R I V I S TA T R I M E S T R A L E D I A N A L I S I E C R I T I C A
C
MACCHINE
NUOVA
IVILTÀ
DELLE
ANNO XXVII - N° 3-2009
Etica e comunicazione
C
MACCHINE
NUOVA
IVILTÀ
DELLE
Direzione scientifica
Dario Antiseri, Edoardo Boncinelli,
Umberto Bottazzini, Vittorio Marchis,
Silvano Tagliagambe
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RIVISTA TRIMESTRALE
DI ANALISI E CRITICA
Anno XXVII n° 3 (105)
Luglio-Settembre 2009
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Stampa
Sintesi Grafica, Roma
Finito di stampare: dicembre 2009
Sommario
In questo numero
Onorato Grassi - Pasquale Rotunno
Etica e comunicazione
5
PARTE PRIMA
Orientamenti filosofici
Guido Gili
La responsabilità nella relazione comunicativa
13
Adriano Fabris
Per un’etica della comunicazione oggi
45
Virginio Marzocchi
Etica della comunicazione o dell’argomentazione?
53
Valerio Meattini
Elementi per un discorso sull’etica
63
Daniella Iannotta
Linguaggio, azione, comunicazione: una questione etica
69
Gian Piero Jacobelli
L’etica di Babele
87
PARTE SECONDA
Etica delle professioni comunicative
Renato Stella
La buona morale televisiva
103
Enrico Morresi
Etica e giornalismo: la questione dell’obiettività
119
Dario Edoardo Viganò
Note per un’etica del cinema
129
Giuliana Di Biase
Per un’etica della comunicazione politica
143
Marica Spalletta
I dilemmi etici della comunicazione pubblica
159
Rassegna di libri a cura di Pasquale Rotunno
171
Summaries
177
Hanno collaborato
179
Fascicolo a cura di
Onorato Grassi e Pasquale Rotunno
In questo numero
Etica e comunicazione
di Onorato Grassi e Pasquale Rotunno
«La comunicazione è meno frequente della felicità,
più fragile della bellezza: basta un nulla a fermarla
o a spezzarla tra due soggetti»
EMMANUEL MOUNIER
Già Kierkegaard accusava i giornalisti di non conoscere limiti e scendere
sempre più in basso nella scelta dei lettori. Più tardi, con il moltiplicarsi delle tecnologie che veicolano in abbondanza parole e immagini banali e inutili, quando non dannose, Italo Calvino giunge a interrogarsi su quella che
gli appare «un’epidemia pestilenziale». L’umanità, scrive Calvino, è colpita da «una peste del linguaggio che si
manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche,
anonime, distratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a
spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze» 1 . Oggi, in particolare nel
settore dell’informazione, il mito del
tempo reale, l’illusione di vedere e sapere tutto all’istante, produce «una verità modellata su una precedente idea
del fatto, giudicato non rispetto a ciò
che è, ma all’origine che gli si assegna», rileva un giornalista di lunga
esperienza e incarichi di alta responsabilità come Sergio Zavoli2. La notizia si
trasforma nel suo commento. Il confine tra vero e falso diventa labile; l’esito, avverte Zavoli, è quello di «una sorta di omologazione psicologica che assimilando il falso all’autentico ne discredita la distinzione e lascia un unico rassegnato sentimento di resa e disdoro». Il richiamo di Popper alla responsabilità educativa di quanti fanno
televisione ha suscitato più dibattiti
che tangibili passi avanti. Prima di lui
altri filosofi hanno richiamato l’attenzione sui compiti di civilizzazione di
cui i comunicatori dovrebbero avere
piena coscienza.
Nella conferenza radiofonica Veniamo informati correttamente? 3, tenuta alla
Radio Bavarese nel 1962 a Monaco,
Karl Jaspers annota: «Ma si deplori
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5
quanto si vuole, resta il fatto che noi
dobbiamo ai giornalisti la pubblicità
del sapere e del pensiero. Il valore del
loro contributo lo sperimentiamo
ogni giorno. I giornalisti di un popolo
oggi sono un momento essenziale del
suo destino». Il giornalista, tuttavia,
«può utilizzare la libertà della discussione solo in virtù del suo rilievo spirituale e della sua indipendenza interiore». La situazione dell’informazione,
rimarca preoccupato Jaspers, è insoddisfacente: «domina la confusione delle opinioni e dell’informazione illimitata e arbitraria … quella confusione
spinge nel vuoto con uno schiamazzo
crescente. Invece di essere legati alla
sostanza della verità, ci lasciamo portare dal nulla»4. Accade che «degli incompetenti scrivono a profusione su
questioni senza importanza, tanto per
scrivere»; il risultato è allarmante: «si
affoga in una corrente, che come massa di messaggi inessenziali trascina con
sé anche l’essenziale» 5 . Secondo Jaspers, la responsabilità di tale stato di
cose non è solo dei giornalisti. Infatti,
«l’informazione richiede due partner:
l’informatore e l’informato. Se l’informatore s’imbatte in uomini che non
cercano o non comprendono la vera
informazione, l’informazione resta
esclusa». Tanto più che «un’informazione non è comprensibile senza un
sapere preliminare, senza un modo di
pensare, senza un sapere già presente
a cui collegarla»6.
La battaglia per il buon giornalismo si lega insomma alla battaglia per
elevare il livello complessivo della cultura di una nazione, alla battaglia per
la qualità della formazione, della scuola, della ricerca. Solo elevando gli standard culturali dei cittadini avremo un
pubblico consapevole, esigente, in
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6
grado di rivendicare un’informazione
migliore, di imporre livelli qualitativi
più elevati. Si tratta di attivare un circolo virtuoso tra domanda e offerta di
buona comunicazione. «Non puoi
chiedere alla televisione di non invaderti e di non illuderti se non colmi i
tuoi vuoti con altri alimenti», osserva
Federico Scianò, giornalista tra i più
attenti ai doveri del servizio pubblico
radiotelevisivo7.
Per evitare la deriva dell’informazione verso l’insensatezza, non basta moltiplicare le carte e i codici deontologici,
troppo spesso privi di reale efficacia. Occorre piuttosto farsi carico di «una doppia fedeltà: ai messaggi e alla qualità delle relazioni tra le persone»8. La fedeltà al
messaggio impone di rispettare la verità
degli eventi. Non sono tollerabili telegiornali che parlano della realtà come se
fosse finzione e della finzione come se
fosse realtà9. Saper discernere e smascherare il falso, il parziale, il banale, diventa un requisito essenziale di un pubblico che non voglia restare passivo fruitore dei molteplici flussi informativi che
lo raggiungono. Anzitutto, va ristabilito
«il primato dell’essere sull’apparire, della realtà sulle immagini, del senso sui dettagli»10. Giustamente, Luigi Alici parla di
«un compito di educazione personale e
civile, che riguarda il futuro stesso della
convivenza». All’opera di formazione
che aiuti, sul piano della cultura, a demistificare e decodificare criticamente il
mondo dell’informazione, deve aggiungersi, sul piano del costume, la sperimentazione e promozione di «una rete di
pratiche di vita, esemplari e propositive,
che possano esprimersi in scelte concrete e atteggiamenti virtuosi». I comunicatori sono i primi a essere interpellati per
una simile “conversione”11. Non si tratta
di far prediche generiche, né tanto meno
Jader Jacobelli
di indugiare su una minuta precettistica
deontologica, ribadisce Emilio Rossi: «limitarsi a moltiplicare i pur necessari cartelli con la scritta ‘vietato’ non fa lievitare
eticamente la comunicazione»12.
Il giornalista Rai ha una sua specificità; deve sforzarsi di dar conto del reale
esponendo contestualmente i suoi contrasti e la sua complessità: «il servizio pubblico non deve persuadere nessuno, ma
solo informare tutti», non si stanca di ripetere Jader Jacobelli. La legittimazione
del servizio pubblico sta proprio in questo. Perciò, «occorrono professionisti
non di parte, che siano tali nel lavoro, anche se come cittadini hanno giustamente
le loro personali opinioni»13. Se perfino
nel campo della scienza nessuno può ritenersi depositario della verità, se l’etica
scientifica consiste in quella dell’ipotesi,
o della fallibilità, a maggior ragione ciò
vale per il comunicatore. La democrazia
cessa quando il confronto si trasforma in
conflitto, o quando pregiudizialmente si
svaluta l’opinione dell’interlocutore.
La comunicazione, nota ancora Jacobelli14, presuppone il “noi”, prima dell’io
e dell’altro; non lo deduce. L’interazione
comunicativa non va intesa come meccanico trasferimento d’informazioni codificate, bensì come «offerta d’indizi di senso perché l’altro la ricambi con i suoi indizi, consapevoli entrambi che quegli indizi – quelli dell’uno e quelli dell’altro –
sono materiali grezzi non da sovrapporre, non da miscelare, ma offerti allo scopo di provocare una reazione che dia
frutti imprevisti, originali». La comunicazione è in sé etica, chiosa Jacobelli: «non
ha senso dire che può esserlo o non esserlo a seconda dei contenuti». Essa «è
già in partenza l’espressione di una scelta etica», in quanto è «dialogo, non affermazione di verità, ma ricerca di verità». E
soprattutto quando non sia intesa «come
privilegio, ma come servizio».
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7
Agli ideali del dialogo, della comunità
dell’argomentazione, della ricerca ermeneutica infinita, che sono alla base dell’elaborazione di Jacobelli, sono state mosse
obiezioni non infondate. I rilievi critici15
hanno riguardato, ad esempio, il tentativo habermasiano di una “fondazione discorsiva” della verità16. Habermas giungerebbe, secondo Belardinelli, a «dissolvere la ragion pura all’interno di una ragion pratica concepita essenzialmente
come prassi sociale emancipante»; l’esito
sarebbe quello tipico di certa metafisica
tedesca: «l’identità di essere e dover essere,
di fatti e valori». Inoltre, l’etica della comunicazione proposta da Habermas, che
pure critica l’universalismo kantiano, risulterebbe affetta dal formalismo e sarebbe incapace di discriminare tra ciò
che è giusto e ciò che non lo è. A simili
difficoltà non sfugge, a prima vista, nemmeno l’altro teorico dell’etica del discorso, Karl-Otto Apel17. Resta infatti senza risposta «la domanda relativa al senso del
nostro agire morale»18. Come evidenzia
Adriano Fabris, l’accordo comunicativo
garantito dai principi di giustizia, solidarietà e corresponsabilità è un accordo soltanto “possibile”, in quanto venga “scelto”. L’ambiguità propria del linguaggio
lo rende condizione dell’intesa ma anche
del fraintendimento. Ciascun parlante è
chiamato a scegliere se realizzare o meno
ciò che è insito nella capacità di comunicare. Gli interlocutori possono cioè «privilegiare il legame rispetto alla separazione»; e quindi «trasformare il linguaggio
in un’occasione d’intesa piuttosto che in
condizione di fraintendimento»19. Scegliere l’intesa «significa accordarsi con la
possibilità di accordo che è inscritta nell’atto stesso del comunicare»20. Per andare oltre l’idea della soggettività formale,
senza tradizione e senza futuro, la proposta di Jean-Marc Ferry21 va verso una ri-
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8
costruzione comunicativa di un legame
sociale autentico. Accettarsi quali interlocutori presuppone non soltanto il riconoscimento della ragionevolezza degli argomenti, ma della dignità dell’intero essere dei dialoganti.
Nell’orizzonte di questi problemi, la
prima parte del presente fascicolo si apre
con un’ampia riflessione di Guido Gili
sulle forme della responsabilità comunicativa. Interrogarsi sulla questione della
responsabilità significa «collocarsi su un
livello di discorso che attiene alla ‘ontologia’ della comunicazione e, solo in un secondo momento, all’etica della comunicazione». Alla crescente domanda di credibilità, Gili ritiene si debba corrispondere recuperando in ambito comunicativo il
«principio di precauzione» quale garanzia di «maggiore capacità autoriflessiva da
parte dei professionisti dei media». Si tratta oggi, evidenzia poi Adriano Fabris, di
chiarire «che cosa orienta e motiva i nostri comportamenti» nel contesto globale
dei processi di comunicazione; al fine di
condurre una «critica delle forme standard del comunicare» e individuare problemi non risolvibili con le norme di un
codice deontologico. Approfondimenti
sui fondamenti comunicativi delle interazioni sociali, con prospettive teoriche anche molto distanti che muovono rispettivamente da Apel, Schopenhauer e Ricoeur, sono offerti da Virginio Marzocchi,
Valerio Meattini e Daniella Iannotta. Il richiamo di Gian Piero Jacobelli al racconto biblico di Babele e al problema della
traduzione chiude la prima parte del fascicolo e preannuncia i contributi della
seconda parte, incentrati sui diversi ambiti che articolano concretamente l’attuale
panorama delle comunicazioni mediate
dalle moderne tecnologie. Con l’analisi
delle rappresentazioni televisive si apre infatti la seconda parte. Renato Stella argo-
menta la necessità di spostare l’oggetto
della riflessione da «come deve funzionare eticamente la tv» a «come la tv può contribuire a difendere l’etica della complessità del mondo». Enrico Morresi indaga la
mai risolta questione della verità nel giornalismo, esaminando il lungo dibattito internazionale sull’obiettività e le scelte legislative sul tema operate dalla Svizzera.
Sui criteri di giudizio etico del testo cinematografico si sofferma invece Dario
Edoardo Viganò, che invita a valorizzare
«una dimensione fondamentale dell’antropologia: l’ascolto». I saggi di Giuliana
Di Biase, sulle virtù e i limiti della comunicazione politica in una fase di crisi della
partecipazione democratica, e di Marica
Spalletta, sulle implicazioni etiche del ricorso a forme di marketing non convenzionale nell’ambito della comunicazione
pubblica, completano il fascicolo.
Note
1
Nelle Lezioni americane, citato da M. BALDIElogio del silenzio e della parola, Rubbettino,
Soveria Mannelli 2005, p. VII.
2 S. Z AVOLI , La ‘deregulation’ delle notizie,
“Nazione-Carlino-Giorno”, 26/10/2009, p.
23. Per un inquadramento teorico delle questioni in gioco cfr. G. G ILI , Il problema della manipolazione: peccato originale dei media?, F.Angeli, Milano 2001.
3 K ARL J ASPERS , Verità e verifica. Filosofare
per la prassi, trad. it., Morcelliana, Brescia
1986, p. 206-7.
4 Ivi, p. 201.
5 Ivi, p. 200.
6 Ivi, p. 199-200.
7 F. S CIANÒ , Caro amico ti scrivo dalla tv, prefazione di J. Jacobelli, Paoline, Milano 1996, p.
146. Giornalista del Tg1 e direttore di Rai Educational, Scianò è stato anche docente di Etica
e deontologia della comunicazione all’Università LUMSA di Roma, a lui è dedicato questo
fascicolo di “Nuova Civiltà delle Macchine”.
8 L. ALICI, La via della speranza, Editrice Ave,
Roma 2006, pp. 41-59.
NI ,
9 Cfr. MICHELE LOPORCARO, Cattive notizie. La
retorica senza lumi dei mass media italiani, Feltrinelli, Milano 2004.
10 L. ALICI, op. cit., p. 53.
11 Sul significato del termine in Platone
cfr. l’affascinante analisi di G IOVANNI R EALE ,
Saggezza antica. Terapia per i mali dell’uomo di
oggi, R. Cortina, Milano 1995, pp. 233-247.
Ricco di suggestioni è anche il testo di E M MANUEL L EVINAS , Umanesimo dell’altro uomo,
trad. it., Il Melangolo, Genova 1988, p. 81: « Volgersi alla verità con tutta l’anima - la raccomandazione platonica non si limita a predicare, con una pedagogia del buon senso, lo
sforzo e la sincerità. Non avrà in mente, invece, la reticenza ultima, la più insidiosa di
tutte, quella di un’anima che, davanti al Bene, si ostina ancora a riflettere su sé medesima, frenando, proprio per questo, il suo moto verso gli Altri?».
12 E. ROSSI, Prefazione a A. FABRIS (a cura di),
Guida alle etiche della comunicazione, Ets, Pisa
2004, p. 9.
13 J. JACOBELLI, Professionisti non di parte, in
“Avvenire”, 28/11/2004, p. 2.
14 ID., Comunicazione e/o etica, in E. CHELI-M.
MORCELLINI (a cura di), La centralità sociale della
comunicazione, F.Angeli, Milano 2004, pp. 61-64.
15 S ERGIO B ELARDINELLI , Il linguaggio come
fondamento dell’etica in Jürgen Haber mas, in
AA.VV., Persona e norma nell’esperienza morale, a
cura di A. RIGOBELLO, Japadre editore, L’Aquila
1982, pp. 263-285.
16 Tra le numerose opere di Jürgen Habermas, si veda l’esposizione contenuta in Etica del
discorso, Laterza, Bari 1989.
17 KARL-OTTO APEL, Etica della comunicazione,
Jaca Book, Milano 1993; ID., Discorso, verità, responsabilità, Guerini e Associati, Milano 1997.
Cfr. STEFANO PETRUCCIANI, Etica dell’argomentazione, Marietti, Genova 1988 e V IRGINIO M AR ZOCCHI, Ragione come discorso pubblico. La trasformazione della filosofia di K.-O. Apel, Liguori, Napoli 2001.
18 A. FABRIS , Etica della comunicazione, cit.,
p. 63; si veda l’ampia discussione condotta
nel cap. 3.
19 Ivi, p. 97. Cfr. anche G IAN PIERO JACOBELLI , Scomunicare. Il quarto escluso della comunicazione alienante, Meltemi, Roma 2003.
20 A. FABRIS, Etica della comunicazione, cit., p. 99.
21 JEAN-MARC FERRY, L’etica ricostruttiva, trad.
it., Medusa, Milano 2006, con una Postfazione di
GRAZIANO LINGUA.
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Federico Scianò
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PARTE PRIMA
Orientamenti filosofici
La responsabilità
nella relazione comunicativa
di Guido Gili
In questo intervento cercherò di tracciare un quadro concettuale, con qualche piccola pretesa di sistematicità, sul significato e il ruolo della responsabilità
nella relazione comunicativa.
Il successo o la “riuscita” della comunicazione – cioè il fatto che i soggetti si
intendano, capiscano le reciproche intenzioni e motivazioni, si facciano influenzare e coinvolgere nella relazione
comunicativa, ne traggano motivi ispiratori per la propria azione sociale – dipende da un insieme di condizioni
strutturali e contestuali e da un insieme
di condizioni e disposizioni soggettive.
Tra le prime, che dipendono solo relativamente dalla “disponibilità” e dall’atteggiamento dei soggetti, possiamo collocare la condivisione dei codici comunicativi (verbali, non verbali, artificiali,
etc.), di un orizzonte culturale comune
per il quale le persone “riconoscono” il
significato e i valori implicati nei loro
messaggi e di un sistema di norme co-
municative quali ad esempio il rispetto
delle regole di “cortesia” vigenti in un
determinato contesto sociale.
La responsabilità si colloca, invece, tra
le condizioni della comunicazione che dipendono dalle disposizioni e dalla volontà dei soggetti, accanto alla intenzionalità, l’interesse e l’impegno. E con esse
è strettamente legata.
1. Intenzionalità, interesse e impegno
La prima condizione/disposizione
soggettiva della comunicazione è l’intenzionalità, a cui attribuisco qui due significati ripresi entrambi da Mead.
Indica innanzitutto un rapporto consapevole con il proprio atto comunicativo.
Nell’uomo molti gesti, cioè gli atti più
elementari della comunicazione comuni anche agli animali, possono essere inconsapevoli ed automatici. Tuttavia la comunicazione umana si com-
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13
pone specificamente di gesti significativi, cioè segni che esprimono un comportamento cosciente: io sono consapevole del mio gesto e del suo significato poiché sono capace di guardare a
me stesso come può guardarmi (come
immagino mi guardi) il mio interlocutore (Mead 1934, trad. it. 1966, p. 73).
Comunico cioè sapendo che sto comunicando, che cosa comunico, come comunico, a chi comunico.
Ma l’intenzionalità assume anche un
secondo significato, quello di rivolgersi
verso l’interlocutore e tener conto di lui nella
comunicazione. Mead (ivi, pp. 257-263, pp.
351-363) parla di «assunzione dell’atteggiamento e del ruolo dell’altro» per
identificare la capacità di mettersi nella
prospettiva dell’altro, considerando i suoi
atteggiamenti e le sue aspettative nei nostri confronti. Tale assunzione ha una dimensione più propriamente cognitiva,
cioè l’assunzione del ruolo e del “punto
di vista” dell’altro, ma anche una dimensione emozionale e affettiva, legata al
“percepire” e comprendere le sue emozioni (paura, ostilità, disagio) (Stephan,
Finlay 1999). La capacità di assumere il
ruolo dell’altro è anche condizione fondamentale della acquisizione della competenza comunicativa, soprattutto nelle
sue dimensioni pragmatiche, per cui impariamo ad adattare il nostro linguaggio
al contesto sociale e a rivolgerci nel modo più opportuno agli interlocutori (Giles, Powesland 1975, p. 137).
Questa capacità di assumere l’atteggiamento e il ruolo dell’altro non è
però solo legata alla volontà e disponibilità dei soggetti della comunicazione,
ma anche a condizioni oggettive e contestuali, con cui sempre la dimensione
soggettiva si intreccia. Così, ad esempio, con persone appartenenti ad altre
culture il processo di assunzione del-
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14
l’atteggiamento e del ruolo dell’altro,
che costituisce una condizione essenziale di ogni comunicazione riuscita, risulta più problematico. A questo proposito, Geertz ha osser vato che l’impresa di mettersi nei panni dell’altro, come tenta di fare la ricerca etnografica e
come avviene sempre quando si incontra una persona che appartiene ad un
diverso contesto socio-culturale, è
«un’impresa snervante che non riesce
mai perfettamente. (…) Noi cerchiamo di dialogare (nel senso esteso del
termine che abbraccia molto più del
parlare) con loro, una cosa molto più
difficile di quanto non si riconosca comunemente e non soltanto con gli stranieri» (1973, trad. it. 1998, pp. 21-22)1.
Che l’intenzionalità sia una condizione costitutiva della comunicazione è
tuttavia oggetto di controversia. Per gli
esponenti della Scuola di Palo Alto
(Watzlawick, Beavin, Jackson 1967) in
realtà ogni azione, ogni comportamento che accade in presenza di un’altra
persona ha valore comunicativo a prescindere dalla consapevolezza e dal significato che il soggetto agente attribuisce a quell’atto. Non occorre quindi alcuna intenzione (da parte dell’emittente) di comunicare perché ci sia comunicazione. Molti dei nostri gesti espressivi
sono inconsapevoli o esito del mancato
controllo delle nostre emozioni. Ma per
colui che osserva (il ricevente), qualsiasi comportamento dell’emittente, consapevole o inconsapevole, può assumere
un significato comunicativo se tale significato egli gli attribuisce.
Ma, anche così, se può esistere una
comunicazione senza l’intenzionalità
dell’emittente, essa non può comunque prescindere dall’intenzionalità del
ricevente. È lui che rivolgendosi verso l’emittente, assumendo il suo ruolo, in-
tuendo le sue intenzioni anche se inconsapevoli o rivolte a un altro oggetto, attribuisce un significato (comunicativo) al suo comportamento e può
comportarsi di conseguenza.
La seconda condizione/disposizione soggettiva della comunicazione è
l’interesse. La comunicazione consapevole muove sempre da un interesse:
un interesse dell’emittente a rivolgere
un messaggio al ricevente e del ricevente a prestare ascolto. Tale interesse
può esprimersi a due diversi livelli, peraltro interagenti: può essere rivolto
verso il contenuto, l’oggetto di cui si parla (quale che sia) oppure verso l’altro
che parla o a cui si parla (in generale
verso la relazione che si instaura con
l’interlocutore).
Il concetto di “interesse” va qui inteso in senso lato. Si fa riferimento
non solo alla chiara percezione di scopi e vantaggi, ma anche ad una più ampia gamma di bisogni, esigenze e gratificazioni di tipo psicologico e sociale,
più o meno chiaramente avvertiti: bisogni di conoscenza e di acquisire le
informazioni utili al controllo dell’ambiente; bisogni affettivi ed estetici di riconoscimento e rafforzamento dei
propri sentimenti e stati emotivi; bisogni di consapevolezza dell’io e della
propria identità; bisogni di riconoscimento sociale e rafforzamento delle
relazioni sociali; bisogni di differenziarsi dagli altri; bisogni di allentamento delle tensioni.
L’incontro dei diversi interessi dei
soggetti della comunicazione produce
una “cooperazione comunicativa” che
possiamo definire come convergenza
dei loro scopi comunicativi, anche se
cooperare non significa necessariamente condividere lo stesso interesse,
“sentire” nello stesso modo o approva-
re sinceramente il comportamento
dell’altro. La cooperazione può addirittura esprimersi attraverso forme di
comunicazione conflittuale e violenta.
Come hanno mostrato etologi ed antropologi, anche le esibizioni aggressive e minacciose e perfino l’offesa e
l’insulto possono essere forme di comunicazione che esprimono un interesse reciproco: regolare i rapporti
conflittuali senza giungere ad un confronto aperto nel quale entrambi i
contendenti potrebbero rischiare di
soccombere o, in ogni caso, di subire
danni (Eibl-Eibesfeldt 1970; Zahavi,
Zahavi 1997). Anche la lotta e il conflitto aperto sono forme di comunicazione quando vi è un interesse reciproco al riconoscimento: essere “riconosciuto” e, in qualche modo legittimato, dall’ostilità e dall’odio del nemico come mostra in modo esemplare
la figura del duello e la sua ritualizzazione (von Kleist 2000; Lattuada 2004;
Cavina 2005).
La terza condizione soggettiva del
successo della comunicazione è la disponibilità dei soggetti a profondere un
certo impegno e sforzo per raggiungere il
proprio scopo comunicativo. La disponibilità ad impegnarsi e a sacrificare
energie dipende, in primo luogo, dall’interesse e dalla motivazione a comunicare, senza i quali non si è disposti ad affrontare lo sforzo necessario. Ci si può
“disimpegnare” dalla comunicazione
quando subentri invece una situazione/esperienza di disinteresse (ad esempio, la noia) o quando il mantenimento
dell’interesse richieda uno sforzo/impegno eccessivo (Iser 1989, p. 44).
Questo impegno/sforzo è richiesto
e si manifesta, tra l’altro, in due processi assai importanti. Il primo è l’apprendimento delle capacità e delle com-
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15
petenze comunicative necessarie alla
comunicazione. La conoscenza dei codici comunicativi (in primo luogo del
linguaggio parlato, ma anche di altri
codici artificiali, come la scrittura) e
delle regole pragmatiche necessarie a
comunicare nel modo più consono ai
diversi contesti di interazione è un
aspetto decisivo del processo di socializzazione, richiede un difficile apprendimento e non è mai posseduto
con assoluta sicurezza e in modo del
tutto tranquillo. Anche la capacità di
assunzione del r uolo dell’altro, in
quanto aspetto essenziale della capacità o competenza comunicativa, è un
esito della socializzazione, cioè l’esito
di un processo di apprendimento spesso complesso e faticoso. Non per nulla, Goffman (1967, trad. it. 1988, cap.
1) osserva che nell’interazione faccia a
faccia – che si compone di aspetti linguistici e non linguistici – siamo costantemente impegnati in un “lavoro
di faccia” (face-work), cioè una cura ed
una tensione espressiva per mantenere
un’immagine coerente di noi stessi ed
evitare tutti quegli “incidenti” che potrebbero far fallire l’interazione e farci “perdere la faccia”.
In secondo luogo, la comunicazione richiede spesso uno sforzo organizzativo. Ad un livello più immediato
possiamo pensare a tutto il lavoro necessario – innanzitutto nel retroscena
in cui si “fanno le prove” (Goffman
1959, tr. it. 1969, cap. 3) – alla preparazione di un discorso o una performance, uno spettacolo teatrale o un
concerto. Ad un livello molto più complesso, possiamo fare riferimento alla
complessità dell’organizzazione dei
grandi sistemi della comunicazione
mediatica, che richiedono l’investimento di ingenti capitali, risorse e
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competenze professionali, tecnologie
avanzate, e riduce peraltro drasticamente il numero degli emittenti ai pochi in grado di sostenere tale l’impegno economico e organizzativo (O’Sullivan, Dutton, Rayner 1994; Thompson 1995).
2. La responsabilità: una questione
di ontologia prima che di etica della
comunicazione
La responsabilità è la quarta condizione soggettiva della comunicazione.
Generalmente si pensa alla responsabilità come ad un “impegno etico” nei
confronti della propria comunicazione
(ciò che dico), di colui a cui ci si rivolge (a chi lo dico) e delle possibili conseguenze (i suoi effetti consapevoli o
inconsapevoli). Come è noto, le teorie
etiche della responsabilità oscillano tra
due poli: da un lato, quelle che enfatizzano l’aspetto della responsabilità
soggettiva, collegandola alle qualità
morali della persona; dall’altro quelle
che attribuiscono maggiore importanza alla situazione e alle circostanze entro le quali la persona deve operare e
che condizionano le sue scelte e i suoi
comportamenti (Costa 2008). La stessa
opzione si presenta concretamente
quando dobbiamo giudicare i comportamenti degli altri nelle relazioni comunicative quotidiane. Gli psicologi
sociali hanno messo in luce che in tali
giudizi incorriamo spesso in quello che
essi chiamano “errore di attribuzione”
(Ross 1977) o “errore di corrispondenza” (Gilbert, Malone 1995) per indicare la diffusa tendenza ad interpretare i
comportamenti altrui sopravvalutando
le caratteristiche personali e sottovalutando l’influenza della situazione. In
ogni caso, come vedremo meglio in seguito, per quanto vi siano condizionamenti e vincoli che provengono dai
contesti e dalle specifiche situazioni di
interazione e che certo vanno considerati, la responsabilità resta intrinsecamente legata all’intenzionalità e alla libertà/volontà del soggetto.
Tuttavia, come ha mostrato Goffman (1981, trad. it. 1987, cap.1), prima che oggetto di una scelta etica o di
un condizionamento culturale, la responsabilità è una dimensione costitutiva della comunicazione e dell’agire comunicativo. Porre la questione della responsabilità della comunicazione significa dunque collocarsi su un livello
di discorso che attiene alla “ontologia” della comunicazione e, solo in un
secondo momento, all’etica della comunicazione.
Se analizziamo la struttura interna
dell’emittente, come suggerisce Goffman, scopriamo che essa contiene almeno tre ruoli, tre funzioni differenziate. Il primo ruolo è quello dell’animatore, cioè colui che concretamente comunica, trasmette dei messaggi:
la macchina parlante. Nel caso si tratti
di un soggetto individuale, l’animatore si caratterizza per una particolare
“facciata personale” (Goffman 1959,
trad. it. 1969, pp.33-42) con cui si presenta all’interlocutore: un determinato aspetto fisico, una par ticolare
espressività, uno stile comunicativo,
un certo abbigliamento. Il secondo
ruolo è quello dell’autore. L’autore è
colui che ha prodotto il contenuto
della comunicazione, che ha ideato e
costruito il messaggio. Se io dico a
mia moglie: “ti voglio bene”, sono l’animatore della comunicazione, cioè
esprimo questo sentimento con le
mie parole, con un certo tono di voce,
una certa espressione facciale, ma sono anche l’autore poiché ciò che dico
corrisponde a ciò che penso e sento.
Posso però anche riportare il pensiero di un altro, di Platone o di un amico: in questo caso sono l’animatore,
ma non l’autore, che sarà Platone o
l’amico. In realtà, a ben riflettere, anche quando riporto il pensiero di un
altro, non sono mai un semplice animatore, ma condivido sempre un po’
del carattere di autore – sono cioè in
qualche modo coautore della comunicazione – dal momento che traduco
o ripropongo certe idee con le mie
parole, aggiungendoci qualcosa di
mio. È ciò che accade, ad esempio, al
portavoce. Il terzo ruolo è il mandante – e qui il significato comunicativo è
simile a quello giuridico, come quando diciamo che un individuo è il mandante di un omicidio – e indica il soggetto, cioè la persona o il gruppo o l’istituzione, nel nome del quale si parla, per conto del quale si parla e che
assume la responsabilità (ecco la parola che ci interessa) di ciò che viene
detto. Ogni comunicazione consapevole implica la responsabilità di qualcuno. Da questo punto di vista la responsabilità è una implicazione fondamentale dell’intenzionalità della
comunicazione.
Uno stesso soggetto empirico, concreto (individuo, gruppo o organizzazione) può essere l’animatore, l’autore e il mandante della comunicazione.
Se dico a mia moglie, “ti voglio bene”,
non solo sono l’animatore e l’autore,
ma anche il mandante della mia comunicazione nel senso che essa mi
coinvolge e mi impegna. Io ne rispondo. Anche se dico a qualcuno “tu sei
un cretino: lo dico e lo sottoscrivo”, ne
assumo la piena responsabilità. Ma i
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tre ruoli possono anche essere separati e distribuiti tra diversi soggetti. Un
avvocato in tribunale è certamente l’animatore e l’autore dell’arringa, ma
non è il mandante, poiché colui in nome del quale parla è il cliente. In un
messaggio pubblicitario, c’è un animatore, che è colui che concretamente
appare in video, l’attore o il testimonial
che gli spettatori vedono; c’è un autore, costituito in questo caso dall’agenzia pubblicitaria che ha ideato il messaggio, lo ha costruito, ha scelto una
certa strategia comunicativa, ha cercato gli attori per rappresentarlo; infine
c’è il mandante, cioè l’azienda che ha
commissionato lo spot. Gli attori, l’agenzia e l’azienda sono tutti emittenti,
ma con ruoli e funzioni differenziate.
Questa tripartizione dei ruoli e delle funzioni dell’emittente è importante per una riflessione sulla responsabilità nella/della comunicazione perché
mostra che qualsiasi cosa io dica, implica sempre una responsabilità mia o di
qualcun altro in nome e per conto del
quale io parlo. Qui va segnalato immediatamente un importante aspetto per
il nostro discorso: quando una persona fa parte di un gruppo, una organizzazione o una istituzione, i suoi atti comunicativi non coinvolgono solo la
sua responsabilità individuale, ma anche l’immagine e la reputazione di tutto il gruppo (e viceversa: l’immagine
positiva o negativa del gruppo o dell’organizzazione si riverbera su di lui).
Nei termini della tipologia di Goffman, quindi, il soggetto individuale
che comunica non è il mandante
esclusivo della propria comunicazione, ma coinvolge sempre in qualche
modo in qualità di mandante il gruppo, la categoria sociale o l’organizzazione di cui fa parte.
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Questi concetti costituiscono la base di ogni successivo discorso sulla responsabilità della comunicazione, come cercherò di mostrare ora.
3. Dimensioni e forme della responsabilità comunicativa
In italiano e in varie altre lingue il termine responsabilità rimanda, come sappiamo, al verbo “rispondere”2. In base a questo tema del rispondere possiamo costruire le diverse accezioni e significati
del termine, che indicano anche le dimensioni reali, concrete in cui si dispiega
la responsabilità e, in particolare, la “responsabilità comunicativa”.
Si possono identificare quattro dimensioni principali della responsabilità
comunicativa:
1. responsabilità come rispondere della propria identità e del proprio fine comunicativo (responsabilità relativa all’emittente);
2. responsabilità relativa a ciò che viene detto, al messaggio o al testo che viene
comunicato (responsabilità relativa al
contenuto);
3. responsabilità come rispondere a
qualcuno da cui si è ricevuto un mandato
(responsabilità relativa alla relazione);
4. responsabilità come rispondere delle conseguenze della propria azione comunicativa sul destinatario o su terzi (responsabilità relativa agli effetti).
Questi quattro aspetti della responsabilità, in quanto aspetti della relazione sociale3, sono naturalmente tra loro collegati e si richiamano in vari modi. Per ragioni analitiche verranno esaminati singolarmente. Dopo aver chiarito il significato di ognuna di queste dimensioni pre-
senterò alcuni esempi, tra i tantissimi possibili, di come la responsabilità si manifesta, ma anche di situazioni in cui essa viene disattesa e tradita in modo più o meno
consapevole.
3.1. L’identità e gli scopi del comunicatore
In una prima accezione responsabilità significa rispondere di se stessi e del
proprio scopo (o interesse) comunicativo. In altri termini: significa dichiarare
chi è il comunicatore, chi è che parla (o,
nei termini già introdotti, chi è l’autore
e il mandante della comunicazione). E
significa, in secondo luogo, dichiarare
qual è lo scopo, la finalità, l’intento della comunicazione: cosa mi prefiggo?
perché ti dico questo?
Una testimonianza assai interessante
di questo concetto di responsabilità si ritrova negli scritti neotestamentari e, precisamente, nella prima lettera di Pietro. In
questo scritto che tratta del rapporto tra i
cristiani e il potere politico (romano),
l’autore esorta i destinatari “a dar conto a
chiunque chieda ragione della vostra speranza”, cioè della propria identità di “cristiani” (non a caso in questa lettera compare per la prima volta tale appellativo per
definire i seguaci di Cristo, oltre che negli
Atti degli Apostoli). Spesso infatti i cristiani dovevano difendersi davanti ai governatori locali, da cui erano guardati con sospetto poiché fuoriuscivano dagli schemi
culturali tradizionali con cui il potere romano classificava i gruppi e le categorie
sociali su base geografica, etnica o politica. Essi infatti non potevano rivendicare
alcuna antica “tradizione dei padri”, riconoscibile da Roma, essendosi costituiti sulla base di un evento recente e certamente
inconsueto e intrinsecamente eversivo come la proclamazione della resurrezione
del loro fondatore (Marconi 2006).
L’esigenza del rendere conto della
propria identità come condizione fondante della credibilità del comunicatore
si può estendere a molti altri casi ed esempi. In termini generali tale identità non
deve essere “dichiarata” nelle relazioni di
“familiarità”, cioè nelle relazioni di gruppo primario o comunitarie, in cui la credibilità (o la sua mancanza) si fonda essenzialmente sulla conoscenza diretta e
su rapporti interpersonali consolidati4.
Nella società odierna, invece, aumentano
a dismisura le relazioni con interlocutori
sconosciuti ed anonimi, per cui mutano
anche radicalmente le condizioni della
credibilità (dell’emittente) e della fiducia
(del destinatario)5.
Si pone dunque a vari livelli il problema della autenticità e affidabilità dell’emittente. In diverse situazioni non è affatto chiaro chi sia davvero il comunicatore (l’autore e il mandante della comunicazione) e quale il reale scopo che lo
muove, la sua vera finalità. In termini generali si può parlare di “opportunismo”,
intendendo con questo termine non
semplicemente una disposizione psicologica o un disvalore morale, ma un certo
tipo di gioco interattivo, una strategia di
rappresentazione in cui determinati segni vengono esibiti non per mostrare (ciò
che si è), ma per sembrare (ciò che non
si è) (Bacharach, Gambetta 2001, pp. 152
sgg.). Se consideriamo (come in questo
caso) l’opportunismo non come una
qualità morale, ma come una strategia relazionale, allora comportamenti comunicativi opportunistici possono essere attuati dallo stesso attore sociale in talune
circostanze e non in altre: ad esempio
uno stesso individuo può essere altamente affidabile come padre e opportunista
sul luogo di lavoro. Il problema sociologico più generale è se nella società attua-
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le si moltiplichino le occasioni per giocare un gioco opportunistico in seguito alla
crescita della contingenza e del rischio
nelle relazioni sociali.
Nella comunicazione di massa, la possibilità di giochi opportunistici sembra
derivare dalle stesse caratteristiche strutturali della relazione comunicativa sui generis che si attua attraverso i mass media.
Secondo Thompson (1995, tr. it.
1998, cap. 3), a differenza delle relazioni
faccia a faccia o delle interazioni mediate
(quelle che sono consentite, ad esempio,
dal telefono o dalle comunicazioni orizzontali in rete), la comunicazione di massa si basa sulla radicale separazione tra
produttori e riceventi o, più precisamente, tra un “contesto di produzione” nel
quale agiscono dei professionisti della comunicazione impegnati nella creazione
di messaggi e testi per un pubblico di persone non fisicamente presenti ed un
“contesto di ricezione” sul quale agiscono
i destinatari di forme simboliche create
da individui ai quali non possono rispondere. La comunicazione non assume una
forma dialogica, ma è più simile ad un
monologo nel quale i produttori non si rivolgono ad “altri particolari”, ma ad un
pubblico di riceventi indifferenziato (per
l’emittente) e potenzialmente indefinito.
Sebbene, come osserva lo stesso Thompson, è possibile che i destinatari si riferiscano ai personaggi che conoscono e
ascoltano attraverso i mass media come a
degli “amici mediali” e possano in certo
modo legarsi a loro in un rapporto di
amicizia, viva simpatia o fedeltà (Ibidem,
p. 125), in realtà in questa situazione comunicativa i soggetti della comunicazione non si incontrano mai effettivamente
poiché ognuno di essi si riferisce sempre
alla propria rappresentazione dell’altro e
non all’altro in carne ed ossa6.
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Secondo Luhmann (1996, tr. it. 2000),
la comunicazione di massa non è caratterizzata solo dalla radicale separazione tra
emittenti e riceventi, ma soprattutto dal
fatto che essi perseguono interessi e sono
mossi da motivazioni del tutto diverse e,
in alcuni casi, che confliggono apertamente. Luhmann osserva giustamente
che proprio grazie all’interruzione del
contatto immediato resa possibile dalle
tecnologie della comunicazione a distanza, questa relazione sui generis assicura
maggiori gradi di libertà alla comunicazione nel senso che i riceventi possono
decidere liberamente il livello di attenzione da prestare all’emittente, possono
interessarsi o meno, sono liberi di rispondere come meglio credono; in una parola, sono più liberi di quanto non accada
nelle interazioni faccia a faccia. In questo
senso quindi si incontrano, interagiscono
due selettività autonome: «la disponibilità a trasmettere e l’interesse a connettersi, che non possono essere coordinati
dal centro» (Ibidem, p.16).
Al tempo stesso, però, questa relazione non può liberarsi dal “sospetto sui motivi” dell’emittente (Ibidem, p.63), cioè
dal rischio della manipolazione. Se infatti i riceventi possono esporsi ai mass media per soddisfare bisogni di conoscenza,
di conferma della propria identità, di integrazione sociale, di allentamento di
tensioni, non diversamente da ciò che li
spinge ad instaurare relazioni interpersonali dirette o mediate, l’“interesse” dei
mass media, cioè di coloro che li controllano, li dirigono o vi operano professionalmente si colloca su un piano del tutto
diverso: «può anche darsi che tutto ciò
che [i mass media] scrivono o trasmettono sia vero, ma questo non dice ancora il
motivo per cui lo fanno: può essere il successo negli affari o il sostegno di opzioni
ideologiche, l’appoggio a tendenze poli-
tiche, il mantenimento dello status quo
della società o soltanto il loro successo
commerciale» (Ibidem, p.58). Per questo, potremmo dire con il realismo (un
po’ cinico) di Luhmann che nei mass media la comunicazione è sempre un mezzo
per “altri” fini; che la strumentalizzazione
della relazione comunicativa (cioè l’opportunismo) è in certo modo connaturata alla relazione stessa.
In termini generali, sia nelle relazioni interpersonali sia nelle relazioni
sui generis che si instaurano tra emittenti e destinatari attraverso i mass media, si possono identificare varie strategie “opportunistiche”.
1. Una prima strategia è quella di offrire un’immagine dell’emittente eccessivamente idealizzata che non corrisponde alla sua vera identità. In ogni relazione comunicativa, i soggetti cercano
di proporre un’immagine idealizzata di
sé, cioè un’immagine che includa una
serie di attributi positivi corrispondenti
ai valori e ai ruoli sociali che nella società o nel contesto specifico di azione
sono oggetto di apprezzamento e rispetto (Goffman 1956, tr. it, 1969,
cap.1). Talora tuttavia tale operazione
può spingersi così lontano da produrre
una vera e propria frattura tra identità e
immagine. Questo problema è, ad
esempio, diventato centrale negli ultimi
anni nel dibattito sulla comunicazione
d’impresa e sulle finalità delle relazioni
pubbliche. Dopo che per molti decenni
si è teorizzata la necessità di offrire
un’immagine aziendale aggressiva e vincente, i maggiori studiosi di relazioni
pubbliche – anche alla luce dei recenti
crack di grandi aziende e della crisi globale dell’economia e della finanza – hanno riconosciuto che il vero problema comunicativo delle imprese è costruirsi
una buona reputazione fondata sulla “sostanza” dell’azienda e sulla qualità del
suo prodotto (materiale o immateriale),
contrapposta alle pure politiche e strategie di immagine (Balmer, Gray 1999; Ensminger 2001; Invernizzi 2004; per un
approccio complessivo a questa “svolta”
del marketing, cfr. G. Fabris 2008). Un ritorno insomma al principio primo del
marketing, secondo il quale la cura della
qualità ed un rapporto chiaro con il
cliente è la base, il riferimento imprescindibile per promuovere e garantire il
“buon nome” dell’azienda (Romano
1988, p. 40).
2. Una seconda forma di opportunismo, per certi aspetti apparentata con la
precedente, è quella della “doppia faccia”. A volte il comunicatore si presenta
sotto mentite spoglie e dichiara uno scopo comunicativo che non è quello reale.
Si pensi, ad esempio, ai casi estremi di
persone che vengono scoperte ad esercitare la professione medica senza avere
mai conseguito una laurea oppure di
truffatori che si presentano come ispettori del ministero delle finanze o funzionari del comune nelle case degli anziani
per derubarli. Se tale rischio è sempre
presente nelle relazioni quotidiane, esso
assume una attualità del tutto nuova nelle interazioni in rete, dove è possibile esibire delle identità “truccate” che, se da un
lato possono garantire una relazione libera da impegno e ludica, dall’altra la
espongono al rischio dell’inganno e di
giochi relazionali per versi (A. Fabris
2007; Lovink 2007).
Ma è possibile “mentire” sulla propria
identità e sui propri scopi anche attraverso quelle strategie che ancora Goffman (1974) definisce “macchinazioni” o
“manipolazioni di frame”. Anche qui si
può partire da un esempio tratto dalla vita quotidiana: un venditore può invitare
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a cena un cliente, creare un clima particolarmente “cordiale” e amichevole, per
poi proporgli a tarda sera una ordinazione di grosse dimensioni. In questo caso
egli gioca il ruolo dell’amico, si presenta
e si relaziona all’altro come amico, ma in
realtà persegue un fine strumentale, che
non attiene alla relazione di amicizia, ma
è ispirato alla relazione venditore-cliente. Il suo (vero) scopo resta uno scopo
commerciale (vendere) anche se dissimulato nelle forme del rapporto amicale. È questo, come è noto, anche il rischio che accompagna la comunicazione
di iniziative filantropiche e pro-sociali da
parte delle aziende (quella che in senso
lato è definita responsabilità sociale delle imprese), che non riesce mai del tutto a liberarsi dal sospetto che si tratti di una pura operazione di facciata, strumentale alla costruzione artificiosa di un’immagine
connotata da valori che i consumatori
possano apprezzare (Gadotti, Mortara
2007). Questo meccanismo relazionale
ingannevole consiste dunque in una deliberata confusione delle cornici interpretative entro le quali inquadriamo e
diamo un senso agli eventi (e al nostro
ruolo in essi) per ottenere dei vantaggi a
scapito degli interlocutori, per confonderli o influenzarne le reazioni.
Questa forma di opportunismo è
anche assai diffusa nei mass media in
cui comunicazioni strategiche vengono presentate come notizia dai mezzi
di informazione e invece sono prodotte da uffici di relazioni pubbliche di
partiti, organizzazioni, aziende o gruppi di pressione allo scopo di influenzare il pubblico (quindi con finalità perlopiù persuasive). Il caso più noto è
quello della pubblicità camuffata da
informazione. Una comunicazione
persuasiva, che il pubblico riconosce
come tale, e dalla quale è portato istin-
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tivamente a diffidare, si traveste da
qualcos’altro per aggirare le barriere
selettive (già a livello di esposizione
del ricevente, ma anche di percezione
e memorizzazione) nelle quali necessariamente incappa se si presenta per
ciò che è. In realtà il caso della pubblicità è quello che ricorre più spesso, ma
ci sono anche molti altri tipi di comunicazione strategica e persuasiva che si
camuffano: ad esempio messaggi ideologicamente e politicamente orientati
che si travestono da informazione o da
spettacolo (Gili 2001, pp. 170-179).
3. Una terza strategia opportunistica è quella per cui l’emittente cerca
scientemente di assimilarsi il più possibile al destinatario in modo tale da essere più facilmente accettato ed ascoltato. Questa strategia si basa su un meccanismo psicologico profondo: in generale tendiamo a ritenere più credibile chi ci è “simpatico”, cioè colui verso
il quale avvertiamo una immediata sintonia. La simpatia può basarsi su diverse leve, ma una leva assai potente è sicuramente la similitudine tra emittente e destinatario, per la quale tendiamo a trovare più simpatico (e quindi
più credibile e affidabile) chi ci assomiglia. Questa leva è tanto più efficace
perché in genere tendiamo a sottovalutare l’effetto della somiglianza sulla
simpatia che proviamo per gli altri
(Gonzales, Aronson, Costanzo 1988).
Numerose ricerche sulla comunicazione di massa, a partire dagli studi di
Hovland negli anni cinquanta, hanno
mostrato la tendenza della fonte ad
adattarsi al suo pubblico enfatizzando
quegli attributi che il pubblico più riconosce e accetta in termini di immagine dell’emittente, costruzione del
messaggio e scelta dei codici e dei linguaggi. Il punto decisivo, per il nostro
ragionamento è che la simpatia è una
attrazione sentimentale istintiva, ma
può anche essere ampiamente guidata
e “costruita” per cui «chi desidera ottenere la nostra simpatia per renderci
più remissivi alle sue richieste può cercare di apparire simile a noi sotto diversi punti di vista: nell’aspetto, nelle
opinioni, negli interessi, nell’ambiente
di provenienza, nel modo di vivere»
(Cialdini 1993, trad. it. 1995, p. 137). È
una strategia “mimetica” nei confronti
del ricevente che gli psicologi sociali
definiscono “ingraziamento”, una ricercata assimilazione della fonte al ricevente con finalità manipolatorie, rivolta a creare nei destinatari un atteggiamento più favorevole all’influenza
(Jones, Wortman 1973). Corollari della
strategia dell’ingraziamento sono: a)
l’interpellazione diretta, cioè tutte
quelle forme retoriche che servono a
dare l’impressione che l’emittente si rivolga direttamente ad ogni singolo destinatario, anche quando si rivolge ad
una moltitudine (per lui anonima); b)
la retorica del “noi”, con la quale si cerca di coinvolgere il pubblico proponendosi o auto-proclamandosi suoi difensori o portavoce; c) il “parlare doppio”, cioè dire cose diverse a pubblici
diversi (Lutz 1989).
