ricavi, così come elencati nel primo comma dell’art. 85 della stessa normativa. In altri termini, il fisco non consente di dedurre costi relativi a perdite presunte su crediti di natura finanziaria o diversa (1). Tale deduzione è ammessa fino al raggiungimento, nell’ambito dello specifico fondo di svalutazione, del cinque per cento dei crediti indicati alla fine dell’esercizio (2). Sono consentiti eventuali accantonamenti superiori a tale percentuale, ma ciò genera una ripresa fiscale in sede di dichiarazione dei redditi, con un conseguente ampliamento della base imponibile. Sono ovviamente ammesse in deduzione dal reddito di esercizio, in virtù dell’art. 101 T.U.I.R., quinto comma, le perdite su crediti derivanti da elementi certi e precisi e, in ogni caso, quelle inerenti i crediti vantati verso un soggetto assoggettato ad una procedura concorsuale. Se l’azienda, negli esercizi precedenti, aveva già portato in deduzione tramite svalutazioni o accantonamenti parte del relativo costo, la deducibilità sarà limitata alla quota di costo non ancora imputata. Peraltro, poiché a differenza delle norme civilistiche, quelle fiscali sono relativamente rigide, è opportuno riflettere sull’«ammontare complessivo» dei crediti che, per il testo unico, è possibile assoggettare ad accantonamento per rischi. Invero, al riguardo si rileva che l’articolo 106, comma 1, T.U.I.R., opera sul valore complessivo dei crediti iscritti in bilancio, a differenza della normativa civilistica, per la quale, come illustrato, la svalutazione deve essere effettuata, di norma, con riferimento ad ogni singolo credito o, al limite, per categorie omogenee di crediti. Ne deriva che l’accantonamento fiscale è determinato prescindendo completamente dall’analisi dell’esigibilità dei singoli crediti e dei relativi rischi di insolvenza. Si tratta, pertanto, di un accantonamento di tipo «forfetario». In termini tecnici, si è soliti parlare di «massa creditizia», ovvero del complesso dei crediti su cui applicare la percentuale stabilita dalla legge. Invero, la sua determinazione non è semplice, in quanto le tipologie di crediti coinvolte sono numerose e suscitano notevoli dubbi interpretativi. (1) Ovviamente, tale principio non vale per le banche e gli altri enti finanziari, per i quali i crediti di finanziamento rappresentano la quasi totalità dei crediti. Anzi, per tali categorie di aziende i crediti di prestito sono dei veri e propri crediti commerciali e per questo motivo il fisco ammette – anche in questo caso con specifici limiti - la deduzione per le relative perdite presunte. (2) Tale accantonamento è però consentito solo ai fini del calcolo dell’IRES e dell’IRE. Ai fini IRAP, infatti, l’art. 5 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n° 446, esclude la loro deducibilità. Da tempo, peraltro, si discute in merito, in sede politica e tecnica, sull’opportunità di abrogazione di tale imposta. 7 Alla luce della lettura congiunta del citato articolo 85 del T.U.I.R. ricadono nella massa creditizia: – i crediti derivanti dalla vendita dei prodotti e dei servizi di cui è oggetto l’attività aziendale; – i crediti derivanti dalla vendita di materie prime e sussidiarie, di semilavorati ed altri beni mobili da utilizzarsi nella produzione; – i crediti derivanti dalla cessione di azioni, obbligazioni ed altri titoli di serie e di massa; – i crediti derivanti dall’ottenimento di contributi di natura contrattuale o di enti pubblici. Non entrano invece nella “massa creditizia” i seguenti crediti: – anticipi a fornitori; – anticipi a dipendenti e ad altri soggetti; – crediti di finanziamento. Oltre a ciò, occorre rilevare che il Ministero delle Finanze ha, in diverse occasioni, fornito chiarimenti in merito ai crediti da conteggiare nella massa creditizia ai fini del calcolo della percentuale di accantonamento. In primo luogo, si rammentano le cambiali attive emesse a fronte della cessione di beni alla cui produzione o scambio è diretta l’attività dell’impresa che hanno formato oggetto di sconto e sulle quali grava pertanto il rischio di regresso. Esse sono escluse dal calcolo della massa creditizia. Alla medesima conclusione si giunge per quanto concerne i crediti ceduti a società di factoring, e ciò indipendentemente dalla presenza della clausola «pro-solvendo» o «pro-soluto». Invero, in entrambi i casi, l’eventuale retrocessione del credito da parte dell’anticipatore o dello scontatore è, almeno giuridicamente, una facoltà, quindi è solo eventuale. Questi crediti potranno pertanto essere computati solo qualora vengano effettivamente retrocessi da parte della società che li aveva presi in carico. Sono altresì esclusi dal computo della massa creditizia i crediti derivanti da cessioni di beni strumentali o da prestiti a chiunque fatti o da depositi bancari o da finanziamenti a società controllate o collegate, salvo non si tratti di aziende che hanno per oggetto specifico l’assunzione di partecipazioni ed il finanziamento delle società cui partecipano e i crediti coperti da garanzia assicurativa, poiché i premi pagati alla compagnia di assicurazione costituiscono componenti negativi di reddito e come tali sono deducibili. 4. Il confronto con i principi contabili internazionali (IAS-IFRS) Rispetto alle regole imposte dal codice civile e applicate dai principi contabili nazionali, i principi contabili internazionali non differiscono in maniera sostanziale. L’unica differenza da rilevare riguarda la contabilizzazione dei versamenti ancora dovuti dai soci a fronte del capitale sociale. Secondo gli IAS/IFRS questi devono essere portati a detrazione del netto patrimoniale: ne consegue che il valore del capitale sociale risulta iscritto in bilancio solo per l’importo già versato.