4. Un’ultima forma di “opportunismo” è quella per cui colui che comunica (come animatore) non è il vero
comunicatore (cioè non è l’autore e il
mandante), ma l’autore e il mandante restano “celati” dietro l’animatore.
Nella vita quotidiana è ad esempio il
caso delle dicerie (rumors) ispirate da
qualcuno che vuole rimanere nell’ombra. Anche il giornalismo presenta vari casi di questa forma di oppor tunismo che raggiunge la sua
espressione estrema nelle cosiddette
“notizie del diavolo” (Bocca 1979;
Fertilio 1994), cioè l’uso spregiudicato dell’informazione e dei mass media, perlopiù da parte di soggetti terzi, per scopi che non hanno nulla a
che vedere con l’informazione: divulgazione di dossier riservati dei servizi
segreti, fughe di notizie coperte dal
segreto istruttorio o “anticipazioni”
di imminenti iniziative della magistratura, interviste rilasciate allo scopo di
far giungere determinati messaggi a
ben precisi interlocutori. Un altro
esempio è costituito da una pratica
comune nell’ambito del giornalismo
politico-parlamentare (Prignano
2007). L’informazione politico-parlamentare si rivolge, secondo un modello ideale, al pubblico dei lettori e
ascoltatori (comunicazione verticale)
che, in tal modo, vengono informati
degli avvenimenti politici e si formano una propria opinione. Secondo
questo modello gli attori del sistema
politico costituiscono semplicemente
l’oggetto della comunicazione. In
realtà essi costituiscono assai spesso
anche le fonti e i destinatari (più o
meno occulti) della comunicazione e
i mass media si prestano a funzionare
come canali e filtri di questo complesso sistema di relazioni “orizzontali”, facendo trapelare notizie “riservate”, lanciando messaggi in codice da
una parte all’altra, facendo da “amplificatori” di determinate posizioni.
«I partiti o i politici che vogliono
mandare messaggi ai propri interlocutori – ha osservato Mancini in una
documentata ricerca sulla informazione politico-parlamentare in Italia –
lo fanno attraverso l’informazione
giornalistica, nella certezza che solo
gli interlocutori prescelti li riceveranno, data la diffusione e la pervasività
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della comunicazione orizzontale, ma
anche che in questo modo la loro decisione avrà effetti su un vasto numero di altri possibili soggetti che altrimenti non sarebbero stati inclusi nella loro strategia o che avrebbero richiesto uno sforzo comunicativo più
grande» (Mancini 1994, p.50).
3.2. Rispondere del contenuto della
comunicazione
Chi comunica risponde di “che cosa”? Risponde essenzialmente delle parole che dice, ma anche del modo in cui
le dice. Cioè risponde del contenuto
della sua comunicazione e della forma
che le conferisce.
Un buon punto di partenza per definire in generale la responsabilità verso il
contenuto e la forma della (propria) comunicazione è stato indicato efficacemente – anche se non senza problemi –
nelle famose massime conversazionali di
Grice (1975). Il filosofo inglese ha osservato che per instaurare una piena e positiva relazione comunicativa, caratterizzata da un accordo di fondo tra partecipanti che perseguono uno scopo comune e sono fattivamente impegnati a comprendersi e a cooperare, chi agisce in veste di emittente deve osservare quattro regole o norme fondamentali.
La prima regola è quella della completezza dell’informazione, e riguarda la “quantità” di informazioni trasmesse. Essa esige
che l’emittente non fornisca una quantità di informazione inferiore a quella richiesta per una adeguata comprensione
da parte del ricevente, ma neppure una
comunicazione superflua e ridondante.
Si contravviene dunque a questa regola
quando si forniscono informazioni incomplete o insufficienti o, al contrario,
un eccesso di informazioni ottenendo
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l’effetto “anticomunicativo” di distrarre
o confondere il ricevente.
La seconda regola riguarda invece la
qualità delle informazioni, cioè essenzialmente la loro veridicità. Tali informazioni, infatti, devono essere vere (“non dire
ciò che credi essere falso”) e adeguatamente fondate su evidenze e dati di fatto (“non dire ciò di cui non hai prove
adeguate”). Questa massima viene contraddetta in tutte le situazioni in cui l’emittente comunica consapevolmente
una conoscenza falsa. La menzogna,
però, è solo una delle possibili forme in
cui si comunica una conoscenza falsa.
Mentire esplicitamente non è, infatti, il
solo modo per creare false impressioni e
credenze nell’interlocutore nelle relazioni di vita quotidiana: «Tecniche di comunicazione quali l’allusione, l’ambiguità strategica, l’omissione di fatti importanti permettono di approfittare delle bugie senza averne dette tecnicamente alcuna. I mezzi di comunicazione di
massa hanno una loro versione di questo
fatto e dimostrano che, con abili inquadrature e montaggi, quello che è solo un
modesto plauso di simpatia nei confronti di una certa personalità, può essere
trasformato in scrosciante ovazione»
(Goffman 1959, tr.it. 1969, p.74).
La terza regola riguarda la relazione
che si attua nello scambio comunicativo e
si concretizza nella massima “sii pertinente”. Essa richiede di “stare al tema”
senza divagare, non introdurre elementi
fuorvianti, non sottrarsi alla comunicazione, non adottare “codici ristretti” comprensibili solo per determinati interlocutori con esclusione di altri, non operare
artificiose confusioni e sovrapposizioni
delle “cornici” entro cui i messaggi sono
costruiti con lo scopo di confondere il ricevente e mettere in difficoltà i suoi sistemi di attribuzione di senso.
L’ultima regola riguarda il modo in cui
il contenuto della comunicazione viene
espresso. Si declina in una serie di raccomandazioni: “evita l’oscurità di espressione”, “evita l’ambiguità”, “sii breve”, “sii ordinato nella esposizione”. Queste raccomandazioni attengono in modo particolare ai linguaggi e ai codici comunicativi
che devono essere chiari e condivisi.
Queste quattro grandi regole possono
essere applicate naturalmente non solo
alle relazioni comunicative interpersonali (secondo l’originaria intenzione di Grice), ma anche alla comunicazione pubblica, alla comunicazione d’azienda o all’informazione attraverso i mass media.
Naturalmente ci sono molti modi per
contravvenire queste regole e, anzi, come
sapeva benissimo Grice, la loro violazione
consapevole o inconsapevole è la norma
più che l’eccezione. Nei mass media, ad
esempio, la massima della “completezza”
e quella della “sincerità” possono essere
disattese in molti modi: censurare o ignorare fatti reali; inventare fatti mai accaduti; deformare radicalmente la natura, le
caratteristiche o le dinamiche degli eventi. Ma, questo tipo di menzogna è facilmente falsificabile, soprattutto in condizioni di pluralismo comunicativo. Per
questo, più spesso i media ricorrono, come ricordava Goffman nel brano sopra
citato, alle strategie della “codifica selettiva” (Frank 1973) o, più semplicemente,
della “distorsione” e della “tendenziosità”
(Hofstetter 1976; Efron 1971). Mentre la
menzogna sfacciata costituisce la parte asserita della comunicazione (ciò che viene
detto esplicitamente), la “codifica selettiva” riguarda la parte presupposta della comunicazione, ciò che viene lasciato intendere in modo tale che il destinatario completi il “non detto” (non visto, non mostrato) nella direzione tracciata, pre-determinata dall’emittente (Castelfranchi e
Poggi 1998, pp.211 sgg.). Questi meccanismi di codifica selettiva formalmente
non implicano nessun tradimento esplicito delle regole della cooperazione comunicativa di Grice, ma nei fatti le invalidano sostanzialmente.
Altri esempi di contravvenzione di
queste norme si possono trovare anche in
ambiti del tutto diversi, come la comunicazione pubblica. La terza regola relativa
al modo è spesso violata nella comunicazione tra operatori ed utenti. Un esempio
evidente è costituito dal “burocratese”.
Gli impiegati usano spesso con il pubblico un codice ristretto (ad esempio dicendo sbrigativamente: «compili questo modulo, siglando l’opzione scelta e apponendo la firma in calce…»), perfettamente comprensibile ed usuale tra chi
sempre si esprime in questo modo e conosce benissimo quella modulistica
(quindi nella comunicazione orizzontale
tra colleghi), ma di ben più difficile comprensione per il pubblico che normalmente non vive tra moduli e firme in calce. E, spesso, chi capisce di meno – perché è anziano, perché non ha studiato,
perché non parla bene la lingua italiana
– è proprio colui che ha più necessità di
godere di un certo servizio.
A proposito della veridicità della comunicazione (il secondo e fondamentale
principio), c’è un altro aspetto assai importante da considerare: tutte quelle situazioni in cui la comunicazione ha per
oggetto la vita e la reputazione di altre
persone. Qui incontriamo l’insinuazione,
la diffamazione e la calunnia, cioè quelle
forme di comunicazione violenta che
consistono nel creare o avallare voci che
squalifichino una persona, gettino il sospetto sulla sua integrità personale, morale o politica. Le accuse possono essere
del tutto false e create ad arte, ma esse ottengono comunque il loro scopo metten-
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do la vittima sotto accusa e nella necessità
di giustificarsi, impegnandola in un’opera di difesa spesso senza via d’uscita o, comunque, distogliendola dai suoi obiettivi
(Wegner et al. 1981). Una forma di calunnia più sottile e invasiva è costituita dal
“pettegolezzo” malevolo e denigratorio
(Elias, Scotson 1994; Marcarino 1997;
Benvenuto 2000), che nei media assurge
talora a vero e proprio genere (Rosnow,
Fine 1976; Goodman, Ben-Zeev 1994).
Tuttavia nel trattare il rapporto tra
verità e responsabilità possiamo trovarci
di fronte ad un caso opposto per il quale non solo la menzogna, ma anche la verità può essere una terribile forma di violenza (e quindi di immoralità). C’è un
modo di dire la verità che è peggio dell’impostura e della calunnia: è la violenza del protagonismo subito, della pubblicità che i media impongono a quanti
vengono illuminati loro malgrado dai riflettori della cronaca. La comunicazione
giornalistica riguarda spesso avvenimenti drammatici (incidenti, catastrofi, delitti, etc.). Tra i criteri di selezione e presentazione delle notizie, un ruolo particolare assume il criterio dell’interesse
umano, cioè la ricerca della dimensione
propriamente personale e intima – le
reazioni, i sentimenti, i vissuti – di chi
viene coinvolto, anche spesso come vittima (Wolf 1985; Sorice 1995).
In questi casi il diritto di cronaca e le
esigenze “narrative” dei media devono
fare i conti con il rapporto tra il segreto
e la sua rivelazione. Come suggerisce ancora Goffman (1959, tr. it. 1969, cap. 4),
possiamo distinguere due tipi principali
di segreto. Il primo è il segreto che vincola nello stesso modo colui al quale si riferisce e colui che ne viene a conoscenza. È, ad esempio, il segreto del “confessionale” o il segreto professionale che
vincola il medico o l’avvocato al proprio
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cliente: se rivelano il segreto gettano il discredito anche su di sé, essendo legati a
un particolare patto di fedeltà e solidarietà. Un secondo tipo di segreto è invece il segreto libero. Se svelato, non getta discredito su colui che lo svela, al contrario
ne esalta la professionalità. È il caso del
lavoro dell’investigatore o del giornalista. Nel lavoro giornalistico, la ricerca
dello scoop e della notizia esclusiva non
solo non offusca l’immagine professionale del giornalista, ma costituisce uno
degli aspetti che legittimano e nobilitano
il suo lavoro, soprattutto quando ciò sia
fatto con spirito di indipendenza e autonomia. Ma ciò si può dire sempre e senza eccezioni? Nei termini di Grice, completezza e veridicità devono sempre essere applicate a prescindere dalla situazione concreta di coloro che, loro malgrado, sono investiti dai riflettori della cronaca? Evidentemente non è così. Ogni
notizia che implichi la rivelazione del retroscena privato, soprattutto di chi è più
indifeso, richiede prudenza e rispetto. Ci
sono situazioni, come ad esempio i casi
di minori oggetto di violenze che talvolta
vengono “esibiti” senza troppi scrupoli
nei mezzi di informazione, in cui il diritto di cronaca deve cedere il passo al rispetto delle persone e in cui il “segreto libero” torna a ricadere nel “segreto vincolante”. Ignorare tutto ciò, invocando il
diritto di cronaca, è solo una strumentalizzazione cinica e irresponsabile.
3.3. Rispondere della relazione comunicativa
La terza dimensione della responsabilità comunicativa si riferisce al “rispondere a”. Secondo la dinamica espressa dai
tre ruoli dell’emittente da cui siamo partiti, chi parla si assume sempre una responsabilità di fronte a qualcuno. A tal
proposito possiamo individuare due “versanti” di questa responsabilità: uno “interno” ed uno “esterno”.
a) Il versante “interno” è quello per
cui il comunicatore rende conto a se stesso o al gruppo o all’istituzione in nome e
per conto del quale parla. Se dico “ti
amo” o “sei un cretino”, io assumo la piena ed esclusiva responsabilità dei miei atti comunicativi. Ma io posso anche parlare come rappresentante o portavoce designato di un altro soggetto sociale, persona o gruppo, per cui la mia responsabilità “implica” e “coinvolge” anche quella di chi mi ha assegnato tale mandato.
Ci sono molti esempi di questa forma
di responsabilità. In epoca feudale (Bloch 1949), i missi dominici erano funzionari inviati dall’imperatore nelle varie province dell’impero a rappresentarlo, a
controllare e a riferire. Costoro disponevano dunque della credibilità e dell’autorità di chi li aveva investiti, ma anche della responsabilità di rendere conto a chi li
aveva investiti. L’ambasciatore invece è
colui che rappresenta il proprio stato e
chi lo governa presso uno stato straniero
che ne accetta le credenziali, cioè documenti che attestano che egli è autorizzato a rappresentare in quella sede il proprio governo o stato. Anche un rappresentante politico eletto, nei regimi di democrazia rappresentativa, riceve un mandato – in questo caso non dal signore o
dal governo, ma dagli elettori, “dal basso”
– ed è responsabile nei confronti di coloro che glielo hanno conferito. In tutti
questi casi vi è un esplicito mandato da
parte di colui che conferisce ad un altro
la prerogativa di parlare in suo nome e
con la sua autorità.
Ma vi sono altri casi in cui un individuo non è il depositario esclusivo della
responsabilità dei suoi atti comunicativi.
Ciò accade quando l’individuo che comunica è portatore di un ruolo istituzionale o fa parte di una categoria professionale. In questo caso, egli non comunica solo come individuo privo di determinazioni sociali, ma come insegnante, come
medico, come giornalista, come dipendente di una amministrazione pubblica: il
“mandante” della comunicazione non è
solo il soggetto individuale, ma anche
l’organizzazione o l’istituzione di cui
quell’individuo fa parte. Ad esempio nel
discorso programmatico che i rettori tengono in occasione delle cerimonie di
inaugurazione dell’anno accademico, essi costituiscono al tempo stesso gli animatori, gli autori e i mandanti della loro
comunicazione, ma non i mandanti
esclusivi, dal momento che non parlano
chiamando in causa solo la propria responsabilità individuale, ma parlano anche a nome e per conto del corpo sociale che rappresentano (colleghi, personale tecnico-amministrativo, etc.). Questo
vale per il rettore che ricopre il ruolo
“politico” di vertice dell’istituzione universitaria e ne detiene la responsabilità
legale, ma vale in modo analogo (anche
se diverso nelle modalità) per ogni singolo docente o dipendente dell’università. Quando faccio parte di una istituzione (tanto più se un’istituzione pubblica) ogni mio atto comunicativo chiama
in causa come mandante non solo la mia
responsabilità e la mia immagine individuale, ma anche l’immagine e la responsabilità della istituzione che rappresento
o di cui faccio parte. Questo aspetto spiega, tra l’altro, l’investimento di aziende e
amministrazioni pubbliche sulla comunicazione interna, la formazione e la motivazione del personale nel contesto di
una più generale attenzione alla dimensione comunicativa e al rapporto con i diversi pubblici di riferimento.
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Ma ciò vale anche per più ampie categorie professionali nelle quali il comportamento di ogni membro o aderente
coinvolge la credibilità e l’immagine di
tutta la categoria. Proprio per tutelare
questa immagine collettiva, tali categorie
si danno dei codici deontologici e di autoregolamentazione (cioè sistemi normativi che
definiscono la moralità nel ruolo, l’etica
nel/del ruolo specifico) o promulgano
carte dei diritti dell’utente (del cittadino, del
malato, etc.) che prima che essere rivolti
all’interlocutore esterno sono rivolti ai
componenti della stessa categoria.
Ma c’è un’ultima forma di “appartenenza” o di “riferimento” che può entrare in questa analisi del “mandato” comunicativo e riguarda l’appartenenza ad un
più vasto gruppo sociale, etnico o culturale. Qui non c’è una dimensione istituzionale, ma un senso di appartenenza
che deriva da legami sociali concreti, dalla condizione di un comune orizzonte di
significati e di valori, insomma di una
“tradizione” culturale comune.
Nelle relazioni con persone appartenenti a culture diverse, l’individuo (soprattutto quando faccia parte di un gruppo minoritario) può avvertire che i propri atti comunicativi chiamino in causa il
gruppo di cui fa parte e quindi ne coinvolgano l’immagine. Naturalmente tale
percezione di parlare o di agire “non solo a nome proprio” può variare in base a
molti fattori, tra cui senz’altro la stessa appartenenza culturale. Qui risulta rilevante la distinzione tra culture individualistiche o collettivistiche (Triandis 1995,
2003, et al. 1988). Nelle culture a orientamento collettivistico (come quella cinese o indiana), per le quali è assai importante l’identificazione con il gruppo e più
marcata la differenza tra ingroup e outgroup, l’individuo avvertirà maggiormente la responsabilità collettiva implicata
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nei propri atti comunicativi. Può valere
anche il reciproco: ritenere cioè che solo
al gruppo, attraverso i suoi rappresentanti designati e riconosciuti, spetti di parlare in qualità di mandante a nome di tutti
gli appartenenti a quel gruppo. La conseguenza è sentirsi comunque rappresentati e coinvolti (come “corresponsabili”) da
ciò che viene detto (o fatto) dai rappresentanti o dagli altri appartenenti al proprio gruppo.
In culture orientate individualisticamente, come in molti paesi occidentali, le persone sentiranno invece in misura minore il “mandato” del proprio
gruppo dal momento che per loro l’appartenenza al gruppo è decisamente
più fluida e meno significativa in termini di identità propria e di riconoscimento dell’altro. Quindi parleranno
essenzialmente “a proprio nome”, né si
sentiranno più di tanto coinvolte nelle
dichiarazioni o comunicazioni che implicano un “noi” (ad esempio “noi italiani” o “noi cattolici”), a meno che, anche in un contesto culturale individualistico, il “noi” esprima una forte appartenenza identitaria (religiosa, linguistica, etnica, politica, etc.) per cui il
singolo avvertirà ogni proprio atto come investito della responsabilità di una
testimonianza al “noi” e, reciprocamente, si sentirà corresponsabile di
ogni atto comunicativo del gruppo come se lo coinvolgesse direttamente.
b) Il versante esterno. Accanto al
versante interno del “rispondere a”, c’è
anche un versante esterno. È la responsabilità verso il destinatario o il
pubblico, sia esso costituito da utenti,
clienti, spettatori, etc.
In effetti, anche se spesso si invoca la
“sovranità” del consumatore, del cittadino-utente, dello spettatore, il rapporto
tra istituzioni e apparati comunicativi e
destinatari appare improntato da una logica del tutto diversa. È appena il caso di
ricordare che nei più diversi ambiti comunicativi – si tratti della comunicazione
pubblica, d’impresa, della comunicazione di massa – il destinatario è stato a lungo concepito, e spesso lo è ancor oggi, come una “controparte” da tenere a bada o
sotto controllo, da conquistare e fidelizzare, verbi tutti che rivelano una concezione radicalmente conflittuale e asimmetrica del rapporto comunicativo. Lo
stesso termine “target” (bersaglio) in uso
nel marketing per designare il destinatario/pubblico è, da questo punto di vista,
assai esplicito.
Si può invece parlare coerentemente di “rispondere al pubblico” solo all’interno di una concezione “relazionale” del rapporto con il destinatario,
una condizione di reciprocità in cui il
destinatario (utente, cliente, spettatore) sia visto come partner a pieno titolo della relazione7.
Tendenze e segnali significativi in
questa direzione si colgono in molti ambiti comunicativi. Tali segnali non sono
l’esito di una improvvisa “conversione”
che pone il destinatario al centro dell’attenzione dei soggetti istituzionali della comunicazione, ma una presa d’atto
che molto è cambiato nelle abitudini e
nelle competenze dei cittadini-utenticlienti-spettatori e che molto è cambiato
nel contesto in cui i soggetti comunicativi istituzionali si trovano ad operare
con la crescita della concor renza
tra emittenti/fonti, una maggiore libertà/facoltà di scelta dei destinatari,
l’affermarsi di valori di realizzazione ed
espressività personale che “premono”
anche nel rapporto dei fruitori con i soggetti istituzionali della comunicazione.
Nei diversi campi questo cambiamen-
to di prospettiva si esprime in concetti diversi. Nell’ambito del divenire dell’impresa moderna, dopo una fase orientata
al prodotto, una orientata alla vendita ed
una orientata al marketing – quest’ultima
ancora largamente dominante – si sta affermando la visione dell’orientamento al
consumatore o, per usare una diversa
espressione, del “marketing relazionale”.
Il termine “relazionale” riferito al marketing indica il passaggio dalla logica della
transazione a quella della relazione, cioè ad
«una nuova concezione del marketing rivolta a costruire relazioni, a modificare
l’attuale perdurante asimmetria tra domanda e offerta proponendosi nei confronti del cliente in un’ottica di rapporto
di lungo periodo» e «portare il consumatore all’interno dell’impresa, coinvolgerlo nella co-creazione. Significa quindi
non solo capacità di ascolto con metodi
completamente diversi rispetto al passato
ma utilizzazione delle competenze che
questi ha maturato. Significa coinvolgerlo attivamente nella progettazione di beni e servizi, richiedere una sua cooperazione nei processi di comunicazione, farlo partecipare realmente a tutte le fasi significative della filiera, fornirgli prodotti
finali non serializzati, non pensati per un
consumatore anonimo ma rispettosi delle singole individualità» (G. Fabris 2008,
pp. 238-240). Inoltre se la transazione
(idea portante del marketing tradizionale) appare tutta centrata sugli aspetti economici e si realizza nell’immediato, la relazione implica «un rapporto allargato e
interattivo secondo cui lo scambio non riguarda solo merce contro denaro ma anche conoscenza [reciproca] che viaggia
dall’impresa al cliente e dal cliente all’impresa» (Brunetti 2004). È richiesta
una diversa visione del consumatore per
la quale egli non è più inteso come un’entità di tipo economico, astratta e imper-
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sonale (a-relazione), ma come una “persona” dotata di una propria intenzionalità, un proprio potere, una propria volontà, inserita in un tessuto di relazioni
interpersonali e sociali (Farinet, Ploncher 2002). Talmente attiva da giungere
a boicottare le aziende accusate di comportamenti irresponsabili verso i lavoratori, la salute e l’ambiente, come accade
ormai per una minoranza emergente di
consumatori informati ed impegnati, in
grado di incidere sul comportamento
delle aziende e sull’opinione pubblica
(Micheletti, Follesdal, Stolle 2004; Paltrinieri, Parmiggiani 2007). A questa persona concreta, reale, si può “rendere conto”, non ad una astratta immagine del
consumatore che esiste ormai solo nei
(vecchi) libri di microeconomia.
Nel campo della comunicazione
pubblica e istituzionale un processo
analogo è definito dal concetto più tradizionale, ma spesso disatteso, di “partecipazione” del cittadino-utente (o come sempre più spesso si dice cittadinocliente). Anche qui il termine che si affaccia è relazione: “capitale relazionale”. Come bene riassumono D’Ambrosi
e Giardina (2006, pp. 25-26): «investire
in un nuovo tipo di relazioni tra cittadino e pubblica amministrazione diviene
per quest’ultima fondamentale in correlazione con il passaggio dal Welfare
State alla Welfare Community. Necessari al funzionamento dello Stato sono –
oltre alle risorse normative, finanziarie,
organizzative – il complesso di infrastrutture (edifici, attrezzature, segnaletica, etc.) e l’insieme di risorse umane
impegnate nello svolgimento delle attività relazionali. A queste vanno ricondotti gli aspetti funzionali che da un lato possono sollecitare l’accesso e la fruizione dei servizi amministrativi, e dall’altro possono essere fattori di miglio-
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ramento dell’immagine che l’amministrazione pubblica trasmette all’esterno. Questa nuova configurazione del capitale, complessivamente considerato,
che vede la componente relazionale costituire una parte importante dell’attività amministrativa, si profila come uno
scenario non solo auspicabile ma imprescindibile per il corretto svolgimento delle funzioni dello Stato».
Come l’orientamento relazionale
del marketing non è un orpello filosofico rispetto alla dura realtà della concorrenza odierna, ma la possibilità di meglio inserirsi in questo mutato contesto
globale 8, così per l’amministrazione
pubblica, la partecipazione del cittadino-utente diventa una modalità “imprescindibile” per rispondere alle sue finalità e funzioni istituzionali. In tutti e due
i casi si tratta di una modalità “realistica”
e non mitizzata della relazione: consumatori e cittadini devono essere incentivati ad aderire a queste modalità relazionali perché “conviene” loro, perché
corrisponde al loro “interesse”, nello
stesso modo in cui corrisponde all’“interesse” e alle finalità dell’impresa o della pubblica amministrazione.
La responsabilità nei confronti dei
destinatari della comunicazione all’interno di una logica relazionale – nel
campo della comunicazione pubblica
così come della comunicazione d’impresa e del marketing – si esprime in
due aspetti essenziali, che per semplicità possiamo riassumere nei concetti di
“trasparenza” e “ascolto”.
Sul primo aspetto, quello della trasparenza, occorre osservare che molti processi sociali e organizzativi tendono ad
essere opachi, cioè sottratti allo sguardo
dell’interlocutore (cittadino, utente,
cliente, spettatore, etc.). Ciò che viene
offerto al destinatario è il messaggio, il te-
sto, la decisione o il prodotto finale, senza che venga esplicitato il processo che
ha portato alla sua formazione. Tale processo racchiude infatti quelle conoscenze “esclusive” – che Goffman chiamava
“segreti interni” – che definiscono un individuo come membro di un gruppo e
contribuiscono a farlo sentire diverso da
quelli che “non sono al corrente”. Sono,
ad esempio, i segreti delle burocrazie o i
segreti del mestiere che restano di pochi
perché il socializzarli e diffonderli toglie
potere a chi li deteneva in modo esclusivo. Sappiamo, ad esempio, delle resistenze che ampi settori della pubblica
amministrazione hanno opposto al processo di trasparenza delle procedure e di
semplificazione del linguaggio, dal momento che ciò implicava una diversa cultura delle relazioni con il pubblico e anche, inevitabilmente, una perdita di potere e controllo.
Questa opacità dei processi (organizzativi, esecutivi, etc.) si riscontra in molti
ambiti. Ad esempio, chi compra un giornale o ascolta un notiziario non è al corrente del processo (quello che tecnicamente chiamiamo newsmaking) attraverso
il quale la redazione ha selezionato e costruito una sequenza di notizie, in base a
quali criteri ha scelto alcuni eventi ed altri li ha scartati, ad alcuni ha dato maggiore enfasi e ad altri meno, ha ritenuto
che alcuni fossero meritevoli di commento ed altri no. Lo stesso si può dire per un
procedimento di un’amministrazione
pubblica. Ad esempio è utile sapere chi
ha vinto un concorso pubblico, ma è altrettanto importante sapere quali siano i
criteri in base ai quali sono stati valutati i
candidati. O ancora: è gratificante per il
consumatore indossare un bel capo di abbigliamento o mangiare un buon piatto
di pasta, ma ancor meglio è sapere da dove provengono le materie prime, come
sono coltivate (nel caso delle fibre tessili
naturali o del grano), le condizioni della
produzione e di lavoro (ad esempio, se la
produzione avviene in paesi del terzo
mondo), etc.
L’altro concetto che sostanzia la logica relazionale è l’ascolto. È la disposizione
dell’emittente a non temere il feedback, le
azioni di risposta del pubblico, ma anzi
sollecitarle e prevederle fin dall’inizio come elemento fondamentale, parte integrante e costitutiva del processo comunicativo (Gili 2007b). Il termine ascolto
«evoca la creazione di un vuoto piuttosto
che il riempimento di un canale, indica
l’attenzione alle domande e alle proposte
piuttosto che l’offerta di informazione e
la giustapposizione dei discorsi» (Levy
1998, p. 93). Nell’ambito della comunicazione d’impresa, Fabris osserva che corollario della auspicabile ma disattesa tendenza a riconoscere la centralità del consumatore [nei nostri termini: a rispondere, a rendere conto al cliente, al consumatore] «dovrebbe essere l’evoluzione
del marketing da modalità per ottimizzare le condizioni di competitività dell’impresa sui mercati a strumento in grado di
ascoltare e monitorare, con inedita sensibilità, i bisogni che il consumatore esprime,
congruenti con i nuovi scenari, sviluppando poi sistemi di relazione. L’attivazione di una relazione two way, bilaterale,
prevede che entrambi i contraenti ricavino benefici e vantaggi dal rapporto: non
può essere certo la sola impresa a trarne
conto» (G. Fabris 2008, p. 243). Tra i bisogni e gli interessi dei consumatori, di
cui parla qui Fabris, non vi è solo il vantaggio in termini di qualità e prezzo di
prodotti e servizi, né solo la risposta ai
classici bisogni sociali di status, distinzione, autostima, bisogni estetici, etc., ma
oggi sempre più anche motivazioni e valori quali il rispetto dell’ambiente o la
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preoccupazione per l’altro (ad esempio,
la condizione dei lavoratori) (Bovone,
Mora 2007).
Anche nel campo della comunicazione pubblica, il tema dell’ascolto si coniuga
ormai inestricabilmente con quello della
soddisfazione dei cittadini per cui la capacità di organizzare un efficace e strutturato sistema di ascolto appare ormai una
condizione primaria dell’efficienza delle
stesse amministrazioni9. Se in termini generali ciò indica una apertura del “sistema” dell’amministrazione pubblica nei
confronti dei suoi ambienti interni ed
esterni, concretamente implica la rimozione dei “blocchi” dell’ascolto nelle pratiche comunicative quotidiane, cioè i pregiudizi e le resistenze degli operatori nei
confronti dei cittadini per comprenderne i reali bisogni, ma anche correggere le
richieste “sbagliate” (ad esempio impossibili pretese particolaristiche) (Franceschetti 2007, pp. 54 sgg.).
Un altro ambito nel quale, la responsabilità verso il pubblico assume un ruolo
centrale, quanto complesso, è quello dei
mezzi di informazione. In questo caso, da
chi viene il mandato? È semplicemente
un mandato “interno”, per cui le redazioni devono “rendere conto” alla proprietà, all’editore o, come nei media
“pubblici”, al parlamento, al governo o ai
partiti? Spesso i media amano proclamarsi “indipendenti” – “quotidiano indipendente”, “testata indipendente” – per rivendicare la propria autonomia e libertà
di azione nella scelta dei contenuti, la volontà e la capacità di offrire un quadro
completo e disinteressato dei fatti e dei
problemi senza interferenze esterne da
parte del potere politico o di altri poteri
“forti” della società.
Da sempre i mezzi di informazione sono, tuttavia, al centro di moltissime in-
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fluenze e pressioni, alcune più dirette e
vincolanti, altre più indirette e generali:
proprietà, inserzionisti, fonti, organi di
governo, istituzioni politiche ed economiche, gruppi di interesse. Una visione
“realistica” dell’indipendenza dei media
non può sostenere che essi risultino impermeabili ad ogni tentativo di influenza.
E tuttavia il problema dell’indipendenza,
di una relativa indipendenza e autonomia
delle redazioni e dei singoli professionisti
resta centrale in ogni discussione sulla libertà dell’informazione e sul rapporto
tra media e opinione pubblica (Kieran
1998; Colombani 2001). L’autonomia e
la distanza critica, anche rispetto a quegli
attori della sfera pubblica – partiti, movimenti, associazioni – ai quali si sentono
più vicini, rimane una condizione essenziale della autorevolezza e della credibilità dei media informativi.
Comunque sia, il richiamo, vero o pretestuoso all’indipendenza, segnala come
questa sia universalmente percepita come un aspetto integrante della credibilità
di un emittente (Gili 2005, cap. 2). Complementare a questa dichiarazione di indipendenza è il riferimento al “pubblico”. È al pubblico che spesso chi fa comunicazione si appella. Non è raro sentir
dire infatti dagli operatori della informazione e della comunicazione: noi dobbiamo rispondere, in primo luogo, al pubblico, ai nostri clienti, ai nostri lettori o
spettatori. Insomma, sarebbe il pubblico
che decreta il successo, che premia e condanna, che legittima o delegittima.
Ma anche il rapporto con il pubblico
non è privo di ambivalenze. Dire “noi
rendiamo conto al pubblico” in realtà
apre più problemi di quanti ne risolva,
anche in termini di etica della comunicazione. Talvolta si sostiene, sulla base di
una concezione dei doveri dell’informazione un po’ ingenua o fin troppo astuta,
che i media, in una condizione ideale, dovrebbero rispondere solo al loro pubblico. Mentre la permeabilità alle pressioni
e alle influenze della proprietà, del governo, degli inserzionisti, dei gruppi di
interesse, viene giudicata negativa e manipolatoria, corrispondere alle aspettative del pubblico coinciderebbe con il fine
stesso dell’esistenza dei media. Tale argomentazione è scivolosa e si può prestare a
non pochi equivoci.
Innanzitutto, l’affermazione di voler
“dare al pubblico ciò che il pubblico chiede”, invocata volentieri come giustificazione di determinate scelte editoriali (ad
esempio nel ricorso al sensazionalismo),
non ha grande fondamento perché spesso i giornalisti non sanno realmente cosa
il pubblico chieda e non ne sono troppo
interessati. I modelli con cui è strutturata
l’informazione non rispondono in primo
luogo alle aspettative del pubblico, ma a
quelle della proprietà, dei colleghi della
redazione o della concorrenza (Gans
1979; Marletti 1983, Wolf 1985).
In secondo luogo, assumere il pubblico
come punto di riferimento può essere
una pura dichiarazione di principio o un
espediente ideologico. In realtà nel pubblico convivono molteplici interessi e
aspettative, spesso divergenti, e solo i segmenti meglio organizzati e più politicizzati esprimono interessi e correnti di opinione in grado di interloquire ed essere
“ascoltate” e rappresentate nei media
(cfr. a questo proposito l’analisi di Reese
1991 sulle diverse modalità del rapporto
tra media [forti o deboli] e fonti istituzionali [forti o deboli]).
Infine, anche le reali aspettative del
pubblico possono costituire una minaccia all’autonomia e all’indipendenza dei
media. Non sempre al pubblico interessa
la verità e la completezza dell’informazione. Ad esempio, in occasione di re-
centi conflitti bellici in cui erano coinvolti i paesi occidentali, il pubblico ha dichiarato in alcuni sondaggi di approvare
varie forme di manipolazione dell’informazione ed una versione addomesticata
degli avvenimenti (Belsey e Chadwick
1994). Oppure, di fronte a crisi o problemi sociali – crisi economica, criminalità,
disastri naturali o tecnologici, emergenza
immigrazione – il pubblico, per colmare
le sue ansie, può essere favorevole a processi sommari sui media che identifichino immediatamente un colpevole. Può
costituire cioè il più solido puntello per
quel clima emotivo prodotto dai media,
che Cohen (1972) ha definito “moral panic”, caratterizzato dalla ipersensibilità alla sfida portata ai valori morali, agli interessi e alla sicurezza della popolazione
dalla presenza di gruppi avvertiti come
potenzialmente pericolosi o devianti e dalla
conseguente richiesta di efficaci forme di
controllo sociale e neutralizzazione della
minaccia.
3.4. Rispondere delle conseguenze
dell’azione comunicativa
Weber ha chiarito che l’etica della responsabilità è quella che tiene conto e si
fa carico delle conseguenze dell’azione e
non solo della bontà delle intenzioni che
la precedono e la accompagnano. Responsabilità (comunicativa) significa perciò rispondere delle proprie azioni comunicative che sono anch’esse azioni capaci di produrre conseguenze sull’emittente e sul destinatario, come ha mostrato efficacemente la teoria degli atti linguistici (Austin 1962; Searle 1969).
Varie azioni comunicative producono
effetti sui comportamenti di colui che
le esprime: promesse, giuramenti, impegni, auto-accuse, etc. Le conseguenze
sull’emittente delle proprie azioni comuni-
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cative riguardano essenzialmente il problema della sua credibilità. Avendo trattato ampiamente di tale tema in altre occasioni a cui rimando (Gili 2005, 2007 a),
intendo qui focalizzate l’attenzione sulle
conseguenze sul destinatario.
Come per l’emittente, varie azioni comunicative producono effetti sui comportamenti del destinatario: minacce,
promesse, suppliche, ordini. Tutti questi
atti possono spingere il destinatario a fare o ad astenersi dal fare, provocare la sua
azione o inibirla. Il giudizio etico tradizionale (anche in campo comunicativo)
fa leva sul peso e sulle responsabilità dirette e intenzionali, collegabili agli esiti
immediati, chiari e definiti di un’azione
(comunicativa, in questo caso), il cui autore è chiaramente identificabile (Bartolommei, 2004, p. 36). Lo stesso vale per la
rilevanza penale di azioni come l’istigazione a commettere un reato (poi effettivamente commesso) o al suicidio. In questo caso diventa possibile in qualche modo “isolare” le azioni comunicative di un
soggetto determinato su un altro soggetto come, diremmo, concorrenti a produrre un certo comportamento o corso
di azione, e quindi a decretarne la corresponsabilità.
Ma ciò non sempre è agevole. Nel
caso della comunicazione di massa, le
cose stanno quasi sempre in termini
ben diversi. Ci sono almeno due aspetti che rendono problematico e “improbabile” tale giudizio:
a) spesso gli effetti sono così complessi, stratificati e legati ad una tale complessità di fattori che non è possibile istituire
alcuna chiara relazione “causale” tra atti
comunicativi e le loro conseguenze.
b) Altrettanto problematico è definire
le responsabilità specifiche, cioè l’apporto dei singoli atti comunicativi nel concorrere a determinare l’effetto comples-
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sivo. Il loro “peso” non è misurabile o isolabile rispetto a quello di molti altri.
Questo discorso, che può sembrare
astratto, lo è assai meno se lo riferiamo,
ad esempio, a un tema “classico”: quello
degli effetti della violenza nei media e
nella televisione in particolare.
All’inizio degli anni sessanta, tracciando il bilancio di un’ampia rassegna critica delle ricerche sugli effetti della comunicazione di massa, Klapper affermava
che «non si sa nulla [di certo, di definitivo] sulla correlazione, seppure ne esiste
una, tra l’entità delle rappresentazioni di
violenza nei mezzi e la probabilità che esse producano degli effetti» (1960, trad. it.
1964, p. 152). Dopo più di quarant’anni
la situazione appare mutata e i più recenti bilanci teorici, valutando l’insieme delle ricerche empiriche sull’argomento, riconoscono che «emerge chiaramente
che l’esposizione alla violenza nei media
contribuisce in modi significativi alla violenza nella società» (Smith, Donnerstein,
1998, p. 168)10. Tali effetti sono suddivisi
in tre grandi aree: a) gli effetti imitativi
con la produzione di comportamenti aggressivi su di sé e/o sugli altri; b) la paura
acuta o una più generale ansia e diffidenza nelle relazioni sociali; c) l’assuefazione e la de-sensibilizzazione che deriva
da una ripetuta esposizione alla violenza
rappresentata (per una articolata presentazione delle teorie e delle ricerche empiriche, cfr. Gili 2006, cap. 4).
È innegabile, tuttavia, che l’analisi e
la valutazione degli effetti nei media, anche se attira il maggiore interesse degli
studiosi, oltre che di genitori, educatori
e decisori politici, costituisca anche il livello più complesso e ricco di implicazioni e, perciò, di più difficile definizione. Innanzitutto gli effetti – di qualsiasi
tipo e natura – dipendono dai contenuti (che cosa viene letto, visto e ascoltato)
e dalla forma che questi contenuti assumono (codici, linguaggi, forme espressive). Occorre considerare in quale contesto gli atti violenti vengono presentati,
chi li compie e chi li subisce, se essi siano motivati o gratuiti, se si tratti di una
violenza realistica o non realistica. Occorre poi distinguere, e ciò è tutt’altro
che agevole, tra gli effetti legati alla visione di un prodotto culturale specifico,
ad esempio un determinato film o programma, ed effetti più diffusi e generali
come gli effetti del mezzo televisivo sulla percezione della violenza presente
nella società. Determinanti sono poi le
caratteristiche individuali del destinatario: la sua età, le capacità di comprensione e memorizzazione, il tipo di personalità, la motivazione e l’interesse verso
un certo tipo di contenuto, le gratificazioni che si attende e gli usi cui il contenuto si presta. Gli effetti dipendono infine dal contesto socio-culturale in cui le
persone vivono, ad esempio il clima delle relazioni familiari, il livello di violenza
o pericolosità dell’ambiente sociale reale, i valori e i modelli di riferimento della famiglia e del gruppo dei pari. Queste
differenze individuali e sociali nelle motivazioni, nelle pratiche e nei contesti di
ricezione influenzano in modo determinante sia la possibilità che si determinino certi effetti, sia l’ampiezza e la natura
degli effetti. Per tutte queste ragioni si
deve necessariamente parlare di “effetti”
al plurale, poiché le conseguenze a livello individuale e sociale della violenza
rappresentata possono essere le più diverse. Occorre così distinguere tra effetti immediati ed effetti cumulativi, effetti
a breve e a lungo termine, effetti “acuti”
ed effetti “cronici”. Gli effetti immediati
e “acuti” possono essere più facilmente
individuati sia in esperimenti di laboratorio sia in contesti naturali. Più difficili
da documentare sono gli effetti cumulativi e di lungo periodo. Essi possono manifestarsi dopo molto tempo e in modo
imprevedibile per l’accumulo e l’interazione di circostanze e fattori che non
possono essere dettagliatamente previsti, individuati e valutati nelle loro relazioni significative. Così molti degli effetti
più significativi sfuggono alla misurazione
empirica, senza che si possa concludere che essi non siano rilevanti solo per l’inadeguatezza dei nostri metodi e strumenti analitici.
Un classico esempio nell’ambito dei
mass media, su cui ha richiamato l’attenzione Meyrowitz (1985), è costituito dall’erosione dell’immagine dei genitori come soggetti educativi credibili da parte
dei mass media e della TV in particolare.
I mass media, non sono di per sé soggetti
educativi, perché l’educazione avviene
solo in una relazione interpersonale reale, tuttavia possono interferire in modo significativo sull’educazione, cioè sul rapporto educativo che si costituisce a livello
interpersonale tra genitori e figli. L’effetto fondamentale della televisione sul processo di educazione, spiega Meyrowitz,
sta nell’aver modificato il modo con cui i
bambini guardano al mondo degli adulti.
Il “danno” della televisione, per così dire,
sta nel mostrare ai bambini non solo la
“facciata”, ma anche il “retroscena” del
mondo degli adulti. Guardando un film o
ascoltando le notizie del telegiornale, assistendo a scene di violenza fisica o psicologica, i bambini imparano molto presto,
in modo crudo e senza tanti complimenti e cautele, che gli adulti sono corrotti,
violenti, mentitori: i politici cercano il loro interesse egoistico, i mariti e le mogli si
tradiscono, gli adulti rubano, uccidono e
compiono continuamente atti violenti.
Tutto ciò naturalmente non è senza ricadute sullo “sguardo” con cui i bambini vedono gli adulti e può insinuare in loro
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una profonda diffidenza rispetto ai valori
e ai modi di comportamento ideali che
gli adulti additano loro (che la televisione
rivela invece essere vuoti e ipocriti).
Giornalisti, autori, dirigenti, strateghi del palinsesto sono responsabili di
tutto ciò? E in che cosa consiste la loro
“specifica” responsabilità? Certamente è
molto difficile “misurarlo” perché nessuno fa niente di grave, almeno niente
di particolarmente grave, per cui possa
essere accusato o sanzionato individualmente. E soprattutto perché non vi è alcun modo per valutare e pesare l’apporto del suo messaggio sull’effetto complessivo. Se un autore aggiunge un po’
di violenza a un programma per dare vivacità e interesse, un altro un po’ di erotismo che non guasta mai, un giornalista
dà una notizia un po’ forte e fa vedere
dei morti ammazzati nel telegiornale,
un responsabile di palinsesto inserisce
nella programmazione una situation comedy in cui è normale ingannarsi e tradirsi, un talk show mostra persone che si
aggrediscono verbalmente e si insultano, che fanno in fondo di male? Come si
può “dimostrare” che hanno concorso a
produrre nei destinatari (ad esempio
nei più giovani) comportamenti antisociali o aggressivi o, fatto ancora più impalpabile, visioni stereotipate, concezioni ciniche e disincantate degli esseri
umani e dei rapporti interpersonali?
Insomma: probabilmente gli “effetti” più importanti, quelli più profondi e
persistenti perché hanno a che fare con
la “mentalità” e i modelli culturali, sono
i più difficili da afferrare e valutare per
la complessità delle loro catene causali
e condizioni contestuali. Ma, solo perché non disponiamo della possibilità di
ricostruire interamente, puntualmente,
questi effetti nella complessità dei loro
fattori determinanti e contestuali, pos-
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siamo dire che non vi siano effetti? Che
essi non esistano?
Sono proprio queste domande che
suggeriscono di estendere anche al campo della comunicazione di massa il “principio di precauzione”, che già è stato accolto dalla legislazione europea in altri
ambiti, in cui gli effetti delle azioni umane sono ugualmente complessi da definire e circoscrivere in tutti i loro aspetti
(Troncarelli 2007).
Il principio di precauzione – nel quale viene riproposta la fondamentale relazione tra prudenza e fiducia (Scillitani
2007) – si è affermato in riferimento alla
tutela dell’ambiente, della salute e dei
consumatori. Tale principio – come si
esprime l’Unione Europea – può essere
invocato ogniqualvolta sussiste l’esigenza
di «equilibrare la libertà e i diritti degli individui, delle industrie e delle organizzazioni con l’esigenza di ridurre i rischi di
effetti negativi per l’ambiente e per la salute degli esseri umani, degli animali e
delle piante» (Commissione delle Comunità Europee 2000).
Il problema degli effetti e delle conseguenze si pone qui in modo del tutto
simile al problema degli effetti delle comunicazioni di massa. Anche in questo
caso, per usare le stesse espressioni della
Commissione delle comunità europee, si
tratterebbe di equilibrare la libertà e i diritti di giornalisti e autori e le finalità
(economiche e politiche) delle industrie
e delle organizzazioni dei media con le
esigenze di salvaguardia della “salute”
psicologica e sociale del pubblico, tenendo conto ragionevolmente dei rischi,
delle possibili e probabili conseguenze,
in relazione alle quali vi è una abbondanza di evidenze empiriche, anche se
non la certezza assoluta.
Ad ogni critica o denuncia dei rischi
presenti in un uso troppo disinvolto dei
media, gli operatori della comunicazione
oppongono alcune tesi che assomigliano
molto alle obiezioni rivolte al principio di
precauzione nel suo originario ambito di
applicazione (quello cioè della protezione della salute e dell’ambiente). Il primo
è dato dalle esigenze della creazione artistica e dalla libertà del creatore considerato come l’unico soggetto in grado di
giudicare effettivamente della qualità dei
testi. Viene poi invocata la difficoltà a predeterminare o immaginare gli “effetti” –
anche negativi – dei testi mediali in considerazione del fatto che tali effetti dipendono in primo luogo dalle caratteristiche di personalità dei riceventi o da fattori contestuali (ad esempio vivere in famiglie problematiche o in ambienti urbani degradati) di cui certo gli operatori
dei media non sono responsabili. Si fa appello inoltre alle stesse ricerche scientifiche sull’audience (per una sintesi, cfr. De
Blasio, Gili, Hibberd, Sorice 2007), che
hanno messo in luce l’“attività” del ricevente, cioè il suo ruolo attivo nel processo di decodifica, selettività, interpretazione e coinvolgimento, a riprova della capacità del ricevente di difendersi e “proteggersi” da messaggi dissonanti e potenzialmente pericolosi (“e allora di che
preoccuparsi?”). Un’ultima costante
obiezione – già rivolta al principio di precauzione nel suo ambito di applicazione
originario – è che questo principio possa
nascondere intenzioni censorie e di controllo istituzionale là sugli scienziati/ricercatori, qua sui giornalisti e i professionisti dei media.
Queste obiezioni possono avere una
qualche legittimità solo se si intende il
principio di precauzione come una questione eminentemente giuridica, di controllo del lavoro di chi opera nei media da
parte delle istituzioni pubbliche e del potere politico per prevenire e sanzionare
abusi e violazioni. Tra l’altro la complessità della materia e l’impalpabilità del suo
oggetto – significati, simboli, immagini,
etc. – rende molte volte improponibile
qualsiasi vero controllo o sanzione dall’esterno (a parte i casi più eclatanti e manifesti di violazione).
In effetti, soprattutto nel campo della
comunicazione e dei media il principio
di precauzione non può “oggettivarsi”
solo in una serie di prescrizioni e norme
giuridiche, ma deve diventare una occasione per elevare la riflessività complessiva del sistema delle comunicazioni di
massa attraverso una maggiore assunzione di responsabilità da parte di tutti i
suoi diversi attori.
Essa dunque riguarda senza dubbio
in primo luogo i professionisti della comunicazione, cioè tutti coloro che in vari ruoli e funzioni concorrono alla produzione e alla diffusione dei messaggi e
dei testi mediali: giornalisti, responsabili di palinsesto, autori, registi, produttori cinematografici, discografici, televisivi. Senza dubbio vi sono logiche e vincoli interni e strutturali del sistema dei
media che hanno a che fare con il suo
carattere di macchina industriale. Le logiche strutturali che incidono sulla produzione dei contenuti possono essere
riassunte nell’idea che tutta la TV in Italia è essenzialmente mossa e motivata
dalla finalità del massimizzare l’audience che Jader Jacobelli definiva “il peccato originale della televisione italiana”.
Ma ciò che vediamo nei media e in TV
non è solo il prodotto di meccanismi e
logiche strutturali, in larga parte economiche. Tali logiche da sole non spiegano i contenuti, dal momento che questi passano e si attualizzano attraverso le
scelte concrete di chi fa televisione o cinema, produce musica o libri. In tal senso aveva ragione Popper (1994, per un
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approfondimento, cfr. anche Rotunno
2002) quando diceva che i professionisti della comunicazione hanno una responsabilità su ciò che dicono e scrivono, e sulle sue conseguenze, non molto
diversa da quella degli insegnanti. Assumere il principio di precauzione nel loro lavoro non significa però solo riflettere sulle proprie scelte in fase di realizzazione dei prodotti mediali, ma “ascoltare” maggiormente le esigenze del
pubblico e realizzare nuove forme di
partnership anche attraverso le forme associative del pubblico stesso. In questo
caso è del tutto evidente che la “vigilanza” sulla qualità dei prodotti mediali e la
prevenzione degli abusi debba essere affidata in primo luogo alla autoregolamentazione e alla vigilanza delle diverse
categorie di operatori dei media che, in
tal modo, difendono e promuovono la
propria credibilità presso il pubblico, e
solo in seconda battuta alle istituzioni
pubbliche di controllo. Infatti è un problema di credibilità interna, prima che
di controllo dall’esterno.
Ma se il principio di precauzione implica una maggiore capacità autoriflessiva
da parte dei professionisti dei media,
chiamati ad esercitare una responsabilità
personale e di categoria senza nascondersi dietro le “logiche del sistema” o il
“così fan tutti”, esso coinvolge nello stesso modo gli altri attori. E ciò non per una
“nobile” finalità sovrimposta ai loro “interessi” concreti, ma precisamente come risposta realistica ai propri “interessi” nella
comunicazione. Così coinvolge gli investitori pubblicitari che, come principali finanziatori del sistema dei media, tanto
peso hanno nell’influenzare gli orientamenti della programmazione e che certo
non si avvantaggiano dall’associazione
dei loro prodotti a contenuti violenti, offensivi o volgari. Coinvolge le istituzioni
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formative e scolastiche che devono trovare una loro diversa “collocazione” in un
contesto socio-culturale saturato di media nel quale è messa radicalmente in discussione la loro funzione socializzatrice
ed educativa. Coinvolge le famiglie che
devono diventare più capaci di vigilare
sull’esposizione mediale dei figli, ma anche di interloquire attivamente con chi
questi contenuti produce, anche attraverso le loro forme organizzate quali soggetti della società civile.
Insomma, il principio di precauzione
è questione – sempre più urgente – di
una nuova “cultura” della comunicazione
in tempi in cui la comunicazione è sempre più “artiglieria pesante” (per usare
una vecchia espressione di Eco), ma anche dimensione essenziale del nostro ambiente e modo di vita.
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Note
1 Per ciò che riguarda la responsabilità nella comunicazione interculturale, a cui non si
farà direttamente riferimento in questo saggio, rinvio a Monceri 2004; Giaccardi 2005;
Donati 2008.
2 Si veda a questo proposito il numero monografico su Responsabilità nelle etiche applicate,
della rivista “Teoria”, XXIV/2004, n.1.
3 Sul concetto di “relazione sociale” utilizzato nel presente saggio, rinvio a Donati
2006, 2009.
4 Sul concetto di “familiarità”, cfr. Parsons
1969 e Luhmann 1988, 2000.
5 Per una analisi della credibilità come concetto sociologico, cfr. Gili 2005 e, in forma più
sintetica, Gili 2007a.
6 In realtà, come hanno mostrato Berger e
Luckmann (1966), riprendendo categorie di
Schutz, anche nelle relazioni faccia a faccia,
soprattutto con persone relativamente estranee, produciamo delle tipizzazioni, cioè tendiamo ad inquadrarle dentro categorie generali precostituite (uno studente, un inglese,
etc.), ma tale processo è sempre in certo modo
sfidato dalla concreta interazione con l’altro
che “si impone” con la sua irriducibile individualità e alterità (non uno studente, ma “quello” studente così e così).
7 Nell’ambito della comunicazione di massa possono essere ricondotte in vario modo a
questa prospettiva le cosiddette “teorie del
dialogo”. Per una efficace presentazione e valutazione critica in termini filosofici rinvio ad
A. Fabris 2006 e, in prospettiva sociologica, a
Sorice 2009.
8 A questo proposito Kotler e Caslione in
un recentissimo lavoro dal titolo emblematico,
Chaotics (2009), sostengono la tesi che l’attuale situazione di turbolenza indotta dalla globalizzazione e dalla per vasività delle nuove tecnologie non sia una emergenza o una fase
transitoria, ma il nuovo contesto nel quale sono chiamate/costrette ad operare le aziende e
i “sistemi-paese”.
9 Questo aspetto è richiamato come essenziale in molti studi sulla comunicazione pubblica. Si
vedano, ad esempio: Faccioli 2000; Ducci 2001;
Solito 2004.
10 Per una rassegna degli studi sugli effetti della violenza nei media, cfr. anche: Paik, Comstock,
1994; Barker, Petley 1997; Anderson, Bushman,
2002; Gunter, Harrison, Wykes 2003.
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Per un’etica della
comunicazione oggi
di Adriano Fabris
1. I paradossi della comunicazione e il
bisogno di etica
Di un’etica della comunicazione abbiamo oggi davvero bisogno. Oggi, a
maggior ragione: in un contesto nel quale l’invadenza dei flussi comunicativi appare sempre più consapevolmente ricercata e sempre più, di fatto, senza controllo. Si tratta di una condizione che trova
sviluppo su diversi piani, che si delinea in
varie forme e che assume sovente tratti
paradossali. Ecco ciò che dobbiamo, almeno inizialmente, cercar di chiarire.
Viviamo infatti in una situazione di
overdose comunicativa. Sia nella misura
in cui siamo virtualmente esposti a una
crescente quantità di flussi d’informazione, sia perché, in questo quadro, non è facile selezionare la notizia che cerchiamo,
isolandola dalle innumerevoli altre correlate. Manca a tutti noi, come fruitori
della comunicazione – ma alle stesse difficoltà sono esposti anche coloro che, in
varie forme, della comunicazione si occupano per professione – la capacità di
orientarci, di operare una selezione, di
trovare un senso nei confronti di meccanismi che siamo in grado bensì di assecondare, non già di dominare.
Ecco un aspetto del paradosso al quale accennavo. Siamo noi i soggetti dell’attività comunicativa. Possiamo utilizzarla e
addirittura manipolarla per scopi che ne
fanno uno strumento al servizio d’interessi particolari. E tuttavia le dinamiche
della comunicazione seguono una logica
che non può essere controllata dai singoli individui, e neppure da gruppi più o
meno organizzati. Le conseguenze di un
certo uso dell’agire comunicativo – pensiamo ad esempio al mestiere del giornalista o a quello del comunicatore pubblicitario – vanno infatti oltre le intenzioni
di chi le produce. Non per questo, però,
colui che mette in opera certe dinamiche
è sgravato dalle proprie responsabilità.
Anzi: egli è responsabile, come avrò mo-
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do di approfondire più oltre, non solo di
ciò che propriamente ha voluto, ma anche di quanto ha provocato magari senza
intenzione.
Rispetto a ciò lo stesso silenzio non
può essere considerato una valida alternativa. Non ci è concesso, infatti, neppure di star zitti: tanto meno oggi. Perché
anche il silenzio è eloquente. E, nel brusio di una comunicazione ininterrotta
non può che essere interpretato, esso
stesso, come un modo di comunicare.
Siamo dunque per molti versi disarmati. Siamo indifesi, perché incapaci di
controllare le regole del gioco. Non possiamo farlo, non possiamo farlo fino in
fondo, sia quando queste regole le conosciamo, sia quando non le conosciamo.
L’ultimo caso, a ben vedere, è il più frequente. Per lo più, infatti, sul versante comunicativo ci troviamo a essere sotto molti aspetti quasi degli analfabeti.
Parlando di “analfabetismo comunicativo” non intendo riferirmi alla più o
meno ampia capacità di conoscere e di saper utilizzare determinati strumenti o
programmi, peraltro in costante evoluzione: dal telefonino all’iPhone, dal pc da
tavolo al laptop con connessione WiFi,
dall’ultima versione di Windows ai più sofisticati programmi di videografica. Alludo invece alla nostra capacità di comprendere il senso dei processi in cui viviamo, di capirne le potenzialità e i limiti,
d’intendere che cosa essi presuppongono, per fare i conti con essi e per potercene, in certa misura, distaccare. In una
parola: ciò che soprattutto manca, oggi, è
la programmatica assunzione di un atteggiamento critico nei confronti dei processi
comunicativi e delle relative tecnologie.
Con l’espressione “atteggiamento critico”, d’altra parte, non intendo auspicare che, nei confronti dei processi in questione, venga assunta un’ottica pregiudi-
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zialmente negativa, di rigetto. Sarebbe
inutile e velleitario. Mi riferisco invece alla possibilità, da tenere sempre aperta, di
una valutazione obbiettiva e distaccata
della situazione comunicativa in cui viviamo e dei suoi presupposti. Il tutto può essere favorito da una semplice domanda,
una domanda etica: quella che si chiede,
nei confronti di certe azioni, che cosa “ci
sta sotto”. Detto altrimenti: che cosa propriamente orienta e motiva i nostri comportamenti.
Abbiamo bisogno dunque di cambiare sguardo. Così, forse, possiamo
esorcizzare quel disagio – un disagio
crescente – che avvertiamo rispetto alla
collocazione specifica e al ruolo che
possiamo avere nel contesto globale dei
processi di comunicazione. In conseguenza di ciò, certamente, siamo in grado di far valere l’esigenza di una regolamentazione dello spazio comunicativo,
nelle forme e nei modi in cui essa è possibile. Possiamo aprire altre possibilità,
come ad esempio quelle per cui la persona capace di comunicare non viene
considerata semplicemente un target,
un bersaglio preso di mira in un meccanismo di mera trasmissione delle informazioni. Possiamo, in una parola, salvaguardare uno spazio di libertà per
chiunque si esprima nelle diverse forme
del comunicare: anche la libertà che si
manifesta nel desiderio di comunicare
altrimenti, seguendo modalità diverse
da quelle dominanti.
Grazie a tale mutamento di sguardo,
richiesto dalla situazione comunicativa
in cui viviamo e dai suoi problemi, maturano le questioni di cui si occupa l’etica della comunicazione. È a partire da
qui che può essere avvertito il bisogno
di sviluppare questa disciplina. Ma che
cos’è, più precisamente, l’etica della comunicazione?
2. Lineamenti di un’etica della comunicazione
Possiamo tentare, preliminarmente,
una definizione dell’etica della comunicazione. Possiamo cercar di cogliere gli
aspetti specifici di questa disciplina nell’ambito delle altre etiche applicate. L’etica della comunicazione è la disciplina che individua, approfondisce e giustifica quelle nozioni morali e quei principî di comportamento
che sono all’opera nell’agire comunicativo, e
che motiva all’assunzione dei comportamenti
da essa stabiliti.
Si tratta, come si vede, di una definizione che cerca di andare oltre un approccio meramente deontologico alle
questioni comunicative, pur tenendo
conto di tale impostazione e, soprattutto,
dell’istanza di concretezza da cui essa è
caratterizzata. L’approccio deontologico,
infatti, non può surrogare l’etica della comunicazione, né risolvere in maniera valida le questioni che essa è chiamata ad affrontare. Giacché il modo in cui opera la
deontologia è appunto quello che fa riferimento all’individuazione di specifici
doveri e agli strumenti giuridici delle regole e dei codici. Ma non è possibile risolvere solo per questa via questioni che
risultano specificamente etiche: che riguardano cioè, come viene detto nella
definizione proposta, la giustificazione di
determinati criteri di comportamento e
la motivazione a farli propri.
L’etica, invece, considera le istanze descrittive e motivazionali che animano in
generale l’indagine sui comportamenti
umani: in questo caso i comportamenti
che riguardano l’ambito comunicativo.
Essi fanno riferimento a principî che consentono di distinguere, anche per quanto riguarda l’atto di comunicazione, ciò
che è bene e ciò che è male, e dunque di
orientarlo a seguito di specifiche scelte.
Bisogna allora aver chiaro che cosa significa, in concreto, comunicare bene o male; che cosa vuol dire “buona” o “cattiva”
comunicazione. Tanto più che, nella storia del pensiero, queste nozioni hanno
sovente cambiato di significato.
Ecco perché può essere utile indicare, almeno schematicamente, i diversi
modi in cui nel passato sono stati precisati e studiati i criteri in base a cui una
comunicazione può essere definita
“buona” o meno. Possiamo individuare
quattro modelli di etica della comunicazione, ai quali è possibile poi aggiungerne un quinto, sebbene esso sia diversamente caratterizzato. Si tratta di paradigmi che si collegano non solamente a
particolari concezioni di ciò che s’intende come “bene” in ambito comunicativo, ma anche a una determinata
idea di come si configura l’atto stesso
del comunicare.
Essi sono: il modello che fa riferimento alla natura comunicativa dell’essere umano – quella per cui, fin da Aristotele, essa è definita in relazione alla
capacità umana di condurre un discorso (logos) – e che intende il bene nella
comunicazione a partire da una fedeltà
a questa particolare natura; il modello
che privilegia, fra le diverse modalità comunicative, quella del dialogo, e che
considera dunque buona comunicazione anzitutto quella che si svolge secondo un tale specifico andamento; il modello che si ricollega ai criteri della retorica antica e che considera buona comunicazione quella che tiene anzitutto
conto dell’audience, quella cioè che va
incontro ai propri interlocutori per essere compresa da essi; il modello che vede nel criterio dell’utilità, intesa come
utilità personale oppure come utilità
pubblica, la condizione di qualsiasi buona comunicazione.
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Ad essi è opportuno poi aggiungere
un’ulteriore prospettiva, che potremmo
più correttamente chiamare di etica nella
comunicazione. Mi riferisco alla teoria
elaborata da Karl-Otto Apel e da Jürgen
Habermas della comunità comunicativa
ideale. A prescindere dalle differenze fra
i due autori nello sviluppo di tale concezione, sia Apel che Habermas sono convinti che all’interno dell’ambito comunicativo, e più precisamente nell’esercizio
stesso della comunicazione, sono già all’opera principî morali ben precisi. Il che
significa che, proprio in quanto siamo di
fatto coinvolti in un processo comunicativo, tutti noi dimostriamo di far parte appunto di una comunità ideale, la “comunità della comunicazione”, e ci troviamo
a condividere e praticare, in relazione ad
essa, i criteri morali che ne consentono il
funzionamento. Questi criteri sono, nella
versione che ne fornisce Apel, le norme
fondamentali della giustizia, della solidarietà e della co-responsabilità.
Non posso soffermarmi, qui, ad
analizzare nei dettagli tali approcci, né
discuterne pregi e limiti. Desidero
piuttosto approfondire un aspetto al
quale ho già accennato. Meglio: ribadire una funzione che l’etica della comunicazione, nel contesto odierno, è
in grado di assolvere. Mi riferisco alla
possibilità che questa disciplina si configuri davvero come una critica delle forme standard del comunicare.
Che cosa voglio dire con quest’espressione? Facciamo un esempio.
Prendiamo un qualsiasi manuale di semiotica o di linguistica. In essi, per lo
più, viene inizialmente esposta una ben
precisa concezione del comunicare, che
poi è precisata e approfondita, senza
però intaccarne la struttura di fondo. Si
tratta dell’idea per cui comunicare significa trasmettere un messaggio o
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un’informazione da un emittente a un
ricevente (o destinatario).
A prescindere dagli adattamenti e
dalle articolazioni possibili a cui questa
definizione può andare incontro, l’idea
di fondo comunque non muta: comunicare significa trasmettere. Questa è la cosiddetta “tesi standard” della comunicazione. Bene. Nella prospettiva di un’etica della comunicazione come critica del
comunicare dobbiamo ora domandarci: che cosa sta alla base di questa concezione? Per esprimerci di nuovo in maniera prosaica: che cosa “ci sta sotto”?
Per rispondere a questa domanda
non intendo ricostruire lo sfondo storico, peraltro recente, in cui è maturata
ed è stata enunciata la “tesi standard”.
Né voglio soffermarmi sulle esemplificazioni possibili di quest’idea del comunicare, fra le quali oggi s’impone soprattutto, quale sua effettiva e quotidiana incarnazione, l’esperienza della comunicazione pubblicitaria. M’interessa
piuttosto mettere in luce, nella prospettiva di un’etica della comunicazione come critica del comunicare, i presupposti di fondo che stanno alla base
di questa concezione: i principî a partire da cui, al suo interno, è inteso il “comunicare bene”.
Tali principî sono quelli che si riferiscono soprattutto al rendimento di un
determinato processo, all’efficacia di
una certa azione, all’efficienza di uno
specifico sistema. Fare buona comunicazione significa allora trasmettere in
maniera efficace, ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo, eliminare
tutto ciò che provoca rallentamenti, disturbi, ridondanze, ambiguità. Il criterio che emerge, dunque, è soprattutto
un criterio economico. Ed esso ben si
sposa con i compiti che sono chiamate
ad assolvere, per esempio, l’informatica
e l’ingegneria delle telecomunicazioni.
Ecco la tesi che, su di un piano teorico, risulta oggi predominante. E ciò non
è privo di conseguenze anche su di un
versante etico. Se “comunicare bene” significa infatti comunicare in maniera efficiente ed efficace, allora è il paradigma
dell’utilità quello che viene privilegiato. Di
conseguenza sembrano scontati anche
gli altri elementi che sono impliciti nella
tesi standard: il carattere unidirezionale
della dinamica comunicativa nel rapporto tra emittente e ricevente, la tendenziale riduzione del comunicare a un passaggio d’informazioni, la fissazione e l’isolamento degli strumenti della comunicazione – nonché del canale, del codice e
del contesto comunicativo – rispetto all’interazione vissuta di coloro che concretamente comunicano. La bontà di un
processo comunicativo è perciò ricondotta, in definitiva, all’adeguato funzionamento di un sistema.
Ebbene: l’etica della comunicazione
come critica del comunicare ci consente
proprio di mettere in questione questi
presupposti dati come ovvi. Ci permette,
anzi, di aprirci a un’altra e più fondamentale idea del comunicare: un’idea
meno unilaterale di quella espressa dalla
tesi standard e maggiormente capace di
salvaguardare motivazioni di tale atto diverse da quella puramente economica.
Possiamo avvicinarci a siffatta concezione
rifacendoci all’etimo della parola stessa
‘comunicazione’, quale è comune alla
maggior parte delle lingue europee. Il
termine, infatti, deriva al latino ‘communicatio’ e indica in generale il “mettere a
parte”, il “far partecipe” altri di ciò che si
possiede. È operante in tale nozione una
particolare metafora, quella della “partecipazione”, che non a caso si ripresenta
nella lingua tedesca (dove il vocabolo
‘Mitteilung’, che ha altra etimologia, ri-
manda però alla stessa area semantica).
‘Communico’ significa infatti “mettere in
comune”, “creare uno spazio comune”:
in un evidente collegamento fra questo
verbo, il sostantivo communio e l’aggettivo
communis.
Già con questo riferimento etimologico vengono messi in discussione i capisaldi della tesi standard: l’unidirezionalità
della relazione comunicativa, l’idea che il
feedback è da considerarsi successivo all’impulso prodotto e conseguente ad esso, la meccanicità ripetitiva che caratterizzerebbe il processo di comunicazione secondo una tale idea. Di più. Possiamo ora
accorgerci di una confusione di fondo in
cui la concezione standard finisce per cadere: la confusione fra comunicare e
informare. ‘Informare’ significa effettivamente trasmettere contenuti, recapitare
messaggi. E questo, certo, può anche essere uno dei caratteri che sono propri della comunicazione. Ma nel suo ambito avviene qualcosa di ulteriore, che pure viene richiesto dagli stessi processi d’informazione: si verifica un vero e proprio
coinvolgimento, si realizza un legame che
va al di là del mero scambio di notizie.
È necessario allora ridefinire il concetto stesso di ‘comunicazione’ in una
prospettiva più ampia. Da questo punto
di vista, comunicare significa dischiudere uno
spazio comune di relazione fra interlocutori.
Una tale concezione sta al fondo anche
della “tesi standard”, se sottoposta al vaglio di uno sguardo critico. Più ancora:
consente di superare non solo la povertà
e schematicità di questa tesi, ma anche
l’opzione tacita per la concezione etica –
modellata su di un paradigma utilitaristico – che ne è alla base. E permette, infine, di prendere le distanze, se lo vogliamo, da alcune ricadute concrete, caratteristiche della situazione nella quale viviamo.
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3. Verso una pratica della comunicazione
buona
Tuttavia, per realizzare concretamente una comunicazione buona (il che non
s’identifica necessariamente con una
buona comunicazione), è necessario rendere effettivi i principî generali che l’etica della comunicazione individua e giustifica. È necessario non tanto applicarli
alle dimensioni particolari di una vita –
sia quella di coloro che non sono comunicatori professionisti, sia quella di chi fa
della comunicazione il proprio specifico
lavoro – quanto viverli realmente, giorno
per giorno. E fare in modo che anche gli
interlocutori di tali processi eticamente
orientati siano indotti a comportarsi in
maniera analoga.
A questo scopo una riflessione sulla responsabilità del nostro agire – concepito
non solo in generale, ma nei suoi specifici risvolti comunicativi – diventa prioritaria. Appare soprattutto decisivo rendersi
conto dei vari livelli in cui questa responsabilità è in gioco. Non c’è infatti solo la
responsabilità nei confronti delle conseguenze delle nostre azioni, ma c’è anche
una responsabilità ben precisa che mi
coinvolge riguardo ai criteri e ai principî
generali che orientano il mio comportamento. Non c’è, in altri termini, un essere responsabili come rispondere di qualcosa o qualcuno; c’è un essere responsabili
come rispondere a: a chi mi chiede di comportarmi in un certo modo; a qualcosa
che mi sollecita e coinvolge.
Insieme, poi, c’è la persuasione, crescente, che non tutto quello a cui diamo
vita con le nostre azioni è da noi voluto e
programmato. Tanto più nell’ambito di
una comunicazione globalizzata, quale
quella che caratterizza il mondo in cui viviamo. Ne abbiamo accennato in precedenza. E dunque l’atteggiamento etico
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che viene richiesto da una tale situazione
è quello che ci spinge ad assumere non
solo la responsabilità di ciò che direttamente procede dal nostro agire, ma anche di ciò che da esso deriva indirettamente: la responsabilità che ci coinvolge
nei confronti di qualcosa di cui pure, propriamente, non siamo stati causa. L’assunzione della responsabilità di ciò di cui
non siamo immediatamente responsabili
è il modo in cui, in ultima analisi, possiamo esercitare concretamente il nostro
agire morale nel mondo. In una forma
paradossale, forse. Ma certo inevitabilmente. Posto che vogliamo considerarci,
ancora e comunque, soggetti morali.
Tutto questo, però, resta ancora troppo astratto. Per essere davvero propositivi è necessario identificare e approfondire un ulteriore livello, che si colloca fra
l’ambito ancora generale dell’etica della
comunicazione e quello fin troppo specifico dei precetti stabiliti dai codici
deontologici. Si tratta di un livello intermedio: concernente temi (come la società dello spettacolo, il rapporto fra comunicazione e interpretazione, la condizione della credibilità, l’istanza del rispetto) che non sono esplicitamente affrontati da tali codici e che, rispetto ad essi, rimangono sullo sfondo. Si tratta altresì di situazioni apparentemente neutre dal punto di vista morale, di scenari di
riferimento che non sembrano dover richiedere una valutazione. E tuttavia essi
incidono fortemente sul nostro modo di
comunicare, sulle possibilità e sui limiti
del suo esercizio, e sollecitano prese di
posizione ben precise.
Per indicare tali situazioni voglio
esprimermi sotto forma di tesi. Ciascuna di esse fa riferimento a problemi specifici, che rappresentano un vero e proprio banco di prova per quella comunicazione buona che l’etica,
tanto più oggi, richiede. Cinque, soprattutto, sono gli aspetti che mi preme qui evidenziare.
1. La comunicazione non è spettacolo. Quindi non è opportuno confondere comunicazione, informazione
e spettacolo. Il farlo può anche non
contrastare, propriamente, con criteri in senso stretto etici o deontologici, ma trasforma certamente l’attività comunicativa in qualcosa di diverso, rischiando di snaturarne la
specificità e l’autonomia.
2. La comunicazione non è indifferente nei confronti della verità. Affermare infatti che la comunicazione non
è spettacolo comporta l’intenzione
di distinguere fra l’ambito della
realtà e la dimensione dell’apparenza. Il che vuol dire, più precisamente: implica la decisione di non rinunciare all’istanza di verità che è insita
in ogni attività comunicativa. Si pensi per esempio al contesto dell’informazione. Certo: ciò che viene comunicato è sempre frutto di convinzioni, prospettive, letture personali. Ma
c’è una grande differenza fra l’interpretazione delle fonti e la manipolazione o la falsificazione delle notizie.
Compito di chiunque comunichi, insomma, resta l’approssimarsi alla verità. Il bisogno d’interpretare non
comporta una rinuncia all’esercizio
dell’onestà intellettuale. Perciò
dev’essere sempre possibile dar ragione pubblicamente dei criteri che
sovrintendono a quell’interpretazione che inevitabilmente è insita nell’atto comunicativo. In sintesi: il riferimento a un’ideologia o a una credenza di fondo non sono mai, quando si comunica, giustificazioni valide
per legittimare operazioni volte a
confondere o a dissimulare.
3. L’esercizio della comunicazione implica ben precise responsabilità. Chiunque
comunichi, infatti, è responsabile di
quello che dice. Lo è nella misura in
cui, nella sua attività comunicativa, è
chiamato al rispetto delle cose che dice, delle persone alle quali si rivolge,
di se stesso come colui che prende l’iniziativa di comunicare e che nel comunicare si espone. Un tale rispetto,
triplicemente articolato, è ciò che
concorre a definire la credibilità di chi
comunica.
4. La comunicazione deve risultare credibile. La credibilità, infatti, è condizione generale del funzionamento dei
processi comunicativi. È la condizione
per cui è possibile dare fiducia ad altri.
E con riferimento ad essa, parimenti,
è possibile avere la fiducia degli altri.
Senza credibilità, senza fiducia, non è
infatti possibile costruire quello spazio comune che la comunicazione, come abbiamo visto, originariamente
crea e mantiene.
5. Bisogna imparare a comunicare eticamente. Infatti, tutto ciò di cui abbiamo finora parlato è qualcosa che va
appreso. Va appreso andando oltre la
mera acquisizione di tecniche, pur efficaci, di comunicazione, o l’ottenimento di una competenza nell’uso di
particolari strumenti comunicativi. Si
tratta, come dicevo, di comprendere
lo sfondo, il senso, per cui facciamo
quello che facciamo. Proprio nel mentre comunichiamo. Altrimenti un
analfabetismo ancora più grave di
quello riguardante le competenze comunicative – parlo dell’analfabetismo
morale – rischia di prendere il sopravvento nelle nostre relazioni con gli altri, col mondo, con noi stessi. E questo, nel contesto contemporaneo, è
certamente l’esito più pericoloso.
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Etica della comunicazione
o dell’argomentazione?
di Virginio Marzocchi
Sotto la comune denominazione Diskursethik (etica del discorso), coniata a
tutta prima da Jürgen Habermas1, è stata avanzata una influente prospettiva,
già in vero tracciata in precedenza nelle
sue linee di fondo da Karl-Otto Apel2, la
quale individua nell’impiego comunicativo delle lingue (naturali) il radicamento di una validamente giustificabile
e correggibile regolazione normativa
delle interazioni sociali (e quindi anche
delle azioni individuali)3.
Muovendomi tra filosofia della scienza, filosofia del linguaggio (qui sorta di
filosofia prima, in sostituzione del paradigma della moderna filosofia della coscienza), filosofia sociale e morale, cercherò di mostrare quale precipua difesa
e declinazione del linguistic turn novecentesco consenta di attribuire alla comunicazione (di cui l’argomentazione
è una specifica modalità) un ruolo così
rilevante e fondamentale.
La Diskursethik viene avanzata dap-
prima in prosecuzione della Konsenstheorie der Wahrheit (teoria della verità
come consenso)4, sviluppata a sua volta
nel quadro del dibattito, predominante
allora in Germania e non solo, condotto in ambito di teoria della scienza e vertente in particolare sullo statuto di un
gruppo di saperi o scienze, quelle «sociali» o «umane» (ad es. antropologia,
psicologia, psicoanalisi, ma soprattutto
la sociologia, anche in quanto rifondata
in chiave “sistemica” da Niklas Luhmann): di più recente formazione rispetto alle moderne «scienze della natura» (fisica, chimica, biologia) e a quelle classiche «dello spirito» (ad es. storiografia, diritto, filologia), ma sempre
più accademicamente riconosciuta, incidente nell’autocomprensione della
società civile e politicamente influente.
In tale dibattito sia Habermas sia Apel
prendono posizione innanzitutto contro lo “scientismo” (ovvero la riduzione
dei metodi di tutte le scienze al model-
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lo di quello delle scienze della natura)
ma anche contro l’“ermeneuticismo”,
che risulterà sempre più influente a partire da una più ampia recezione (al di là
dei confini della Germania) di Martin
Heidegger attraverso l’opera di HansGeorg Gadamer, ma in seguito attraverso la diffusione del II Wittgenstein anche tra le fila di epistemologi e storici
della scienza di ascendenza popperiana
(ad es. Paul Feyerabend o Thomas
Kuhn), oltre che di “analitici” convertiti (ad es. Richard Rorty). La posizione
che Habermas e Apel sosterranno consiste essenzialmente in una reciproca irriducibilità tra Erklären (spiegare/spiegazione, osservativa, causale in base a
leggi, compiuta dal teorico a riguardo
degli oggetti della scienza) e Verstehen
(comprendere/comprensione tramite
intesa reciproca su pretese di sensatezza, ottenibile solo in forza di un almeno
virtuale scambio linguistico tra il teorico
e gli oggetti della ricerca, che si configurano in tal modo, a differenza degli
oggetti “naturali”, quali co-soggetti dotati di una propria auto-comprensione
da riattingere); anzi, secondo Apel, tale
rapporto è definibile propriamente in
termini di complementarità, in quanto
Erklären (così come determinazione
causale) e Verstehen (così come libertà)
si richiederebbero l’un l’altro, ma l’impiego dell’uno risulterebbe incompatibile con l’impiego dell’altro a riguardo
di uno stesso fenomeno5. Ciò conduce a
una tripartizione metodologica e al
tempo stesso oggettuale del sapere
scientifico. Quelle matematiche e della
natura vengono riunite sotto il comune
titolo di scienze «empirico-analitiche» o
anche «nomologico-deduttive» (matematiche e scienze della natura), rette
dall’Erklären causale a riguardo dei loro
oggetti e volte al controllo tecnico degli
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stessi. Mentre le scienze dell’uomo risulterebbero: o «ermeneutiche» (come
le filologie), rette dal Verstehen e volte al
riattingimento dell’autocomprensione
rinvenibile nel loro ambito oggettuale;
o «critico-ricostruttive» (come in particolare le scienze della società), le quali,
in ragione dell’incongruenza riscontrabile tra esplicita autocomprensione sviluppata dai soggetti, costituenti l’ambito oggettuale di ricerca, e i comportamenti effettivamente riscontrabili (ovvero in ragione del darsi del fenomeno
della «falsa coscienza»), sospendono
momentaneamente il Verstehen nei confronti del proprio campo di ricerca, per
sostituirlo tramite l’Erklären in forza di
categorie avanzate dal teorico, la cui
corroborazione richiede però la almeno virtuale accettazione da parte dei
soggetti, oggetti della ricerca, al fine di
per venire a una (per loro stessi) più
adeguata e soddisfacente autocomprensione6.
La Konsenstheorie der Wahrheit attiene
propriamente la sola componente proposizionale e riguarda tutti e tre i saperi scientifici (fallibili, ma insieme controllabilmente ovvero metodicamente
correggibili) sopra distinti. In estrema
sintesi tale teoria della verità, facendo
proprio il linguistic turn (assunto attraverso una critica recezione e almeno
parziale revisione tanto degli apporti
della corrente ermeneutica tedesca a
partire da K. Wilhelm von Humboldt,
poi radicalizzata da Heidegger, quanto
delle prospettive avanzate da Charles S.
Peirce e dal II Wittgenstein), sostiene
l’ineliminabile momento ipotetico-interpretativo di ogni proposizione o
enunciato d’esperienza, il quale né può
mai venir pienamente riscattato da un
raffronto con i dati, in quanto la assunzione-costituzione dei dati già lo pre-
suppone, né risolto in una formalizzazione meta-linguistica, in quanto l’interpretazione di quest’ultima rinvia a
sua volta a un già funzionante linguaggio naturale in uso. Se poi, dal rapporto
proposizione-mondo (inteso non solo
quale mondo oggettivo degli stati di cose o eventi, ma anche quale mondo storico-sociale delle forme di vita e quale
mondo soggettivo degli stati interiori),
passiamo a considerare il rapporto inferenziale tra proposizioni, possiamo osservare che la capacità di una proposizione di giustificarne o confutarne
un’altra non può essere ridotta alla cogenza logica, laddove l’inferenza è sostanziale e non solo analitica. Di conseguenza risulta impossibile indicare regole, la cui soddisfazione da parte delle
proposizioni o delle catene proposizionali argomentative accerti la validità di
queste ultime. La capacità convalidante
degli argomenti potrà essere definita
non in termini attinenti la loro struttura semantico-sintattica, bensì guardando alla situazione pragmatica o procedura comunicativa, in cui essi vengono
avanzati e selezionati come migliori o
vincenti rispetto alle obiezioni proposte: convalidante sarà l’argomento che
verrebbe riconosciuto migliore in una
discussione argomentativa (Diskurs), in
cui tutti i parlanti hanno uguale diritto
di accesso e simmetrici diritti/doveri di
ascolto e di parola, cioè in una ideale
Sprechsituation («situazione linguistica
ideale», secondo la dizione habermasina) ovvero in una ideale Kommunikationsgemeinschaft («comunità comunicativa
ideale» secondo la dizione apeliana).
Il perseguimento di una conoscenza
del mondo correggibile e intersoggettivamente convalidabile richiederebbe
dunque l’instaurazione di rapporti paritari tra tutti i soggetti dotati di parola,
ma per l’appunto in quanto parlanti-argomentanti ovvero partecipanti a un
handlungsentlasteter Diskurs, cioè a uno
scambio di enunciati, che sospende la
normale interazione comportamentale,
costituita non da soli atti linguistico-comunicativi. Oltre a ciò risulta indispensabile mostrare come i soggetti dotati di
parola, pur muovendo da linguaggi in
uso (ovvero da sistemi costitutivo-interpretativi del mondo) tra loro distanti,
anche in quanto ancorati a forme di vita diverse, possano accedere al comune
orizzonte paritario dell’argomentazione.
È a questo punto che interviene la
recezione e insieme critica trasformazione della teoria degli atti linguistici,
delineata da John R. Searle7 anche sulla
scorta dell’insegnamento di John L. Austin8. Sarà la messa in luce della doppia
struttura performativo-proposizionale
delle enunciazioni, in cui Apel identifica per l’appunto il «logos distintivo del
linguaggio umano»9, a consentire a Habermas di sviluppare la «teoria dell’agire comunicativo» e ad Apel di consolidare la «pragmatica trascendentale».
Ma sarà anche una diversa interpretazione del ruolo svolto dalla componente performativa nella comunicazione
ordinaria del quotidiano mondo della
vita e nel discorso argomentativo a dar
luogo ai primi forti dissensi tra i due
pensatori (oltre che fra i loro rispettivi
allievi), che si accentueranno nel corso
degli anni: dapprima soprattutto in ambito pratico (morale e politico), quindi
anche teoretico10.
Al di là delle differenze e in termini
essenziali, l’interpretazione discorsivista o forse meglio pragmatico-comunicativa sostiene, contro il paradigma semantico-referenziale, orientato in modo esclusivo sulla proposizione, che l’u-
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nità linguistica minima, dotata di significato, non è l’enunciato (o proposizione, Aussage), bensì l’enunciazione (o atto linguistico, Äußerung), in cui l’introduttiva «componente performativa» o
illocutiva (spesso sottaciuta, in quanto
convenzionalmente ovvia, o affidata al
tono della voce, ma comunque sempre
esplicitabile; costituita da un verbo
performativo e pronomi personali; ad
es. «Io asserisco…», «Io ti domando…»,
«Io ti ordino…», «Io ti confesso») indica il modo in cui viene avanzata dal parlante e debba venir assunta (accolta o rifiutata) dall’ascoltatore la successiva
«componente proposizionale» o locutiva (rappresentativa della realtà esternooggettiva, anche comportamentale, o
espressiva della realtà interno-soggettiva; ad es. «…che oggi piove», «…che tu
pulisci le scale», «…che tu mi sei antipatico»).
La giustificazione di detta esplicitazione del significato della componente
performativa, che in pari tempo la rende indispensabile sia al fine di una piena comprensibilità della componente
proposizionale sia al fine della riuscita
della comunicazione, consiste fondamentalmente nel mostrare l’inconsistenza o l’insufficienza di interpretazioni alternative di detta componente11, le
quali, in ultima istanza in prospettiva
“rappresentazionista” (di stati interni o
di eventi/interventi esterni): o la riducono a strumentale espressione di intenzioni soggettive, in modo da indurre
il destinatario a una determinata reazione comportamentale, rispondente
agli scopi dell’enunciante, così come in
modo estremo proporrebbe tra altri H.
Paul Grice12; o la riconducono a condizioni di soddisfazione/realizzazione,
determinate da un certo stato di coscienza del parlante, indicato dal verbo
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performativo, così come proposto in
una più tarda rivisitazione della teoria
degli atti linguistici compiuta dallo stesso Searle13. Nel primo caso l’inconsistenza risiede nel fatto che una tale riduzione non può valere per i performativi impiegati dal teorico stesso nella
esposizione della propria teoria, la quale altrimenti si configurerebbe come un
tentativo di indurre gli altri a credere
che essa sia vera. Nel secondo caso l’insufficienza, che comporta l’incapacità
di non saper offrire una unitaria esplicitazione del significato della componente performativa (sia essa costativa o regolativa/direttiva o espressiva), si mostra nel fatto di non distinguere tra condizioni di soddisfazione/realizzazione e
condizioni di accettabilità o meglio ancora nell’oscurare la dipendenza della
comprensione delle condizioni di realizzazione dalla comprensione delle
condizioni di accettabilità, con cui la
componente performativa avanza la
successiva proposta proposizionale: tale
differenza e dipendenza si rivelano con
particolare evidenza in atti linguistici regolativi (ovvero direttivi, secondo la
classificazione di Searle), laddove, pur
potendo restare apparentemente la
stessa la componente proposizionale e
quindi il corrispondente comportamento richiesto per la realizzazione dell’atto linguistico regolativo/direttivo
(ad es. «…che tu esci dalla stanza»), le
condizioni di realizzazione variano col
mutare delle condizioni di accettabilità
(ad es. l’atto di uscire, come tale, risulta
adeguata realizzazione solo nel caso di
una componente performativa-direttiva
esprimente un comando impositivo o
una minaccia, mentre potrebbe non esserlo nel caso di una componente
performativa-direttiva esprimente un
ordine legittimo, dato che, in questo se-
condo caso, l’atto di uscire si configura
quale adeguata realizzazione, solo se a
esso non ostano e tenendo presenti le
altre regole del sistema normativo, cui
l’ordine si richiama per legittimarsi).
Oltre a comprovarsi per la sua maggiore e complessiva capacità esplicativa
rispetto a concorrenti teorie sugli atti
linguistici, l’intendere la componente
performativa in termini pragmatico-comunicativi di condizioni di accettabilità,
ovvero quale indispensabile indicazione
e specificazione di «come» (cioè come
domanda o affermazione, come ordine
o promessa o preghiera, come manifestazione di un desiderio o di una ripulsa) una proposizione viene avanzata dall’enunciante e proposta all’accoglimento del destinatario all’interno di una interazione linguistica così istaurata, si
raccomanda per la coerenza con la quale essa prosegue e completa una comprensione (sviluppabile soprattutto attraverso la messa a frutto dei pur spesso
sparsi e frammentati contributi apeliani14) del significato dei termini impiegabili nelle proposizioni, la quale: da un
lato, sulle orme del II Wittgenstein, connette internamente la costanza (per lo
stesso parlante) e l’identità (per più
parlanti) del significato ipotetico-inferenziale e insieme ermeneutico-progettuale dei termini concettuali (segni-simbolo nella classificazione di Peirce) con
l’uso pubblico/comunicativo del segno
materiale entro una comunità di parlanti-interagenti; ma, dall’altro, insistendo sulla irriducibilità dei termini
deittici e iconici (segni-indice e segniicona nella classificazione di Peirce),
conserva il momento della referenza
reale o meglio della indispensabilità di
un controllo (comunque sempre solo
parziale, proprio perché abduttivamente mediato) da parte del singolo, trami-
te evidenza percettiva (privata-coscienziale), a riguardo della applicazione/applicabilità dei termini concettuali convenzionalmente stabilizzati nel funzionamento delle comunicazioni-interazioni. Tale approccio implica che non si
diano conoscenze convalidabili e pensieri determinati, se non tramite segni
linguistici, il cui uso è praticato e condiviso da un gruppo di parlanti-interagenti. E, oltre a ciò, comporta che la
realtà, nel suo ritaglio e articolazione,
sia o il risultato di attribuzioni di significati (ancorati a segni materiali), conferiti dai parlanti-interagenti (come nel
caso della realtà esterno-oggettiva di stati di cose o eventi ovvero nel caso delle
scienze empirico-analitiche della natura) o internamente costituita in se stessa da significati (come nel caso delle
pratiche e forme di vita, oltre che della
dimensione interno-soggettiva di sentimenti e intenti, ovvero nel caso delle
scienze dell’uomo): in entrambi i casi
comunque si tratta di significati sia concettuali e generali sia socialmente prodotti e condivisi.
Su questo sfondo di teoria del significato, l’esplicitazione della componente performativa in termini di indicazione, semanticamente assicurata, delle
condizioni di accettabilità della componente proposizionale, ovvero del come
quest’ultima vada accolta o rifiutata dal
destinatario, non solo comprova ulteriormente il fatto che la lingua naturale
sia l’ultima meta-lingua, ma permette di
asserire che una lingua naturale è sempre in pari tempo meta-lingua di se stessa, consentendo la ridiscussione e correzione non solo della corretta applicazione dei condivisi significati in uso, ma
della stessa determinazione e ridefinizione dei significati convenzionalmente
sedimentati e accolti. Ovvero, la com-
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ponente performativa dell’atto linguistico o enunciazione rappresenta un,
sempre presente e ineliminabile, livello
riflessivo o anche meta-proposizionale,
che, instaurando una reversibile relazione parlante-ascoltatore, indica le
condizioni, cioè la prospettiva di accettabilità delle proposizioni e così apre la
possibilità di mettere a tema tali condizioni, esplicitarle, criticarle e rivederle
proposizionalmente, fino al punto di
formulare e motivare contro-proposte.
Detto altrimenti, il linguaggio o meglio
l’impiego comunicativo di proposizioni
in atti linguistici non è destinato a esprimere o rispecchiare un previo consenso, bensì è il medium attraverso cui le
proposizioni vengono specificate e
avanzate attraverso l’indicazione di una
prospettiva di accettabilità, la quale dischiude così la possibilità di una discussione e ridefinizione, linguisticamente
articolata e motivabile, delle proposizione di partenza e dei termini-significati in uso. Per quanto attiene la rielaborazione dei significati, le dimensioni
lungo le quali essa si rende controllabilmente e pubblicamente eseguibile,
sulla scorta della teoria del significato
appena sopra introdotta, sono: la reciproca coerenza/consistenza tra parola
e parola, la capacità delle parole di risultare sintesi adeguate delle esperienze percettive di ciascun singolo e del loro essere in grado di dar luogo a soddisfacenti azioni/interazioni rispetto
alle esigenze degli agenti/interagenti,
così come fissate in posizioni di scopo
solo linguisticamente stabili per il singolo e insieme comprensibili/condivisibili per gli altri.
Tale prospettiva pragmatico-discorsiva sulla comunicazione rappresenta una
decisa rottura con un diffuso modello
della stessa, secondo cui la comunica-
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zione si ridurrebbe a scambio di informazioni proposizionali su (esterni-oggettivi) stati di cose o eventi e (internisoggettivi) stati mentali (emozioni, intenti o desideri), in modo che esse verrebbero accettate o rifiutate, ovvero
messe a frutto al fine dell’azione/interazione, allorché ciascuno per suo conto le ritiene: affidabili o inaffidabili sulla scorta delle proprie credenze; e convergenti o divergenti con le proprie preferenze. Qui è invece la riflessiva componente performativa a fungere da
meccanismo di coordinazione: le proposte proposizionali vengono accettate
o rifiutate non in base a private considerazioni, bensì in ragione di condizioni ovvero di dimensioni di controllabile
accoglimento, linguisticamente espresse, che, se condivise dal destinatario, ne
motivano l’assenso, mentre, se respinte
dal destinatario, richiedono che l’enunciante le mostri soddisfatte tramite una
prosecuzione argomentativa della sua
iniziale proposta proposizionale, cioè
tramite una catena proposizionale adducibile a sostegno della prima (introdotta ad es. da «perché», «giacché»,
«dato che»; e a sua volta problematizzabile sullo stesso piano dal destinatario).
In tal modo, da insieme di giochi linguistici, resi monadici dal fattuale e convenzionale intreccio tra uso del segno,
articolazione del mondo e prassi comportamentale, i cui giocatori sono per
così dire giocati da esso, o da storica lingua-madre, quale evento (Ereignis) che
si appropria dell’unico possibile accesso
al mondo per i suoi parlanti, il linguaggio si trasforma in medium sì costitutivo, ma insieme pubblicamente e controllabilmente (sulla scorta di ragioni
linguisticamente adducibili) rivedibile
o meglio correggibile da parte dei parlanti, i quali, da suoi semplici utilizzato-
ri, applicatori, se ne fanno consapevoli
e intelligenti co-autori, al fine di raggiungere sia una consensuale interpretazione delle situazioni (da ognuno ripercorribile) sia una determinazione di
fini ugualmente condivisi dagli interagenti (ciò in cui consiste in fondo, secondo la formula coniata da Habermas,
l’«agire comunicativo»). Il linguaggio è
qui quella sfera-chiave, con cui, attraverso le sue costanti generalizzazioni e
tipizzazioni (concetti), i parlanti-conoscenti-interagenti, impiegandole in processi di sintesi ermeneutico-inferenziali,
ritagliano, determinano e costituiscono
il mondo, sicché non si dà mai un coglimento o un incontro affatto privato-immediato con stati di cose o gli altri o le
preferenze proprie, in modo tale che
anche l’agire strategico-strumentale del
singolo si rivela sempre dipendente da
prestazioni o sintesi interpretative, linguisticamente suggerite ovvero socialmente/collettivamente approntate; tuttavia lo stesso linguaggio, in forza della
sua doppia struttura performativo-proposizionale, tiene costantemente aperta
la possibilità di una rivisitazione pubblico-argomentativa dei significati convenzionalmente in uso e delle loro applicazioni attraverso la possibile contestazione o l’innovativo contributo di ciascun
parlante-conoscente-interagente. Inoltre le componenti performative, pur
differentemente modalizzate e convenzionalmente declinate da lingua a lingua, con le loro condizioni di accettabilità e il loro riferimento alle diverse dimensioni del mondo, rappresentano
una via di accesso alla comprensione e
commensurabilità delle diverse lingue,
configurando tale accesso non come
quello di un osservatore bensì di un almeno virtuale partecipante: l’estraneo,
per cessare di esserlo, assume l’inter-
scambiabile attivo e passivo ruolo di
enunciante e ascoltatore, ovvero di proferitore di proprie enunciazioni accettabili dagli altri parlanti competenti e di
destinatario di altrui enunciazioni accettabili per lui. Infine tale concezione
della comunicazione istaura una continuità di fondo tra comunicazione quotidiana e impresa scientifica, soprattutto
in ambito di scienze umane.
Tale concezione pragmatico-discorsiva del linguaggio e della comunicazione risulta cogente o almeno altamente
plausibile, se considerata dal punto di
vista di una autoconsistente teoria generale o meglio filosofia del linguaggio,
la quale cioè non neghi, più o meno
esplicitamente, le proprie condizioni
possibilitanti (secondo la via riflessiva e
«dall’alto» prospettata da Apel), ma si
rivela altamente idealizzante, oltre che
razionalmente/normativamente non
vincolante, se ottenuta tramite una «ricostruzione razionale» empiricamente
sostenuta (come vor rebbe Habermas15), anche nel caso in cui si ammetta che possono darsi circoscritti ambiti
della società (come ad es. l’economia)
non comunicativamente ma sistemicamente regolati, ovvero in forza di specifici media generalizzati (ad es. il denaro), i quali sostituiscono l’intesa linguistica ottenibile in forza dell’avanzamento ed eventuale giustificazione di condizioni di accettabilità.
Non solo Haber mas, anche per
quanto attiene la comunicazione ordinaria (cioè del quotidiano «mondo della vita»), ritraduce quelle che ho sopra
chiamato «condizioni di accettabilità»
(indicanti il «come» del possibile accoglimento o rifiuto da parte del destinatario) in «pretese di validità» (che garantirebbero il «perché» dell’adesione
richiesta al destinatario), ma oscura due
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fenomeni ricorrenti e spesso prevalenti
entro la comunicazione ordinaria, rilevanti proprio perché solo comunicativamente conseguibili.
Se è pur vero che ogni atto linguistico, anche di comando, implica un ineliminabile momento di reversibilità nell’assunzione del ruolo di enunciante e
destinatario, almeno a livello di reciproca comprensione tra co-parlanti e agenti consapevoli; tuttavia tale reversibilità
può non svilupparsi in reciproca parità,
come tra proponente e opponente in
una comunicazione pienamente argomentativa ovvero in una ideale Sprechsituation o Kommunikationsgemeinschaft.
L’enunciante può infatti motivare l’adesione del destinatario: o tramite la (più
o meno esplicita) prospettazione di
conseguenze che il primo è in grado di
produrre in forza della comunicazione
e quindi della coordinazione con altri
dal destinatario (comunicazione ristretta);
o tramite l’avanzamento di condizioni
di accettabilità, cui il destinatario aderisce in ragione di un sapere diffusamente accettato, ma incontrollabile dal destinatario stesso e da lui incriticabile (sia
sotto l’urgenza di prender parte all’interazione sia sotto il pericolo di venirne
escluso) tramite l’elaborazione di consistenti alternative o contro-proposte (comunicazione bloccata). Ciò che qui manca, al di là della parità, è: soprattutto nel
caso della comunicazione ristretta, la
coincidenza tra enuncianti/proponenti
e coinvolti/interagenti; e, soprattutto
nel caso della comunicazione bloccata,
la necessità per l’enunciante di ricorrere a una ulteriore catena proposizionale, a giustificazione del suo enunciato.
Per ottenere indicazioni normativamente vincolanti ovvero la meta-norma
formal-procedurale della Diskursethik
(che qui formulo nel modo seguente: ri-
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cercare, in tutti i casi di conflitto che investano gli interessi o le esigenze di altri, un consenso con essi tramite la conduzione di un discorso pratico, che approssimi la situazione comunicativa
ideale, a sua volta caratterizzata dal fatto di essere aperta a tutti i coinvolti, paritaria e cooperativa), non è sufficiente
(e può anzi risultare sviante, in quanto
conduce a una affermativa idealizzazione dell’esistente) puntare, come fa Habermas, sulla prosecuzione o piena
esplicazione o messa in atto di potenziali di razionalità (comunicativa), già
tutti iscritti nella quotidiana comunicazione del mondo della vita, i quali verrebbero a liberarsi soprattutto allorché,
come nella “nostra” modernità, essi non
risultano più bloccati da «garanzie metasociali», quale ad es. l’autorità insieme
inquestionabile e irresistibile del sacro.
Ovvero, il passaggio dalla comunicazione ordinaria all’argomentazione non si
configura come una semplice continuazione dei potenziali di controllabilità,
convalidabilità, riflessività, rilevabili nella comunicazione ordinaria, ma insieme come una correzione razionalmente/normativamente richiesta di quest’ultima, che è l’argomentazione stessa
a suggerire e pretendere. Infatti, i limiti
o blocchi, da me sopra evidenziati entro
la comunicazione ordinaria, risultano
qualificabili come tali, come difetti (nonostante la loro capacità di assicurare
consenso senza ricorso alla violenza),
solo in quanto abbiamo guardato alle
prestazioni conseguibili attraverso tale
forma di comunicazione da una prospettiva già filosofico-argomentativa, costruita in risposta alla interrogazione radicale e riflessiva circa la convalidabilità
dei nostri pensieri/conoscenze, una
volta che il linguaggio comunicativamente in uso è stato indicato quale me-
dium inaggirabile di pensieri/conoscenze concettualmente determinati e
ricontrollabili.
Inoltre è solo una adeguata e autoconsistente teoria del significato, offerta in risposta alla interrogazione di
cui sopra, che consente di individuare
i criteri o prospettive che i contributi
proposizionali dei partecipanti al discorso pratico hanno da seguire, affinché il consenso risulti qualificato e
non solo fattuale. Tali criteri, riassumibili sotto i tre titoli della sincerità/autenticità nella progettazione delle posizioni di scopo, della reciprocità nella
soddisfazione delle pur varie esigenze
adeguatamente interpretate e della loro compossibile realizzabilità in considerazione delle risorse (soggettive e
oggettive) e dei mezzi di intervento disponibili, risultano plurimi (nessuno
preso per sé è dirimente) e insieme richiedentisi a vicenda (la soddisfazione
dell’uno presuppone una almeno parziale soddisfazione degli altri), ma proprio per questo reciprocamente ponderabili solo in un pubblico discorso,
mai solitariamente conducibile.
Infine, visto da questa prospettiva, il
consenso si traduce propriamente in
un’idea critico-regolativa: in base alla
quale il fattuale consenso delle maggioranze o minoranze dominanti può
esser sempre rimesso in discussione; e
in forza della quale il dissenso, pur tenuto ad articolarsi propositivamente e
a mantenersi aperto alle altrui controargomentazioni, può prender voce e
articolarsi. L’obiettivo è quello di un
consenso tale da mettere a frutto, nei
suoi fallibili risultati, anche gli apporti
dei dissenzienti e tale da mantenersi
criticabile, correggibile attraverso futuri e imprevedibili dissensi o nuove conoscenze e posizioni di scopo.
Note
1 Cfr. J. HABERMAS, «Diskursethik – Notizen zu
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1985, pp. 49-202).
2 Cfr. K. O. APEL, «Das Apriori der Kommunikationsgemeinschaft und die Grundlagen der
Ethik. Zum Problem einer rationalen Begründung
der Ethik im Zeitalter der Wissenschaft», in Id.,
Transformation der Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1973, vol. 2, pp. 358-435 (tr. it. «L’Apriori
della comunità della comunicazione e i fondamenti dell’etica. Il problema d’una fondazione razionale dell’etica nell’epoca della scienza», in Id., Comunità e comunicazione, Rosenberg & Sellier, Torino
1977, pp. 205-268).
3 Per una complessiva e critica ricostruzione
dell’etica del discorso v.: N. Gottschalk, Diskursethik,
Akademie-Verlag, Berlin 2000; V. Marzocchi, Ragione come discorso pubblico. La trasformazione della filosofia di K.-O. Apel, Liguori, Napoli 2001, cap. 3.
4 Cfr. J. HABERMAS, «Wahrheitstheorien» (1973),
rist. in Id., Vorstudien und Ergänzungen zur Theorie des
kommunikativen Handelns, Suhrkamp, Frankfurt/M.
1984, pp. 127-183 (tr. it. parz. e molto imperfetta in
Id., Agire comunicativo e logica delle scienze sociali, il Mulino, Bologna 1980, pp. 319-343); tale saggio rappresenta un punto di svolta nella riflessione di Habermas, che condurrà poi alla grande opera di teoria della società, Theorie des kommunikativen Handelns, 2 voll., Suhrkamp, Frankfurt/M. 1981 (tr. it.
Teoria dell’agire comunicativo, 2 voll., il Mulino, Bologna 1986). Per una versione più matura della Konsenstheorie der Wahrheit cfr. K.-O. Apel, «Fallibilismus,
Konsenstheorie der Wahrheit und Letztbegründung», in Forum für Philosophie Bad Homburg
(cur.), Philosophie und Begründung, Suhrkamp,
Frankfurt/M. 1987, pp. 116-212 (tr. it. «Fallibilismo,
teoria della verità come consenso e fondazione ultima», in K.-O. Apel, Discorso, verità, responsabilità (introduz. e cura di V. Marzocchi), Guerini e Associati,
Milano 1997, pp. 65-168).
5 Cfr. K. O. APEL, Die Erklären:Verstehen-Kontroverse in transzendentalpragmatischer Sicht, Suhrkamp,
Frankfurt/M. 1979 (tr. in. Understanding and Explanation. A Transcendental-Pragmatic Perspective, MIT
Press, Cambridge/Mass. 1984).
6 Cfr. J. H ABERMAS , Erkenntnis und Interesse
(1968), Suhrkamp, Frankfurt/M. 1973, rist. con
nuovo «Nachwort» (tr. it. Conoscenza e interesse, La-
Nuova Civiltà delle Macchine 3/2009
61
terza, Bari - Roma 1973); ma anche Id., Theorie des
kommunikativen Handelns, cit., cap. 1.
7 Cfr. J. R. SEARLE, Speech Acts. An Essay in the Philosophy of Language, Cambridge University Press,
London 1969 (tr. it. Atti linguistici. Saggio di filosofia
del linguaggio, Boringhieri, Torino 1976).
8 Cfr. J. L. AUSTIN, How to do Things with Words.
The William James Lectures delivered in Harvard University in 1955, cur. J.O. Urmson, The Clarendon
Press, Oxford 1962 (tr. it. Come fare cose con le parole,
Marietti, Genova 1987).
9 Cfr. K. O. APEL, «Die Logosauszeichnung der
menschlichen Sprache. Die philosophische
Tragweite der Sprechakttheorie», in H.-G. Bosshardt (cur.), Perspektiven auf Sprache. Interdisziplinäre Beiträge zum Gedenken an Hans Hörmann, de Gruyter, Berlin - New York 1986, pp. 45-87 (tr. it. Il logos
distintivo della lingua umana, Guida, Napoli 1989).
10 Per le critiche di Apel a Habermas cfr. gli ultimi tre saggi contenuti in Apel, Discorso, verità, responsabilità, cit., pp. 189 sgg. Per una netta presa di
distanza di Habermas dall’approccio apeliano, anche a seguito di un complessivo riaggiustamento
della propria posizione, cfr. J. Habermas, Wahrheit
und Rechtfer tigung. Philosophische Aufsätze,
Suhrkamp, Frankfurt/M. 1999.
11 Per tali critiche confutazioni cfr. K.-O. Apel,
«Intentions, Conventions, and Reference to
Karl Otto Apel e Jürgen Habermas
Nuova Civiltà delle Macchine 3/2009
62
Things: Dimensions of Understanding Meaning in
Hermeneutics and in Analytic Philosophy of Language», in H. Parret, J. Bouveresse (curr.), Meaning
and Understanding, de Gruyter, Berlin - New York
1981, pp. 79-111; Id., «Ist Intentionalität fundamentaler als sprachliche Bedeutung? Transzendentalpragmatische Argumente gegen Searles
Rückkehr zum semantischen Intentionalismus der
Bewußtseinsphilosophie» (1990), rist. in Id., Auseinandersetzungen in Erprobung des transzendentalpragmatischen Ansatzes, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1998,
pp. 413-457; Habermas, Theorie des kommunikativen
Handelns, cit., vol. 1, pp. 397-410.
12 Cfr. a titolo di esempio H.P. Grice, «Utterer’s
Meaning and Intention», in The Philosophical Review, vol. 78 (1969), pp. 147-177.
13 Cfr. J. R. SEARLE, Intentionality. An Essay in the
Philosophy of Mind, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1983 (tr. it. Dell’intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza, Bompiani, Milano 1985).
14 Per un tentativo di coerente e complessiva
esecuzione del linguistic turn in chiave pragmaticocomunicativa e insieme di controllabile correggibilità intersoggettiva mi permetto di rinviare a V. Marzocchi, Le ragioni dei diritti umani, Liguori, Napoli
2004, cap. II.1.
15 HABERMAS, Theorie des kommunikativen Handelns cit., vol. 1, pp. 199-200.
Elementi per un
discorso sull’etica
di Valerio Meattini
1. Possiamo pensare ad una prassi
comune in cui si costituisca un’intesa
su ciò che sia ugualmente bene per tutti e che non poggi sulla pretesa di far valere un’istanza di bene preventivamente assunta?
Una simile prassi assumerebbe, come
ha rilevato Tugendhat1, un carattere essenzialmente comunicativo poiché gli individui si fanno reciprocamente, scambievolmente presente che proprio il mutuo
interesse implica l’accordo su una prassi
sancita da norme e comporta che devono
essere ammesse solo norme la cui validità
sia ugualmente bene per tutti. Escludendo ogni preventivo riferimento a qualsiasi
norma sociale, e a fortiori ad ogni verità superiore che pretenda imporsi in forza di
un’intuizione o rivelazione, si è escluso
che la situazione di partenza di qualcuno
degli interessati poggi su riferimenti privilegiati, dando avvio ad un processo di conciliazioni e accordi costituito di necessità
di norme simmetriche.
Tugendhat ha qualificato – lo ricordo
di passaggio – la sua proposta come una
“morale minima” che avrebbe il merito di
rendere visibile infine la situazione interumana originaria. Il ragionamento è
condotto come segue: da un punto di vista storico la morale minima è uno sviluppo tardo, non fosse altro per la sua dipendenza dalla critica dell’Illuminismo caratterizzata dal fatto che tutte le verità superiori perdono la loro forza persuasiva intersoggettiva; questo venir dopo, però,
non relativizza la sua pretesa di fondazione, anzi, proprio dopo l’abbandono, e soltanto dopo l’abbandono di tutte le convinzioni provinciali relative a verità superiori, si fa chiaro che l’interazione originaria fra uomini, se ovviamente si esclude
il ricorso alla violenza, è quella di un processo di comunicazione – potenzialmente
universale – in cui pariteticamente ognuno fa presente, di fronte ad ogni altro, che
l’altro, come egli stesso, ha motivo di assoggettarsi a una norma, se egli stesso lo
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63
fa. In tal caso non si tratta di fondare
un’asserzione, non viene fondata alcuna
pretesa di verità; ma una prassi comune e
un volere comune hanno avvio e realizzazione in un processo di fondazione che è
comunicativo e in cui devono necessariamente accettarsi norme simmetriche.
Si potrebbe obiettare a questa posizione del problema la riedizione, già tante
volte criticata, del mito di una situazione
originaria e forse anche l’inesplicata assunzione di ‘soggetti morali’, ma non è
questo adesso il mio interesse. Oltretutto
l’autore è ben consapevole che anche la
sua concezione della morale non è senza
presupposti e che il merito di essa non è
di contrapporsi come fondata in sé alle altre che sarebbero fondate relativamente,
ma semplicemente quello di poggiare su
premesse più deboli. Mi interessa invece riflettere su di una dimensione della comunicazione che, se viene infine elaborata
nel linguaggio discorsivo-concettuale, ha
però rispetto ad esso un margine di autonomia e già sempre una precedenza. Mi riferisco alla costitutiva relazionalità dell’essere umano in ogni fase del suo sviluppo2.
S’avvista in tal caso sia una dipendenza da
altri che implica un processo di elaborazione di autonomia e riconoscimento paritetico, e sia una dipendenza dalla scoperta progressiva della propria costituzione etica, che ci s’impone e ci sorprende
anche in rapporto ai nostri progetti di vita. Qui, da un lato, l’individuo viene pensato come immediata appartenenza ad
una specie in quella che è la sua dipendenza primaria, senza i cui vincoli e legami e cure non sopravviverebbe e, d’altro
lato, come potenzialmente in grado di
una emancipazione progressiva in base ad
una progettualità che richiede sia il discorso e la concettualizzazione e sia il superamento di una ipostatizzazione di quel
processo di astrazione.
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64
In questa prospettiva la ragionevolezza e la persuasività della morale minima sopra indicata costituisce solo una
tappa dell’apertura all’etico. Il suo punto di forza è dato dal processo d’interazione delle richieste senza che possa essere invocato un riferimento arbitrale
indipendente da questa volontà d’intendersi. E sul piano di un’etica del discorso essa ha non solo valore, ma anche il vantaggio di lasciare che nel discorso emergano le ragioni che impegnano e non che il discorso, la sua natura comunicativa, sia già per questo appartenente alla fondazione morale. Il ritorno all’impegno socratico-platonico
di far uso del discorso per lasciar emergere ciò che il discorso deve riconoscere è senz’altro prima e oltre ogni ingenua fiducia nel dialogo. Su questo punto non posso vedere niente di nuovo rispetto a quel che mi ha già persuaso in
passato3. C’è invece uno sfondo ulteriore nella dimensione dell’etico su cui mi
pare giusto riflettere.
Arthur Schopenhauer
2. È noto il ritorno di Horkheimer a
Schopenhauer come a colui che ha dato la giustificazione più profonda della
morale senza entrare in conflitto con la
conoscenza esatta e senza ricorrere al
sovrannaturale4. Schopenhauer ha giustificato filosoficamente l’amore per il
prossimo, anzi per la creatura, senza
neanche sfiorare le problematiche affermazioni e prescrizioni delle confessioni religiose socialmente condizionate. Nelle pagine riguardanti Schopenhauer, nell’opera tradotta col titolo
di Studi di filosofia della società, Horkheimer insiste sui punti di forza del filosofo
che ha spezzato la tradizione dell’idealismo tedesco (ed europeo in genere) divinizzante il mondo in sé e ha smascherato le sublimazioni mistificatrici della
dottrina che pretende il bene supremo
presente nell’eternità dell’essenza e manifestantesi nei diversi fenomeni dell’esistenza. E se è vero che, proiettando nel
trascendente la nullità dell’individuo,
egli ha spento la debole speranza di
Kant in un oltre la trama della pura fenomenicità, è del pari vero che di Kant
ha conser vato l’eredità preziosa che
non solo l’azione degli uomini dipende
dalla verità, ma la verità stessa dipende
a sua volta dall’azione degli uomini.
Nell’epoca e nelle società che progressivamente volgono verso un verdetto d’insignificanza dell’individuo – mi
sia permesso di pensare con Horkheimer –, di ogni individuo, nel pensiero di
Schopenhauer si trova un riscatto e una
redenzione, perché egli ha portato a riconoscere la nullità dell’individuo ben
oltre il suo asservimento alle esigenze
della ragione tecnico-strumentale che
può annodare i suoi raccordi solo nella
rappresentazione. Proprio il riconoscimento su di un altro piano – quello dell’appartenenza di tutti all’identità di
fondo della realtà – della nullità dell’individuo, porta ad innestare, sul tipico
terreno della manifestazione delle individualità separate, gli atteggiamenti
(suggeriti dal riconoscimento dell’identità liberante dall’egoismo) di compassione, di partecipazione alla gioia altrui
e l’aspirazione ad una realtà diversa da
quella esistente. Questi motivi antagonisti della strumentalità della ragione e
delle sue strategie di vantaggio unilaterale possono essere ulteriormente declinati, nella prospettiva resa ancora più
inquieta dalle forze ora operanti, come
orrore delle ingiustizie passate e presenti e come antidoto di fronte all’insignificanza del futuro, nella volontà purificata di diffondere la solidarietà, di alleviare le sofferenze degli uomini e nella pietà verso ciò che merita di essere
conservato.
Qui, per ricordare ancora il punto
fondamentale, il tentativo della filosofia
moderna di conciliare la giustizia trascendente (come altre idee religiose)
con il riconoscimento incondizionato
della scienza non viene minimamente
intaccato. Solo che, la prospettiva agonistica nei confronti di come è il mondo
– Schopenhauer si è sempre rifiutato “di
tributare alla realtà una collocazione
sullo sfondo dorato dell’eternità” – genera una propensione irriducibile ad
apporsi al fatto che gli individui vengano risolti nel mero dato statistico e che
nelle modalità del puro calcolo l’ingiustizia e il male perdano la connotazione
di una lancinante e intollerabile presenza. Se la propensione scientifica divenisse l’unica prospettiva della mente
umana non ci sarebbe spazio che per il
più nero pessimismo, mentre è proprio
il pessimismo teorico di Schopenhauer
che può attivare quelle risorse di lotta e
di resistenza che possono essere risve-
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65
gliate quando non si creda più al risultato automatico dello svilupparsi di una
razionalità eterna, intrinseca alla storia
stessa. Questa filosofia della resistenza è
uno dei grandi contributi di Schopenhauer per una apertura all’etico.
3. Dicevo, dunque, di uno sfondo ulteriore rispetto ad una morale che non
vuole più fondarsi su di un riferimento
asserito, ma impegnarsi in una fondazione per l’adesione, in vista di una partecipazione ad una prassi intersoggettiva. Né Tugendhat, né Schlick (che non
poco deve a Schopenhauer in campo
etico)5 hanno evitato la questione: perché voler essere morali?6 Non è infatti
cosa secondaria che si voglia essere morali, anzi è uno dei presupposti (credo)
di quella morale minima proposta da
Tugendhat. Le risposte di Schlick e di
Tugendhat in tal caso convergono e in
sintesi possono essere formulate così:
perché l’essere morali è sorgente di una
vita più ricca e più capace di felicità7. Ed
è una risposta perfettamente in linea
con il pensiero di Schopenhauer che se
certamente non è un predicatore di felicità, è però alla ricerca di una via d’uscita dalla reiterazione dell’egoismo e
dell’infelicità che ad esso si congiunge.
Quella filosofia della resistenza di
cui sopra si è detto è incentrata sulla
difesa degli individui come unica
realtà, attenta al loro decorso vitale,
mentre i popoli e gli Stati sono mere
astrazioni, genera e nient’altro. L’attenzione per l’individualità concreta,
iscritta nello sfondo nullificante, può
produrre quella particolare compenetrazione per il comune destino che
è propria di una volontà purificata.
Questa attenzione e la compartecipazione (le “virtù sociali” di Schlick)
non sono, però, un procedimento di
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66
smedesimazione che depaupera e indebolisce, ma l’acquisizione della
precisa consapevolezza che chi punta
sull’egoismo e sui genera (le astrazioni
che costituiscono una trama che avvolge gli individui) è un truffato – per
dirla con Horkheimer.
Si può sostenere che la moralità sia
generata da una pressione oggettiva e
dalle dinamiche interne ad un gruppo umano e che, dunque, non c’è nessun bisogno di cercare una risposta alla domanda che sopra si è posta? Sì, se
si saldano diritto e moralità; allora
però si avrà infine soltanto il diritto e
si sarà corrisposto ad un’accezione ristretta del termine ‘morale’ ed ‘etico’, perché, pur se etimologicamente
l’uno e l’altro rimandino al ‘costume’, il loro impiego comporta e ormai suppone una spontaneità e un’originalità di atteggiamento nello stare
al mondo che il diritto non richiede
né indaga, bastando in tal caso l’ossequio alle leggi.
Semmai l’obiezione nei confronti
della ricerca di questo sfondo ulteriore potrebbe trovarsi proprio nelle pagine di Tugendhat, laddove, proponendo la morale minima, che è tale
proprio perché non fa ricorso che alle istanze concrete avanzate dagli individui che entrano in relazione, e
della cui richiesta di bene(essere)
ogni altro deve tener conto, ricorda
che individui o comunità parziali possono ugualmente continuare a credere nelle loro verità superiori, perché
se esse non possono essere fondate
non possono nemmeno essere confutate; tuttavia, il punto fondamentale
rimane che il senso del procedimento
di fondazione pare assumere un carattere essenzialmente, intrinsecamente comunicativo (e non asserto-
rio di una qualche verità superiore).
Non sarebbe allora la ricerca di uno
sfondo ulteriore il risultato di una incomprensione della proposta o, comunque, un’aggiunta superflua perché già concessa, in sede d’arricchimento individuale, da Tugendhat?
Il rischio d’incomprensione o di
superfluità lo si corre senz’altro, ma
c’è una considerazione che mi ha indotto a sfidarlo. Verso la fine del paragrafo “Morale e comunicazione”8, Tugendhat – e lo abbiamo già ricordato
– specifica che la concezione morale
che è il risultato del processo comunicativo in questione e che porta ad assumere come criterio d’orientamento
il predicato di fondazione “ugualmente buono (bene) per tutti” non è senza presupposti (anche se il suo vantaggio rimane quello di poggiare su
premesse più deboli)9. Quel che ora mi
domando è se non sia proprio quello
sfondo la controparte in ombra del
processo di fondazione di una morale
il cui carattere sia “essenzialmente, intrinsecamente comunicativo”, o, più
precisamente, se non possa esserlo.
“Perché io voglia essere morale” è
u n a d o m a n d a c h e , s i è v i s t o , Tu gendhat si fa 10 ; e la risposta – che
sembrerebbe soddisfacente – coinvolge, si è detto, la felicità. Io non
contesto questa risposta. Sostengo
che la domanda può portarci un po’
oltre, oppure condurre ad una specificazione ulteriore della risposta e
quindi a ciò cui si allude con ‘felicità’,
non invocando però una verità di ordine superiore, un comandamento,
un imperativo o una rivelazione, ma
alludendo semmai ad uno svelamento.
C’è un’osservazione nel Mondo che
suona: «al momento di morire ci renderemo conto di come una mera illu-
sione abbia limitato la nostra esistenza
alla nostra persona»11. In effetti, si può
riassumere in questa frase quanto di
Schopenhauer – tramite anche
Horkheimer – abbiamo commentato
in precedenza. È questa forse una verità superiore (giacché è evidente che
non è né un comandamento né un imperativo)? Ne dubito, se il significato
di “verità superiore” è quello che Tugendhat intende, collegato a quell’Illuminismo per cui «tutte le verità superiori perd[o]no la loro forza persuasiva intersoggettiva»12. Il senso della frase è piuttosto un altro. Intanto,
non è formulata con un ‘tutti’ si accorgeranno che…, ma, sebbene il verbo sia all’indicativo, come un poter avvedersi che una mera illusione ha limitato la nostra esistenza alla nostra persona. Schopenhauer indica, a mio ve-
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67
dere, il fondo comune di appartenenza, la comune radice degli uomini e
una potenziale e più veritiera felicità
perduta per la chiusura che ci ha costretti nello stretto involucro della nostra corporeità. Allude ad un riconoscimento degli altri (coinvolti come
noi nella radice del mondo e come noi
asserragliati però nell’egoità) che probabilmente non c’è stato, ma che, se ci
fosse stato, avrebbe allargato e intensificato la nostra vita. Suggerisce che potremmo accorgerci di aver cercato nella direzione opposta quel che abbiamo
inseguito per tutta la vita.
Sì, forse questa è una verità superiore, ma non di quelle contestate da
Tugendhat, se coinvolte nel processo
di fondazione comunicativo della morale. Non si vuole portare alcuno dalla propria parte, non si vuol convincere nessuno del valore di verità di qualcosa, ragionando come fa Schopenhauer. Si è semplicemente assorti
in una possibilità che improvvisamente, se compresa e accolta, ci libera dalle pareti del nostro corpo, attenua la
forza dell’egoismo. Se qualche presupposto la proposta di Tugendhat
deve avere (e si ammette che ce l’ha)
perché non potrebbe essere proprio
questo legame debole con l’essere un
individuo l’altra faccia delle premesse
deboli su cui poggia la morale che risulta dal processo comunicativo?
Ciò a cui Schopenhauer richiama
non può avere nessun valore di verità
fondante e quindi non può insidiare la
fondazione di un’etica su premesse deboli. È semmai una voce da lontano che
invita tutti i viventi umani a tra-vedere, a
tra-passare con lo sguardo della grande
vita la vita individuale che vuol consistere ossessivamente in sé, ma che in verità
non è mai stata senza gli altri.
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68
Note
1
Problemi di etica, Einaudi, Torino 1987.
Si può vedere al riguardo V. Meattini, Filosoficamente abita l’uomo. Etica e conoscenza, G. Laterza, Bari 2005 e Natura umana, scetticismo e valori, G.
Laterza, Bari 2009.
3 Cfr., V. MEATTINI, L’orizzonte etico e politico di
Platone, Vigo Cursi, Pisa 1984.
4 Studi di filosofia della società, Einaudi, Torino
1981, pp. 165-78.
5 Cfr., M. SCHLICK, Problemi di etica e aforismi (a
cura di Anna Ioly Piussi), Pàtron, Bologna 1970.
6 E. TUGENDHAT, Problemi di etica, cit., p. 34.
7 Per come si debba configurare la nostra concezione della moralità (se deve includere la felicità), e se vera sia soltanto una concezione della felicità che comprenda la moralità, rimando alle
due opere citate nelle nn. 3, 4.
8 Cfr., Problemi di etica, cit., pp. 83-101.
9 Ivi, p. 99.
10 Ivi, p. 34.
11 A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e
rappresentazione (a cura di A. Vigliani, introd. di G.
Vattimo), Mondadori, Milano 199, pp. 1124-5.
12 Ivi, p. 97.
2
Linguaggio, azione,
comunicazione:
una questione etica
di Daniella Iannotta
«La scienza del linguaggio assume la
comunicazione come fatto primitivo di
cui essa determina le componenti, i fattori e le funzioni. Ed essa ha ragione a tenere la comunicazione per data: è un fatto che i messaggi circolano; il malinteso
stesso è un accidente di percorso nello
scambio che, in una maniera o nell’altra,
ha luogo. La comunicazione è per tal verso il fatto primitivo a partire dal quale esiste qualcosa come una scienza»1. In una
suggestiva raccolta di saggi del 1994, Paul
Ricœur analizza il suddetto “fatto” rilevando, innanzitutto, la differenza che separa una scienza della comunicazione da
una riflessione di stampo filosofico. Se,
pertanto, nell’ottica del linguista la comunicazione è «il dato a partire dal quale la sua scienza diviene possibile», per il
filosofo c’è un problema-comunicazione che
si configura «mediante il gesto trascendentale che sospende il carattere completamente naturale – nel senso di dato
scontato – e naturalista – nel senso fisica-
lista – della comunicazione»2. Nella filosofia, insomma, tutto diventa enigmatico
nella misura in cui ci si interroga sull’uso
e sul senso di parole e proposizioni. Così, se prendiamo la definizione di Jakobson per cui un mittente invia un messaggio
al destinatario secondo delle regole – ed è l’assunto di base della teoria della comunicazione – risulterà problematica, nella
prospettiva ricœuriana, la «costituzione
in diadi, in coppia, degli interlocutori, in
breve la loro alterità»3. I parlanti, che in
una disciplina semiotica, sono semplicemente i poli di riferimento di un sistema
di segni dato, da un punto di vista filosofico non possono non essere considerati
nella loro individualità globale, esistenziale, corporeo-emozionale, in breve nel
loro concreto essere-nel-mondo. Le parentesi, che la linguistica pone sul parlante in quanto soggetto vivente, sulla
realtà e sulla dimensione intersoggettiva,
non possono più essere mantenute in sede filosofica, dove al contrario vige l’a-
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69
pertura del linguaggio all’essere. Che qualcuno dica qualcosa implica, infatti, che ci
sia un locutore, il quale elabora un messaggio; che la dica a qualcuno su qualche
cosa implica che ci siano un interlocutore e un mondo a cui si fa riferimento; che
il discorso sia sottoposto a regole implica
che la significazione passi attraverso una
struttura e non una presa intuitiva del
mondo, inevitabilmente solipsistica. Allora, che un mittente invii un messaggio
al destinatario, non soltanto implica delle “funzioni” correlate che tale scambio
consentano, ma anche il superamento di
una distanza enigmatica, che va al di là
del possesso di un codice comune di riferimento. Se, cioè, rompiamo «ogni
rappresentazione quasi fisica del messaggio, della sua codifica e della sua decodifica, ci formiamo con Leibniz e Husserl
l’idea di due monadi, ossia di due serie di
eventi psichici, tali che nessun evento
dell’una possa appartenere anche all’altra; la diade richiesta dalla costituzione è
costituita come diade allorché le due serie di eventi vengono comprese come insiemi privi d’intersezioni, in breve, come
delle serie chiuse»4. In questo modo, noi
poniamo un problema “comunicazione”
– “enigma”, “meraviglia” dice Ricœur –
nella misura in cui siamo chiamati a riflettere sull’idea della possibilità di superare una incomunicabilità tra le monadi:
«la comunicazione diviene un paradosso
per la riflessione, paradosso che l’esperienza quotidiana e il linguaggio ordinario dissimulano, che la scienza delle comunicazioni non riconosce; il paradosso
sta nel fatto che la comunicazione è una
trasgressione, nel senso proprio di superamento di un limite, o meglio di una distanza in un certo senso insuperabile»5.
Abbiamo voluto dare inizio alla nostra riflessione con queste suggestioni di
Ricœur poiché ci sembra che esse pon-
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70
gano un problema cruciale quanto alla
destinazione etica dell’atto comunicativo, problema che emerge non appena si
tolgano le parentesi che la scienza linguistica – intesa nel senso più ampio
possibile – mette su quella “apertura del
linguaggio all’essere” di cui sopra. Evidentemente ciò non significa misconoscere il ruolo delle analisi di linguaggio,
la cui varietà e molteplicità ha determinato nel secolo appena trascorso la cosiddetta “svolta linguistica nel pensiero”, ma precisamente dialettizzare quel
ruolo, squisitamente metodologico,
con un discorso com-prensivo, dove
cioè le implicazioni della “lingua ben
fatta” vengono recuperate al di là del
metodo ma non in alternativa ad esso.
Tenendoci ancora al nostro Maestro,
Paul Ricœur, intendiamo con ciò dire
che non vogliamo fare delle scienze del
linguaggio e della riflessione filosofica i
poli di una alter nativa – come la
diltheyana contrapposizione fra scienze
della natura e scienze dello spirito o anche la gadameriana escludenza del metodo e della verità – bensì i momenti di
un processo dialettico, in cui lo “spiegare di più” punta a un “comprendere meglio”. La ben nota figura del circolo ermeneutico gioca qui a tutto tondo e si
arricchisce in Ricœur se consideriamo
la novità del suddetto inviluppo della
spiegazione e della comprensione, che
vieta di tenersi alla univocità delle due
nozioni grazie alla consapevolezza che
proprio il metodo gioca nelle discipline
linguistiche, che pure rientrano nell’ambito comprensivo delle scienze
umane. Il metodo, pertanto, iure nativo
finalizzato al corretto funzionamento
del sistema, con i suoi risultati getta una
luce sulla comprensione delle modalità
quotidiane, ordinarie, del nostro essere
nel mondo insieme ad altri. In questo
senso sarà possibile, come dicevamo
poc’anzi, articolare lo spiegare e il comprendere in quell’arco ermeneutico in
cui lo “spiegare di più” aiuta a “comprendere meglio”, poiché, diciamo con
Ricœur, si sarà sostituita «all’alternativa
grossolana una dialettica sottile»6. Prendiamo il caso dell’interpretazione di un
testo: qui, la dialettica per la quale spiegare e comprendere non si riassumono
in un “rapporto di esclusione”, gioca in
una articolazione della dimensione epistemologica e di quella ontologica: «Dimensione epistemologica: se esiste un
tale rapporto di implicazione reciproca
tra i metodi, si deve trovare tra scienze
della natura e scienze umane tanto una
continuità quanto una discontinuità,
tanto una affinità quanto una specificità
metodologica. Dimensione ontologica:
se spiegazione e comprensione sono così indissociabilmente legate sul piano
epistemologico, non è più possibile far
corrispondere un dualismo ontico a un
dualismo metodico»7. Ciò equivarrebbe, infatti, a risolvere la verità nella certezza, a legare il “destino della filosofia”
al corretto uso di un metodo. Ci troveremmo così a «credere che la filosofia
sia solidale con una disciplina o con un
fascio di discipline che si sottrarrebbero
al regno universale della scientificità
matematica o sperimentale. Se la filosofia deve sopravvivere, non è suscitando
scismi metodologici. Il suo destino è legato alla capacità di subordinare l’idea
stessa di metodo a una concezione più
fondamentale della nostra relazione di
verità con le cose e con gli esseri»8.
Non vogliamo proseguire oltre su
questo discorso, che abbiamo evocato
allo scopo di rilevare la complessità di
una meditazione sulla comunicazione,
la cui qualità etica vogliamo far emergere tra le pieghe stesse dell’analisi del lin-
guaggio. Ciò vuol dire per noi mettere
l’accento, da una parte, sulla comunicazione in quanto relazione di un parlante e di un interlocutore nel vis-à-vis di
uno scambio “in presenza”; dall’altra,
come dialogo “in assenza”, dunque, in
senso ampio, come comunicazione all’interno del mondo odierno dei media
e delle sue molteplici sfaccettature. Non
vogliamo, dunque, indagare sui meccanismi della comunicazione o sull’analisi
comparativa delle definizioni che se ne
danno in sede squisitamente semiotica,
bensì recuperare la meraviglia del comunicare nel trasgredire una distanza,
e vogliamo farlo attraverso un percorso
all’interno delle discipline di linguaggio. Per questo ci proponiamo di evidenziare non tanto i sistemi linguistici
in quanto tali ma le aperture che essi favoriscono in ordine alla considerazione
di quello che abbiamo chiamato l’essere nel mondo globale dell’uomo.
Quale comunicazione?
Nel variegato e complesso mondo
della comunicazione oggi, vorremmo
iniziare prendendo atto che il primitivo
senso, greco-latino, di comunicazione
come mettere in comune, si è venuto via
via “secolarizzando” – come sottolinea
Dario Viganò ne I sentieri della comunicazione – e cioè trasformando all’interno di uno sviluppo storico, che ne ha segnato una “trasmigrazione semantica”.
Prendiamo, ad esempio, una definizione della comunicazione a partire dalla
sua etimologia: la radice del termine
comunicazione «si può far risalire ai
verbi greci koinóō e koinōnéō, che richiamano i concetti di “rendere partecipe”,
“mettere in comune”, “essere coinvolti
o in accordo”. Medesimo significato as-
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sume il termine communico nella cultura latina: anche in questo caso il verbo
indica diverse attività che hanno come
comune denominatore la compartecipazione, la condivisione, la possibilità di
coinvolgere o di avere rapporti con
qualcuno [...]. L’attività comunicativa
presuppone, quindi, come dato essenziale, l’avvio di una relazione, l’instaurarsi di un contatto»9. Ora, il concetto di
comunicazione dall’atto del mettere in
comune, del condividere, del partecipare è venuto allargandosi all’oggetto
stesso del comunicare, al mezzo grazie a
cui si comunica, alla tecnologia contemporanea della comunicazione massmediale. Insomma, si è progressivamente
perduta la dinamica interpersonale dello scambio comunicativo per aprirsi alla considerazione dei mezzi (“strade,
canali, ferrovie”, ricorda Viganò) e delle tecnologie (“industrie della stampa,
del cinema e della televisione”) che allargano i confini di quello scambio stesso. Ma, allora, la “migrazione semantica”, cui abbiamo appena accennato,
«partendo dal senso originario di condivisione, approda ad un uso linguistico
che sottolinea quasi esclusivamente il
significato di trasmettere»10. È chiaro che
la trasformazione corrisponde ad un
cammino della cultura che, se per un
verso accoglie il già là della nostra Tradizione, per l’altro, costruisce del nuovo progettando incessantemente orizzonti ulteriori di vita e di senso.
Opportuno ci sembra, pertanto,
l’approccio di una sociologia della comunicazione, e in proposito vogliamo
citare Morcellini e Fatelli, i quali notano: «Limitare la pertinenza della comunicazione all’atto di “mettere in relazione” poteva [...] essere sufficiente nel
momento in cui la “finitezza” dell’azione comunicativa rendeva significativo
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ed esauriente lo stabilirsi di un contatto.
Oggi non c’è più finis terrae, tutto è stato scoperto e tutte le relazioni sono state stabilite: la posta maggiore dei processi comunicativi non può risiedere
più nell’intensificazione dei contatti (e
nello scioglimento delle contraddizioni
che v’è implicitamente promesso). Il
problema comunicativo per eccellenza
non può più essere il “collegamento” (o
l’allargamento della partecipazione se si
preferisce), diventato improvvisamente
inflazionato e ordinario, bensì la sua articolazione e i suoi esiti – anche esasperando le contraddizioni – soprattutto in un
mondo in cui gli ambiti comunicativi
appaiono sempre di più dominati dalla
neutralità e dalla impersonalità, e comunque dalla generale mancanza di un senso apodittico e predeterminato»11. L’ormai abusato esempio di Internet, dove
costitutive appaiono proprio queste
neutralità e impersonalità, riesce ancora a descrivere bene l’eccesso e la problematicità della comunicazione oggi.
La stessa consapevolezza emerge in
sede semiotica. Come dice Bettetini
«non è facile proporre una definizione
onnicomprensiva, significativa, eloquente e funzionale del termine “comunicazione”». In campo semiotico il
compito appare più facile, dal momento che «le difficoltà sembrerebbero ridursi a un ambito di scelte piuttosto ridotto», ambito in cui ne va di una «sola
pertinenza scientifica» legata alla «organizzazione di un complesso di segni
in un testo e della traduzione del suo
potenziale semantico in un atto di
scambio». Tuttavia, prosegue Bettetini,
«è sufficiente far riferimento alle prospettive offerte da altre discipline, come la psicologia cognitiva, la sociologia
o le teorie dell’informazione, per essere afferrati da una sensazione che po-
trebbe diventare di confusione e quasi
di smarrimento». E ciò dipende dal fatto che, in tal caso, la comunicazione
può «essere definita come un’azione
destinata a modificare il comportamento di uno o più interlocutori. Oppure,
come un’interazione che comporta
modifiche reciproche fra i soggetti che
vi sono coinvolti, ai due estremi dello
scambio. Oppure, come l’atto di scambiarsi informazioni. Oppure, come il
procedimento attraverso il quale un
pensiero può modificarne un altro. Ancora: come un processo di regolazione,
che implica la comprensione di messaggi o l’accostamento di esperienze;
come l’uso concreto, empirico di un insieme di segni; come comprensione degli effetti di una traslazione informativa
e delle reazioni del soggetto ricettore;
come trasmissione di un messaggio che
implica almeno un progetto di interazione...»12. Significativo, l’uso dei puntini al termine del discorso, come a sottolineare che qualcosa sfugge, che nuovi approcci sono possibili.
Proprio in un contesto siffatto, dunque, risulta urgente la domanda fondamentale sul senso della relazione, che comunque caratterizza l’orizzonte della
comunicazione. Infatti, come accennavamo poc’anzi, che si stabilisca un contatto in praesentia – nelle svariate modalità della relazione faccia a faccia – o che
quello si instauri in absentia – nelle varie
forme della testualità fino ai labirinti
della rete – c’è una qualità etica della comunicazione che ci consente di farne
riemergere la profondità vissuta oltre
che la corretta utilizzazione dei codici o
ancora la sofisticata apparecchiatura
strumentale; che ci consente di recuperarne l’ancoraggio di senso che funge,
che rende possibile l’incontro – sia pur
virtuale – lo scambio dei messaggi, la
messa in comune in una sorta di cammino a ritroso dal già là tecnologico alla condizione di possibilità dell’incontro stesso. Insomma, per dirla ancora
con Viganò, «il percorso di secolarizzazione del termine comunicazione indica perfettamente che l’epoca contemporanea vive all’interno di un paradosso: da una parte essa è pervasa dall’ossessione per la comunicazione; dall’altra si scopre destinataria di una eredità
“contaminata”, in cui l’originario luogo
di partecipazione comunitaria al senso
condiviso si è via via trasformato in una
complessa articolazione di strumenti oggettuali, capaci di trasmettere messaggi,
ma inadeguati a ricostruire l’originario
bisogno di condivisione e partecipazione ad
un mondo comune»13. Condivisione e partecipazione che le regole del linguaggio
evidenziano nella misura esatta in cui i
comunicanti si trovano in un mondo da
abitare insieme, nonostante la problematicità di quell’abitare stesso all’interno delle nostre società complesse.
Il cammino di linguaggio
Riprendiamo dunque il discorso sul
linguaggio, per tracciare un breve, e soprattutto parziale, cammino all’interno
delle varie discipline e per mostrare come, ciascuna, non possa rimanere entro
i propri confini che per scelta metodologica, come quindi ciascuna preluda
ad un cambiamento di livello dell’indagine, cui avrà nondimeno fatto da premessa. Possiamo qui prendere un esempio privilegiato, richiamando Umberto
Eco, il quale facendo riferimento alla semiotica strutturale e alla filosofia analitica, mette in evidenza come esse restino nei confini di campi rigorosamente
delimitati, che pur indagando i feno-
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meni segnici, lasciano poi tra parentesi
i soggetti, i messaggi e i contesti della comunicazione in atto. Lo avevamo già visto all’inizio con Ricœur, affrontiamo
ora il discorso dalla parte del semiologo. La semiotica, quale scienza dei segni,
non può configurarsi che come “teoria
dei codici”. Lo stesso Umberto Eco, nel
Trattato di semiotica generale, riflettendo
sul soggetto della comunicazione metteva
in evidenza che «questo soggetto si presenta nella teoria dei codici come un
modo di vedere il mondo; per conoscerlo
non si può che vederlo come un modo
di segmentare l’universo e di associare
unità espressive a unità di contenuto, in
un lavoro nel corso del quale queste
concrezioni storico-sistematiche si fanno e si sfanno senza posa». Ne consegue: «La semiotica ha un solo dovere:
definire il soggetto della semiosi attraverso categorie esclusivamente semiotiche: e può farlo perché il soggetto della
semiosi si manifesta come il continuo e
continuamente incompiuto sistema di sistemi di significazione che si riflettono l’uno
sull’altro». E prosegue: «Occorre naturalmente eliminare ogni ombra di idealismo da tale asserto. Qui non si sta negando l’esistenza e l’importanza dei
soggetti empirici individuali e materiali
che, quando comunicano, ubbidiscono
ai sistemi di significazione e nel contempo li arricchiscono, li criticano e li
cambiano. Qui si sta solo assumendo
che la semiotica non può che definire
questi soggetti all’interno del proprio
quadro categoriale, nello stesso modo
in cui, parlando dei referenti come contenuti, non nega l’esistenza delle cose
individuali e degli stati reali del mondo,
ma assegna la loro verifica (e la loro analisi
in termini di proprietà concrete, mutazioni,
verità e falsità) ad altri tipi di indagine [sottolineatura nostra]»14. Scelta metodolo-
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gica, dicevamo, per cui è chiaro che oggetto della semiotica è la semiosi, cioè il
«processo per cui gli individui empirici
comunicano e i processi di comunicazione sono resi possibili dai sistemi di significazione. I soggetti empirici, dal
punto di vista semiotico, possono solo
essere identificati come manifestazione
di questo doppio (sistematico e processuale) aspetto della semiosi. Questo non
è un asserto metafisico: è una assunzione metodologica. La fisica conosce Cesare e
Bruto come eventi spazio temporali definiti da una interrelazione di particelle
elementari e non ha nulla a che vedere
con le motivazioni delle loro azioni, né
con la valutazione etica dei risultati di
queste azioni. Nello stesso modo la semiotica ha a che fare coi soggetti degli
atti semiosici e questi soggetti o possono
essere definiti in termini di strutture semiotiche o, da questo punto di vista,
non possono essere definiti per nulla»15. È la chiusura metodologica dell’universo dei segni. Universo scientifico in senso proprio, nella misura esatta
in cui obbedisce alla logica dell’astrazione, di cui sopra. Ma, di nuovo, se un procedimento siffatto consente la linearità
descrittiva della scienza, questa non può
considerare l’approccio metodologico
come esaustivo. Facevamo l’esempio del
soggetto: da un punto di vista semiotico,
evidentemente, il soggetto non sono io
che parlo né tu che ascolti, bensì il polo
di una identificazione sintattico-grammaticale, tuttavia nel processo comunicativo fra me e te tale identificazione
non basta più per comprendere il chi e
il che cosa del nostro attuale parlare.
Considerazioni analoghe possiamo
fare per la filosofia analitica, la quale
«si è appagata del proprio concetto di
verità (che non riguarda come le cose
stanno di fatto bensì che cosa si do-
vrebbe concludere se un enunciato fosse inteso come vero), ma non ha problematizzato il nostro rapporto prelinguistico con le cose. In altre parole,
l’asserzione la neve è bianca è vera se la
neve è bianca, ma come si avverta (e si
sia sicuri) che la neve sia bianca viene
demandato a una teoria della percezione, o all’ottica»16. D’altronde la filosofia del linguaggio ordinario prescinde dalla considerazione dei modi di costituzione dell’esperienza. Nata come
bisogno di chiarificazione, suo intento
è la riflessione sull’uso del linguaggio –
secondo l’insegnamento wittgensteiniano – che prescinde in ugual misura
e dal perseguimento di un linguaggio
ideale e dalla considerazione dell’esperienza. Esperienza che interessa alla filosofia analitica solo in quanto è detta
attraverso il linguaggio, per cui riflettendo sull’uso del linguaggio si presume che venga anche chiarita l’esperienza, che nel linguaggio viene espressa. Da questo punto di vista, pertanto,
essa non è soltanto antimetafisica ma
anche antifenomenologica. Piuttosto,
dunque, è suo interesse la codificazione di linguaggio in cui quella stessa
esperienza viene articolata e trova
espressione. E quando Wittgenstein –
nel paragrafo 43 delle Ricerche filosofiche 17 – afferma che «il significato di
una parola è il suo uso nel linguaggio»,
egli apre al pluralismo di tali “usi”, come dà a pensare la nozione di “gioco
linguistico”: «Ma quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda, ordine? – Di tali tipi ne
esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti di impiego di tutto ciò che
chiamiamo “segni”, “parole”, “proposizioni”. E questa molteplicità non è
qualcosa di fisso, di dato una volta per
tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuo-
vi giochi linguistici, come potremmo
dire, sorgono e altri invecchiamo e vengono dimenticati. (Un’immagine approssimativa potrebbero darcela i mutamenti della matematica). Qui la parola
“giuoco linguistico” è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un
linguaggio fa parte di un’attività, o di
una forma di vita»18.
I giochi di linguaggio determinano,
pertanto, l’efficacia di funzionamento
del linguaggio stesso, nella misura in
cui ciascun gioco risulta appropriato
ad esprimere una determinata situazione esperienziale. L’unico problema
è quello della corretta utilizzazione
delle regole del gioco, nei cui confini
le parole acquistano il loro “impiego
quotidiano” (par. 116). La costituzione
del significato, insomma, non nasconde alcun enigma ma fa capo al carattere pubblico dell’uso, per cui la pratica
del linguaggio ordinario richiede
esclusivamente che si apprendano le
regole del gioco. E, tuttavia, quello che
ci preme sottolineare in questa sede, è
l’uso che Wittgenstein fa della nozione
di “attività” e di “forma di vita”. Se, infatti, i giochi linguistici, nel dettare le
regole del loro corretto utilizzo, descrivono dei contesti vitali e attivi, ciò
significa rilevare una dimensione preetica dell’uso linguistico che, se non
entra esplicitamente nel discorso nondimeno lo sorregge. L’implicazione
sarà più evidente con Austin, al quale
vogliamo ora tenerci.
Con Austin, le analisi sul linguaggio
si spostano più decisamente sul momento pragmatico della comunicazione,
e cioè sull’analisi dell’inviluppo, in sede
proposizionale, del contesto e delle intenzioni che regolano le proposizioni
stesse. Già con i giochi wittgensteiniani
viene sottolineata l’attività o la forma di
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vita che il parlare comporta, ma nella
pragmatica austiniana l’atto del o nel dire assume una pregnanza particolarmente feconda per il nostro discorso.
Dalla forma alla forza
Nella pragmatica del linguaggio, in
effetti, l’attenzione è incentrata sulla
forza, sulla performatività, dell’atto linguistico e sulle conseguenze che questo comporta sull’interlocutore. Con
Austin, l’analisi delle proposizioni mira a mettere l’accento sul fatto che “dire è fare”19 in certe circostanze e a determinate condizioni. Austin, cioè, nella sua analisi recupera la valenza “sociale”, comunitaria, del linguaggio nel
suo uso ordinario.
Richiamiamo brevemente i termini
della problematica. Due sono i momenti in cui si articola la riflessione di
Austin. Nel primo, egli opera una distinzione fra le proposizioni constatative e le proposizioni performative – e
mentre le prime sono sottoponibili alla
verifica del sì e del no, del vero/falso, le
seconde saranno considerate felici o infelici in relazione al loro successo o insuccesso pragmatico. La distinzione
proviene direttamente dalla diffidenza
nei confronti di una considerazione
univoca del linguaggio – filosofica, secondo gli analisti del linguaggio – che
vede le proposizioni esclusivamente come assertive. Ma, frasi del tipo: «Ti
prendo come mio sposo», «Ti battezzo», «Ti prometto», non asseriscono
nulla, non descrivono nulla, in breve
non constatano bensì fanno qualcosa
nell’atto stesso del loro essere pronunciate. È chiaro che la performatività è
legata alle procedure della comunità di
appartenenza – e questo è, precisamen-
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te, il versante “sociale” di cui dicevamo.
Così, per esempio, nella nostra cultura
cristiana non è consentita la poligamia.
Austin enumera, allora, le condizioni di
“felicità” del performativo, che sono
strettamente connesse con un orizzonte normativo-procedurale:
«(A. 1) Deve esistere una procedura convenzionale accettata, avente un certo effetto convenzionale; procedura che deve includere l’atto di
pronunciare certe parole da parte di certe persone in certe circostanze, e inoltre
(A. 2) le particolari persone e circostanze in
un dato caso devono essere appropriate per il richiamarsi alla particolare procedura
(B. 1) La procedura deve essere eseguita da
tutti i partecipanti sia correttamente che
(B. 2) completamente»20.
Normativo, dicevamo, in quanto determina la valenza e la consistenza dell’azione. Infatti, la non osservanza comporta nullità: pronunciare la formula
«Ti prendo come mio sposo» davanti al
capitano di una nave è atto efficace se ci
troviamo in mare, magari durante una
crociera. Ma, se ci troviamo in campagna, l’atto è nullo. Insomma, convenzionalmente i gesti diventano azioni
grazie ad una procedura, e così anche le
parole, in quanto esprimono un “valere
come” che è il loro senso. È chiaro che
la proposizione conserva una forma logica, tuttavia la regola costitutiva dell’atto (una tale formula “vale come” promessa, un’altra “vale come” un ordine,
e così via) aggiunge al nesso logico quella valenza che esso non può avere. È la
considerazione dell’atto linguistico totale
– l’espressione è di Austin – che integra
la dimensione logica con quella pragmatica, e consente di mettere in evidenza di primo acchito il versante sociale,
come già rilevato. E, in effetti, la socialità espressa dalla norma si manifesta
nella relazionalità che l’atto instaura: è
nei confronti di un altro, il quale dichiari di accettare, che io prometto a
qualcuno di aiutarlo nella preparazione
del suo esame; è nei confronti dei contendenti che il giudice pronuncia la sentenza; è con qualcuno che scommetto
sulla vittoria della mia squadra di calcio.
Ma, Austin non rileva soltanto le
condizioni, per così dire, “esterne” di
felicità del performativo. Egli ne aggiunge altre due, che riguardano più
da presso il livello intenzionale degli atti, quindi diremmo “interne” del fare cose con le parole. E, per sottolineare la diversità di queste condizioni rispetto alle prime quattro, egli utilizza una lettera greca e non più latina:
«(C. 1) Laddove, come spesso avviene, la procedura sia destinata all’impiego da parte di persone aventi certi pensieri o sentimenti, o all’inaugurazione di un certo comportamento consequenziale da parte di qualcuno dei partecipanti,
allora una persona che partecipa e quindi si richiama alla procedura deve di fatto avere quei pensieri o sentimenti, e i partecipanti devono avere intenzioni di comportarsi in tal modo, e inoltre
(C. 2) devono in seguito comportarsi effettivamente in tal modo»21.
Possiamo, pertanto, considerare non
soltanto la valenza sociale del performativo, ma anche quella “vissuta”, incarnata ci piace dire, dai soggetti che ultimamente determinano la felicità o la
infelicità delle azioni procedurali. Insomma, il vissuto psicologico emotivo,
decisamente messo da parte dalle analisi dei sistemi, si riaffaccia alla riflessione, se nella considerazione dell’atto linguistico totale non possiamo prescindere
dal versante individuale delle motivazioni e dalle loro implicazioni. Così, se
non si realizzano le condizioni, che Austin sigla con gamma, noi avremo senz’al-
tro un atto compiuto ma infelice, infelicità questa volta di abuso e non di nullità: se io ti prometto di aiutarti in occasione del tuo esame, ma non ho l’intenzione di mantenere la parola data, quella promessa sarà valida in quanto tale –
e cioè in quanto impegno assunto qui
ed ora – mentre la mia mancanza sarà
un abuso.
Più tardi, ed è il secondo momento
della teoria, Austin farà cadere la distinzione constatativo/performativo, poiché, nell’analisi delle implicanze logiche delle proposizioni, giungerà a decretare validità d’atto al linguaggio nel
suo insieme. È il caso dei famosi “paradossi” logici, che permettono la rivisitazione dell’impianto teorico: la proposizione constatativa «Il gatto sta sul cuscino» implica logicamente che il cuscino stia
sotto il gatto; così come la stessa proposizione dà per implicito che io ci creda. Insomma, non posso dire «Il gatto sta sul
cuscino e il cuscino sta sopra al gatto»
oppure «Il gatto sta sul cuscino ma io
non ci credo», dal momento che la constatazione è precisamente frutto di una
osservazione che descrive lo stato di cose reale. E, nella stessa maniera, se io dico «I figli di Giovanni sono calvi» la mia
proposizione presuppone che Giovanni
abbia dei figli. In caso contrario, io non
avrò proposizioni false – nel nostro caso, la proposizione “vera” dovrebbe, infatti, essere «I figli di Giovanni sono capelluti» – bensì nulle, e cioè infelici esattamente alla stessa stregua dei performativi. Austin, allora, non può che evidenziare la valenza d’atto che attiene al
linguaggio in quanto tale e, di conseguenza, procedere a una nuova classificazione di quelli che, ormai, chiamerà
“atti linguistici” e che distinguerà in locutori, illocutori, perlocutori, in base alla
considerazione che «dire qualcosa è fa-
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re qualcosa, o nel dire qualcosa si fa
qualcosa, e anche col dire qualcosa si fa
qualcosa». Insomma, «dire qualcosa è
nel suo pieno senso normale fare qualcosa – il che include emettere certi suoni, pronunciare certe parole in una certa costruzione, e pronunciarle con un
certo “significato” nel senso filosofico
preferito di questa parola, cioè con un
certo senso e con un certo riferimento» 22. Possiamo, pertanto, affermare
che l’atto linguistico è totale in quanto
implica un livello fisiologico – il movimento delle corde vocali – uno intenzionale – la forza della proposizione,
che la fa “valere come” comando, preghiera, scommessa, promessa ... – e un
livello di conseguenze – l’effetto che la
proposizione produce sugli interlocutori, la sua “azione perlocutiva”.
È chiaro che, in ogni caso, l’analisi
non ha le caratteristiche dell’indagine
morale, tuttavia il “valere come” della
Paul Ricœur
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proposizione performativa, la motivazione che sollecita questa proposizione stessa, la norma che ne regola l’uso,
ci mettono su una strada che incontrerà il livello morale, etico della comunicazione.
Ricapitoliamo: la determinazione
della regola semantica che degli enunciati fa dei performativi, per cui dire
qualcosa “conta come” fare qualcosa,
non può prescindere dal riferimento alle motivazioni e intenzioni del parlante,
che è colui che determina la forza illocutoria dell’atto stesso. La forza dipende dall’elemento intenzionale che consente al parlante di realizzare – più o
meno felicemente – l’azione presupposta dal suo dire. Prendiamo l’esempio
della promessa: per un verso, noi ne rileviamo la struttura grammaticale-sintattica, per cui possiamo dire che pronunciare una certa formula alla prima
persona singolare del presente indicati-
vo rivolgendosi a qualcuno “vale come”
promessa. Ma il valere come è, poi, strettamente connesso con l’intenzione (i
pensieri e i sentimenti della regola austiniana) di colui che si è impegnato ad
essere sottoposto al vincolo proclamato.
Insomma, è il parlante che dice «Io ti
prometto» ed in quell’io “designa se
stesso” come colui che, nel dire, fa qualcosa. Nel designar-si comunica la propria intenzione. E la comunica sulla base di una “condizione di sincerità” – l’espressione è di John Searle – per cui l’atto linguistico può esprimere l’assunzione da parte del parlante di un vincolo
che lo obbliga al futuro. Precisamente
in questo modo, dal rilevamento di una
implicazione logica noi passiamo al rilevamento di una disposizione mentale – o,
come sottolinea Ricœur, noi passiamo
«dall’intenzione verbale all’intenzione
mentale». L’atto mentale, pertanto,
«viene a trovarsi implicato in ogni atto
illocutorio», che linguisticamente si
esprime nelle aree determinate quali
giochi linguistici (Wittgenstein) o nelle
classi di forza illocutoria (Austin), in
breve in quelle proposizioni sorrette da
verbi di desiderio o di credenza: «richiedere è desiderare che altri faccia
qualcosa; asserire è credere che P; domandare è desiderare un’informazione; ringraziare è sentirsi riconoscente verso
qualcuno per qualcosa; dare un consiglio è credere che qualcuno trarrà beneficio dal mio consiglio»23. E, laddove l’altro riconosce la mia intenzione ottengo
l’effetto desiderato dalla mia enunciazione. Così, possiamo concludere che, nella caratteristica “auto-referenziale” del
discorso alla prima persona grammaticale entra, come sottolinea Ricœur al riguardo: «l’intenzione del parlante, insieme alla forza del discorso, nel campo
di comunicabilità aperto dal senso e dal-
la referenza. In tal modo il parlante si
comunica – o comunica qualcosa di sé –
comunicando il senso, la referenza e la
forza del proprio discorso»24. Il livello
metodologico-formale del questionamento allude, allora, a un orizzonte sociale non più soltanto procedurale ma
etico in senso proprio, nella misura in
cui vengono considerate le dimensioni
intersoggettive del vivere insieme.
È vero che la filosofia analitica ha
tentato di elaborare una semantica dell’intenzione prevalentemente descrittiva. Così Anscombe e, poi, Davidson, distinguendo tre usi del termine – 1) azione fatta intenzionalmente; 2) intenzione in cui una azione è stata fatta; 3) intenzione di – hanno privilegiato l’uso
avverbiale dell’intenzione, che equivale
precisamente alla descrizione delle modalità per cui i motivi intenzionali personali di una azione diventano una sorta di cause dell’azione stessa, dal momento che questa produce effetti osservabili – in tal senso paragonabili ad
eventi, che accadono nel corso del mondo. La descrizione, cioè, finisce per abolire i confini tra azione ed evento, da
una parte; tra motivo e causa, dall’altra,
nella misura in cui la descrizione dell’azione e dei suoi motivi prescinde dall’agente in prima persona. Si tratta di una
vera e propria ontologia dell’evento impersonale, come rileva Ricœur in Sé come un
altro25, ma questa è interamente scritta
al passato. Viene cioè trascurata la dimensione di futuro caratteristica della
intenzione-di, in cui è inclusa una progettualità personale che prevede scelta e
deliberazione. E la scelta, già diceva Aristotele, nel libro III dell’Etica Nicomachea, «è manifestamente qualcosa di volontario»26. Essa, dunque, riguarda «solo le cose che dipendono da noi»27. La
scelta, inoltre, «è accompagnata da ra-
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gione, cioè da pensiero», pertanto attiene a «quel volontario che è preceduto
da una deliberazione»28. Ora, è chiaro
che non possiamo deliberare di tutto,
non “sulle cose eterne”, non su quelle
che accadono “per caso” e «neppure su
tutte le cose umane, come, per esempio,
nessuno Spartano delibera sulla migliore forma di governo per gli Sciti. Infatti,
nessuna di queste cose può dipendere
da noi». Ne consegue che possiamo deliberare soltanto «sulle cose che dipendono da noi, cioè su quelle che possono
essere compiute da noi»29. Si tratta appunto delle azioni volontarie, quelle
cioè di cui «l’uomo sia principio e padre
[...] come lo è dei figli»30. Allora, «se è
manifesto che è così e se non possiamo
ricondurre le nostre azioni ad altri principi se non a quelli che sono in noi, le
azioni i cui principi sono in noi dipendono da noi e sono volontarie»31. E noi
«siamo padroni delle azioni dal principio alla fine»32. Parlare dell’azione, potremmo chiosare brevemente, significa
parlare anche dell’agente che la compie
scegliendo e deliberando, e con ciò dichiarandosene responsabile.
È chiaro dunque che, in questo caso, non si tratta di una descrizione dell’azione e dell’evento in termini rigorosamente impersonali. Di più. Aristotele conduce questo discorso in connessione con l’esame delle virtù e dei
vizi, che sono attribuibili all’uomo proprio in relazione alle sue scelte e deliberazioni volontarie. L’argomento,
pertanto, è etico nella sua interezza. Insomma, c’è un momento nella descrizione dell’azione, in cui l’impersonale
deve essere superato e l’azione stessa
deve essere ascritta all’agente e, poi,
eventualmente, essergli imputata. Infatti, e ci rifacciamo ancora a Ricœur,
«è dell’azione stessa che diciamo che es-
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sa è mia, tua, sua, che essa dipende da
ciascuno, che essa è in suo potere. Ancora, è dell’intenzione che diciamo che
essa è l’intenzione di qualcuno così come diciamo che qualcuno (o qualcuna) ha l’intenzione-di» 33 . La lettura
ricœuriana puntualizza, pertanto, la
impossibilità di mantenere le posizioni
di indagine su livelli rigorosamente paralleli: «Possiamo certamente comprendere l’intenzione in quanto tale;
ma se l’abbiamo distaccata dal suo autore per esaminarla, gliela restituiamo
attribuendogliela come la sua. D’altronde, è ciò che fa lo stesso agente
quando considera le opzioni che si
aprono davanti a lui e delibera, secondo l’espressione di Aristotele»34. E, se
delibera sulle cose che dipendono da
lui, altrettanto delibera in base a un
ché di desiderabile che lo spinge ad
agire all’interno di un contesto sociale
di appartenenza ove qualcuno di quell’agire potrà chiedergli conto.
Il momento etico
Giunti a questo punto, possiamo notare che nel nostro discorso si è venuto
a instaurare un legame tra filosofia
analitica del linguaggio e fenomenologia dell’azione intenzionale, che ha lasciato emergere una linea concettuale,
lungo la quale il dire si è configurato
come un fare, retto da regole sociali,
atte a determinare il “valere come” del
fare cose con le parole. Così, alzare la mano durante un’assemblea vale come
chiedere la parola, mentre lo stesso gesto ai bordi di una strada vale come chiamare un taxi oppure salutare un amico, se ci si trova sulla banchina di una
stazione mentre il treno sta partendo.
Il gesto indica l’intenzione di colui che
lo compie a seconda del contesto, del
gioco, in cui si attua. Ma, approfondendo con l’esame della promessa,
promettere vale come obbligarsi a fare
qualcosa per qualcuno – ove l’intenzione si impegna al futuro – qualcuno
che potrà poi chiederci conto di una
nostra eventuale inadempienza. È chiaro, e lo abbiamo visto ampiamente, che
in un primo momento l’analisi non ha
implicanze etico-morali; tuttavia, l’accento che quella stessa analisi dell’intenzione mette su colui che la porta, tali implicanze lascia intravedere, nella
misura in cui nel discorso fanno ingresso concetti quali fiducia, affidabilità, onore, rispetto. Si dice, infatti, di
qualcuno che egli è degno di fiducia,
che è una persona affidabile, che è un
uomo d’onore, che ha rispetto verso gli
altri e così via.
La considerazione etica della comunicazione si presenta, dunque, come il
necessario passo ulteriore a quelli analitico e fenomenologico, che fin qui
hanno attirato la nostra attenzione.
Il valere come, per un verso precisa
l’in quanto che del nostro dire; per l’altro, ed è ciò che vogliamo ora discutere, punta alle implicanze interpersonali del detto, nel quale ci obblighiamo e di
cui siamo responsabili. Responsabili significa qui che ne dobbiamo rispondere, che ne dobbiamo dare conto – come
preferisce dire Ricœur – a qualcuno
che è stato testimone della nostra assunzione dell’obbligo e che, eventualmente ha accettato di esserne la controparte. E ne dobbiamo dare conto
nella misura in cui si tratta di qualcosa
che dipende da noi, che è in nostro potere, secondo l’insegnamento aristotelico cui abbiamo fatto allusione.
Il momento etico, tuttavia, se viene
anticipato dalle condizioni di validità e
dalle clausole di sincerità, che il nostro
discorso ha incontrato, certamente
non si esaurisce nella pura e semplice
assunzione di responsabilità del proprio dire e del proprio fare, anche se
ne mostra una implicazione necessaria.
Insomma, il processo della comunicazione, nella misura in cui consente che
qualcosa del mittente passi al destinatario attraverso il messaggio, comporta
la valenza etica come ciò che qualifica
quel passaggio stesso.
Ora, la qualità etica risiede proprio
nella consistenza dello scambio: si mette in comune un progetto di vita, una visione del mondo, un sentimento di paura o di gioia, una speranza, un’attesa ed
anche un’informazione, secondo quelle raffinate modalità che l’universo dei
media oggi ci offre. In breve, la reciprocità dello scambio mette in comune i
modi particolari di abitare il mondo da
parte di ciascuno e, perciò stesso, diventa fonte di conoscenza e di riconoscimento, di accrescimento d’essere,
vorremmo dire utilizzando una espressione gadameriana. A nostro avviso, pertanto, una etica del discorso – secondo il
bel titolo di Habermas35 – è la stretta
conseguenza della linearità significante
del linguaggio: dire qualcosa a qualcuno implica un riferimento a qualcosa
che si dà e non al nulla – al nulla d’essere – secondo il voto della nostra più
profonda tradizione filosofica. In questo senso, possiamo affermare di essere
responsabili di ciò che diciamo, di ciò che
scriviamo, di quanto traduciamo in immagini, delle informazioni che diamo o
degli impegni che prendiamo: ogni distorsione di linguaggio, infatti, nella misura in cui è un abuso – e lo abbiamo visto bene con Austin – attenta, direbbe
Ricœur, alla istituzione stessa del linguaggio, e cioè a quella sua vocazione di
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81
dire qualcosa a qualcuno, cioè ancora di
trasferire qualcosa del mittente nel destinatario e viceversa. Giacché, come abbiamo visto, ogni dire mette in campo
degli interlocutori in carne ed ossa, ai
quali necessariamente deve ritornare
qualsiasi metodologia analitica o semiotica che dir si voglia. Si tratta, allora, di
considerare le dinamiche di quella che
ormai possiamo chiamare l’apertura di
sé all’altro e dell’altro a sé, sulla cui base può realizzarsi un progetto di conoscenza extrametodica, per riprendere
nuovamente una espressione gadameriana. Ed è interessante rilevare come
questo reciproco atto di apertura, nella
comunicazione, accada nel già là delle
nostre pre-comprensioni, che possono
diventare – che spesso sono – pregiudizi negativi quanto all’altro e al suo mondo. Se, cioè, riportiamo alla luce l’intenzione comunicativa, che le scienze
della comunicazione danno per presupposta, allora nuove domande sorgono e
sono le grandi domande del filosofare:
chi sono gli interlocutori e che cosa passa
di loro nel processo comunicativo?
La posta è di nuovo etica, poiché, se
qualcosa passa, quello è il nostro modo
di abitare il mondo “con e per altri” –
“all’interno di istituzioni giuste”, conclude l’espressione ricœuriana che ci
piace sempre citare36 – posta conoscitiva poiché con ciò stesso noi possiamo
intraprendere un’opera di ridefinizione della nostra cultura, delle nostre precomprensioni, dei nostri pregiudizi. E
qui è senz’altro degno di nota il panorama offerto dai nuovi media, Internet
in testa, la cui ambizione sta proprio in
quell’allargamento planetario delle
possibilità comunicative che dovrebbe
condurre al villaggio globale, vagheggiato
da McLuhan. Panorama, in verità, contrastato, sospeso com’è alla virtualità dei
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suoi mezzi e dei suoi scambi, tuttavia
l’intento rimane sulla linea della positività, poc’anzi delineata, del dire qualcosa a qualcuno. Comunicare, allora, non
è soltanto un lasciar passare qualcosa di
sé all’altro e viceversa, bensì ricomprendersi a partire da quel passaggio, da
quello scambio, da quella relazione – in
presenza o in assenza che essa sia. Con
Bougnoux potremmo dire che «a suo
modo, la “comunicazione” prolunga la
filosofia rilanciando le grandi questioni
tradizionali sulla verità, il reale, il legame sociale, l’immaginario, la possibilità
dell’insegnamento, della giustizia, del
consenso, del bello, e via dicendo»37. E
le rilancia nell’aprirsi degli orizzonti di
riferimento, etici nella misura in cui si
costituiscono a partire da quelle possibilità molteplici di abitare il mondo, che
la comunicazione mette precisamente a
confronto. Terreno fragile, non dobbiamo stancarci di sottolineare, e tuttavia
fertile proprio poiché frammentato,
spezzato, sempre sottoposto a discussione. Discussione sempre possibile, come
ci insegna il voto della comunità della
comunicazione, di cui Apel e Habermas
delineano i confini razionali universalizzabili; discussione come incontro con
l’altro secondo dei modelli che Ricœur
forgia e che ci piace ricordare a conclusione del nostro percorso.
Sulle orme di Ricœur, dunque, vorremmo porre il patto comunicativo sotto l’egida di tre modelli di incontro, di cui
il Nostro parla in un articolo, dal significativo titolo Quel éthos nouveau pour
l’Europe?38 Questi modelli, come abbiamo già avuto modo di sottolineare altrove39, ci sembrano tanto più rilevanti
in quanto possono essere utilizzati per
pensare l’incontro comunicativo in modo
globale, cioè al di là dei confini europei
per i quali sono stati pensati. Si tratta del
modello della traduzione, del modello
dello scambio delle memorie e del modello
del perdono. Quanto alla traduzione,
Ricœur è tornato più volte sull’argomento40 e di fronte al pluralismo linguistico si è spinto a pensare la traducibilità di una lingua nell’altra come un
vero e proprio “apriori della comunicazione”. Apriori nella misura in cui la
competenza del codice sta alla base della produzione sensata dei messaggi e, di
conseguenza, della traducibilità delle
lingue. Il primo modello, dice pertanto
Ricœur, dà modo al traduttore di entrare “in carne e ossa” dentro all’altra lingua, allo scopo di coglierne le articolazioni segrete, il soffio particolare, le
espressioni più tipiche. E, infatti, «il
compito del traduttore non va dalla parola alla frase, al testo, all’insieme culturale, ma al contrario: impregnandosi
attraverso ampie letture dello spirito di
una cultura, il traduttore ridiscende dal
testo alla frase e alla parola»41. Atto di
“abitare presso l’altro”, la traduzione
consente di «condurlo presso di sé a titolo di ospite invitato»42. Ospitalità feconda che, nelle intenzioni del Nostro,
mira a favorire e incrementare lo scambio delle culture fino al livello dei loro
fondamenti propri. Non che al Nostro
sfugga il “paradosso” di un compito preso fra l’intraducibilità di una lingua, in
virtù del suo modo particolarissimo, insostituibile, di dire una visione del mondo all’interno di una cultura, e la traduzione di fatto, che consente gli scambi
(mercanti, viaggiatori, spie – suggerisce
Ricœur) al di là della comunità linguistica di appartenenza. Ma, proprio questo fatto dice che la comunicazione supera gli impedimenti, «arma il coraggio
ed aguzza l’ingegno dei decifratori di
geroglifici»43, alla ricerca di una maniera sempre più perfetta di organizzare il
compito del traduttore, preso fra il senso e la lettera del testo da tradurre. Anche
qui, potremmo dire, si tratta di percorrere una via lunga, che non trascuri l’apparato sintattico-grammaticale né la referenza al mondo che esso veicola. Evidentemente, la preoccupazione di
Ricœur non è quella della “traduzione
perfetta”, alla quale dobbiamo anzi “rinunciare”, così come abbiamo dovuto
rinunciare alla ricerca della lingua perfetta
– secondo la suggestione di Umberto
Eco44. È questo, forse, «un puro fantasma, il fantasma dell’origine resa storica, il rifiuto disperato della condizione
umana reale, che è quella della pluralità
a tutti i livelli dell’esistenza; pluralità di
cui la diversità delle lingue è la manifestazione più sconcertante: perché tante
lingue? Risposta: è così»45. E, tuttavia, il
fatto che ci sia un lavoro di traduzione significa che dobbiamo far fronte a una
“doppia resistenza” per aprire uno spazio di comparazione fra due posizioni
“incomparabili”. Il “lavoro della traduzione” viene così accostato al “lavoro del
ricordo” e anche al “lavoro del lutto”:
c’è una perdita, infatti, cui dobbiamo
far fronte, la perdita di una pretesa autosufficienza – linguistica, etnica, sociale, religiosa – che il passaggio attraverso
la lingua dell’altro ci aiuta a ricomporre
altrimenti, disponendoci a dimorare
presso l’altro e ad accoglierlo presso di
noi. L’ospitalità linguistica, pertanto,
non assume in Ricœur sfumature di facili accomodamenti ma si presenta come una modalità forte di mediare le differenze e, ove ce ne siano, di risolvere i
conflitti. La traduzione, insomma, come compito etico.
Lo scambio delle memorie va in questa
stessa direzione, spostando l’attenzione
sui contenuti concreti della traducibilità universale. Il problema di fondo re-
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sta quello di superare una distanza e la
distanza più sottile è quella temporale.
E, come nella costituzione dell’identità
personale Ricœur era arrivato a trovare
nel racconto il modello di un mantenersi nel tempo, cui conferiva il bel nome di “identità narrativa”, così lo scambio delle memorie può significare che
dobbiamo spingere la dimensione narrativa fino al piano di costituzione di
una cultura, che è quello sul quale si stagliano «i costumi, le regole, le norme, le
credenze, le convinzioni»46, cioè i fili
che intrecciano la trama dell’identità di
un popolo, la sua Tradizione. L’incontro e il confronto, pertanto, consentono
un “inviluppo delle storie” e, in questo,
un intersecarsi degli sguardi, parziali e
frammentari, che si aprono sul mondo.
L’ospitalità linguistica si consolida,
quindi, nella “ospitalità narrativa” della
memoria, cioè nello sforzo di una lettura “plurale” degli stessi eventi fondatori
della storia di un popolo e nella volontà
di «condividere simbolicamente e rispettosamente la commemorazione degli eventi fondatori delle altre culture
nazionali e di quelle delle loro minoranze etniche o delle loro confessioni
religiose»47. In ultima analisi, incontrarsi a questo livello memoriale significa per
il Nostro imparare a “discernere le promesse non mantenute” del passato e,
dunque, imparare a ridisegnare i nostri
progetti in funzione di quelle. L’importanza della memoria, sia personale che
collettiva, storica, è determinante, poiché può offrire agli «assenti dalla storia
la pietà di un gesto di sepoltura»48. Sepoltura che può essere letta come il gesto etico del riconoscimento dell’altro,
uomo capace egli stesso, che nel precederci ha tracciato le strade che noi andiamo percorrendo in vista di altri, che
ci seguiranno, secondo il “legame delle
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generazioni”. Ed è proprio questo legame che ci consente di “ricordare” colpe
e debiti del passato, aprendo per noi la
possibilità di rimediare.
Per tornare ai nostri modelli, il perdono si situa a questo punto come forma
forte di un “raccontare altrimenti”, che
scaturisce dallo scambio e dall’inviluppo delle storie di vita. E il raccontare diventa radicalmente altro, quando la
prospettiva è quella della sofferenza,
quando si rimedita il passato dalla parte
delle vittime e non soltanto da quella
dei vincitori. Sappiamo che per Ricœur
la sofferenza inflitta agli altri è “un punto talmente grave” da esigere che lo si
consideri in prima istanza: dobbiamo
«partire dalla sofferenza degli altri, immaginare la sofferenza degli altri prima
di ripensare alla nostra»49. L’ordine politico della giustizia in questo caso non
basta più: Ricœur ha il coraggio di alludere direttamente all’amore – amore
difficile, dice Jervolino soffermandosi
su questa caratteristica del pensiero ricoeuriano50 – dove la stessa legge di reciprocità viene superata dal comandamento impossibile dell’amore ai nemici: “Se amate quelli che vi amano, che
merito ne avreste? […] Amate invece i
vostri nemici….” (Lc 6, 32-35). È la logica del dono, che fa capo a una “sovrabbondanza” nella quale si scrive una
“poetica della vita morale” che consente di chiedere e dare il perdono. Perdono esso stesso “difficile” – come dice
Ricœur nell’ultima parte del suo grande
libro La memoria, la storia, l’oblio riprendendo il felice aggettivo usato dal suo
interprete – e la difficoltà è quella di
una “escatologia della rappresentazione
del passato”: «il perdono, se ha un senso e se esiste, costituisce l’orizzonte comune della memoria, della storia e dell’oblio»51. E lo costituisce, nella misura
in cui con la sua “altezza” riesce a far
fronte alla “profondità” della colpa. È
l’equazione del perdono: «in basso, la
confessione della colpa, in alto, l’inno al
perdono»52. “L’ordine della carità” può
condurre allora a “spezzare” quella che
sembrerebbe una legge di “irreversibilità del tempo”, poiché, se non si può
cambiare l’esser stati degli eventi passati, se ne può trasformare la “significazione” per gli “uomini del presente”. Il
perdono, pertanto, non coincide con
l’oblio, giacché il “dovere di memoria”
va fino ad accettare di rimanere “debitori insolventi”: bisogna chiedere il perdono, con la consapevolezza che questo
possa venirci rifiutato. Il perdono “esige
lunga pazienza”53.
E ci piace concludere così, con una
parola poetica cui gradualmente ci ha
condotti la parola stessa dell’analisi. E
se quest’ultima ha il pregio di sottoporre ad esame le “regole” del corretto uso
del linguaggio e del suo agire, la parola
poetica vi si insinua laddove si instaura
un cammino di aperture e la posta etica
dell’orizzonte di appartenenza oltre
che precisa si fa precaria, quasi una sfida alle capacità dell’umano nel variegato rapporto che esso instaura con il
mondo e con gli altri.
Note
1 P. R ICŒUR , Filosofia e linguaggio, a cura di
D. Jervolino, Guerini e associati, Milano 1994,
p. 112.
2 Ibidem, p. 114.
3 Ibidem, p. 113.
4 Ibidem.
5 Ibidem, p. 114.
6 P. R ICŒUR , Dal testo all’azione, tr. it. di G.
Grampa, Jaca Book, Milano 1989, p. 162.
7 Ibidem.
8 Ibidem.
9 G. P. C APRETTINI , A. A PPIANO , A. S CALI , Sintesi. Comunicazione, A. Vallardi, Milano 2000,
pp. 22/23.
10 D. E. V IGANÒ , I sentieri della comunicazione, Rubbettino, Roma 2003, p. 20.
11 M. M ORCELLINI – G. FATELLI , Le scienze della comunicazione. Modelli e percorsi disciplinari,
Carocci, Roma 2000, pp. 22-23.
12 G. B ETTETINI , “Comunicazione e informazione dai media tradizionali ai nuovi media”, in S. Zecchi (a cura di), La comunicazione,
il Mulino, Bologna 1998, pp. 19/20.
13 D. E. V IGANÒ , I sentieri della comunicazione, cit., p. 21.
14 U. E CO , Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1993 (13^), p. 377.
15 Ibidem, pp. 377/378.
16 U. E CO , Kant e l’ornitorinco, Bompiani,
Milano 1997 (3^ ed.), p. 4.
17 L. W ITTGENSTEIN , Ricerche filosofiche, tr. it.
di R. Piovesan a cura di M. Trinchero, Einaudi,
Torino 1967.
18 Ibidem, pp. 21/22, par. 23.
19 Quando dire è fare è stato il titolo della prima traduzione dell’opera di Austin, How to do
Things with Words, a cura di A. Pieretti per i tipi della Marietti nel 1974. L’opera, successivamente è stata ritradotta da C. Villata e anche il
titolo è stato tradotto in maniera più letterale:
Come fare cose con le parole, a cura di C. Penco e
M. Sbisà, Marietti, Genova 1997 (3 rist.).
20 J. L. A USTIN , Come fare cose con le parole,
cit., p. 17.
21 Ibidem.
22 Ibidem, p. 71.
23 P. R ICŒUR , Filosofia e linguaggio, cit., pp.
137/138.
24 Ibidem, p. 136.
25 P. R ICŒUR , Sé come un altro, tr. it. a cura
di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993, cfr.
Studio IV.
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26 A RISTOTELE , Etica Nicomachea, tr. it. a cura di C. Mazzarelli, Rusconi, Milano 1979, III,
2, 1111 b 5.
27 Ibidem, III, 2, 1111 b 20.
28 Ibidem, III, 2, 1112 a 15.
29 Ibidem, III, 3, 1112 a 27.
30 Ibidem, III, 5, 1113 b 20.
31 Ibidem, III, 5, 1113 b 2-23.
32 Ibidem, III, 5, 1114 b 31-32.
33 P. R ICŒUR , Sé come un altro, cit., p. 181.
34 Ibidem.
35 Cfr. J. H ABERMAS , Etica del discorso, tr. it. a
cura di E. Agazzi, Laterza, Roma-Bari 1989.
36 P. R ICŒUR , Sé come un altro, cit., cfr. Studio VII.
37 D. BOUGNOUX, Introduction aux sciences de la
communication, La Découverte, Paris 1998, p. 7.
38 P. R ICŒUR , “Quel éthos nouveau pour
l’Europe?”, in AA. VV., Imaginer l’Europe, a cura di P. Koslowski, Cerf, Paris 1992.
39 Cfr. D. I ANNOTTA , “Il sé e l’altro. Note sul
problema dell’identità”, in AA. VV., Comprendere lo straniero. Aspetto filosofico-etico-politico, Cittadella editrice, Assisi 2001.
40 Cfr. P. R ICŒUR , La traduzione. Una sfida
etica, a cura di D. Jervolino, Morcelliana, Brescia 2001. Sull’argomento è tornato, inoltre, in
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occasione del conferimento della cittadinanza
onoraria a Napoli, il 21 ottobre 2002. Il testo
dell’inter vento, “L’intraducibile”, è pubblicato ora in “Studium”, n. 5 (settembre/ottobre
2003), pp. 669/676.
41 P. R ICŒUR , “L’intraducibile”, cit., p. 670.
42 P. R ICŒUR , “Quel éthos nouveau pour
l’Europe?”, cit., p. 109.
43 Ibidem, p. 108.
44 U. E CO , La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Laterza, Roma-Bari 1993.
45 P. R ICŒUR , “L’intraducibile”, cit., p. 671.
46 P. R ICŒUR , “Quel éthos nouveau pour
l’Europe?”, cit., p. 109.
47 Ibidem, p. 111.
48 P. R ICŒUR , La memoria, la storia, l’oblio, tr.
it. a cura di D. Iannotta, Raffaello Cortina editore, Milano 2003, p. 502.
49 P. R ICŒUR , “Quel éthos nouveau pour
l’Europe?”, cit., p. 113.
50 Cfr. D. J ERVOLINO , Ricoeur. L’amore difficile, Studium, Roma 1995.
51 P. R ICŒUR , La memoria, la storia, l’oblio,
cit. p. 649.
52 Ibidem, p. 650.
53 P. R ICŒUR , Quel éthos nouveau pour l’Europe?, p. 115.
L’etica di Babele
di Gian Piero Jacobelli
L’etica, tradizionale presidio del
pensiero forte, dopo un lungo periodo di appannamento, sembra che sia
rinata, negli ultimi decenni del secolo scorso, nel segno ambiguo di una
duplice debolezza.
La prima debolezza è quella da cui
deriva, per antitesi, la stessa rinascita
dell’etica: la debolezza della scienza,
di un paradigma conoscitivo intorno
al quale si erano raccolte troppe aspettative, quasi che dal progresso scientifico ci si potesse aspettare non tanto la
formulazione di nuovi problemi teorici, quanto la soluzione di più o meno
vecchi problemi pratici (Moneti,
2001). Se la scienza non ha potuto o
saputo dirci cosa dobbiamo fare, forse
l’etica potrebbe raccoglierne l’oneroso testimone: perciò si riparla di etica
nel mondo del fare, in rapporto a
un’altra parola feticcio, la complessità:
complessità come multifattorialità, come feed back, come entropia, che qual-
che ipotetica istanza normativa dovrebbe dimostrarsi in grado di contenere e di rendere gestibile, riducendo
i margini di libertà dello stesso fare.
La seconda debolezza risiede nella
stessa etica, almeno nelle sue versioni
correnti, che oscillano sistematicamente tra pretese eccessive, facendosi ancelle del pensiero forte della
ideologia, e pretese scarse, facendosi
ancelle del pensiero debole della critica. Gianni Vattimo, interprete accreditato di questa seconda debolezza, ci insegna – a proposito dell’etica
della comunicazione di Otto Apel e
Jürgen Habermas, dell’etica delle ridescrizioni di Richard Rorty e dell’etica della continuità di Hans Georg
Gadamer – che c’è tanta più etica, o
meglio tanta più possibilità di etica,
quanto più ci sono incertezza, indecidibilità, impredicabilità, ma anche
curiosità, creatività, genialità (Vattimo, 1995). In effetti, le parole dell’e-
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tica sono certamente incerte, perché
si muovono alla scoperta del nuovo;
sono certamente indecidibili, perché
questo nuovo non si può sapere se lo
sia davvero sinché non comincia ad
apparire vecchio; tuttavia, proprio
perché curiose, creative e geniali,
non sono impredicabili; anzi, tutto
ciò che si fa portatore di valori ha bisogno di parole per prendere corpo,
per affermarsi come un evento ontologicamente significativo.
Rinascita o rimorte dell’etica?
Tra le diverse opzioni possibili, cominciamo a chiederci di cosa parliamo,
quando parliamo di etica. Ma, forse, è
più facile dire di cosa non parliamo: per
quanto ci riguarda, non parliamo di
buoni sentimenti, di giusti comportamenti, di convenienti relazioni. Quanto
meno, non ne parliamo in maniera prevalente e determinante, perché, a nostro avviso, non sono il buono, il giusto,
il conveniente, che spesso hanno diviso
e dividono, a interessare l’etica, e neppure l’etica della comunicazione, di cui
ci occuperemo specificamente, bensì
ciò che unisce o può unire, in maniera
più o meno duratura. Da questo punto
di vista, solo apparentemente paradossale, se si pone mente al fatto che, come
la storia insegna, quanto non è buono,
giusto e conveniente lo può diventare e
viceversa, le caratteristiche di fondo dell’etica sono già implicite nella densissima etimologia del termine, che Émile
Benveniste riconduceva alla radice
*swe, molto importante nel vocabolario
indoeuropeo, dove indica la relazione
di appartenenza, nel senso sia della parentela, sia dell’alleanza, in cui si articola il senso di sé:
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Si può identificare *swe in greco in parecchi
gruppi di forme in cui è specializzato da affissi distinti: *swe-d- in ìdios, *swe-t- in étes, *swe-dh- in
éthos. Questi esempi chiariscono il rapporto che
unisce il concetto significato dal radicale *swe a
un gruppo di derivati che implicano tutti un legame di carattere sociale, di parentela o sentimentale, come il cameratismo, l’alleanza, l’amicizia. L’insieme delle derivazioni fondate sul tema *swe si suddividono in due gruppi concettuali. Da una parte *swe implica l’appartenenza a un
gruppo di suoi propri, dall’altra specializza il sé
come individualità (Benveniste, 1969, p. 255).
La nozione di etica nasce, quindi,
nell’ambito di una duplice fedeltà, a sé
e al proprio modo di essere, ma anche
al contesto in cui si vive e alle sue connesse implicazioni relazionali. Non a
caso, accanto all’etica si è parlato e si
parla di morale e di deontologia come
di istanze relative a diverse realtà di riferimento: se stessi, la cultura di appartenenza, le sue articolazioni operative.
Tuttavia, sia la morale sia la deontologia hanno a che vedere con il passato,
in quanto la prima riproduce nel presente schemi di comportamento collaudati e consolidati, mentre la seconda interpreta lo slancio verso il futuro,
per esempio la salute nel caso della
deontologia medica, come il tentativo
di ripristinare equilibri perduti. Al contrario, l’etica vive programmaticamente nel futuro, in quanto si basa sulla elaborazione e sulla proposta di scenari
orientati a un aperto e dinamico incremento partecipativo:
Nel lessico si trovano suggestive indicazioni
per la comprensione del significato dell’etica.
L’espressione ta ethichà (le cose etiche, l’eticità),
usata da Aristotele, deriva non dal plurale di éthos
(abitudine, costume), bensì dal plurale di etho
(dimora e, solo secondariamente, abitudine, costume, carattere). […] Se si coglie il suggerimento aristotelico, si scopre che l’etica non è reattiva
come la morale, ma è attiva: è la cura di colloca-
re l’uomo nella sua dimora. La dimora propria
dell’uomo è la dimora del nomade, non una sede
abituale e stabile, non un luogo fisso, ma lo spazio, tutto lo spazio che il suo cammino è capace
di esplorare (Masullo, 2005, p. 37).
Ha ragione Aldo Masullo: il problema
è quello di non fare confusione, di non
subordinare la vitalità creativa dell’etica,
il suo sguardo in avanti, alle esigenze di
un ordine privato e pubblico, a cui neppure morale e deontologia, per quanto
guardino programmaticamente indietro, ai loro predeterminati riferimenti valoriali, sono in grado di fare fronte, a causa del progressivo indebolimento – ancora una volta, una debolezza che vuole fare di necessità virtù – dei loro ancoraggi
epistemologici e metodologici. La confusione dell’etica con la morale e la
deontologia, finisce così per depotenziare, concettualmente e operativamente,
tutte le tre istanze, conferendo all’etica
un’arroganza normativa che all’etica
non si confà, alla morale un’enfasi carismatica che alla morale non si confà, alla deontologia una pretesa eroica che alla deontologia non si confà.
L’etica del “di”
Che l’etica costituisca oggi l’espressione di un profondo disagio e di un’aspettativa assillante nei confronti dell’intero orizzonte della convivenza, dove le cose non vanno evidentemente
troppo bene, nell’ordine dello spazio –
i contemporanei – e del tempo – ascendenti e discendenti, come predicava il
cosiddetto “principio responsabilità” di
Hans Jonas (Jonas, 1990) – è dimostrato
dalla proliferazione delle definizioni,
che riconducono l’etica a tutte le cruciali tensioni della civiltà moderna (meglio “moderna” che “contemporanea”,
perché una definizione già carica di
problematiche compromissioni risulta
in questo caso più idonea di una meramente circostanziale): tensioni conoscitive (etica della verità, etica del dubbio,
etica della scienza); tensioni comunicative (etica della comunicazione, etica
del dialogo, etica della discussione);
tensioni mediatiche (etica della scrittura, etica del discorso, etica del silenzio);
tensioni morali (etica dei principi, etica
delle virtù, etica della responsabilità);
tensioni identitarie (etica del genere,
etica del soggetto, etica delle capacità);
tensioni esistenziali (etica della persona, etica del ritorno, etica delle intenzioni); tensioni programmatiche (etica
della convinzione, etica della reciprocità, etica dell’insensato); ma l’elenco
potrebbe continuare, anche perché si
aggiorna a ogni nuova sopravvenienza
editoriale.
Contro questa proliferazione, che riduce l’etica a quei prontuari farmaceutici non a caso definiti in gergo “bugiardini”, è insorto recentemente Slavoj
Žižek, criticando quella che definisce
«l’etica del trattino, che potremmo tradurre come un’etica del ‘di’: l’etica della tecnologia, l’etica dell’ambiente,
etc.». Negando e affermando, Žižek riesce a sintetizzare una situazione nell’ordine delle sue possibili alternative:
Questa etica ha un suo ruolo, analogo a quello dell’etica ‘provvisoria’ che Cartesio menziona
all’inizio del Discorso sul metodo. Quando ci si inoltra per un nuovo cammino, si tende a prendere
come guida le vecchie regole consolidate, anche
se si sa che le scoperte che si faranno apporteranno un nuovo fondamento per costruire il nostro edificio etico (nel caso di Cartesio è Kant,
nella sua etica dell’autonomia soggettiva, che ha
trovato questo nuovo fondamento). Noi ci troviamo oggi nella stessa situazione: nessuna etica
‘provvisoria’ può surrogare il bisogno di una riflessione approfondita sulla emergenza del nuo-
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vo. Ciò che si perde in questa etica del ‘di’ è proprio l’etica in quanto tale. Il problema non è
che l’etica universale si dissolva nelle tematiche
particolari, ma, al contrario, che delle istanze
scientifiche particolari vengano direttamente
messe a confronto con i vecchi ‘valori’ umanistici (per esempio: come la biologia influenza il
nostro senso della dignità e dell’autonomia?)
(Žižek, 2008, p. 153-154).
diou – l’altro filosofo fuori del coro, qui
convocato a testimone del fatto che il
pensiero delle regole non coincide con
le regole del pensiero — definiva questa
dimensione eticamente collusiva come
“etica dell’altro”, identificandola con
una sempre più diffusa, variegata e compiaciuta alienazione:
Lettura istruttiva, sotto più di un profilo. Perché ci fa capire che l’etica è
un’altra cosa, rispetto alle tante istanze
presenti nell’odierno orizzonte dei diritti e dei doveri, e che – come si diceva
proverbialmente una volta – “ogni lasciata è persa”: se conferiamo il nostro
giudizio all’ammasso solo perché oggi
non sappiamo cosa farne, sarà difficile
domani riaverlo indietro, ritrovarlo nella moltiplicazione dei circuiti e delle
connessioni mediatiche, nell’ipertesto
sconsiderato in cui la comunicazione
sta perseguendo prossimità fittizie e scomunicanti (lo “scomunicare” resta una
sorta di marchio di fabbrica delle nostre
riflessioni sull’etica della comunicazione: Jacobelli, G.P., 2003).
Oggi si concepisce l’etica come riconoscimento dell’altro (contro il razzismo, che negherebbe
questo altro), o etica delle differenze (contro il nazionalismo sostanzialista, che vorrebbe l’esclusione degli immigrati, o il sessismo, che negherebbe
l’essere femminile), o multiculturalismo (contro
l’imposizione di un modello unificato di comportamento e d’intellettualità). O semplicemente, la
buona vecchia tolleranza, che consiste a non adontarsi se altri pensano e agiscono diversamente da
noi (Badiou, 2003, pp. 36-37).
L’etica senz’altro
Per quanto concerne il nostro argomento, l’etica della comunicazione, la
considerazione di Žižek comporta al
tempo stesso un problema (il “di”) e
una soluzione, relativa alla generalità
della comunicazione. In effetti, anche
l’etica della comunicazione si configura
come una “etica di”, per cui dovrebbe
venire inscritta nel novero delle etiche
sforzate a fungere da tramite mistificante tra un impegno contestuale, che dovrebbe cambiare le carte in tavola, e un
sistema di valori già consolidato, che
tende, invece, a perpetuarsi. Alain Ba-
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Le obiezioni di Badiou all’etica dell’altro ne pongono in rilievo la proiezione narcisistica, da cui scaturisce una
sorta di soggetto al quadrato, sottratto
alla sua costitutiva articolazione relazionale: «Una concezione mimetica, che
individua l’accesso all’altro nella mia
propria immagine raddoppiata, chiarisce altrettanto bene ciò che vi è di rimozione di sé nella scelta dell’altro.
[…] La psicoanalisi spiega brillantemente come questa costruzione dell’Io
nella identificazione con l’altro – questo effetto di specchio – combini il narcisismo (mi compiaccio nella esteriorità
dell’altro in tanto che me stesso a me
stesso visibile) e l’aggressività (investo
sull’altro la mia propria pulsione di
morte, il mio desiderio arcaico di autodistruzione)» (Id, pp. 37-38). Inoltre,
suggeriscono che si tratti di una fuga in
avanti, che la esibizionistica interpretazione del qui e ora nella prospettiva di
un fatuo e generico là e allora serva soprattutto a evitare un problematico con-
fronto con la specificità e la concretezza
delle opzioni di futuro in cui si trova
coinvolta la coscienza individuale nel
suo aprirsi a coinvolgimenti collettivi:
Etica designa oggi un principio di relazione
con ciò che avviene, una vaga regolazione delle
valutazioni relative alle situazioni storiche (etica
dei diritti dell’uomo), alle situazioni tecnicoscientifiche (etica del vivente, bio-etica), alle situazioni sociali (etica dell’essere insieme), alle situazioni mediatiche (etica della comunicazione)
[…]. Il nostro obiettivo è quello di sottrarre a
questa tendenza il temine etica, per conferirgli
un senso del tutto diverso. Invece di legarlo a categorie astratte (l’Uomo, il Diritto, l’Altro…), lo
si riporterà a specifiche situazioni. Invece di farne una misura della pietà per le vittime, se ne farà
la massima durevole di processi singoli. Invece di
mettere in gioco soltanto la buona coscienza conservatrice, si metterà in gioco il destino delle verità (Id, p. 16-17).
Il “destino delle verità” – tante verità,
perché tante sono le loro possibili emergenze testimoniali, e non una unica verità, che prescinde da tutti e da ciascuno – inaugura un fronte filosoficamente sconcertante, perché sia la filosofia
antica sia quella moderna ci hanno indotti a pensare alla verità come a un
problema gnoseologico o logico, mentre Badiou ribadisce che la verità scaturisce da un inveramento soggettivo e
non da una verifica oggettiva. La verità
di cui parla Badiou non è la verità originaria, di Dio o del mondo, quella che
viene prima, ma quella che viene dopo,
se viene, la verità seconda, anzi “a seconda”; quella che giorno per giorno
dobbiamo predisporci a percepire,
quando ci pare di intravedere qualcosa
di nuovo, che merita di venire comunicato agli altri: «Eventi del matema, della poesia, del pensiero, dell’amore e della politica creativa [...], tali che il nostro
tempo diventi rappresentabile come il
tempo in cui una mossa del pensiero ha
avuto luogo, mossa mai prima verificatasi, ma ormai condivisa da tutti, anche
se lo ignorano» (Id, pp. 77 e 87).
La svolta comunicativa
Proprio nel senso della condivisione
inverante – per cui se non c’è condivisione non c’è inveramento e se non c’è
inveramento non c’è verità – l’etica della comunicazione finisce per coincidere
con la comunicazione dell’etica, sottraendosi alla deriva aporetica in cui incorrono le altre “etiche del di”, per la
generalità della sua particolarità, per il
fatto che ogni incontro comunicativo,
per quanto circoscritto, si costituisce insieme come evento di comunicazione e
come evento da comunicare, come relazione che può trasformare gli oggetti in
soggetti e i soggetti in oggetti:
Nelle due prime persone, sono impliciti sia
una persona, sia un discorso su questa persona.
‘Io’ designa chi parla e implica nello stesso tempo
un enunciato sul conto di ‘io’: dicendo ‘io’, non
posso non parlare di me. Nella seconda persona,
‘tu’ è necessariamente designato da ‘io’ e non può
essere pensato al di fuori di una situazione posta a
partire da ‘io’; e, nello stesso tempo, ‘io’ enuncia
qualcosa come predicato di ‘tu’. Per la terza persona, è sì enunciato un predicato, ma soltanto al
di fuori dell’io-tu’. (Benveniste, 1966, p. 272).
In questo senso, nella cosiddetta
svolta comunicativa della filosofia contemporanea, è maturata
una vera e propria inversione nel rapporto
tra etica generale ed etica della comunicazione.
Ora non è più la prima a fondare la seconda, in
quanto etica applicata, ma è quest’ultima a fornire le indicazioni che consentono di giustificare
comportamenti universalmente conosciuti come
morali. Viene meno, in altre parole, la subordi-
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nazione del particolare al generale, nella misura
in cui ciò che era considerato ‘particolare’ si rivela, invece un atteggiamento proprio di ogni essere razionale (Fabris, 2006, p. 39).
Ancora una volta, nel “particulare”
di guicciardiniana memoria, che «apre
la porta del pensiero moderno» (Jacobelli, J., 1998, p. 161), sembra risiedere
una matrice di valori più facile da comunicare (da mettere a disposizione
degli altri, di ogni altro), in quanto sostanzialmente, ma non pregiudizialmente “differente”, rispetto alle istanze
di carattere generale da cui storicamente sono scaturite surrettizie imposizioni
ideologiche o interminabili conflittualità politiche e religiose.
La comunicazione acquisisce, dunque, un valore etico nella misura in cui ne
possiede uno eminentemente ontologico: “L’essere”, secondo la celebre definizione della Metafisica aristotelica, “si dice
in molti modi”, ma, appunto, si dice, e
non c’è modo in cui, per dirsi, qualcuno
non debba dirlo a qualcun altro: una
chiamata a raccolta intorno al focolare
della conoscenza, dove la nominazione
può dare progressivamente vita al mondo, magari trasformandolo in un confronto e, talvolta, in uno scontro di nominazioni. Per cui l’etica non viene più
prima della comunicazione, ma dopo, come una implicita verifica della riuscita
della comunicazione in quella che potremmo definire una “est-etica” (sintesi
tra estetica ed etica), nella quale la realtà
si aggrega in nuove prospettive di valore
e, affermandosi sensibilmente, può venire percepita ed eventualmente condivisa:
«Secondo la teoria est-etica […] la prospettiva etica è la sola che possa conferire
all’atto di creazione la sua profondità reale, la sua autentica giustificazione» (Audi,
2007, p. 331). In una prospettiva analoga,
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Agirdas Julien Greimas aveva parlato di
“estesica” a proposito della «componente
affettiva e sensibile dell’esperienza quotidiana» (Fabbri, 2004, p. 11).
Non a caso, in alcune bellissime pagine dedicate all’amicizia della Etica Nicomachea, Aristotele faceva dell’amico il
tramite e il testimone della virtù: attraverso l’amico, rispecchiandoci nell’amico, utilizzandolo come metro di giudizio di noi stessi, potremo felicemente
percorrere il nostro itinerario verso
quell’ideale virtuoso che, altrimenti, si
risolverebbe in una cristallizzazione
narcisistica, o, trattandosi di virtù civiche, nella tirannica coincidenza di un sistema di governo della cosa privata e
della cosa pubblica, privata di ogni vitale dialetticità. In questa intuizione dell’essere che per esistere deve venire detto da e a qualcuno, consiste l’insegnamento più rivoluzionario di Aristotele,
rispetto a quello platonico, secondo cui
era l’essere a dirsi e gli uomini, comunicandolo, potevano solo ripeterlo in maniera impropria e approssimativa, come
nel celeberrimo mito della caverna:
Se gli uomini comunicano, comunicano nell’essere. Quale sia la sua natura profonda, la sua
essenza (se la questione dell’essenza dell’essere
può avere un senso), l’essere è anzitutto concepito come l’orizzonte obiettivo della comunicazione. In questo senso, ogni linguaggio, in quanto
tale e nella misura in cui è compreso dall’altro, è
già una ontologia. […] L’essere non è altro che
l’unità delle intenzioni umane, che si rispondono
nel dialogo (Aubenque, 1991, pp. 131-132).
I modelli di comunicazione
Poiché non è ipotizzabile una convivenza senza regole, implicite o esplicite, si può comprendere l’esigenza di
ancorare anche i comportamenti co-
municativi a un sistema di regole, che
costituiscono una delle più importanti scoperte della seconda metà del Novecento: regole delle modalità dell’interazione comunicativa, come
quelle dei turni di parola; regole di
come convenga o non convenga dire
qualcosa perché risulti utile agli altri,
come il cosiddetto “principio di cooperazione” di Paul Grice, che costituisce una versione pragmatica dei
più impegnativi principi di “carità” di
Donald Davidson e di “umanità” di
Willard Van Orman Quine (Jacobelli,
G.P., 2003, p. 41).
Un riflesso interessante di queste
regole, in quanto espressione di una
volontà di inquadramento al tempo
stesso conoscitivo e normativo, può
venire individuato in un aspetto fondamentale degli studi sulla comunicazione, che è quello della modellistica.
La modellistica, e quindi anche quella della comunicazione, si propone
come una forma dell’essere, come
una visione del mondo che costituisce
anche un evento di comunicazione,
nel quale gli strumenti del comunicare giocano da sempre, dalla scrittura
alla stampa, dal telegrafo alla rete, un
ruolo decisivo, sia come mezzi sia come messaggi.
Secondo la saggezza popolare
ebraica, esistono due modi per raggiungere un obiettivo: se si ha un occhio buono, si può mirare dritto al
centro, sperando di coglierlo; se ci si
sente incerti, ma si sa come controllare la situazione, si può mirare dove
capita e poi disegnare l’obiettivo intorno al punto in cui si è mirato. C’è
poco da ridere: non soltanto il giovane arciere del racconto, che fa parte
della nota raccolta I racconti dei Hassidim di Martin Buber (Buber, 1949),
ma anche molti studiosi si comportano così, dichiarando l’obiettivo da
raggiungere solo dopo che lo hanno
raggiunto.
Anche nei modelli della comunicazione, sulla esigenza di comprendere cosa avviene quando si comunica,
tende a prevalere quella di determinare cosa si vorrebbe che avvenisse, in
ragione delle condizioni antropologiche e tecnologiche in cui e grazie a
cui la comunicazione può avvenire.
Per sintetizzare, senza rimuovere la
complessità dei fattori in gioco, potremmo affermare che tutti i modelli
di comunicazione derivano da qualche significativa “mediamor fosi”:
adottiamo il termine proposto da Roger Fidler (Fidler, 2000) a proposito
della cosiddetta rivoluzione digitale,
perché lo riteniamo suscettibile di applicazioni storiografiche di grande rilievo, alla stregua di quelle “pratiche”
mediatiche, che presuppongono una
radicale ridefinizione del campo dei
media in conseguenza di ogni irruzione di un nuovo medium con caratteristiche radicalmente innovative.
Di ogni mediamorfosi fa parte anche un nuovo modello di comunicazione, che tende a interpretarne in
una prospettiva fenomenologica le
caratteristiche tecnologiche. Si parla
di un modello telegrafico, quello ordinariamente definito anche come
standard, con riferimento alla invenzione del telegrafo, che nella prima
metà dell’Ottocento consentì per la
prima volta alla comunicazione di
procedere più velocemente della
mobilità, da cui in precedenza era
stata dipendente. Si parla di un modello telefonico, dopo che il telefono si è prospettato come un risarcimento della rottura delle solidarietà
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tradizionali, trasformando le comunicazioni “tecnologicamente mediate”, come quelle telegrafiche, in comunicazioni “tecnologicamente immeditate”, come quelle telefoniche.
Si parla, infine, di un modello telematico per quelle modalità comunicative che scaturiscono dalla rapidissima e per vasiva diffusione della rete: dove la telematica suggerisce una
modalità comunicativa che è stata
definita “evocativa” (Nanni, 2002, p.
178) per sostenere, in polemica con
il modello standard, come nella comunicazione non siano i concetti a
transitare, in quanto già presenti “da
sempre in modo identico in entrambi gli interlocutori”, ma siano il luogo e la cultura a comunicare in noi.
Diremmo piuttosto, con riferimento
alle identità virtuali, che la rete, nella sua specificità, consente di comunicare con se stessi, illudendosi di
comunicare con gli altri, rendendo
così evidente come il lacaniano “stadio dello specchio” tendenzialmente
non si concluda mai.
Mediamorfosi e nuove pratiche
Ogni modello di comunicazione,
almeno tra quelli che ambiscono a
una rappresentazione integrata del
fenomeno comunicativo, ci può dire
qualcosa di importante sulla comunicazione stessa, che sarebbe un errore trascurare, come spesso avviene
nella ricorrente guerra dei modelli.
Per esempio, la polemica contro il
modello telegrafico o standard, che
circoscriverebbe la comunicazione al
mero passaggio dell’informazione,
sia pure codificata, non tiene conto
di alcuni fattori di quel modello, in
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cui si deve riconoscere il genio indubbio di Claude E. Shannon. Da un
lato, l’idea che non possa darsi comunicazione senza rumore, se interpretiamo il rumore come un codice
o cca s i o n al m e n t e n o n p e r t i n e n t e
(Kosko, 2006, pp. 19-22). Ne deriva
l’importanza contestuale della pertinenza, integrata con la competenza –
il multiforme sistema di codificazione – in un confronto creativo tra
qualcosa che sta al momento dentro
l’ambito della comunicazione e qualcosa che, sempre al momento, ne resta fuori, per tornare utile in un altro
momento: come quando lavoriamo
con la radio accesa e ogni tanto tendiamo l’orecchio per cogliere qualche notizia, alternando strategie e
coinvolgimenti attenzionali. Dall’altro lato, l’idea della ridondanza, con
cui si cerca di ovviare al rumore e in
cui emerge l’istanza conversazionale, dove la ripetizione è, per così dire, d’obbligo, e si adombra quella
funzione fàtica che diventerà successivamente il cavallo di battaglia del
modello proposto da Roman Jakobson e dei modelli di comunicazione
alternativi rispetto a quello standard
(Volli, 1994).
Insomma, attenzione a parlare
male, senza coglierne tutte le potenzialità, del modello che va sotto i nomi dello stesso Shannon e di Warren
Weaver, perché include alcune intuizioni fondamentali in ordine alla
produttiva aleatorietà dell’etica della comunicazione. Per contro, il modello telefonico – in cui alcuni vedono il riflesso della tradizione dialogica (socratica) basata sulla argomentazione concludente – con le sue attuali estensioni sinestetiche (lo
schermo portatile, la viva voce, le vi-
brazioni silenziose, ma potrebbe non
essere ancora finita) fornisce indizi
non trascurabili in ordine alle complesse sinergie comunicative tra vista, udito e tatto, con le loro derive
feticistiche, che virtualizzano l’evento comunicativo, ma ne promuovono
anche il persistente interesse.
Infine, nel modello telematico che in base ai suggerimenti di Rocco
Ronchi potremmo individuare nel
coinvolgimento conversativo (Ronchi,
2003, pp. 149-154), non tanto per le
sue caratteristiche collaborative (si
stanno moltiplicando gli studi sulla
conversazioni asimmetriche e su quelle conflittuali: Orletti, 1998 e 2000),
quanto per le sue caratteristiche “rizomatiche”, secondo la suggestione di
Gilles Deleuze e Pierre-Félix Guattari si annida il rischio di una introversione empatica, incompatibile con un
progetto di mondo eticamente partecipato. In effetti, il rizoma possiede
qualcosa di cupo e di segreto, che si
sottrae sia alla progettualità, sia alla intenzionalità e che non sembra rispondere alla intemperante, ma motivata
esplorazione evenemenziale, nel cui
ambito la conversazione gioca al cambiamento. Tuttavia, la mediamorfosi
implicita nel passaggio dal contesto
analogico a quello digitale ha appena
messo la testa fuori della porta e ne conosciamo soltanto gli aspetti funzionali, di servizio, potendo soltanto ipotizzare che gli sviluppi decisivi vadano individuati nel suo riflusso reale, nella
sua alleanza operativa con il mondo, e
non nel suo deflusso virtuale, nella
creazione di quella second life i cui rischi non riguardano tanto le forme di
vita “diverse”, quanto la nostalgia del
passato tipica delle piattaforme del genere Facebook.
Ordine e disordine del discorso
In ogni caso, come si vede, i modelli di matrice tecnologica, nonostante il loro vincolo reificante, quello della tecnologia di riferimento,
presentano alcuni vantaggi rilevanti:
per l’effetto di realtà connesso alla
concretezza del mezzo, non si chiudono in se stessi né pretendono di
chiudere la comunicazione in un formato ideologicamente predeterminato, ma anzi, susseguendosi storicamente l’uno all’altro, mettono in luce
la diversificazione fenomenologica
della comunicazione. Questo effetto
di realtà, infatti, riporta la comunicazione di cielo in terra, in quel contesto delle “pratiche”, in cui consiste la
“domanda etica”, intesa, secondo le
illuminanti suggestioni di Carlo Sini,
come la «messa in opera del pensiero
dell’evento come apertura» (Sini,
2000, pp. 206, 199).
Tuttavia, non è detto che questa
domanda etica raggiunga l’obiettivo
di «riscrivere il soggetto» (Id, p. 215),
poiché in ogni modello di comunicazione si cela anche la possibilità di
adibirlo a un esercizio non tanto della comunicazione comunicante,
quanto della comunicazione scomunicante. Ogni modello, infatti, comunica anche se stesso in rapporto con
gli altri modelli – per esempio, i mass
media possono fingersi interattivi grazie a presunte associazioni con il telefono o la posta elettronica, con gli
effetti preoccupanti che Umberto
Eco aveva denunciato nella “neotelevisione” (Marrone, 2001, p. 48) – riuscendo così a irretire l’evento di comunicazione in quella retorica dei
mezzi che oggi, più ancora della tradizionale retorica dei messaggi, si po-
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ne come fattore discriminante tra una
comunicazione aperta a progetti d’insieme e una comunicazione arroccata intorno agli interessi costituiti.
Non a caso, nel suo pionieristico saggio dedicato all’“ordine dogmatico”
e intitolato, nella edizione italiana,
Gli scomunicanti, Pierre Legendre parlava del «soggetto posseduto dall’istituzione» (Legendre, 1974, pp. 109112). Per altro, come ha acutamente
rilevato Alberto Abruzzese proprio a
proposito della nostra distinzione tra
“comunicare” e “scomunicare”, in un
mondo in cui si preconizza l’avvento
di nuovi soggetti capaci di farsi interpreti di un cambiamento radicale, se
comunicare significa dare voce a chi
già ha voce, scomunicare potrebbe
comportare una emarginazione liberatoria, una forzatura dell’ordine del
discorso, al quale, secondo le magistrali argomentazioni di Michel Foucault, si deve reagire non in contrapposizione, ma tenendolo a distanza:
o, meglio, “nella” distanza: nella “rarefazione”, nella “discontinuità”, nella “specificità”, nella “esteriorità”
(Foucault, 1971, pp. 26-27).
La comunicazione, quella in grado di liberarsi dalle panie della coazione a ripetere, secondo un proverbiale titolo di Pier Angelo Rovatti
(Rovatti, 1994), deve “abitare la distanza”, anche se i modelli di comunicazione prevalenti, sia che concepiscano la comunicazione come “trasmissione”, sia che la concepiscano
come “legame” (Morcellini, Fatelli,
1998, pp. 134, 135, 140), tendono a
rappresentare questa distanza come
un limite e un ostacolo, non come la
opportunità di continuare a cercarsi.
Al contrario, la “distanza” consiste
proprio nel mantenere presente l’as-
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senza, in ordine alla quale la comunicazione gioca l’ambivalente ruolo
del pharmakon platonico, che insieme
inasprisce e risarcisce:
L’esperienza della distanza […] è il vero punto
di partenza della filosofia aristotelica del linguaggio: distanza tra il linguaggio e il pensiero, di cui
non è che lo strumento imperfetto e sempre in questione; distanza tra il linguaggio e l’essere, come testimonia la possibilità della contraddizione e dell’errore. […] L’esperienza fondamentale della distanza viene corretta dal fatto, non meno incontestabile, della comunicazione (Aubenque, p. 131).
Comunicare, dunque, non significa
avere preliminarmente qualcosa in comune: significa predisporsi, nella distanza e conservando la propria differenza antropologica, a proiettare questa
differenza nella partecipazione a un
progetto che inizialmente non è, ma
può diventare comune. L’essere si risolve, aristotelicamente, nella comunicazione, non solo per la dialettica della tematizzazione, perché, additando qualcosa, stabiliamo i livelli di realtà pertinenti – parliamo dell’albero o del bosco? –, ma anche perché chi grida al lupo, si aspetta che gli altri accorrano,
purché, ovviamente, non volesse ingannarli: è questo il senso del modello di
comunicazione che stiamo proponendo, basandoci su quella che Giordano
Bruno definiva la pratica da cui “tutte le
scienze hanno la loro origine”: la traduzione, su cui tanto è stato detto e tanto
resterebbe da dire.
Babele e la traduzione
L’evento, mitico o storico che sia, è
noto: a Babele l’umanità provò a scalare il cielo, per avvicinarsi a Dio o perché Dio potesse avvicinarsi all’uomo;
ma anche per sfuggire a una minaccia
permanente, di quell’acqua che dopo
il diluvio si era raccolta nelle nubi come in un otre e che doveva rifluire a
terra perché l’uomo potesse ricominciare a vivere senza l’angoscia di una
minaccia permanente. Nonostante la
tradizione abbia letto i fatali versetti
del Genesi come la cronaca di una punizione che portò alla confusione delle lingue e alla impossibilità di continuare a capirsi, di recente - anche in
un nostro saggio, in corso di pubblicazione - sono state proposte letture bibliche in cui la punizione appare, se
non come un premio, come il compimento di una creazione progressiva,
frutto della collaborazione tra quanto
creato prima e quanto creato dopo. A
Babele l’uomo diventò quello che doveva essere, in una prospettiva in cui il
racconto biblico si associa alla teoria
dell’evoluzione nell’affermare l’importanza dell’isolamento per consolidare e valorizzare le differenze.
Quando l’uomo cominciò a parlare
lingue diverse, diventò indispensabile
l’esercizio della traduzione, che si configura come una duplice creazione,
nella quale, in una dimensione “grammatologica”, convergono due differenze, quella della testualità originaria
e quella della nuova testualità, da cui
può scaturire un soggetto inedito e più
comprensivo di quelli di partenza (di
chi scrive, di chi traduce, di chi legge);
un soggetto incorporato nella testualità stessa, in ogni progetto di vita che,
per venire formulato, deve passare di
mano in mano, sottraendosi ai condizionamenti del qui e ora: altrimenti
che progetto sarebbe? Non a caso Derrida sosteneva che ogni traduzione
«assomiglia già a una traduzione, a
una traduzione della traduzione»
(Derrida, 1997, p. 228).
Nell’ottica della traduzione, che
Valerio Magrelli, poeta e traduttore,
equipara al moderno concetto d’interfaccia, in cui il contatto risulta produttivo proprio perché non interpretativo, si può pensare a un modello di comunicazione che non presupponga,
come i precedenti, passaggi ripetitivi e
laterali: dell’informazione trasmessa,
della parola scambiata, della identità
negoziata, ma un passaggio differenziale, in avanti: ogni volta che si comunica, il problema non è quello di capirsi, ma quello di proiettarsi insieme
in un futuro diverso dal presente. L’idea che l’etica della comunicazione
debba prendere in considerazione le
condizioni di possibilità di una comunicazione creativa, in grado di omologare i contesti piccoli e grandi della vita in una costante ricerca di fuoco, ottico (“mettere a fuoco” una realtà che
prima non veniva percepita) e psicologico (“Infiammatevi!”, consigliava Michel de Montaigne ai suoi lettori), “traduce” la concezione della comunicazione come mezzo in quella della comunicazione come fine. Tuttavia, se è
vero che si comunica per comunicare,
non si deve trascurare, per una sorta di
total immersion comunicativa, come si
debba sempre comunicare qualcosa,
anche se questo qualcosa non esaurisce il senso della comunicazione.
Abbiamo già espresso questo apparente paradosso – connesso all’enfasi
di cui da qualche tempo si riveste la
spesso equivocata funzione fàtica di
jakobsoniana memoria – rovesciando
la classica formula di McLuhan per affermare che “il messaggio è il mezzo” e
che, quindi, un messaggio è comunque
necessario per veicolare quelle sortite
da sé in cui consiste la comunicazione.
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Il modello di Babele può, in proposito,
fornirci utili indicazioni, nella misura
in cui proprio Babele inaugura, nel
racconto biblico, la parola profetica, la
parola che viene da lontano e che non
si dice “prima”, ma si dice “per”: nonostante il senso comune abbia associato la profezia alla previsione, ancora una volta il ricorso a Benveniste
chiarisce il diverso significato delle
preposizioni che in latino designano la
distanza: «Pro non significa tanto ‘davanti’ quanto ‘al di fuori, all’esterno’;
è un ‘in avanti’ realizzato in un movimento di uscita o di espulsione fuori
da un luogo supposto interno o coperto» (Benveniste, 1966, p. 158). In altre
parole, se prae anticipa qualcosa, pro
sta al posto di qualcosa che non c’è: la
comunicazione profetica concerne la
parola di un altro; la parola dell’altro
non si risolve in una parola referenziale, ma incorpora una sorta di capacità
“perlocutoria”, per dirla con John Austin; se la parola profetica vive nella
temporalità delle sue conseguenze,
deve avere un compimento, come ogni
autentica comunicazione (Jöchler,
2004, pp. 23, 29, 32, 33).
Eterogeneità, coinvolgimento, occasionalità sono le caratteristiche che,
nella nostra prospettiva etica, consentono di distinguere tra una comunicazione comunicante, in cui si lascia all’altro, e a se stesso, l’autonoma possibilità di divenire, senza costringerlo
nelle camicie di forza dell’essere, e
una comunicazione scomunicante, in
cui, al contrario, s’insinua la perversa
intenzione di tenere avvinto l’altro, e
se stesso, alle logiche – tolleranti o intolleranti, non fa differenza – di un
mondo che resta, pretendendo di andare: di un autunno che, come si diceva del Liberty (!), si finge primavera.
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PARTE SECONDA
Etica delle professioni comunicative
La buona morale
televisiva
di Renato Stella
1. Mediare l’etica
La questione morale, per quanto riguarda un medium come la televisione,
può essere affrontata entro due principali prospettive (Stella 2008):
a) Considerando le rappresentazioni
di eventi e circostanze che hanno contenuti etici e che sono messe in circolazione dalla tv attraverso i propri messaggi (ad esempio nelle scene di un
film, di un serial o nelle testimonianze
raccolte in un talk show).
b) Definendo l’ambito deontologico
e giuridico di applicazione di principi etici a cui la tv deve sottoporsi per legittimare la propria credibilità (ad esempio,
adottando codici di autoregolamentazione e provvedimenti di legge).
Sia l’una che l’altra hanno un carattere normativo, ma si rivolgono a soggetti diversi, verso i quali utilizzano linguaggi specializzati. La rappresentazione
di fatti etici interpella gli spettatori e
possiede una finalità pedagogica: mostrare la soluzione di un problema, rendere note le dimensioni di un dibattito
in corso, stabilire criteri di senso comune per definire condotte giuste, eque,
buone ecc. Il tutto in una forma testuale che ricorre a esempi scelti dalla vita
quotidiana e messi poi in scena dalla fiction o dai reality. L’applicazione di regole
etiche riguarda, invece, coloro che, con
ruoli diversi, partecipano al processo di
creazione dei messaggi (autori, registi,
conduttori ecc.), ai quali è richiesto di
perseguire fini giusti, equi e buoni nel
proprio lavoro produttivo. A essi si parla in forma grammaticale proponendo,
non esempi, come accade con le immagini rivolte agli spettatori, ma regolamenti e leggi1.
Nel nostro articolo ci occuperemo di
alcuni aspetti connessi alla rappresentazione di fatti etici nei messaggi, trascurando la questione delle regole deontologiche e della loro attuazione. La forza
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103
prescrittiva e modellizzante delle rappresentazioni di azioni etiche in tv, abbiamo detto, si fonda su repertori di casi esemplari e su flussi di narrazioni contenuti nei programmi. Per descrivere al
meglio un tale meccanismo è necessario
tener conto del campo retorico che ne
governa la legittimità e l’accettabilità. Ai
palinsesti della televisione generalista
(comprese le reti satellitari e digitali), si
applica infatti una sorta di morale comune, socialmente condivisa, che si presume rispettata da tutti. Un modo per
accertare una tale aspettativa comune
consiste nel tener conto che nessun talk
show, episodio di serial, film per la tv o
notizia di telegiornale, potranno mai
concludersi su posizioni dichiaratamente razziste, sessiste, atee o politicamente
sovversive. Ciò non toglie che nel corso
della conversazione in un salotto televisivo o nello svolgimento della trama di
una sit-com, tali idee possano emergere e
venire espresse. Tuttavia la loro evocazione serve solo a rimarcare dialetticamente la preminenza delle norme che
si ritengono universalmente accettate e
che l’interprete, il giornalista o il conduttore non mancheranno di imporre,
sanzionando le posizioni contrarie. La
retorica della “buona morale” sembra
essere dunque uno dei requisiti standard richiesti a chi intende apparire in
tv e, seppure con qualche smagliatura, è
piuttosto omogeneamente applicata,
tanto da contribuire a produrre conformismi piuttosto tenaci e difficilmente
criticabili, simili a quelli studiati da
Noelle-Neumann (2002) per formulare
la teoria della Spirale del silenzio2.
Ovviamente inter vistare un naziskin, un pedofilo, un mafioso, un serial killer costituisce un’occasione
spettacolare ghiotta, alla quale difficilmente un medium è in grado di re-
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104
sistere. Ciò nonostante, nessuno di loro potrebbe, di norma, essere ammesso a intervenire in una conversazione
radiofonica o televisiva con pari dignità rispetto a ospiti ordinari. Essi
sono gli “innominabili” del discorso
mediale, quindi li si può coinvolgere
o citare ricorrendo al linguaggio in
uso per le notizie di cronaca, i documentari o i dibattiti tra specialisti.
Questo garantisce che vocabolari,
azioni e idee rimangano incorniciati
entro paradigmi esplicativi eticamente accettabili. Le loro parole, infatti,
non sono “dicibili” in tv o nella stampa, senza suscitare l’immediata reazione di quegli attori sociali che potrebbero sentirsene minacciati o insultati. Diversa invece è l’ipotesi di un
mafioso, un terrorista o un serial killer
che si “pentono” e decidono di raccontare la loro storia in pubblico. In
tale circostanza, esistenze proscritte o
mostruose si propongono come casi
esemplari, incarnando un modello
etico edificante, oltre che un genere
televisivo oramai consolidato, nel
quale gli spettatori possono riconoscersi positivamente3.
Queste considerazioni hanno ampiamente introdotto il tema principale del nostro ragionamento. Per avere
accesso a un medium come la tv occorre usare le parole e i codici etici
che essa richiede come dotazione minima di competenze discorsive e relazionali a cui un ospite, un membro
del pubblico, un conduttore devono
riferirsi. Tali regole sono in massima
parte non scritte e viaggiano attraverso contenuti testuali che ne ribadiscono l’esistenza e la forza prescrittiva. Alla fine, gli spettatori ottengono
da un programma risorse cognitive e
ludiche (Fiske 1989), ma anche inse-
gnamenti che riguardano la vita sociale (l’etica pratica rappresentata nei
messaggi), insieme a istr uzioni su
quel che ci si aspetta sia dicibile e riferibile attraverso il medium (l’etica
pratica applicata alla produzione dei
messaggi). La tv, qui come in altre circostanze, addestra le audience sui suoi
stessi usi, allo scopo di coltivare i propri pubblici (Gerbner 1986).
Il nostro intento tuttavia, in questo
articolo, non è quello di sondare le forme di costruzione di “censure morali”,
quali quelle a cui ci siamo poco sopra riferiti in negativo, citando mafiosi e serial killer. Vorremmo invece esplorare la
medesima funzione quando si presenta
in positivo: non come divieto, ma semmai come risorsa; non quando impedisce un discorso, ma quando lo trasforma sino a renderlo compatibile con i
propri criteri di valore. Ciò costituisce
una eticizzazione dei comportamenti soggettivi ancorata alla miriade di rappresentazioni di eventi e circostanze dei
quali la tv si fa portatrice (Lazarsfeld
Merton 1969, Wright 1974).
Cercheremo di mostrare ora come si
articola un tale ragionamento.
2. Tre casi esemplari: la posseduta, la
pazza e il selvaggio
Prendiamo le mosse da alcune
considerazioni che Michel de Certeau
fa intorno a due figure stereotipe nella nostra cultura: la pazza e la posseduta. Ciascuna definita nell’ambito di
un sapere a cui fanno capo degli specialisti con compiti terapeutici e cognitivi: lo psichiatra e il demonologo.
L’obiettivo di De Certeau è di individuare il modo in cui la relazione tra
l’esperto e il soggetto sottoposto alla
sua indagine condiziona l’uso stesso
delle parole impiegate da entrambi
per definire la situazione.
La “malata” o la “pazza” riceve dal discorso
psichiatrico la possibilità di formulare degli
enunciati; allo stesso modo, la “posseduta” non
può enunciarsi se non grazie all’interrogatorio o
al sapere demonologico, quantunque il suo posto
non sia quello del discorso del sapere che viene
fatto su di lei. La parola della posseduta si costituisce per il fatto di essere relativa al discorso che
l’aspetta in quel certo luogo, sulla scena demonologia, così come la pazza, all’ospedale, ha solo il
linguaggio che le viene preparato sulla scena psichiatrica (De Certeau 2005, p.71).
Nella posseduta, in realtà, parla il demone che l’ha invasa; nella pazza a
prendere la parola è il delirio da cui è
alienata. Entrambi producono discorsi
incomprensibili, che si pongono in un
“altrove” al quale gli esperti faticano ad
avere accesso. Tuttavia, nel momento in
cui la posseduta e la pazza “ricevono la
possibilità di formulare enunciati”, ciascuna all’interno del proprio campo
simbolico di riconoscimento (la demonologia, la psichiatria), la circolazione
comunicativa riprende il suo corso. Vi è
dunque un proscritto che riguarda
quanto l’una e l’altra dicono spontaneamente a partire dalla loro situazione
di “anormalità”. Quando parla il demone o quando prende consistenza il delirio, poco o nulla è intellegibile, sia a chi
si esprime, sia a chi ascolta. Per iniziare
il processo di guarigione è necessario
che la posseduta e la pazza comincino a
far proprie le grammatiche descrittive
dell’inquisitore o del medico. Devono
guardare a loro stesse come sono guardate dagli esperti che le esaminano, solo così saranno poste nella condizione
di poter comunicare con chi si prende
cura di loro e, con questo mezzo, con loro stesse, “ritrovandosi”, comprendenNuova Civiltà delle Macchine 3/2009
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do quel che sta loro capitando.
L’assunzione di una “veste etica”
corrispondente alle attese di chi controlla l’ordine del discorso (il “luogo”
nella definizione di De Certeau), è
dunque premessa indispensabile per
superare l’anomalia definita dall’infermità o dalla possessione. L’imparare a
parlare “come ci si aspetta” in un certo
contesto, richiede che sia attribuito potere a chi detiene il relativo sapere e,
nel medesimo tempo, che chi vi si sottopone per essere esorcizzato o guarito,
eserciti la necessaria flessibilità e vi si
adatti. Di conseguenza, le due posizioni
integrano la reciproca complementarietà (l’esorcista esiste per la posseduta;
lo psichiatra per la pazza), con la contiguità dei linguaggi, dei codici e dei contenuti. Finché, inevitabilmente, utilizzando le parole “giuste” si potrà essere
riconosciuti e insieme reintegrati in
quell’ordine che, con le proprie azioni
e i propri discorsi, era stato violato. Si
crea con ciò una diffusione autoreferenziale di informazione: lo psichiatra
e l’esorcista parlano a loro stessi attraverso la mediazione della pazza e dell’indemoniata che “formulano enunciati” rispondendo alle loro sollecitazioni. In realtà, essi mettono in circolazione flussi comunicativi diretti ad altri
psichiatri e ad altri esorcisti. L’esperienza del teatro medico o religioso, dove si recitano il risanamento del corpo
e la guarigione dell’anima, prende infatti le strade dell’archivio e della scrittura (nei manuali di medicina, nei verbali dei processi canonici) e diventerà
oggetto di narrazione, coinvolgendo i
pochi lettori acculturati che sono in
grado di comprenderli. È così che viene sancita una incolmabile disuguaglianza sociale: l’esperienza della posseduta vale più per la demonologia che
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non per lei stessa; analogamente la pazza offre un caso catalogabile e studiabile per la psichiatria e gli psichiatri, che
potranno utilizzarlo nel proprio repertorio diagnostico (Foucault 1969).
Infatti, il discorso demonologico, il discorso etnografico o il discorso medico assumono nei confronti della posseduta, del selvaggio o del malato
una stessa posizione. “So meglio di te quello che dici”, cioè “il mio sapere può mettersi al posto da cui
tu parli” (De Certeau 2005, p. 74).
Nel “mettersi al posto di” quel sapere
interpreta, dà senso, offre una via “etica”
di salvezza a ciascuna delle figure evocate: la posseduta si libera, la pazza rinsavisce, il selvaggio si civilizza; ma a patto di
assumere ciascuno le parole e il punto di
vista di chi parla di loro e li racconta dall’ambito del proprio sapere. Il piegarsi ai
dettati del “luogo” demonologico o psichiatrico, assumendo per proprio il relativo discorso, con le sue regole grammaticali (“parlo con le tue parole”, “accetto
di sottomettermi alla tua conoscenza, rinunciando alla mia”), trasforma alla fine
una vulnerabilità sociale in sottomissione
testuale4. Ma non si tratta di una abdicazione. La posseduta, la pazza, il selvaggio
sono sempre ambivalenti: i demoni, la
follia, la cultura primitiva lasciano le loro
tracce, si mischiano e si sommano alla dichiarazione di impotenza con cui la salvezza è ottenuta a patto di utilizzare il
“giusto” vocabolario. Il vocabolario ne risulta così ibrido, spezzato, riletto a misura del demone o del delirio che, seppure
imbrigliati, parlano e si fanno intendere5.
Questo adattamento contiene in sé i
prescritti di una disposizione etica, un
richiamo a regole obbedite per compiacere l’interrogante e l’ordine simbolico
che egli incarna. Il sapere che per bocca dell’inquisitore, dello psichiatra, dell’etnografo pretende di essere ascoltato
e di avere una funzione pedagogica e
modellizzante, trasforma le persone che
si sottomettono alla sua interpretazione. Al contempo gli exempla ricavati dalla pratica medica, demonologica, etnografica circolano sotto forma di letteratura scientifica o edificante, dettando
ad altri regole di condotta e principi generali. I media religiosi, medici, antropologici funzionano attraverso i corpi e
i “luoghi” dai quali prendono la parola,
si mettono in scena nei processi con cui
mirano a riportare l’anomalia (della
possessione, della pazzia, del mondo
selvaggio) alla normalità. E ciò accade
attraverso quanto viene detto da ciascuno degli attori implicati; è il raccontarsi
accogliendo le regole di narrazione dell’inquisitore, del medico, del colono a
essere sintomo credibile di guarigione e
di trasformazione, e non il contrario.
L’ascolto dell’esorcista non sta dalla
parte della posseduta, ma all’opposto,
attende dalla posseduta segni di riconoscimento della propria autorità6. Solo
quando ciò avviene il rituale mostra di
aver liberato dall’invasamento la strega,
restituendola, se non ad una vita devota, almeno all’intelligibilità delle parole, al poter essere compresa7.
Non siamo molto lontani da quel
che osservavamo poco sopra intorno
alla proscrizione del discorso estremo
o mostruoso in tv. La confessione del
pedofilo o del neonazista è etica, è
“udibile” in un talk show, solo se mira al
ravvedimento e alla espiazione, se si
esprime con le parole che il medium
considera legittime; al contrario la giustificazione autoassolutoria dell’ideologia e dell’azione, come accade per il
vaneggiamento della posseduta, non
lo è, a meno che non sia compresa entro cornici interpretative specializzate
(del criminologo, dello psichiatra, del
giornalista ecc). Per parlare, ciascuno
deve assumere le parole, dare i significati, “attesi”, quelli che non violano
l’ordine simbolico considerato comune, il quale possiede però, dei confini
mobili. È ammesso che un omosessuale o un obeso possano esibire con fierezza la loro condizione e possano sostenerla pubblicamente 8 . Un minor
spazio, tuttavia, potrebbe essere concesso a un fumatore o a un bevitore. La
differenza riguarda una sorta di “intorno comunicativo” a cui ciascuna
narrazione deve fare riferimento. Se le
condanne esplicite dell’omosessualità
sono ormai molto contenute in Occidente, assai più densa è la somma di
informazioni che riguardano i danni
fisici derivanti dall’abuso di cibo, di alcol e di sigarette. In un simile contesto
la credibilità delle posizioni che sostengono tali pratiche come “buone” è
piuttosto compromessa e collocata vicino ai limiti dell’indifendibile. Oltre
tale termine un tossicodipendente, come vedremo, incarna invece il tipo
moderno della strega e della pazza citate da De Certeau: per raccontarsi in
televisione o sulla stampa, deve assumere la veste rituale, la “posa” comunicativamente accettabile, dei linguaggi e dei vocabolari di chi lo interroga.
Si costruisce perciò in psicologo e sociologo di se stesso, assumendo come
propri i paradigmi interpretativi che
riconoscono, nel consumo di sostanze,
il sintomo di conflitti emotivi e di problemi di relazione senza i quali il suo
discorso apparirebbe insopportabilmente immorale.
È questo il passaggio necessario per
comprendere appieno il rapporto tra
rappresentazioni televisive di fatti eticamente rilevanti, e la forza prescrittiva
che esse possiedono, sia nei confronti di
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coloro che parlano in tv (conduttori,
ospiti, autori), sia nei riguardi di quanti
guardano la tv (le audiences). Nell’esempio della posseduta di De Certeau, l’appropriazione da parte del soggetto di
elementi e codici del discorso esperto,
ha il fine di dare senso all’azione etica,
razionalizzando il comportamento soggettivo. Con la tv si produce un ulteriore passo: la razionalizzazione delle motivazioni all’agire si traduce in rappresentazione sociale. La tv infatti è una
forma di scrittura “pubblica” di eventi
verso cui è richiesto, come accade nei
rapporti faccia a faccia (Goffman 1988),
un contegno appropriato allo scopo di
renderli accettabili e comprensibili a
“tutti”. Ciò toglie centralità ai saperi
esperti (la psichiatria, l’antropologia, la
demonologia dei nostri esempi), per attribuirla, in parte, alle culture tecniche
legate alla produzione dei programmi
(ideazione, conduzione, marketing) e in
parte al flusso di interpretazioni della
realtà che viene da un numero sempre
maggiore di trasmissioni in cui si mette
in scena la vita quotidiana9.
Tale osservazione è tanto più rilevante quando si consideri che sono sovente le persone più semplici a utilizzare la tv per raccontarsi, rivendicare un
diritto, esprimere un bisogno (Stella
2009). Anche il maggior consumo di
programmi vede in prima fila gli individui meno acculturati (Censis 2005). La
circolazione di saperi che con la posseduta, la pazza e il selvaggio interessavano gli esperti e gli eruditi con le loro
culture, attraverso i media si massifica,
rompe gli argini della specificità di linguaggi e codici (Meyrowitz 1993) per divenire “popolare” nel senso che a questa parola danno i Cultural Studies (Fiske
1989, Grossberg 2002). La comunicazione ora non avviene più fra tre attori:
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la posseduta, il suo demone e l’esorcista. Vi si aggiungono folle di curiosi che
utilizzano il medium per interpretare,
non solo le anomalie, ma eventi della
realtà più semplice e routinaria. Laddove la tv parla a un pubblico indifferenziato ed esteso, aumentano le sue responsabilità etiche, ma nel contempo
s’ingigantisce anche la sua capacità di
indurre o suggerire condotte etiche legate ai propri linguaggi, come è necessario facciano l’inquisitore e lo psichiatra. Il che produce esiti impensati e sovente contraddittori sui quali è utile fare qualche riflessione.
3. L’anoressia mediale
Uscito dal teatro terapeutico della
medicina o dell’esorcismo, il discorso
esperto diviene oggetto di divulgazione
per i media, che interpellano, non più
pochi specialisti colti, ma vaste masse di
individui, a cui sono offerti racconti
drammatizzati e immagini spettacolari
al fine di attrarne l’attenzione. Questo
passaggio, come anticipavamo, trasforma i linguaggi e altera una parte dei
contenuti, ma quel che più ci interessa,
modifica la rete di attori e di destinatari
dei messaggi. Le triadi classiche: posseduta - demone - inquisitore; pazza - delirio psichiatra; selvaggio - cultura primitiva - etnografo, che creavano cortocircuiti comunicativi autoreferenziali, si spezzano,
moltiplicando gli attori coinvolti e con
essi i luoghi in cui i discorsi vengono
prodotti. La presenza poi di spettatori
“estranei” che non rivestono alcun ruolo nell’economia degli eventi di cui si
parla, introduce un ulteriore fattore di
complessificazione. L’interazione tra i
soggetti direttamente o indirettamente
chiamati in causa diventa così più den-
sa, mentre alcuni meccanismi di fondo
restano invariati. Tra questi il potere
modellizzante dei prescritti etici. Un
buon esempio in questa direzione è costituito dall’anoressia.
L’anoressia, insieme ad altri disturbi
del comportamento alimentare, è accompagnata da una costellazione di discorsi pubblici messi in circolazione da
pressoché tutti i media. Moltissimi libri,
siti internet, trasmissioni televisive e radiofoniche, articoli di giornale, film e
servizi fotografici sono stati prodotti negli ultimi anni per descriverla nei suoi diversi aspetti. L’elemento più importante
che caratterizza questa ininterrotta proliferazione di materiali è che la malattia
non rimane più confinata nel quadro
del sapere medico-psichiatrico, ma interpella in prima persona molte altre figure. Dalle ex anoressiche che raccontano la propria esperienza, offrendo consigli e rimedi; alle anoressiche attuali
che espongono il loro disagio e fanno
proponimenti di guarigione. Dalle madri, i padri, i fidanzati di malate che si assumono responsabilità e assicurano vigilanza; alle medicine e terapie “naturali”
che raccomandano protocolli e training
alternativi. Dalla pubblicità sociale e
commerciale che vorrebbe produrre effetti virtuosi di prevenzione; agli specialisti impegnati sul fronte clinico secondo
scuole e paradigmi tra loro spesso discordanti. Ognuno con qualcosa da dire, da scrivere, da mostrare e da portare
a testimonianza del proprio impegno
per sfidare la patologia.
Si esercita con ciò una sorta di eroicizzazione e mitizzazione dell’essere,
dell’esser state o del poter divenire delle anoressiche, grazie all’enfasi attribuita dai media. Il che ci pare contraddica
il sospetto che di solito circonda la tv e
la stampa su questo tema, vale a dire il
dubbio che essi esaltino le figure emaciate di top-model e attrici per ragioni
commerciali, fornendo così a ragazze
borderline degli esempi pericolosi. I mezzi di comunicazione parlano di anoressiche, molto più di quanto mettano in
scena i presunti modelli a cui esse si ispirano10. Un tale malinteso consente tuttavia al prescritto etico di potersi applicare con apparente facilità: “riducete o
abolite la presenza di corpi troppo magri dalle pagine delle riviste e dagli
schermi televisivi e avrete contribuito a
contenere il diffondersi del male”. Per
convincere i riottosi, si discute incessantemente di anoressia, si saturano gli spazi e i tempi disponibili con campagne e
immagini, confessioni e appelli. Ciò
spinge a pensare che siano i buoni propositi, piuttosto che i buoni risultati, a
rendere efficaci gli effetti di tali forme
di comunicazione. Di conseguenza si
suppone che le indossatrici lancino
messaggi negativi, perché pongono in
positivo, entro un’aura di successo e glamour, l’esibizione del loro corpo magro.
Al contrario, le anoressiche lanciano
messaggi positivi, perché mostrano, in
negativo, gli effetti devastanti della malattia sul loro organismo.
Di tutto il resto, di biografie e romanzi, film e inchieste non ci si occupa, come
se l’etica edificante di ragazze guarite, di
madri pentite, di medici volenterosi fosse sufficiente, da sola, a riparare i pericoli del contagio. A produrre un punto di
contatto, tra questa disseminazione incessante di prese della parola e la condizione della posseduta descritta da De
Certeau, c’è il raccontarsi delle protagoniste nei siti pro-Ana e pro-Mia11. Oggetto
di proscrizione legale, prima che morale,
questi luoghi del discorso inudibile,
scandaloso, perverso, rimettono in scena
il soggetto mancante, quello che in psi-
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chiatria e in demonologia stava scritto
nelle pagine dei manuali e nei verbali dei
processi. L’anoressica non vuole parlare
al suo medico o a sua madre, nemmeno
a spettatori estranei. Come lo psichiatra
parla a se stesso e ad altri psichiatri a mezzo delle parole a cui addestra la pazza
che ha in cura, così l’anoressica conferma a se stessa e alle sue consorelle la
bontà della propria condizione: si sottrae
ai prescritti per entrare nell’ordine di
una nuova morale, tutta sua, fatta di deliri e di demoni che comunicano e attraverso i quali essa comunica. Come lo psichiatra descrive il “luogo” della follia grazie al suo sapere esperto, così l’anoressica rappresenta se stessa e il suo piacere
distruttivo grazie ai media. Senza la mediazione, il discorso dell’anoressia sarebbe muto, rimarrebbe inesprimibile al di
fuori della relazione terapeutica e familiare. La violazione etica qui tocca le forme della circolazione dei messaggi piuttosto che i loro contenuti. Non spaventa
tanto che un’anoressica parli dal centro
del suo mondo, ma che riesca a coinvolgere i mondi delle altre, a dire parole
plausibili che vengono ascoltate e prese
sul serio12.
Dunque ecco disposti i soggetti nei loro “luoghi”, ciascuno con i suoi messaggi. Parlano i medici, parlano le anoressiche guarite, quelle in via di guarigione,
parlano le irriducibili, parlano le loro
madri colpevoli, i loro padri disattenti, i
fidanzati premurosi, e ogni cosa avviene
al di fuori di qualsiasi teatro dell’intimità:
accade in pubblico, affinché tutti vedano
e tutti sappiano. Lo spettacolo dell’anoressia così si complessifica e ricade su se
stesso: troppe voci a sostenerlo, troppo
impegno descrittivo che esce dai canoni
della medicina o della psicologia per divenire cultura collettiva.
La conseguenza più rilevante di un
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tale stato di cose, però, non è solo un cicaleccio perenne, un flusso senza fine di
storie appassionanti o disperate. I saperi quando vengono posti nel circuito
della diffusione di massa, trasformano
poco o tanto i loro locutori, diventano
nuovi prescritti, attribuiscono colpe e liberano da responsabilità. Non ci troviamo in un circuito comunicativo che funziona per aggiunzioni e sottrazioni: non
basta togliere (immagini di corpi, siti
pro-Ana) o sommare (pareri di esperti,
testimonianze biografiche) per produrre esiti positivi. I media non sono solo
scatole che racchiudono idee e immagini, possiedono virtù loro proprie e
un’efficacia sociale che spesso ci sfugge,
ma che fa la differenza nella produzione dei loro effetti.
Intorno agli anni Ottanta, ho cominciato a
registrare una lenta, ma a mio parere profonda
mutazione (…) le pazienti, o i pazienti, anziché
costringere il terapeuta a una lunga lotta per far
loro accettare la natura psicogena del disturbo,
arrivano con la diagnosi già fatta, con un piccolo bagaglio teorico già precostituito e pretendono a gran voce la cura; i famigliari non resistono tenacemente al progetto psicoterapeutico, come veniva descritto nei primi resoconti
clinici, ma lo invocano ansiosamente (Argentieri e Rossini, 1999, p. 62).
Gli psicologi, sino agli anni ’80, devono sostenere dure battaglie per convincere i genitori dell’anoressica che la loro
figlia non sta manifestando un po’ di
inappetenza capricciosa, ma un sintomo
serio che fa capo a una patologia severa.
Le resistenze ad accettare la diagnosi sono molte e spesso la terapia viene abbandonata o non comincia nemmeno. Più
tardi, invece, alcuni operatori si trovano
a doversi battere in situazioni rovesciate13. Non solo non vi è più resistenza rispetto all’ipotesi del disturbo alimentare
grave, ma vi è una specie di generalizzata
assunzione di ruolo (della madre, del padre, della ragazza), a cui corrisponde la
pretesa di una diagnosi conforme. Di qui
l’inversione del problema: lottare per
convincere che davvero, in questo o quest’altro caso, è semplice inappetenza e
nulla di più. La malattia entra in uno
scambio simbolico di riconoscimenti di
colpe e di responsabilità (la figlia incompresa, la cattiva madre, il padre distratto)
che giocano entro un teatro familiare
oramai reso pubblico.
Tanto i pazienti che i famigliari, infatti, sono
molto affezionati all’etichetta diagnostica di anoressia/bulimia, con la quale hanno già ammantato di senso il problema, e sono molto restii a vedersi smontare un punto di riferimento teorico a
suo modo rassicurante. Paradossalmente rassicurante, perché riconduce l’ansia di un male oscuro a qualcosa di già noto, di cui tutti parlano, di
condiviso, di generale e quindi di deresponsabilizzante (ibidem, p. 64).
Il fantasma dell’anoressia si aggira
per mettere in scena più attenzione di
quanta sia necessaria. Le madri pentite
confessano il loro sbaglio: sono cattive
madri che, parlando le parole della psicologia, anticipandole, si diagnosticano produttrici del disagio delle figlie.
La circolazione mediatica dei saperi
non è innocente, ma redistribuisce
compiti, funzioni, idee, regole: assegna
status e attribuisce ruoli. La madre “sa
già” cosa ha fatto della figlia e quest’ultima si pretende già etichettata, già fagocitata dal tunnel doloroso del male
delle adolescenti. Entrambe avvertite
dalla diffusione di informazioni e di immagini mediali delle anoressiche, con
le loro storie familiari svelate e rese produttive di altre storie. In questo gioco
l’eccesso di attenzione sociale amplifica
il fenomeno, lo rende parte di un paesaggio quotidiano di disagi che si dram-
matizza in termini di assunzione sociale di un rischio (Beck 2000); nel contempo lancia l’allarme, divulga la malattia ben oltre i confini e gli spazi che
già occupa. Insieme all’esibizione dei
corpi magri delle top-model, è la spettacolarizzazione a essere di turbativa: il
discorso sulle anoressiche entra nei cabaret e nel gergo comune, si secolarizza costruendosi un’area discorsiva e
mediale routinaria; un sottogenere che
si afferma nella fiction, nei programmi
di medicina e nei talk show.
Qual è allora il limite da porre ai
messaggi? Quale etica della responsabilità si proietta su corpi vivi e su esistenze
concrete, fino a costringerle a farsi domande nel linguaggio degli esperti e a
darsi risposte colpevoli? Il caso mediatico dell’anoressia sembra far toccare i
due estremi della relazione tra etica e
media che proponevamo all’inizio: la
rappresentazione della malattia (che disciplina, spaventa, attribuisce ruoli) sollecita l’applicazione di norme di contenimento al proliferare dei discorsi. Ma è
poi questa una strada accessibile? È così
che deve formularsi il tema dell’etica televisiva? In realtà, la posseduta di De
Certeau continua ad essere un archetipo di funzionamento per i media di
massa. E non solo per l’anoressia.
Se si chiede oggi a un ragazzo o a una
ragazza, fuori da una discoteca, perché
si “calano” facendo uso di sostanze chimiche o di alcol, molto probabilmente
nessuno di loro metterà in campo, come ragioni plausibili, la mancanza di valori morali, i conflitti generazionali o le
difficoltà di integrazione, che sono sovente invocati dai saperi esperti per
spiegare tali corsi d’azione. Piuttosto
potrebbero citare il piacere fisico e
mentale che lo “sballo” produce, il modo in cui facilita le relazioni sociali, il
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fatto che bere o “impasticcarsi” costituisca una pratica comune. Più o meno le
stesse giustificazioni che, sino a una
quarantina di anni fa, erano sostenute
dagli eroinomani nelle interviste date
alla tv o alla stampa (ad es. Larner, Tefferteller 1966), prima che il “discorso
pubblico” sulla tossicodipendenza li
convertisse nei migliori sostenitori delle
teorie psicologiche e sociologiche della
devianza. Oggi il consumo di “droghe
leggere” e di “droghe pesanti” si distingue, oltre che per la percezione soggettiva della loro pericolosità, anche per la
fitta congerie di interpretazioni di sé
che vengono proposte, nell’uno e nell’altro caso, per dare un senso alla propria condotta. Come succede all’anoressica che incarna il suo ruolo di pentita, pur restando prigioniera della malattia, anche il tossicodipendente sa giostrarsi in una serie di buone ragioni etiche per essere quel che è, tutte giocate
sulle cause sociali del proprio malessere
e sui rapporti di causa/effetto che lo
hanno determinato (Faccioli e Quargnolo 1992).
Alla fine, la posseduta di De Certeau risorge nel pieno della sua ambivalenza. Come lei, l’anoressica e il tossicodipendente televisivi imparano il
sapere dei loro terapeuti, ne parlano
la lingua, mostrano di stare nel “luogo” e nel discorso da cui sono descritti. Il demone, l’ossessione del corpo
magro, l’eroina, sono con ciò piegati,
almeno simbolicamente, all’etica prescrittiva che distingue il bene dal male. Gli ospiti “sanno” cosa alberga in
loro, ma la voce del maligno (che si
esprime in lingue sconosciute), il delirio onnipotente della fame (che
prende forma nei siti pro-Ana), il piacere indotto dalla sostanza (che si dichiara “innocentemente” in discote-
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ca) parlano con un vocabolario incomprensibile o inaccettabile. Invece, la strega che pronuncia il nome
del suo sposo, l’anoressica consapevole, il tossicodipendente medicalizzato
sono “morali” nel loro porgersi sulla
strada della guarigione, che sovente li
cronicizza senza liberarli, ma che li
innalza a exempla necessari dello spettacolo pubblico del loro disagio. C’è
allora una guarigione etica che precede e a volte sostituisce quella clinica, innescando processi di Spirale del
silenzio che si rivelano, in alcuni casi,
controproducenti.
Tuttavia non è la verità del messaggio che stiamo qui inseguendo,
quanto l’accettabilità della parola del
tossicodipendente, dell’anoressica rispetto all’ordine del discorso legittimato dai media. Alla fine non è detto
che la lezione morale che viene dall’eticizzazione delle condotte e “dalla
possibilità di formulare enunciati”
possieda un valore descrittivo (e preventivo) maggiore rispetto all’ascolto
delle interpretazioni spontanee che
giungono dai protagonisti. La retorica del discorso “morale”, si scontra infatti con le pratiche dei soggetti che la
contraddicono e con possibili esiti di
allarme sociale che, al contrario, costituiscono il risultato di un’eccessiva
presa in carico della minaccia. In entrambi i casi, l’economia di produzione e circolazione dei messaggi mette
in campo una definizione produttiva
del ruolo dei media: essi non si limitano a raccontare eventi legati all’anoressia o alla dipendenza da sostanze, ma si offrono come interpreti della natura, delle cause, della diffusione
e della pericolosità di entrambi. Attribuendo loro un significato, comprendendoli al modo weberiano del Ver-
stehen, ne normalizzano l’eccezionalità, riportandola entro dimensioni
accettabili contenute in cornici disciplinari certe.
Con ciò la medicina, la psicologia,
le scienze sociali assegnano all’anoressica e al tossicodipendente il loro
“posto”. Essi non sono confinati “altrove”, nella proscrizione del serial
killer o del mafioso, purché sappiano,
a loro volta, riconoscersi nello spazio
(nel “luogo”) simbolico che gli è assegnato e partecipino del processo di
creazione di senso di cui sono gli emblemi. Una tale offerta in pubblico di
immagini, testi, vocabolari della e sulla devianza, ha per proscenio i mezzi
di comunicazione, senza i quali il discorso rimarrebbe relegato nell’intimità del rapporto terapeutico, resterebbe un segreto tra medico e paziente. Invece la divulgazione “in forma etica” interpella un’audience di padri e madri, amici e coetanei, utilizzando vittime vere che testimoniano
le cause e gli effetti di comportamenti anomali e rischiosi.
4. Stare eticamente in tv
La moralizzazione dei messaggi
dei media, riguarda alla fine un’attribuzione di senso a condotte autodistruttive o devianti che altrimenti apparirebbero, non solo incomprensibili, ma minacciose nei riguardi della
quotidianità. Non è importante che il
problema si riduca o venga risolto,
ma che rientri in un suo “luogo” accettabile e adeguato, il che non esclude si producano (ed è perciò che siamo in grado di parlarne) alcuni effetti per versi (Boudon 1982). Tra
questi, dicevamo, l’interruzione delle
Spirali del silenzio che vengono incessantemente generate a copertura dell’idea che esista un’etica condivisa. In
realtà è la Spirale che produce una tale credenza, dandola per scontata 14.
Ogni ragazzo o ragazza che consumano alcol o sostanze con “leggerezza”
determinano un’indiretta demistificazione della Spirale secondo cui “tutti sanno che bere troppo o assumere
droghe fa male”; ogni ragazza o ragazzo che si rivolgono ai siti pro-Ana o
Pro-Mia, ogni individuo “orgogliosamente” in sovrappeso infrangono la
Spirale per cui “bisogna mangiare con
regolarità alimenti sani”. Al contrario
ogni madre che si rivolge a un terapeuta persuasa di esser causa del problema della figlia inappetente; ogni
anoressica che fa voto di guarigione
in tv; ogni tossicomane che riconosce
le cause sociali della sua dipendenza
in un’inter vista, incrementano Spirali del silenzio che hanno funzioni foucaultiane (Foucault 1969, 1993). Il sapere esperto, di cui sono l’espressione, più che all’una o all’altra vittima
di una patologia o di una devianza,
ser ve a disciplinare tutti coloro che
non hanno quello stesso problema e
che lo vivono per interposta persona,
attraverso i racconti e le rappresentazioni mediati (Stella 1999). Il che
non li aiuta solo a prendere confidenza con situazioni critiche che potrebbero riguardare anche loro, ma
pone un criterio certo di distinzione
tra il bene e il male, tra ciò che è morale e ciò che non lo è.
Ripristinare simbolicamente un tale “ordine delle cose”, significa che
chi è caduto preda di un demone (del
cibo, dello “sballo”, di comportamenti rischiosi), può dominarlo mettendosi in scena, ma anche che, nel far-
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lo, attiva un intero sistema di significati e di credenze tra loro coerenti.
Tuttavia questa reintegrazione discorsiva trascina con sé un rischio nuovo,
rispetto a quelli che cerca di esorcizzare, legato alla dimensione meramente comunicativa entro cui tali
processi si producono. Il rischio è che
esploda la contraddizione tra le Spirali del silenzio “etiche” costruite dai
media e le condotte reali di un numero minoritario, ma spesso non trascurabile, di persone che le trasgrediscono consapevolmente. È quanto accade tra i ragazzi e le ragazze che consumano sostanze in discoteca o tra coloro che frequentano siti pro-Ana, per
stare nei nostri esempi. Tuttavia gli
esiti possono essere molto più ragguardevoli e avere implicazioni sociali e politiche importanti.
La rottura di una Spirale, quando
si avvia, porta infatti a contestazioni
palesi e mirate, le quali hanno come
obiettivo di smitizzare le rappresentazioni televisive, denunciandone la
natura velleitaria o faziosa. La messa
in dubbio di ciò che il medium propone come “morale”, la sospensione
della sua plausibilità, genera meccanismi di revisione che possono sfociare in campagne collettive di cambiamento (le battaglie per i diritti civili ad esempio, o per la tutela ambientale), oppure innescare processi
di resistenza in grado di produrre vere e proprie “crociate” (contro l’aborto, l’eutanasia, la fecondazione
assistita ecc. – in Italia da ultimo l’episodio Englaro –).
In entrambi i casi, quote consistenti di popolazione percepiscono le
rappresentazioni televisive come
“non vere”, “non giuste” e tendenziosamente spostate verso interpretazio-
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ni contrarie ai propri interessi o al
proprio modo di guardare alla realtà.
Spesso questa situazione si configura
come un conflitto tra l’esperienza vissuta personalmente, ed esperienze
analoghe riportate dalla stampa o dalla televisione in modi che vengono
giudicati come distorti. Il risultato paradossale è che in alcune occasioni
l’eccesso di zelo da parte dei media
nel difendere posizioni “politicamente corrette” (Crisafulli 2004) genera
sentimenti di rivincita, invece che favorire una maggior tolleranza15. È accaduto in Italia con la Lega Nord nei
confronti, dapprima, delle aree meridionali del paese, e poi dei flussi migratori dall’est Europa e dall’Africa.
La Lega in effetti rompe la Spirale che
proteggeva il tabù secondo cui temi
considerati rozzi e discriminatori non
potevano fornire materia di dibattiti
pubblici. Tali temi, tuttavia, costituivano l’oggetto frequente di “discussioni da bar” nelle regioni del centronord. L’aver dato dignità politica e
ideologica a tali argomenti ha scoperchiato rancori e frustrazioni che covavano da tempo, soprattutto tra la
media e piccola borghesia (Diamanti
1995), infrangendo così il silenzio che
li circondava. Un ulteriore esempio
storico di Spirale spezzata è dato dalla
“marcia dei quarantamila” a Torino
nel 1980, che ridimensionò la presunta egemonia dei sindacati, segnando una svolta. Il fatto che tale egemonia fosse presunta era anche esito della Spirale, la quale occultava posizioni
che non trovavano sin lì modo di
esprimersi, come invece accadde
quando i quadri intermedi decisero
di scendere in piazza 16. I due eventi
hanno trovato ampia risonanza nei
media tanto che, soprattutto nel caso
della Lega, ciò ha consentito la nascita di una “doppia morale”. La prima,
che si presume condivisa da molti,
continua ad essere rappresentata nei
media generalisti; la seconda, territoriale, coinvolge organi di partito, siti,
radio, un’emittente televisiva e può
ora pienamente manifestarsi e avviare
Spirali parallele. Vi sono anche effetti
di reciproca contaminazione, ma in
contesti di osservanza scrupolosa delle regole e dei vocabolari propri a ciascuno. Per stare in metafora, il meccanismo che abbiamo descritto richiama le considerazioni di De Certeau entro una nuova e diversa funzione: la strega riprende i diritti sul
suo “luogo” e sul suo discorso, non accetta più di essere descritta da altri,
tanto meno di usare le parole di chi la
tiene imprigionata. Si libera di entrambe e rivendica il privilegio di parlare per sé, anche se il suo discorso
appare a molti insopportabile e immorale. Rotto l’argine del silenzio “la
discussione da bar” si legittima come
un oggetto plausibile di rappresentazione condivisa. La novità, semmai, è
la convivenza di entrambe le voci entro gli stessi canali, senza che sia più
possibile che l’una taciti l’altra esprimendosi in suo nome.
La rottura delle Spirali attraversa
altri campi di costruzione simbolica
di ruoli e di status, dove possono trovare facile esca posizioni soggettive e
pratiche che smentiscono i presupposti etici su cui si basano molte delle interpretazioni dei media. Ed è a questo
punto che vorremmo proporre le nostre conclusioni.
La prima e più generale riprende le
idee espresse nel paragrafo introduttivo. Come cercavamo di spiegare altrove più ampiamente (Stella 2008), l’”eti-
ca per la tv” non è solo un problema di
buone regole ben implementate, ma
anche, se non soprattutto, di mediazione interpretativa, vale a dire di modi in
cui le regole sono rappresentate e fatte
circolare attraverso i messaggi. Abbiamo cercato di mostrare che ciò non costituisce un problema secondario rispetto alle questioni “applicative” (di
codici di autoregolamentazione, di
principi universali), perché la rappresentazione di norme etiche non possiede solo funzioni modellizzanti o pedagogiche, influisce invece sui comportamenti e le aspettative costruendo
in concreto “ciò che è bene” e “ciò che
è male”, vale a dire interi ordini morali che hanno influenza sui soggetti che
vi si riconoscono. La morale televisiva,
insomma, è fatta di una rete invisibile
di prescritti che viaggiano attraverso i
programmi e che definiscono la dimensione concreta di realizzazione
dell’etica pratica che la riguarda. Questa, a volte, può essere abbastanza indifferente alle sanzioni o ai precetti
che provengono dai regolamenti, ma
quel che più conta, è in grado di piegare autoreferenzialmente disposizioni e norme ai propri obiettivi e prendere, come abbiamo visto, strade parallele. Ciò è possibile tecnicamente
(ad esempio nella contrapposizione
strategica tra internet e tv per i siti proAna); politicamente (le emittenti e la
stampa della Lega); pragmaticamente
(facendo assumere a taluni individui
un punto di vista mediatico su loro stessi: le “cattive madri”, i tossicodipendenti “medicalizzati”); ideologicamente (i discorsi dei media intorno all’anoressia o alla tossicodipendenza che
non collaborano tanto alla soluzione
del problema, ma a una sua “sistemazione” simbolica e sociale). Ciò produ-
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ce una moltiplicazione delle “posizioni” possibili di gruppi umani differenti
e con esse delle “morali”, insieme al significato, al peso e agli effetti che i
mezzi di comunicazione vi aggiungono
come propria prestazione.
La seconda, ovvia, conclusione, è che
stare eticamente nei media non è allora
una cosa decisa una volta per tutte, richiede, come sempre più spesso accade
nel nostro mondo, un atteggiamento
flessibile, aperto, ironico – nel senso di
Rorty –, sotto pena di non comprendere
o di compiere dei piccoli e grandi abusi
in nome di morali che si pensano, o che
si vorrebbero, comuni. Compito dei media è quello di esplicitare e rendere visibile questa complessità, la quale ha bisogno di regolamentazioni che la conservino e la incrementino come “luogo” collettivo di tutela della differenza tra le voci. Ciò sposta l’oggetto di riflessione da
“come deve funzionare eticamente la tv”
a “come la tv può contribuire a difendere l’etica della complessità del mondo”.
La qual cosa rimette in gioco molto di
quanto da qualche anno si discute a proposito del rapporto tra etica e comunicazione (cfr. ad es. Maturano 2000, Scandaletti 2005, Fabris 2006). E ci pare che,
per essere l’epilogo del nostro ragionamento, una simile osservazione costituisca davvero un buon inizio.
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Note
1 La differenza tra rappresentazione di situazioni di vita quotidiana (nei programmi rivolti ai pubblici) e prescrizioni normative (dirette agli emittenti), riprende in una forma
parzialmente inedita la contrapposizione tra
culture testualizzate (fondate su repertori di
esempi) e culture grammaticalizzate (fondate
su codici) definita da Lotman-Uspenskij
(1975) e successivamente rielaborata da Eco
(1975), e da Eco Fabbri (1978).
2 In rapporto a temi di rilevanza pubblica
alcuni individui possono uniformarsi all’opinione che considerano condivisa dalla parte
prevalente della popolazione, al fine di non
sentirsi isolati. Tale condotta si basa su impressioni ricavate dalle notizie che provengono dai media e che creano un “clima d’opinione” favorevole alle posizioni di maggioranza.
Si avvia così una Spirale che può indurre a difendere attivamente le idee percepite come
dominanti, oppure può spingere a tacere le
proprie (il Silenzio), nel tentativo di adeguarsi
a quello che si ritiene il “parere dei più”. La
morale televisiva a cui ci riferiamo per molti
aspetti possiede, come vedremo, una medesima natura.
3 Diverso è il caso della fiction, dove personaggi “estremi”, “maledetti” e figure criminali
ricorrono molto più frequentemente. L’intreccio narrativo giunge però sempre a punirli o a redimerli, in modo da riaffermare il primato delle regole che essi hanno violato.
4 “Per parlare il pazzo deve rispondere alle
domande che gli vengono poste. In questo modo, in un ospedale psichiatrico, si constata, nel
corso del mese o dei due mesi susseguenti al ricovero del malato, un livellamento del suo discorso, un cancellamento delle sue particolarità: il malato può parlare solo nel codice che
gli viene fornito dall’ospedale” (ibidem 75).
5 Usiamo il termine vocabolario nel senso di
Rorty 2003.
6 Sulle pratiche di ascolto non autoritario
nelle scienze sociali, vedi invece Sclavi 2003.
7 Interrogate sui nomi dei demoni che le
possiedono, le monache di Loudun (dove vi fu
un celebre caso di invasamento collettivo nel
1632) danno risposte articolate per classe sociale: “[alcune serie di nomi] appartengono al
dizionario «nobile» e ufficiale, così come a un
repertorio straniero (ebraico e greco), o comunque, «erudito». Le troviamo associate alle
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monache di famiglie aristocratiche (…) e a
quelle che occupano le posizioni gerarchiche
più elevate del convento. [Altre serie di nomi]
appartengono a una cultura «popolare», alla
lingua francese, a un repertorio esplicito o
equivoco: sono del resto attribuite a plebee
(…) o a «converse» ” (De Certeau 2005, p. 89).
8 A partire dalle parole usate. Un conto infatti è essere chiamati “omosessuali”, altro conto è definirsi “gay”; allo stesso modo, diverso è
essere qualificati “obesi” o riconoscersi invece
come “persone in sovrappeso”.
9 Altrove abbiamo chiamato tale flusso etnomediazione (Stella 2009) per intendere un insieme di resoconti etnografici spontanei con
cui i pubblici sono chiamati a interpretare e a
fare esperienza della realtà.
10 Fatte salve, naturalmente, le distinzioni
tra canali e tra pubblici, per cui la stampa scandalistica e i programmi di gossip sono altra cosa dai siti glamour o dalle riviste patinate di alta moda.
11 I siti pro-Ana danno una visione favorevole e attivamente istigatoria nei riguardi dell’anoressia, i siti pro-Mia fanno altrettanto nei
riguardi della bulimia.
12 Ciò produce una demarcazione tecnica
che ne supporta una etica: il medium televisivo
è molto più facilmente controllabile nella sua
morale narrativa di quanto non possa esserlo internet. In internet la moltiplicazione delle voci
è incessante e, alla fine, insopprimibile.
13 Naturalmente non intendiamo generalizzare ciò che appartiene all’esperienza clinica di una sola terapeuta e che tocca poi, probabilmente, pazienti e familiari acculturati.
Tuttavia, anche se si trattasse di pochi episodi,
ci pare che essi rendano evidente la mediatizzazione del processo di “formulazione degli
enunciati” a cui si riferisce De Certeau.
14 Nella nostra interpretazione la Spirale del
silenzio differisce dalla formulazione originaria
di Noelle-Neumann (vedi precedente nota 2),
su un punto fondamentale. Non è rilevante tanto la “capacità statistica” con cui i cittadini,
preoccupati di non isolarsi, si uniformano alle
opinioni della maggioranza, quanto l’abilità dei
media di costituirsi in un’arena in cui trovano
consistenza le idee tacitamente attribuite a una
maggioranza dai media stessi. Vige insomma
una sorta di rappresentazione collettiva di principi etici dati per scontati e assunti come condivisi. Più che un effetto, in questa prospettiva, la
Spirale del silenzio è un presupposto necessario al
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funzionamento morale dei messaggi.
15 Emblematico è il caso della serie americana su Archie Bunker (All in the family e Archie
Bunker’s Place 1971-1983). Il personaggio di Archie, tratteggiato in termini comico-grotteschi
come un bigotto, conser vatore e reazionario
della middle-class era percepito dagli spettatori
che avevano atteggiamenti razzisti, sessisti e autoritari in positivo a conferma dei propri stereotipi. Per cui l’intento parodistico e le finalità
sociali che gli autori si proponevano di ottenere col programma erano accolti solo da quella
parte dell’audience che già li condivideva. Su
questo tema vedi Vidmar e Rokeach (1974), e
più recentemente Ford e Ferguson (2004).
16 L’episodio riguarda la Fiat in un momento di particolare tensione, che opponeva
l’azienda, determinata a ricorrere alla cassa integrazione per decine di migliaia di operai, e i
sindacati che rispondevano con scioperi accompagnati dal picchettaggio ai cancelli. Dopo 35 giorni di astensione dal lavoro, quarantamila impiegati e quadri manifestarono silenziosamente per le strade di Torino contro la
posizione “dura” dei sindacati. La vertenza si
chiuse quasi subito in favore dell’azienda.
Etica e giornalismo:
la questione dell’obiettività
di Enrico Morresi
“La verità è un’esigenza umana fondamentale. In
primo luogo perché le persone non vogliono smarrire il
rapporto con la realtà tangibile, poiché in essa devono
vivere: e non è possibile vivere a lungo in un’astrazione
che prescinde dalla verità. Se è vero che qualche volta
accade, deve essere ritenuta una forma decadente e non
un modello riuscito di umanità. Inoltre, la comunicazione tra gli uomini sperimenta la sua rispettabilità solo quando è guidata dal criterio di verità”.
Dietmar Mieth, Wahrhaftig sein – warum?, in
W. Wunden (Hrsg.), Wahrheit als Medienqualität.
Beiträge zur Medientethik, Band 3, GEP Buch,
Frankfurt a. Main, 1998.
Non possiamo parlare di obiettività
giornalistica senza parlare di obiettività
in generale. Ma allo stesso tempo dobbiamo stare dentro le coordinate di un
discorso specifico sui media, per non disperderci e cercare di essere efficaci.
“Oggettivo”, contrapposto a “soggettivo” significa “corrispondente all’oggetto”, “fedele all’oggetto”. È il significato realista di oggettività. Vi è anche un
significato non realista di oggettività, co-
me potrebbe essere l’oggettività del matematico. Si può pensare che 2+2 fa 4
anche senza pensare che esista un oggetto che è la somma di due più due. In
questo caso la nozione di oggettività ha
un significato non realista ma proceduralista. Anche il fisico, la cui oggettività
sembra più facilmente assimilabile alla
nozione realista, per ottenere i suoi risultati applica procedure (la matematica, il metodo sperimentale, ecc.). Si potrebbe dunque considerare l’oggettività
nel primo senso come un’idea-limite, cui
si cerca di avvicinarsi anche con il rispetto delle procedure (secondo senso).
Direi che questa è la situazione del giornalista: come il fisico, egli non inventa i
fatti ma deve affidarsi a modalità di accertamento, selezione delle fonti, assunti interpretativi generali, ecc. Rimane però assolutamente valida la pretesa
che muove Bernard Williams a sostenere, in polemica con il primo Wittgenstein, che è possibile essere veraci, e che
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anzi non si è del tutto umani senza esserlo1. Le condizioni per esserlo dipendono dal rispetto di adeguate procedure, che è possibile conoscere, fissare, applicare e che giustificano eventuali sanzioni morali e/o materiali in caso di
mancanze adeguatamente accertate.
Che cosa importa questa premessa
per una ricognizione attorno alla nozione di obiettività giornalistica? Importa
e come! La vedo contrapposta, per
esempio e in primo luogo, allo scetticismo di maniera che la categoria dei
giornalisti adotta di regola per pigrizia
e comodità. L’ironia che avvolge certe
negazioni appare del tutto fuori luogo
se confrontata con le cifre drammatiche dei giornalisti che per riferire quel
che hanno visto e sentito (e cioè la loro testimonianza di verità) hanno perso la vita – sessanta nel 2008 – e continuano a patire carcere e discriminazione in molti Paesi del mondo2.
“L’obiettività non esiste”
Ammetto che su questa posizione di
scetticismo si trovano non solo persone
superficiali. Hubert Beuve-Mer y per
esempio, “mitico” direttore di “Le Monde”, diceva: «L’obiettività non esiste.
Ogni informazione reca l’impronta della soggettività, essendo prodotta da un
giornalista, cioè da una persona con la
propria sensibilità, il proprio carattere,
la sua storia, le sue opinioni, le sue qualità e i suoi limiti, e poi risulta da una
scelta, da una presentazione, fatta con
un numero limitato di parole o di immagini» 3 . Gli elementi di prova che
Beuve-Mery adduce sono reali, ma non
bastano secondo me a sostenere l’affermazione principale, che è piuttosto da
interpretare sullo sfondo culturale della
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Francia del secondo dopoguerra. «Gli
intellettuali che hanno dominato la scena della filosofia francese negli anni
1960-1980 consideravano, quasi tutti,
con sfumature diverse, la riflessione filosofica nell’ambito morale come vana
e senza oggetto»4.
Un criterio “empirico”. Il parere di
Umberto Eco
Vicina a questo pregiudizio è la posizione difesa sul settimanale “L’Espresso” da Umberto Eco nel 1969. Eco parlava di “mito dell’obiettività” e lo definiva «manifestazione di falsa coscienza,
ideologia». «Il giornalista non ha un dovere di obiettività. Deve testimoniare su
ciò che sa (…) e deve testimoniare dicendo come la pensa». L’articolo che ricostruisce il dibattito originato da quella presa di posizione5 riporta anche la
parziale correzione di rotta che il semiologo offrì alla platea degli intervenuti durante il Convegno su “Realtà e
ideologia dell’informazione” organizzato dalla Casa della Cultura di Milano e
dall’Istituto Gramsci di Roma il 15 e 16
aprile 1978, in un periodo particolarmente critico per l’Italia (il 9 marzo era
avvenuto il rapimento di Aldo Moro).
Questa seconda volta, Umberto Eco
suggeriva un approccio “empirico” al
problema6. L’obiettività – diceva – è una
illusione se la si intende come nozione
teorica, ma diventa vera se invocata come criterio empirico. «Accanto al limite
‘alto’ (irraggiungibile) dell’obiettività
esiste – proseguiva Eco – un limite ‘basso’, fondato sul ragionevole compromesso. Il limite basso dell’obiettività
consiste nel separare notizia e commento; nel dare almeno quelle notizie che
circolano via agenzia; nel chiarire se su
una notizia vi sono valutazioni contrastanti; nel non cestinare le notizie che
appaiono scomode; nell’ospitare sul
giornale, almeno per i fatti più vistosi,
commenti che non concordano con la
linea del giornale; nell’avere il coraggio
di appaiare due commenti antitetici per
dare la temperatura di una controversia, eccetera. Tutti criteri empirici, che
non tolgono al giornale la sua natura di
messaggio complessivamente dipendente da una determinata visione del
mondo, ma che almeno permettono al
lettore di sospettare che visioni del
mondo ci siano, e siano più di una».
L’articolo di Mazzanti riferisce del
seguito della discussione in Italia, e in
particolare della posizione assunta da
Giovanni Cesareo all’inizio degli Anni
Ottanta 7. Reagendo a un richiamo, per
altro legittimo, a una maggiore professionalità da parte dei giornalisti, Cesareo pone l’accento sulla trasformazione
complessiva del modo di produzione,
sui nodi strutturali della logica produttiva. È la posizione sostenuta dai sociologi che, alla scuola di Max Weber, spiegano l’autodifferenziazione dei sistemi
sociali secondo logiche funzionali, tra
loro indipendenti ma decisive all’interno di ogni sistema (o sotto-sistema). Caposcuola dell’applicazione al giornalismo di questa teoria è Niklas Luhmann,
che nel 1996 ha pubblicato La realtà dei
mass media8. L’analisi “sistemica” ha come effetto di vanificare ogni tentativo di
giustificare una qualsiasi “obiettività”.
La legislazione e il costume giornalistico
Nel sistema giuridico italiano, ai
mass media è delegata un’ampia autonomia, fatte salve poche e fondamentali riserve di ordine costituzionale. Di
«informazione completa, obiettiva, imparziale ed equilibrata» tratta una sentenza della Corte costituzionale9, le leggi sul sistema televisivo pubblico e privato riprendono senza approfondire
concetti come “indipendenza”, “oggettività”, “completezza”, “imparzialità”.
Non risulta che qualcuno sia stato mai
inquisito o condannato per la violazione di principi tanto importanti quanto
vaghi. Spettava alla cultura professionale mettere in contatto questi presupposti giuridici con la realtà dei mass media:
da una categoria cui si affidano tali e
tante libertà ci si poteva attendere uno
sforzo di approfondimento. Che però
non è stato fatto. «Pochissimi dibattiti,
molta indifferenza, e soprattutto tante
dichiarazioni di professionisti che, interrogati sul tema, sono soliti rispondere che l’obbiettività nel giornalismo
non esiste, lasciando intendere in questo modo quanto sia inutile anche discuterne», scrive l’autore dell’articolo
citato alla nota 5. Fatta con coraggio da
un giovane (quella di Alessandro Mazzanti era una tesi di laurea!), e scritta
nel 1989, la constatazione ha trovato
sempre nuove conferme nei vent’anni
trascorsi da quella data.
Una ripresa con qualche pretesa di
approfondimento si incontra in un numero della stessa rivista10, sullo spunto
di un articolo Brent Cunningham di cui
darò notizia in seguito. Vi si conferma
la tesi di Mazzanti 1989, «che il giornalismo italiano è nato e si è sviluppato come ‘giornalismo politico’, meglio come
giornalismo al servizio della politica [in
corsivo nel testo], piuttosto che come
‘giornalismo di fatti e di notizie’»11. Vi
si legge qualche buona sottolineatura
di Carlo Sorrentino sulla competenza
professionale, e Luca De Biase, giornalista del “Sole/24 Ore”, fa un passo
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avanti: «I giornalisti devono decidere a
chi serve il loro lavoro». Necessario è
aprire «un nuovo filone di riflessioni
orientate al futuro, per alimentare la
consapevolezza sui fondamenti operativi e ideali dell’attività giornalistica».
Esatto è un plus di teoria. Ma la teoria
non ha mai avuto buona stampa tra i superficiali, e difatti anche dopo il 2004
in Italia non è più stato pubblicato
niente di importante in materia.
La storia di “objectivity”
Un tentativo di ben altre ambizioni
ha avuto per teatro il giornalismo degli
Stati Uniti, a partire dagli Anni Venti del
Novecento, attorno alla nozione di objective reporting. È una posizione riflessa in
Italia da Piero Ottone («Credo che il
giornalista debba sì osservare la politica,
è ovvio, ma come un uomo che non vi
partecipa»12) e alla quale occorre riconoscere un significato che va al di là delle contingenze. A scadenze più o meno
trentennali ha mostrato i suoi limiti, ma
è continuamente riemersa e resiste nelle
coscienze anche quando non si osa più
proporla come strumento critico.
L’origine risale, come detto, agli
Anni Venti del Novecento. È un periodo di massima fioritura dei giornali come industria, che ha per effetto
di illanguidire (come dimostra Jürgen Habermas nel suo fortunato saggio del 1982 13 ) la funzione rappresentativa della pubblica opinione che
le gazzette e i giornali avevano avuto
al tempo dell’Illuminismo. Nei Paesi
in cui era più libera (come gli Stati
Uniti, la Francia o la Gran Bretagna),
la stampa aveva imboccato il facile
cammino di un giornalismo ser vile
verso i forti ma spregiudicato e senza
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122
freni morali. “Citizen Kane”, lo straordinario film di Orson Welles ispirato
alla vita di William Randolph Hearst,
magnate della stampa americana14, ci
offre un’immagine drammatica della
totale mancanza di scrupoli con cui
venivano gestiti i giornali di maggior
successo. Il discredito in cui era caduta la yellow press determinò una reazione partita proprio dai giornalisti,
vogliosi di affermarsi come categoria
professionale credibile 15 . Essi ritennero, non a torto, che le ragioni dell’industria non obbligavano per nulla
il giornalismo a prostituirsi: anzi, la
nazione aveva bisogno di lettori di
ogni orientamento politico, e quindi
di un prodotto neutro, meno sfacciatamente partigiano. L’esigenza di realizzare quello che fu definito objective
reporting rispondeva alle aspirazioni
di una categoria in cerca di rispettabilità e di prestigio.
La stragrande maggioranza degli
osservatori oggi è del parere che quella battaglia ebbe esiti alterni ma in definitiva poco convincenti sia per la
teoria sia nella pratica. Accadde soprattutto che la routine stravolse il tipo ideale del progetto, aprendo la
strada a un giornalismo piatto e acritico in cui tornava a manifestarsi (seppure in forme diverse e aggiornate) la
dipendenza – quando non il ser vilismo – rispetto al potere politico. L’esito non previsto di quell’objective reporting fu l’affermarsi del neutralismo:
credere che bastasse dare la parola
imparzialmente a questo e a quello
per essere buoni giornalisti. Per la
teoria il risultato fu ancora peggiore,
incoraggiando un tipo di morale individuale basato sulla casistica, senza
capacità di aggregare la resistenza
contro le derive.
Sul piano inclinato in cui è scivolato un presupposto di onestà pur
condivisibile, già percepito drammaticamente al tempo del “macchartysmo” o dello scandalo Watergate, ci
istruisce un articolo del direttore della “Columbia Jour nalism Review”,
Brent Cunningham: Re-thinking Objectivity, pubblicato nel 2003, cioè al rivelarsi delle insufficienze con cui i
media americani avevano reagito all’attacco alle Torri gemelle dell’11
settembre 2001 e alla decisione dell’Amministrazione Bush di attaccare
l’Iraq 16. «Siamo tornati – scrive Cunningham – alla raccolta imparziale di
un’opinione contro un’altra opinione, e a credere che basti». L’autore di
questo articolo ritiene che «fu la
pressione dell’opinione pubblica, disposta ad affidarsi acriticamente alla
politica della ‘risposta forte’ scelta
dall’Amministrazione Bush, a trattenere i giornalisti dal denunciare la
manipolazione della verità da parte
del potere». Noi ora sappiamo che
anche altre cause influenzarono le
cattive scelte dei media 17. Ma è vero
che fu «il modo spudorato (shameless)
con cui l’Amministrazione Bush ha
manipolato l’informazione a rendere
inevitabile la rinuncia a objectivity».
Nel senso che si dava all’origine a
questo termine (continua il direttore
della rivista), «essa era fondata su
una nozione che non possiamo più ritenere garantita da chi detiene il potere (se mai lo sia stata): che il governo, o il mondo degli affari, agiscono
verso la stampa in modo corretto»18.
L’idea di objective repor ting sarebbe
dunque legata a un rapporto leale tra
poteri e mass media. Venuto meno
quel rapporto, decade anche quell’ideale di obiettività.
Che cosa salvare di “objective reporting”
Volendo però evitare, come si dice,
di buttare via il bambino con l’acqua del
bagno, possiamo interrogarci se alcuni
dei contenuti del concetto di objective reporting non possano essere salvati dal
naufragio e usati come materiali per erigere, se non una diga, almeno qualche
muretto di sostegno contro le sbandate
e le derive. Comincerei sgombrando il
terreno da due proposte estreme.
La prima è quella sostenuta da Leonard Dowie jr. – editor, cioè direttore, del
“Washington Post” dal 1991 al 2008 –, il
quale difende un tipo di neutralità che
definirei ascetico ma che, posto a confronto con la posizione di Hubert BeuveMery, finisce per apparire disincarnato:
«Da tempo ho persino rinunciato al diritto di voto, addirittura a determinare dentro di me, in privato, chi sia il presidente
migliore o il migliore consigliere comunale, o quale sia la posizione da assumere
circa l’aborto o la politica fiscale. Desidero rimanere mentalmente aperto verso
ogni partito e ogni possibilità»19.
La seconda proposta potrebbe essere “l’elogio del fazioso”, sostenuto
da Giuliano Ferrara in un articolo
del 1990 20. La prima, che spinge all’eccesso una giusta preoccupazione
di indipendenza, è supererogatoria,
cioè pretende troppo dal soggetto.
La seconda, che potrebbe essere apprezzata come coraggio di mettere le
carte in tavola, tende ad annullare
con la polemica le ragioni di un secondo polo nel contraddittorio.
Più seducente (e intellettualmente più ambiziosa) è una terza proposta – ancora una volta emersa negli
Stati Uniti, ma continuamente emergente sotto altri cieli –, conosciuta
come New Journalism 21, che auspica la
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contaminazione tra gior nalismo e
narrativa, rivendicando rispetto ai
fatti e alle persone una totale libertà
di registro. Un editor d’esperienza,
Jack Fuller, che ha passato una vita al
timone della “Chicago Tribune” la
definisce «estremamente imbarazzante alla luce del dovere di veridicità» 22. Senza arrivare a tanto, si potrebbe argomentare che un giornalismo così autoreferenziale aggira l’esigenza della trasparenza delle fonti.
Rinunciando ad assegnare diritti
alla faziosità e all’ascesi del riferire
senza commentare, come pure alla licenza di stravolgere fatti e dichiarazioni per attingere una “verità ulteriore” (quella che l’artista, meglio
del giornalista, conoscerebbe), è ancora possibile “salvare” almeno alcune esigenze e atteggiamenti apprezzabili e probabilmente più condivisibili? È il parere di un altro autore
americano: D.T. Z. Mindich, il quale
li definisce positivamente sostitutivi
del principio di obiettività 23:
– L’indipendenza (detachment). Dobbiamo riconoscere che esistono gradi di coinvolgimento
nella realtà narrata (per es. l’assunzione di una
carica, o l’accettazione di un compenso) incompatibili con la necessaria autonomia di giudizio
del giornalista.
– La non appartenenza (nonpartisanship). Esistono vincoli di fedeltà (a un partito, a una chiesa, a un’associazione) in contrasto con la libertà
di giudizio.
– Il rispetto dei fatti (reverence for facts). Consiste nel dare la precedenza ai fatti, per rapporto
alle interpretazioni.
– L’equilibrio (balance), da interpretare come
rispetto della proporzionalità e apertura a diversi
punti di vista, di cui tenere conto nel resoconto e
nel giudizio.
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124
Aggiungerei la trasparenza, molto apprezzata dal giornalismo americano,
che consiste nel rendere sempre nota al
lettore (se non vi faccia ostacolo un interesse superiore) la fonte dell’informazione e l’origine della valutazione.
Tutte queste caratteristiche di un
approccio “pulito” alla verità, singolarmente o collettivamente applicate
secondo i casi, possono valere come
alternative al concetto ambiguo di
obiettività. Rimane fondamentale l’esigenza espressa da Brent Cunningham: chi pretende queste qualità
nei media deve essere disposto ad
agire con la stessa correttezza verso i
medesimi. Sono perciò d’accordo
con la conclusione del direttore della “Columbia Journalism Review”: se
il comportamento del potere politico
verso i media è del tipo di quello dimostrato dall’Amministrazione Bush,
la rinuncia a Objectivity è inevitabile.
Dopotutto, anche la categoria degli
spin doctors – e più in generale delle
PR – deve rispettare determinate regole, se non di obiettività, perlomeno
di sincerità (l’Aufrichtigkeit dei tedeschi), qualità che Habermas pone tra
le esigenze minime della situazione
dialogica ideale.
Dall’“obiettività” alla “correttezza” Un’esperienza svizzera
Prima di descrivere le peripezie
del concetto di “obiettività” nella legislazione del mio Paese sarà utile ricordare due termini di confronto importanti per la discussione: il Primo
Emendamento alla Costituzione degli
Stati Uniti (1791), con cui si fa divieto
al Congresso di fare “leggi limitative
della libertà di espressione e di stam-
pa”, e la Convenzione europea dei diritti
dell’uomo (CEDU), che si ispira allo
stesso principio di libertà (art. 10,
cpv. 1), ma autorizza i singoli Stati a
prevedere restrizioni o sanzioni in situazioni particolari, sommariamente
enumerate all’art.10, cpv.2, affidando
alla Corte europea dei diritti dell’uomo il giudizio sui casi conflittuali.
La Costituzione federale della Svizzera, totalmente riveduta nel 1998, include tra i diritti fondamentali, all’art. 17, la “libertà dei media”. All’art. 36 è ammessa la possibilità di restrizioni dei diritti fondamentali, purché lo preveda una legge specifica, lo
giustifichi un interesse pubblico predominante, vi sia proporzionalità rispetto allo scopo. Una legge sulla
stampa in Svizzera non è mai esistita.
Un diritto speciale vale invece, lo ammette anche la CEDU, per la radio e
la televisione.
Per più di sessant’anni non era stato dato fondamento costituzionale a
questo diritto speciale 24. Le “Concessioni” – ossia un’autorizzazione tecnica a utilizzare le frequenze hertziane delle Poste e Telegrafi – furono
per molti decenni l’unica base legale.
Nel contesto severamente prescrittivo tipico degli anni tra le due guerre
mondiali (la radiodiffusione era ritenuta un’arma potente nelle mani dei
regimi totalitari europei), l’oggettività nella realizzazione dei programmi entrò di traverso nella norma tecnica. Un primo disegno di articolo
costituzionale fu bocciato da un referendum popolare nel 1956. Al secondo tentativo, vent’anni dopo, il concetto di informazione obiettiva risultava confermato con la dizione: “I
programmi devono, in particolare: a) garantire un’infor mazione obiettiva ed
equilibrata (passim)” 25. Un nuovo esito
negativo rese inoperante l’assunzione del termine. Al terzo tentativo, ecco una novità: di obiettività non si fa
più menzione. Nel testo dell’articolo
costituzionale finalmente approvato
dall’elettorato nel 1984 lo si vede sostituito da un avverbio “(Radio e televisione ) presentano fedelmente gli avvenimenti”. La dizione fu ripresa tale
quale dalla legge di applicazione
(art. 4 cpv. 2), approvata dal Parlamento nel 1991. Ma la nuova Costituzione federale, approvata nel 1998,
corresse di nuovo il tiro, sia pure di
poco. All’art. 93 della legge fondamentale si leggeva che “(Radio e televisione) presentano gli avvenimenti in
modo corretto e riflettono adeguatamente
la pluralità delle opinioni”, dizione successivamente ripresa nella legge
d’applicazione ora vigente, al cui art.
4, cpv. 2 il concetto è completato dalla dizione: “Le trasmissioni redazionali
con un contenuto informativo devono
presentare correttamente fatti ed avvenimenti, in modo da consentire al pubblico
di formarsi una propria opinione”.
Una qualche complicazione la
procura lo statuto plurilingue del
mio Paese. In tedesco, il termine destinato a sostituire objektiv era sachgerecht, aggettivo che è davvero un miracolo di precisione, perché contiene
“la cosa” e “la giustezza” di atteggiamento da assumere verso la cosa. I
traduttori hanno sputato l’anima per
tradurlo nelle lingue latine. Gli svizzeri francesi avevano già scelto Fidélité, termine che a me pare meno preciso (fedele a che cosa?). Corretto è più
generico e un tantino moraleggiante.
E poiché, malgrado tutto, il legislatore deve aver temuto di stare troppo
sulle generali, nel messaggio al Parla-
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mento sulla nuova Costituzione il Governo si era dato la pena di precisare
che la nozione valeva solo per i programmi informativi e che «la trasmissione deve porre il pubblico nella
condizione di formarsi liberamente
un’opinione».
Prima di chiederci che cosa significhi potersi for mare liberamente
un’opinione, fermiamoci a constatare l’avvenuta rinuncia al concetto di
obiettività. Secondo un commentatore, «suggestivo ma inutilizzabile nella
sua assolutezza, [il termine] era troppo riferibile all’idea di censura statale» 26. Le resistenze dei professionisti
dell’informazione erano state citate
in Parlamento per dissuadere dal riprenderlo. D’altra parte, sia l’Autorità indipendente di ricorso in materia radiotelevisiva (l’organismo di
controllo sul rispetto delle concessioni da parte delle radio e delle televisioni, instaurato con la legge del
1991) sia il Tribunale federale (ultima istanza di ricorso) avevano già individuato nella capacità del pubblico
di formarsi liberamente un’opinione
un criterio meno impreciso rispetto a
“obiettività”.
Il manuale di giurisprudenza dell’AIRR precisa questo nuovo criterio
così: «Il pubblico deve essere messo
nella condizione di farsi una propria
opinione sulla base dei fatti e delle
opinioni presentati. Dichiarazioni
controverse e pareri personali devono essere riconoscibili come tali (…)
Non sono rilevanti errori in punti secondari e inesattezze redazionali».
Qualche esempio. Risulta chiaro che
il tono usato è quello della satira, che
per sua natura include l’esagerazione e la deformazione? L’immagine
proposta si riferisce a un fatto preci-
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126
so oppure ha un significato solo simbolico? «Se il pubblico non ha potuto farsi una propria opinione – precisa in seguito il testo dell’AIRR – è
stato rispettato il principio di diligenza giornalistica?». Con questo secondo criterio l’attenzione è spostata sulla professionalità dell’autore
del ser vizio: veracità, trasparenza,
competenza, impegno di verifica, impiego del tempo e dei mezzi a disposizione sono i nuovi elementi che entrano in linea di conto.
Un’accezione procedurale: la prassi dei
consigli della stampa
L’ultimo criterio adottato dall’AIRR e
dal Tribunale federale svizzero (la verifica della professionalità) è in sintonia con
la prassi del Consiglio della stampa, l’organo nazionale di deontologia dei giornalisti. La descrive Peter Studer, che il
Consiglio ha presieduto dal 2000 al
200727. Premessa del suo ragionamento
è l’accettazione del principio habermassiano che tra la verità e l’accettabilità razionale vi è una spaccatura che non è
possibile colmare. La verità di un’asserzione può essere misurata non già su ‘evidenze lampanti’ bensì soltanto su ragioni giustificative, anche se mai definitivamente ‘cogenti’. Soltanto l’ideale estensione della cerchia dei destinatari può
contrastare il particolarismo. Nei processi di giustificazione, in linea di principio
fallibili, noi possiamo ricercare soltanto
motivi ‘migliori’ ma non irrevocabili28.
Peter Studer ne deduce che:
(a) «La ricerca della verità non coglie il suo obiettivo se non di volta in volta ed è falsificabile attraverso nuove conoscenze; la ricerca può evidenziare
delle imprecisioni e scoprire degli errori». È una situazione tipica della ricerca giornalistica, il
cui statuto è di evidente provvisorietà, considerato come sia soggetta a molti condizionamenti: l’urgenza di pubblicare, l’impiego di
mezzi talora insufficienti o inadeguati, le
pressioni esterne, le negligenze. Ma il sistema
conosce i propri limiti e accetta di correggersi, le correzioni sono possibili a breve termine, la concorrenza mette in risalto le debolezze. (Il problema è particolarmente acuto
oggi con l’editoria online, che non conosce i
tempi di chiusura tradizionali e spesso deve
sacrificare la verifica all’urgenza della comunicazione).
(b) «La ricerca della verità non consiste più – come
nella definizione di verità in S. Tommaso d’Aquino – nella corrispondenza della definizione e del
suo oggetto, ma nella verifica intersoggettiva dell’enunciazione. Un’enunciazione è intersoggettiva
quando dalla sua origine e in ogni tappa del suo
procedere si sottopone alla verifica di molti soggetti.
Chiunque segua lo stesso processo dovrebbe giungere circa alle medesime conclusioni». Si fonda su
questo punto la legittimazione degli organismi di deontologia. Nei termini della filosofia
morale, il principio descrive il passaggio dalla coscienza monologica dell’individuo alla
coscienza intersoggettiva di una collettività –
in concreto quella della corporazione professionale, senza tuttavia escludere che sia
un’autorità pubblica designata democraticamente a svolgere questo ruolo.
(c) «L’oggettività non è più valutata a partire dal
prodotto finale giornalistico ma dalla qualità del procedimento che l’ha originato». L’etica applicata
suggerisce criteri per verificare la qualità di un
procedimento29. I codici professionali a loro
volta specificano quali esigenze fondamentali
l’attività giornalistica deve rispettare, per esempio precisando (è la Direttiva 1.1 annessa alla
“Dichiarazione dei doveri”30) che la ricerca della verità «concerne l’esame accurato dei dati
accessibili e disponibili, il rispetto dei documenti (testi, suoni, immagini), la verifica e la
rettifica degli errori». Nel codice professionale
sono prescritti pure la lealtà e la trasparenza dei
metodi di indagine. È sulla violazione di queste
precise esigenze – e non su un astratto principio di “obiettività” – che gli organismi di deontologia sono autorizzati a pronunciarsi.
Conclusione
Si potrebbe così, pragmaticamente,
considerare risolto un problema che in
apertura si delineava come un poco inquietante. La svolta interpretativa introdotta dai tribunali civili e dagli organismi
professionali della Svizzera e tacitamente
ammessa dal legislatore (con la rinuncia al
criterio di oggettività, con la scelta di una
via procedurale alla verità) si giustifica a
parer mio anche dal profilo dell’etica filosofica. Habermas chiamava questo modo
di procedere etica della discussione (Diskursethik)31. Il metodo procedurale è anche il
più vicino a quella che John Rawls, filosofo
della politica, chiamava fairness, cioè equità
nei rapporti tra soggetti deliberanti. Si realizzano cioè sul punto specifico rapporti
equi tra i partecipanti (Justice as Fairness32),
attraverso il reciproco riconoscimento di
diritti e doveri. L’esigenza di verità è riconosciuta come un dovere, ma l’accertamento di un’applicazione avviene esaminando la qualità delle procedure.
Note
1 B. WILLIAMS, Genealogia della verità. Storia e
virtù del dire il vero, Fazi, Roma, 2005.
2 Reporters sans frontières, Press Freedom Barometer, 30 dicembre 2008.
3 Citato da Alain Woodrow, Information Manipulation, Vifs, Paris, 1991, p. 165.
4 M. CANTO-SPERBER, L’inquietude morale et la
vie humaine, PUF, Paris, 2001, p. 349.
5 A. MAZZANTI, Cronaca di una assenza. Il dibattito sull’obiettività dell’informazione in Italia, In “Problemi del giornalismo”, anno XIV (aprile-giugno
1989), pagg. 197-215.
6 U. ECO, C’è un’informazione obiettiva?, relazione tenuta il 15 aprile 1978 a Milano e raccolta
nel volume Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano, 1983, 129-143.
7 G. CESAREO, Fa notizia, Roma, 1981.
8 N. LUHMANN, La realtà dei mass media, Franco
Angeli, Milano, 2000.
9 F. ABRUZZO, Codice dell’informazione e della comunicazione. Fonti giuridiche italiane, comunitarie e interna-
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127
zionali, quinta edizione, Roma, 2006, p. 1239 ss.
10 “Problemi dell’informazione” 4/2003: “Ripensare l’obiettività”.
11 Conferma autorevole se ne ha nel volume
di D.C. Hallin e P. Mancini, Modelli di giornalismo.
Mass media e politica nelle democrazie occidentali, Laterza, Roma-Bari, 2004.
12 P. MURIALDI (a cura di), Ottone. Intervista sul
giornalismo, Laterza, Roma-Bari, 1978
13 J. HABERMAS, Storia e critica dell’opinione pubblica (1962), Laterza, Roma-Bari, 2002.
14 Il titolo della versione italiana è: Quarto potere. Il film fu realizzato da Orson Welles nel 1941.
15 M. SCHUDSON, La scoperta della notizia. Storia
sociale della stampa americana, Liguori, Napoli,
1987; M. GOZZINI, Storia del giornalismo, Bruno
Mondadori, Milano, 2000; C. LEMIEUX, Mauvaise
presse, Métailié, Paris, 2000.
16 “Columbia Journalism Review” (4) July-August 2003 (tr. it. Ripensando l’obiettività, in “Problemi dell’informazione”, 3/2003, 275-99).
17 Cito, di W.L. Beenett, R.G. Lawrence e St. Livingston, il saggio When the Press Fails, The University
of Chicago Press, Chicago-London, 2007, che attribuisce una parte della responsabilità all’assunzione,
da parte dei media, di un tipo di logica “politica” imparato nei circoli del potere e svincolato dal dovere
primario di servire l’opinione pubblica.
18 B. CUNNINGHAM, The case of Objectivity in
News Reporting, relazione presentata a un convegno a Lugano del gennaio 2005, pubblicata da
“Media Journalism in the Attention Cycle”, Università della Svizzera italiana, Lugano, 2006.
19 La dichiarazione fu pubblicata dall’ “International Herald Tribune” del 21 ottobre 1992.
20 Pubblicato da “Epoca” il 12 settembre 1990.
21 L’idea risale a Tom Wolfe, assunto a ventisei
anni, nel 1957, dalla “New York Herald Tribune”, ed
ebbe tra i suoi migliori cultori scrittori come Truman
Capote, Norman Mailer, Gay Talese.
22 J. FULLER, News Values. Ideas for an Information
Age, University of Chicago Press, Chicago, 1996.
23 D.T.Z. MINDICH, Just the Facts. How ‘Objectivity’ Came to Define American Journalism, New York
University Press, New York-London, 1998.
24 In Svizzera, Paese federale, la sovranità è, originariamente, dei cantoni. Le competenze dello Stato centrale (la Confederazione elvetica) devono essere esplicitamente enumerate nella Costituzione federale e approvate ogni volta in votazione generale
(referendum). La prima Costituzione federale risaliva al 1848. Una revisione totale fu approvata nel
1874. Da allora il testo costituzionale era stato emendato a così tante riprese da indurre il Parlamento,
negli Anni Novanta del Novecento, a rifonderne i
contenuti in un nuovo testo, anche strutturalmente
innovato (con un capitolo introduttivo sui diritti fon-
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128
damentali, che riflette le codificazioni introdotte nel
secondo dopoguerra: Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo del 1948 e Convenzione europea
dei diritti dell’uomo del 1950). La nuova carta costituzionale fu approvata in votazione generale nel
1998 ed è attualmente in vigore.
25 D. B ARRELET , Droit de la communication,
Staæmpfli, Berne, 1998, 51.
26 R.H. WEBER, Rundfunkrecht, Bern, 2008, 55
ss. Ringrazio l’Avv. Antonio Riva, ex direttore generale della Società svizzera di radiotelevisione,
che delle informazioni contenute in questo capitolo è stato il cortesissimo produttore.
27 A. RIKLIN (Hrsg.), Wahrhaftigkeit in Politik,
Recht, Wirtschaft und Medien, Bern/Göttingen
2004, p. 145. In corsivo il testo di Peter Studer.
28 J. HABERMAS, Verità e giustificazione, Laterza,
Roma-Bari, 1999, pp. 43 ss.
29 Habermas indica come esigenze da rispettare:
(1) la completa inclusione di tutti gli interessati; (2)
l’uguale distribuzione dei diritti di comunicazione;
(3) l’esclusione di ogni coazione, salvo quella dell’argomento migliore; (4) la sincerità (Aufrichtigkeit)
delle enunciazioni. In: Verità e giustificazione. Saggi filosofici, Laterza, Roma-Bari 2001, 42 ss.
30 In Svizzera non esiste un Ordine dei giornalisti.
I giornalisti si organizzano nelle forme ordinarie del
diritto civile, soprattutto come associazioni. Il rilascio
della tessera professionale (non soggetta a esami di
Stato, come in Italia) avviene da parte delle associazioni dei giornalisti, al termine di uno scrutinio circa
l’esercizio effettivo della professione. All’atto di ricevere la tessera, i giornalisti firmano la “Dichiarazione
dei doveri e dei diritti dei giornalisti” (www.presserat.ch) e ne assumono implicitamente gli obblighi. Le
associazioni dei giornalisti e quelle degli editori hanno costituito una fondazione che elegge e gestisce il
“Consiglio della stampa” (Presserat). Il Consiglio, formato da 15 giornalisti professionisti e da 6 “laici” (rappresentanti del pubblico) giudica il comportamento
dei giornalisti, normalmente su reclamo degli utenti
dei media, più raramente affrontando un tema controverso di propria iniziativa.
31 C. BROSDA, Diskursiver Journalismus. Journalistisches Handeln zwischen kommunikativen Vernunft und mediensystemischen Zwang (Giornalismo della discussione. L’agire giornalistico tra
ragione comunicativa e costrizione dei sistemi
mediatici), VS Verlag für Sozialwissenschaften,
Wiesbaden, 2008. Nella conclusione di questo
manuale esemplare, l’Autore si esprime chiaramente per una rinuncia a “criteri superati” come “obiettività” e “neutralità”.
32 J. RAWLS, Giustizia come equità. Una riformulazione,
Feltrinelli, Milano, 2002. Il principio di equità (Fairness)
nella prassi giornalistica è il titolo dell’ultimo capitolo
del mio saggio L’onore della cronaca, cit.
Note per un’etica
del cinema
di Dario Edoardo Viganò
L’interesse del breve intervento non
è tanto quello di ripercorrere i paradigmi filosofici per individuarne i corrispondenti modelli di etica proposti,
bensì quello di rileggere il periodo che
va dagli anni Cinquanta alla fine degli
anni Ottanta a partire dal legame
profondo tra media e società che, nel
tempo, registra trasformazioni anche significative delle simboliche culturali di
riferimento, come ricorda Pasolini, all’indomani dell’esito referendario sul
divorzio in Italia, quando afferma: l’Italia ha intrapreso la strada di un vero e
proprio “mutamento antropologico”1.
Per la storia sociale dei media il periodo
è particolarmente fecondo. Infatti, la
società si trova a fare i conti non solo
con le grandi narrazioni del cinema ma
anche con la presenza della Tv. Dopo i
primi vent’anni della Tv caratterizzata
da una marcata politica pedagogizzante, con la liberalizzazione dell’etere avvenuta verso la fine degli anni Settanta,
assistiamo a una lenta ma inesorabile
trasformazione delle politiche culturali:
da modelli decisamente educativi al dilagare dell’infotainment, genere ibrido
determinato dall’unione di informazione e intrattenimento, dunque verso un
modello televisivo improntato soprattutto all’evasione, all’intrattenimento.
Sono gli anni nei quali modelli di vita
differenti da quelli tradizionali si affacciano e si impongono divenendo fattore importante di un cambio di mentalità
che giungerà a mettere in mora tutto il
sistema di valori tradizionali: dalla famiglia, alla figura femminile, al senso della vita. Avviene, in altre parole, la migrazione delle simboliche culturali del
cristianesimo geografico dai territori
dell’esistenza concreta delle persone.
Pertanto nel seguito vedremo anzitutto le coordinate sociali, politiche e
culturali nelle quali ha preso avvio il
cambiamento di paradigma culturale; a
seguire, cercheremo di cogliere come
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l’eredità di tale cambiamento avvenuto
si possa cogliere nel cinema contemporaneo con particolare attenzione ad alcuni testi sull’inizio e fine vita, per concludere, con una incursione nel sistema
dell’informazione, evocando una figura
profetica che possa aiutarci a recuperare una dimensione fondamentale dell’antropologia: l’ascolto.
Fotografia socio-politica e culturale di
un’Italia dinanzi al grande e al piccolo
schermo
Il cinema, sia sotto il profilo industriale sia sotto quello artistico, è la cartina di tornasole che permette di leggere la situazione politica, economica e
culturale italiana negli anni Cinquanta.
Se nel 1945 vengono realizzati nella penisola venticinque film, nel 1954 escono
nelle sale ben duecentouno pellicole,
un’espansione frutto dell’istituzione di
un sistema a premi che avvantaggia le
produzioni nazionali promosso dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giulio Andreotti. Nel contempo, a
non essere supportate da alcuna agevolazione sono le opere che gli ambienti
governativi non approvano, come quelle neorealiste2, in un’Italia in cui il “centrismo” è saldamente in sella nella prima metà del decennio con De Gasperi,
per poi manifestare difficoltà sempre
più evidenti con gli esecutivi guidati dai
democristiani Scelba e Pella. A ogni modo, le case cinematografiche hollywoodiane con le loro produzioni occupano,
nel mercato italiano, il primo posto, sia
come numero di produzioni che a livello di incassi: nonostante un ridimensionamento nella seconda metà degli anni
Cinquanta, il made in Usa è in posizione
dominante3. Tali dati, tuttavia, non do-
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130
vrebbero essere accolti con sorpresa: in
fin dei conti, sin dalla divisione geopolitica mondiale in due poli, quello statunitense e quello sovietico, conseguito alle conferenze di pace del secondo conflitto mondiale, l’Italia è inserita sin dal
principio nell’alveo liberale, con tutto
ciò che direttamente ne consegue non
solo sotto i profili socio-economico e
politico, ma anche mediatico e culturale. Ne è un’ulteriore dimostrazione la
contaminazione delle opere realizzate
tra Cinecittà e Hollywood, che diviene
sempre più evidente4.
Proprio nella prima metà degli anni
Cinquanta, un altro strumento di comunicazione di massa comincia a entrare nelle case degli italiani: la televisione.
Il suo impatto è molto forte, poiché se,
come il cinema, combina immagini e
suoni, dal punto di vista sociale consente alle persone comuni di accedere quotidianamente a luoghi che fino a quel
momento erano rimasti loro preclusi5,
sotto l’aspetto tecnico introduce «punti
di vista plurimi»6 e, infine, sotto il profilo temporale, si basa sulla messa in onda di immagini attentamente selezionate e “concentrate”, in cui viene eliminato tutto ciò che non è significativo7.
Non solo. La televisione apporta un
contributo di straordinaria significatività all’opera di diffusione della lingua
italiana, che può così essere conosciuta
e appresa in aree del Paese in cui la barriera del dialetto sembrava insormontabile. Inoltre, nel processo di trasformazione del senso comune sempre più palpabile in un’Italia in cui si avvertono i
primi segnali del boom, il piccolo schermo svolge un ruolo di primaria importanza nella diffusione del modello consumista. Tale elemento viene colto puntualmente da papa Pio XII, che nell’Esortazione Apostolica I rapidi progressi,
emanata il 1° gennaio 1954, rileva come
la televisione non sia assimilabile alla radio principalmente per due motivi: la
sua presenza costante nel focolare domestico, e quindi la sua natura “familiare”, e la sua innata capacità di coinvolgere emotivamente il pubblico. Consapevoli della potenza invasiva della televisione, i dirigenti democristiani vigilano attentamente sul contenuto della
pubblicità ivi trasmessa. Le prime versioni degli spot sono concentrate esclusivamente in un singolo programma,
Carosello. Regole molto rigide limitano
la loro invasività: i minuti dedicati ai
consigli per gli acquisti non sono infatti
molti anche all’interno della fascia oraria, unica e fissa, loro dedicata nel corso
dell’intera giornata. Non bisogna inoltre dimenticare che gli sketch dei quali
Carosello si compone, che lanciano la
pubblicità vera e propria dei prodotti e
a cui è dedicato lo spazio maggiore del
programma, sono sottoposti a una censura molto severa8.
Tali elementi dimostrano come l’Italia del tempo sia, nonostante tutto, un
Paese “in bianco e nero”, in cui sussiste
dai decenni precedenti un fondamentale elemento di continuità: l’assoluta rilevanza del cattolicesimo, dei suoi valori e della sua rete associativa.
Nei primi anni Sessanta, la crescita
economica registrata nella penisola
continua a essere notevole. Tale andamento sarebbe rimasto immutato per
tutto il decennio, anche se i suoi ritmi
sarebbero divenuti «meno intensi»9. È
un periodo di prosperità economica,
nel quale, sul piano sociale, si diffonde
nell’opinione pubblica «un nuovo senso dei diritti, non sempre congiunto
con la coscienza dei doveri»10.
Anche a livello politico comincia una
stagione di grandi aspettative con l’i-
naugurazione della formula di centrosinistra. I socialisti si coalizzano con i democristiani, in un primo tempo, negli
ultimi anni Cinquanta, garantendo la
loro astensione parlamentare, e in un
momento successivo, dopo la chiusura
di una parentesi neo-centrista aperta
anche ai partiti di destra con le presidenze degli esponenti della Dc Segni e
Tambroni, con l’ingresso di esponenti
del partito di sinistra nell’esecutivo: nessuna altra alternativa pare, nell’alveo
costituzionale, possibile.
La stagione del centro-sinistra si rivela una delusione: le tanto promesse
riforme necessarie a un progresso sia
economico che civile e culturale non vedono la luce. Tuttavia, il tramonto di tale formula, sempre più svuotata di contenuti programmatici, viene posticipato
proprio a causa dell’assenza di alternative plausibili.
Tale situazione causa uno scollamento sempre più evidente tra la classe politica e l’opinione pubblica del Paese, in
cui cresce l’inquietudine, tanto tra i giovani, protagonisti del movimento sessantottesco, quanto tra gli operai, le cui
battaglie contrattuali culminano, l’anno successivo, nell’“autunno caldo”11.
Se da un lato i sindacati riescono, pur
tra mille difficoltà, a evitare lo scivolamento del furore della protesta nell’illegalità, e ad aumentare così il loro peso rispetto ai loro interlocutori istituzionali, il loro successo rimane incompleto; il sequestro del giudice Sossi, avvenuto nel 1974, è tra i primi episodi della macabra stagione del terrorismo che
insanguinerà gli anni successivi, con atti criminali compiuti sia da frange estremiste di destra sia di sinistra.
Una condivisa volontà di cambiamento, si manifesta, su un altro versante, sempre nello stesso anno: in occasio-
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131
ne del referendum sul divorzio, gli italiani votano la sua conferma. Per Pasolini tale evento indica «un cambiamento
epocale, con la scomparsa in Italia di
una civiltà contadina millenaria [...], un
profondo mutamento antropologico
sotto la pressione del consumismo e lo
sviluppo di un processo di omologazione culturale in chiave edonistica»12. Il
processo di secolarizzazione della società è ormai in uno stadio avanzato: i
valori cristiani non sono più tanto condivisi come in passato13.
Il 1974 è un anno chiave anche nell’ambito mediatico: il 10 luglio la sentenza n. 226 della Corte Costituzionale
prevede che sia concesso alle reti via cavo di trasmettere in ambito locale, mentre il pronunciamento n. 202 del 1976
viene sancita dai sommi giudici «l’illegittimità anche del monopolio via etere
su scala regionale»14. Emittenti private
possono, così, comparire sulla scena televisiva italiana 15. Un vero e proprio
stravolgimento dello status quo ante avviene l’anno successivo, quando si spengono le luci sul programma Carosello. Le
rigide regole fino a quel momento vigenti sul mercato pubblicitario vengono, in molti casi, accantonate: si apre
un’intensa fase di liberalizzazioni, festeggiate anche dall’irrompere delle immagini a colori sul piccolo schermo. La
concessionaria di pubblicità Publitalia,
fondata da Silvio Berlusconi, al tempo
proprietario di Telemilano, con i suoi
agenti si muove sul mercato «incessantemente» 16, operando capillarmente
sul territorio, presso la sede delle imprese che potrebbero essere interessate
ai suoi ser vizi, e proponendo «nuovi
modi di investire»17.
Paradossalmente, a un’Italia che alla
metà degli anni Settanta sceglie, con i
suoi governi, l’austerità come parola
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d’ordine, corrisponde una popolazione
che nella sua larga parte è sempre più
restia al rispetto delle regole dello Stato
e del vivere civile: «l’autoriduzione delle
tariffe [...] è [...] una pratica diffusa nelle famiglie più insospettabili, dove si va
radicando una specie di sottocultura dei
diritti, comprendente il diritto ai servizi
pubblici gratuiti – trasporti, elettricità,
telefono, gas, televisione»18. La crescita
dell’economia sommersa sembra un fenomeno inarrestabile19.
Nel nuovo corso della politica economica e sociale intrapreso negli anni Ottanta, che vede nel ruolo di protagonisti
il Partito Repubblicano di Ronald Reagan negli Stati Uniti e il Partito Conservatore di Margaret Thatcher in Gran Bretagna, a coprire una posizione di primissimo piano è, in Italia, il settore imprenditoriale, mentre le formazioni politiche
svolgono molto spesso una funzione
comprimaria, anche a causa del crollo
della credibilità loro riconosciuta dalla
popolazione: all’assenza di ricambio ai
loro vertici si aggiunge una preoccupante serie di scandali, una corruzione sempre più galoppante e il dilagare della
mentalità e della prassi clientelista.
A ogni modo, a catalizzare l’attenzione e i favori dell’opinione pubblica è
l’allettante programmazione assicurata
dal network televisivo privato della Fininvest: con la sua formazione, il caos
che aveva dominato nel panorama delle
trasmissioni via etere fino alla metà degli anni Ottanta si riduce notevolmente
«anche grazie alla sussistente mancanza
di regolamentazione – la politica ha
completamente disatteso l’invito della
Corte Costituzionale a legiferare in termini di emittenza televisiva»20. Soprattutto, le aziende che decidono di avvalersi dei servizi offerti dal binomio Publitalia-Fininvest possono contare su
condizioni di favore: la garanzia di visibilità sulle reti del gruppo si unisce a politiche mirate dei prodotti pubblicizzati
nei grandi magazzini collegati, in termini di proprietà, ai vertici delle due sopraccitate aziende. I risultati non si fanno attendere sia sul piano degli ascolti
che su quello dei ricavi, derivanti proprio dai dati relativi all’audience: nel
1984 la raccolta pubblicitaria di Canale5, Italia1 e Rete4 è superiore a quella
della televisione pubblica21, mentre due
anni dopo l’Auditel attesta che la sera
precedente alla presentazione delle statistiche sullo share, mentre 41 ascoltatori su cento avevano scelto di vedere un
programma Rai, ben 53 avevano preferito sintonizzarsi su una trasmissione
della Fininvest22.
L’evento è la conseguenza del modello strutturale adottato dalla dirigenza del servizio pubblico: nonostante l’azienda statale potesse contare come fonte di introiti non solo sugli investimenti
pubblicitari, ma anche sul canone, decide di accettare la sfida lanciata dai concorrenti sul piano degli ascolti23.
Il risultato di tale politica non tarderà a manifestarsi, con effetti devastanti nell’ambito socio-culturale: è l’intrattenimento a essere incoronato con il
riconoscimento di una sua «legittimità
assoluta (...), con la conseguente sconfitta delle logiche pedagogizzanti» 24.
L’onda lunga di tale scelta di campo è
giunta fino ai nostri giorni, basti accendere a qualsiasi ora la televisione sintonizzandosi sui canali generalisti. Si potrà riscontrare una rincorsa del pubblico, solleticando i suoi bassi istinti. Anche il mondo dell’informazione non
viene risparmiato dalla strategia sopra
descritta: dilaga l’infotainment, il mescolamento di fatti, opinioni e spettacolarità, che troppo spesso, invece che ba-
sarsi su un’intelligente ironia, scade nella volgarità e nella banalizzazione, nell’attizzamento di polemiche inutili, scatenate da retori del nulla solo per motivi di visibilità, per catalizzare l’attenzione dei teleutenti.
Siamo giunti ad una situazione nella
quale tutto è assunto e ricompreso nelle logiche narrative della comunicazione pubblicitaria. «Ciò che stiamo vivendo è l’assorbimento di tutti i modi virtuali d’espressione in quello della pubblicità. […] Tutte le forme attuali d’attività tendono verso la pubblicità, e la
maggior parte di esse vi si esaurisce […]
Questa convergenza definisce una società, la nostra, in cui non esiste più nessuna differenza tra l’economico e il politico, poiché vi regna lo stesso linguaggio da un’estremità all’altra, una società
dunque dove l’economia politica, letteralmente parlando, si è infine pienamente realizzata»25.
Assistiamo sempre più, nell’informazione in maniera specifica, ad una comunicazione che ha abbandonato la pacatezza dell’andamento logico argomentativo per assestarsi nell’eccitazione
del sensazionalistico e immediato, dove
i criteri dei doveri deontologici, prima
ancora che la sensibilità del profilo etico, si sono frantumati in una inconsistente chiacchiera continua. L’informazione, elemento decisivo per la qualità e
lo stile delle democrazie, si è trasformata in quanto di più effimero possa esserci, appunto come la pubblicità. Potremmo dire che «l’effimero si è trasformato
in condizione permanente»26.
In tale contesto, possiamo riannodare alcune questioni dell’etica relativamente al cinema, seguendo un minimo
percorso che possa, in forma esemplare, orientare la riflessione sulla pertinenza delle domande.
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Il cinema e le questioni dell’inizio e del
fine vita
I cambiamenti di paradigma filosofico,
antropologico e culturale, di cui il sistema
dei media e la tv in particolare sono stati e
continuano ad essere protagonisti, mettono alla prova uno dei medium particolarmente interessanti sotto il profilo sociale: il
cinema. Cerchiamo di indagare come le
questioni etiche possano emergere dinanzi
a un testo cinematografico. Possiamo servirci, a tal proposito, dell’esempio di tre
film: i primi due, Mare dentro (2004) di
Alejandro Amenábar e Million Dollar Baby
(2004) di Clint Eastwood, affrontano l’argomento della scelta della morte, mentre il
terzo, 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (2007) di
Cristian Mungiu, partendo da un contesto
storico e sociale riconoscibile (la Romania
di Ceausescu), racconta in maniera universale il dramma degli aborti clandestini.
Il percorso, esemplare e non esaustivo,
che proponiamo necessita di qualche precisazione di approccio. Certamente è possibile far emergere la questione relativa all’etica
dello spettacolo, all’aspetto più propriamente contenutistico. L’istituto della censura risponde, tra molte difficoltà, proprio alle problematiche che emergono a livello di
contenuti. Dalla storia del cinema conosciamo come proprio alcuni temi forti (contenuti), come ad esempio l’urgenza di libertà
e democrazia, siano stati delegati alle modalità narrative, potremmo dire a forme di resistenza che hanno attraversato la poetica di alcuni dei più grandi maestri della storia del
cinema e ancora oggi non mancano di mostrare la forza delle pratiche enunciative.
Gli studi semiotici più recenti hanno dovuto fare i conti con la constatazione che il
funzionamento significante del testo filmico ha urgenza di aprirsi sia al contesto (approcci socio semiotici) sia allo spettatore
(semiopragmatica). Ciò non significa elu-
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134
sione del testo bensì, come dice Odin, consapevolezza che il senso del testo è sempre
estroverso ad esso anche se mai indipendente da esso.
Dunque il dispositivo testuale nel suo
porsi in relazione al contesto e allo spettatore è lo sfondo che guiderà le analisi, più
evocative che analitiche, alla ricerca del profilo circa la questione etica.
Cercheremo di comprendere il modo
in cui ciascun film costruisce il proprio discorso sulla morte autodeterminata (nei
primi due esempi) e sulla “determinazione” di interrompere una vita (ancora in
una fase “embrionale”), chiamando di volta in volta lo spettatore a misurarvisi e dunque a osservare consapevolmente e senza
condizionamenti tutta la gravità del problema. In questo senso l’esercizio etico risiede
nella capacità del testo cinematografico di
costruire una relazione con lo spettatore in
base alla quale sia garantita l’apertura e la
molteplicità dei suoi percorsi interpretativi.
Mare dentro (Mar adentro, 2004) di
Alejandro Amenábar
Mare dentro ripercorre l’ultimo periodo
di vita di Ramon Sampedro (Javier Barden), realmente esistito, marinaio della Galizia rimasto tetraplegico all’età di venticinque anni, che per oltre trent’anni ha chiesto la possibilità di ricorrere all’eutanasia. Il
film racconta il suo lucido e determinato intento di morire, il suo voler rinunciare a
un’esistenza difficile, invocando il diritto alla morte, un diritto che vuole sia considerato alla stregua del diritto alla vita che la legge riconosce e tutela. Dice Ramon nel film:
«Vivere è un diritto, non un obbligo».
La pellicola è un racconto biografico,
ma soprattutto è la lucida ricostruzione della scelta di un uomo di abbracciare la morte con convinzione e ferma determinazione. Alla vicenda di Sampedro il film accosta
posizioni contrastanti con quelle del protagonista, come ad esempio quella sostenuta
dal prete, anche lui ugualmente tetraplegico, che tenta di convincere Ramon a cogliere l’importanza del dono dell’esistenza
quand’anche si sia costretti a sofferenze disumane. Si oppone al protagonista anche il
fratello, che non riesce in nessun modo a
concepire l’estrema soluzione perseguita
da Ramon. E infine la figura del padre anziano, che attraversa silenziosamente tutto
il racconto, con un carico di pathos che si
manifesta nel pronunciare una battuta con
la quale rivela tutta l’intensità del suo dolore di fronte alla scelta del figlio: «C’è una sola cosa peggiore della morte di un figlio…
che voglia morire».
Apparentemente il quadro narrativo
in cui si dispongono i personaggi sembra
dar vita a un significativo contraddittorio
che ha al centro la figura e soprattutto la
scelta di Sampedro: da una parte abbiamo un tetraplegico che chiede di morire,
dall’altra tre figure fortemente connotate
che da posizioni differenti ma motivatamente immodificabili (la fede per il sacerdote, che con il protagonista condivide il
dramma della malattia; il vincolo famigliare primario che muove gli altri due) sembrano dunque attivare un vero scontro di
forze, compreso nella sua drammaticità.
In verità, il film non riesce a conferire alle tre figure descritte uno spessore drammaturgico rilevante, le tratteggia nel
complesso come pure e semplici funzioni
narrative, le relega in una dimensione
bozzettistica e schematica che assegna loro il ruolo di semplici e quasi necessari
“oppositori”.
Appare in questo caso innegabile l’intento di non voler presentare in modo neutro la situazione narrata, domandando in
modo evidente allo spettatore un’adesione
alla scelta del protagonista. Mare dentro, in
questo senso, si presenta per molti aspetti
come un film a tesi. In sé questo non è criticabile, lo è invece l’artificio di cui sopra:
porre le figure degli oppositori senza attribuire loro il necessario spessore e lo spazio
dovuto all’approfondimento delle loro
istanze è un modo per far risaltare ancora
di più la tesi che si vuole sostenere senza
porla mai veramente in discussione. Il paradosso è che se da una parte il film non
può essere preso ad esempio di una corretta costruzione dal punto di vista etico, dall’altra il voler apparire come un film di riflessione gli impedisce di ottenere gli effetti patemici ed emozionali propri di un film
drammatico canonico: «Amenábar si avventura in un terreno molto [...] serio,
quindi [...] pericoloso: l’equiparazione tra
diritto alla vita e diritto alla morte, l’eutanasia. Il suo non è un film “per dibattiti”; e tuttavia, in certi momenti, ha la forza della perorazione. Che non ricorre mai al patetico,
né attacca le ghiandole lacrimarie dello
spettatore. Sarà perciò che Mare dentro non
emoziona quanto ci si aspetterebbe»27.
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Million Dollar Baby (Id., 2004) di Clint
Eastwood
Narra la vicenda della giovane pugile
Maggie Fitzgerald (Hilary Swank), che
tra lavori precari e una condizione di vita
umile e disagiata, riesce ad essere accettata nella palestra di Frankie Dunn (Clint
Eastwood) il quale, superate le reticenze
iniziali, le si affeziona e le permette di diventare in breve tempo un astro nascente
della boxe femminile. La carriera di Maggie subisce un drammatico e irreversibile
arresto a causa di un incidente sul ring.
Maggie diviene tetraplegica e inizia il suo
calvario. Qui s’inserisce il tema della scelta della morte, presa per porre fine alla
sofferenza di un’esistenza mutilata.
La protagonista viene presentata come
una ragazza forte e tenace nel temperamento, ma al tempo stesso fragile, abbandonata da una famiglia interessata solo alla
fortuna che la giovane campionessa è riuscita ad accumulare con il suo talento.
L’unico che le dimostra affetto è
Frank, che oltre ad allenarla con professionalità assume anche le veci di un padre
premuroso. Proprio al suo allenatore la
ragazza si rivolge nel momento in cui
prende la drammatica decisione di voler
porre fine alla propria vita. Frank inizialmente si oppone all’idea di aiutare la ragazza nel perseguimento di un intento
che non condivide e che non può accettare, perché contrario sia alla sua coscienza che alla sua fede. Di fronte alla
ferma volontà della giovane però, e nella
consapevolezza che questa cercherà comunque di raggiungere il proprio obiettivo, decide infine di assumersi la responsabilità di aiutarla e di ridurre al minimo
le sofferenze che dovrà patire.
«[Il film] Negli Usa ha incassato poco
e i moralisti gli hanno lanciato contro una
campagna per un tema – l’eutanasia – che
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va bene quando se ne occupano gli altri
[Mare dentro] [...], molto meno se la produzione è americana. Però a Eastwood,
che è un moralista vero, non interessa affatto fare un film a tesi: dall’interno di una
squallida palestra di boxe, ci racconta una
storia di solitudine e affetti, di conti col
passato, di rispetto di se stessi; roba fuori
moda, ma che è anche l’unica a contare
davvero. […] Perché, dal racconto di F. X.
Toole, Eastwood ha tratto a tutti gli effetti
una storia d’amore: non nel senso materiale inteso dalla volgare madre di Maggie; di paternità vicaria, se si preferisce;
d’amore comunque, come unico, ancorché effimero, lenitivo alla solitudine e al
nonsenso. Clint ci parla di gente vera, che
non cerca un posto al sole ma si accontenterebbe di un posto nel mondo»28.
Il tema dell’eutanasia è presentato alla
fine del film. La scelta compiuta dal personaggio di Frank è una scelta che il film
non si preoccupa di presentare come giusta o sbagliata, anzi: la voce narrante sospende esplicitamente il giudizio sul gesto
del protagonista. Allo spettatore non è
chiesto di partecipare alla scelta fatta dal
protagonista, come avviene in modo più
marcato in Mare dentro. In Million Dollar
Baby si è posti dinnanzi al dubbio, allo stesso dubbio del personaggio di Frank, diviso tra un estremo gesto d’amore e la propria coscienza, la propria fede. Allo stesso
tempo la fermezza della protagonista nel
perseguire la propria morte non è appoggiata né contrastata dal film: viene solo
presentata nella sua estrema drammaticità. «Dalla speranza alla rassegnazione.
Attraverso un (inconfessabile) calvario,
che ricatapulta Frankie nel deserto emotivo da cui proveniva. Gli resta soltanto
Dio a cui gridare la propria disperazione.
E ripetere tante volte un perché, destinato a restare senza risposta»29.
Frank fa la sua scelta, con dolore, e il
film la racconta senza influenzare lo
sguardo dello spettatore, il quale può
condividere o meno il gesto disperato
compiuto dal personaggio. Per amore,
egli si sacrifica, sacrifica se stesso, i suoi valori, la sua fede. Il film, come detto, non
si preoccupa di domandarci se tutto ciò
sia giusto o meno, lascia emergere solo la
richiesta di rispettare una scelta, che in
qualche modo può sembrare una scelta
di carità, seppur profondamente in contrasto con la fede e con il senso cristiano
di carità. In questo caso, lo spettatore può
entrare pienamente in relazione con le
aperture del testo, con le sue zone di non
detto, di non dichiarato, con la molteplicità dei percorsi interpretativi che esso ci
consente a vario titolo di seguire.
«Ma Million Dollar Baby non sarebbe
così emozionante se non lavorasse neanche troppo segretamente su due livelli.
Uno, implacabile, sportivo-melodrammatico. E un altro, come dire, religioso-esistenziale. A un primo sguardo difatti il
film parla di un padre che ha perso la figlia e di una giovane venuta dal nulla; di
un uomo senza cultura che ha paura dei
legami ma va in chiesa e legge Yeats in gaelico; di una ragazza pronta a farsi spaccare il naso sul ring pur di dimostrare che vale qualcosa (e a farselo “sistemare” in diretta da quel tutore-allenatore in una scena quasi insostenibile di emozione); insomma di un mondo in cui, proprio come
nel mondo reale, basta voltarsi un attimo
e tutto crolla. Le regole faticosamente imposte vengono calpestate, il male trionfa,
gli innocenti soccombono. Succede prima a Morgan Freeman e poi a Clint Eastwood. Ma è col secondo, costretto ad assistere quella “figlia” non carnale come
mai avrebbe immaginato, che si impone il
sottotesto religioso. Perché Million Dollar
Baby, per quanto laico, moderno, razionale, è a suo modo un martirologio. La sto-
ria di un Padre chiamato a soccorrere un
Figlio agonizzante (qui una figlia, letteralmente ri-messa al mondo) cui resta solo
lui. O se vogliamo la Passione di una lottatrice che tenta un impossibile riscatto
ma viene messa a morte dai filistei»30.
4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (4 luni, 3
sǎptǎmâni şi 2 zile, 2007) di Cristian
Mungiu
Ambientato nella Bucarest del 1987,
verso la fine del regime comunista di Nicolae Ceausescu, racconta la storia di
Otilia e Gabita, due studentesse universitarie, che si trovano a vivere una rischiosa circostanza. Gabita è incinta ma
è decisa a non portare avanti la gravidanza nonostante interromperla sia illegale. Per aiutarla, Otilia si mette in
contatto con il sig. Bebe, un uomo che
“può risolvere il problema”. E che, per
arrivare a colmare la lacuna tra la somma pattuita e i soldi racimolati dalle due
ragazze per la “pratica”, pretenderà in
cambio il loro corpo.
Premiato con la Palma d’Oro a Cannes, il film del rumeno Cristian Mungiu si sofferma sul dramma di un aborto clandestino per radiografare, più in
generale, le ambiguità insite nell’essere umano, amplificate se radicate in un
tessuto sociale drasticamente riconoscibile. Come nel caso di Million Dollar
Baby, però, anche se attraverso un’estetica cinematografica differente, il film
non prova a (e non vuole) dare risposte, non cerca giustificazioni né condanne: mette in mostra uno spaccato
di tragica quotidianità chiamando lo
spettatore a testimoniare un “fatto”, costringendolo – addirittura inquadrando per qualche secondo il feto morto
sul pavimento di un bagno, questa la
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forzatura secondo alcuni – alla presa di
coscienza di una realtà che, eticamente, allora come oggi è ancora molto difficile da “inquadrare”. «[…] Riesce a
essere un film toccante, disperato. Va
visto, raccontato, rivisto e raccontato di
nuovo, non perde niente se conoscete
la trama, tanto riesce a fondere l’amore implicito e la ferocia esplicita, la carnalità della passione e la carnalità del
ricatto, insomma l’ambiguità umana
nell’ambiguità sociale»31.
Pone questioni irrisolvibili, il film di
Mungiu, e lo fa senza scivolare mai nella
facile retorica o nel sensazionalismo, ma
seguendo un percorso che progressivamente, in maniera costante, si trasforma
in un nuovo percorso per lo sguardo, per
lo spettatore, chiamato ad identificarsi –
se non con i personaggi – quanto meno
con la situazione: si potrà quindi essere in
disaccordo (per motivi etici, religiosi o
culturali) con la scelta dell’una e con l’impegno dell’altra nell’aiutare l’amica a portare a termine la gravidanza (l’apparente
pragmatismo con cui Otilia sembra riuscire ad organizzare il tutto viene sconfessato dallo sguardo fiaccato della stessa nei
confronti di Gabita, quando, dopo aver
subito l’aborto, mangia tranquilla in un ristorante) ma sarà impossibile restare indifferenti di fronte al dramma e al contesto entro il quale il dramma stesso si svolge. Che, come detto, non può non essere
successivamente considerato quale microcosmo rappresentativo di contesti e situazioni altre, per forza di cose universali.
«[…] Un crescendo di orrori che sarebbe insopportabile se Mungiu, a forza
di piani sequenza millimetrici e di ellissi
sapienti, non riuscisse a farci accettare l’inaccettabile, che a quei tempi era quotidiano. Perché quasi tutto il peggio resta
fuori campo, ma proprio in quel quasi sta
la genialità del film, che non ci risparmia
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le complicate manovre destinate all’eliminazione del feto, ma riesce a tenerci
sempre vicini ai personaggi […]»32.
Sulla base degli esempi presentati, si
può concludere che la questione di
un’etica dello spettacolo cinematografico, questione, come detto, di per sé
ricchissima di sotto-implicazioni, non
può essere interrogata a partire da un
piano interpretativo “forte”, da un livello di analisi definito ed univoco, ma
si gioca in primo luogo entro il quadro
della natura complessa, “a falde” del dispositivo testuale cinematografico (la
sua connaturata disposizione a conglobare aree espressive, segni, codici diversi, la sua capacità di generare figurazioni polisense, ecc.) e in secondo luogo nel rapporto altrettanto sfaccettato
e articolato che il film intrattiene con lo
spettatore, che fa esistere il testo nel
momento stesso in cui inizia ad interagire con esso nei modi più diversi.
È proprio su questa relazione multiforme e articolata, allora, che si definirà
la questione etica: non basterà il livello tematico della rappresentazione, né in senso stretto le forme attraverso cui i contenuti si cristallizzano all’interno del film,
ma più profondamente la possibilità che
lo spettatore, corrispondendo alla richiesta di quei livelli di essere pienamente
concretati, possa lasciar agire la propria libertà responsabile e consapevole in relazione al discorso che il film sviluppa e possa liberamente articolare la propria azione interpretativa senza che il testo ne prefabbrichi una o più d’una per lui. C’è una
posizione evidentemente forte e orientata
nel film di Amenábar che lo spettatore
non può non “subire”, mentre appare evidente come nei film di Eastwood e di
Mungiu il percorso discorsivo si snoda attraverso ipotesi, contraddizioni, incertezze, che lo spettatore costruisce insieme al
film e che fino alla fine non si risolvono in
un punto di vista univoco o predeterminato. È in questa ricchezza di sfaccettature – o forse in questa specie di illimitato
abisso dell’interrogazione – che il cinema
più adulto continua a guardare e a mostrare le grandi questioni dell’esistenza.
Tre racconti, tre proposte di relazione tra testo, contesto e spettatore, che
aprono al gioco della libertà responsabile dello sguardo, nella consapevolezza
che una scelta, di adesione o meno, è
sempre esercizio di crisi, di taglio, di
presa di posizione. Esercizio di libertà e
per questo pedagogia del faticoso mestiere di essere uomo.
Contro un nichilismo informativo
L’avvento della Tv e la penetrazione
massiccia tra le mura domestiche, la liberalizzazione dell’etere con l’abbandono, anche da parte del servizio pubblico, di logiche pedagogizzanti in no-
me dell’audience da salvaguardare, il sistema cinema spesso etero diretto da
poteri forti, hanno condotto ad un sistema comunicazione nel quale l’opinione pubblica o presunta tale diviene
criterio di verità delle cose; le persone
vengono continuamente violate non solo nella propria privacy ma anche e soprattutto nel diritto di essere ben informati; il punto di vista differente non è
occasione di ricchezza da implementare
alla propria personale visione ma nemico da sconfiggere. Retoriche testuali
per cui se una cosa è tecnicamente possibile allora è anche lecita; se un’esperienza soddisfa non c’è istanza che possa, anche velatamente, suggerire atteggiamenti differenti. Ormai, «mettere in
dubbio il messaggio non è più un atto
sovversivo compiuto da cittadini impegnati: è un atteggiamento a priori, che
può addirittura precedere l’accensione
della Tv o del Pc. Il nichilismo esprime
l’impossibilità di opporsi: uno stato di
cose che, ovviamente, genera moltissima ansia. Non si tratta di un sistema di
credenze monolitico: non “crediamo”
più nel nulla […]. Il nichilismo non è
più un pericolo o un problema, è la condizione postmoderna di default»33.
Senza pretendere competenze di cui
non disponiamo – il breve intervento infatti vuole semplicemente offrirsi come
occasione di riflessione sull’etica dello
sguardo cinematografico – possiamo dire che alla situazione del nichilismo di
default si contrappone la professionalità responsabile di coloro che operano
in una professione che, proprio nel suo
essere informativa, è anzitutto formativa, ha cioè a che fare con il difficile compito di essere uomo.
Senza entrare nel dibattito dei paradigmi filosofici, o nel dibattito relativo
ai codici deontologici 34, nell’attuale
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contesto culturale e politico, mi pare
possa aiutare tutti a riaffermare la dignità della professione legata alla comunicazione, la figura biblica del profeta Elia, (cfr. 1 Re, 17-19); interrogando la sua esperienza potremmo forse
trovare la strada per uscire dalla presente spirale di violenza e di destrutturazione informativa.
«Acab, figlio di Omri, divenne re di
Israele nell’anno trentottesimo di Asa, re
di Giuda. Acab, figlio di Omri, fece ciò
che è male agli occhi del Signore più di
tutti quelli prima di lui. Non gli bastò imitare il peccato di Geroboamo, figlio di
Nebat, ma prese anche in moglie Gezabele, figlia di Etbaal, re di quelli di Sidone e si mise a servire Baal e a prostrarsi
davanti a lui» (1 Re, 16, 29-31). Siamo nel
IX secolo a.C. e Elia si trova a combattere in un contesto confuso, disperso, in
lotta tra la fedeltà a Javhè e la seduzione
degli idoli che Gezabele aveva introdotto
e dei quali manteneva i profeti.
Così «Abdia andò incontro ad Acab e
gli riferì la cosa. Acab si diresse verso Elia.
Appena lo vide, Acab disse a Elia: “Sei tu
colui che manda in rovina Israele?”. Egli
rispose: “Non io mando in rovina Israele,
ma piuttosto tu e la tua casa, perché avete abbandonato i comandi del Signore e
tu hai seguito i Baal. Perciò fa’ radunare
tutto Israele presso di me sul monte Carmelo, insieme con i quattrocentocinquanta profeti di Baal e con i quattrocento profeti di Asera, che mangiano alla tavola di Gezabele”» (1 Re, 18,16-19).
La sfida lanciata da Elia è grande: lui
è rimasto solo come profeta mentre i
profeti di Baal sono oltre quattrocento.
«Ci vengano dati» – dice Elia – «due giovenchi vengano squarciati, deposti sulla
legna per il sacrificio e poi si invocherà
ciascuno il proprio dio. Il dio che risponderà col fuoco è Dio». La sfida,
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narrata anche con ironia dal libro dei
Re, viene vinta da Elia che alla fine sgozzerà i quattrocento profeti di Baal ricevendo da Gezabele la minaccia che a lui
verrà riservata la stessa sorte.
Nel momento di maggior successo –
ha sconfitto e dimostrato chi sia Dio – e
probabilmente di maggior riconoscimento, Elia fugge alla minaccia di Gezabele, anzi, nel deserto invoca la morte. È
stanco di lottare, prova solitudine, si sente assediato, si nasconde nella grotta. Ma
il Signore gli dice: «“Esci e fermati sul
monte alla presenza del Signore” […] Ed
ecco che il Signore passò. Ci fu un vento
impetuoso e gagliardo da spaccare i
monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento.
Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il
terremoto, un fuoco, ma il Signore non
era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro
di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si
coprì il volto con il mantello, uscì e si
fermò all’ingresso della caverna».
La modalità di rivelazione di Dio indica forse la strada a coloro che si occupano di comunicazione. La presenza di
Dio, la verità, il senso profondo delle cose non risiede e non può essere mostrato contando sulla forza, sul vento impetuoso. E neanche sulla sensibilità, che
pure importante, ma sola, non può confermare la verità delle cose. Le retoriche testuali che enfatizzano una partecipazione dei sentimenti può essere anche positiva ma l’intensità dei sentimenti procurati non dice nulla sulla verità degli eventi. Anche nel fuoco Dio
non è presente; la passione per quanto
importante non è luogo della verità. Solo nella brezza leggera, nella voce di silenzio come affermano alcune traduzioni, Dio si fa presente al punto che
Elia si copre il volto.
Per incontrare Dio, per fare esperienza del senso compiuto della propria
personale umanità, non siamo chiamati
a puntare sulla nostra forza, sensibilità o
passione ma siamo chiamati a imparare
l’ascolto, attento e silenzioso.
Un’evocazione che ci ricorda come
lo scorcio della nostra contemporaneità
forse proprio di questo ha bisogno: deporre le armi della arroganza e della
fortezza, allontanarsi da una comunicazione “di pancia”, prendere le distanza
dalla passione che fa perdere la lucidità,
e rimettersi all’ascolto, re-imparare l’ascolto che domanda tempi lunghi, rispetto dell’altro, comprensione della
parzialità del proprio punto di vista.
Note
1 Cfr. A. G IOVAGNOLI , Cattolici e società italiana dal 1968 a oggi, in R. Eugeni - D. E. Viganò (a cura di), Attraverso lo schermo, vol. 3,
Ente dello Spettacolo, Roma 2006, p. 23.
2 Cfr. R. D E B ERTI , Il cinema italiano a metà
degli anni ’50, in D. E. Viganò (a cura di), Pio
XII e il cinema, Ente dello Spettacolo, Roma
2005, pp. 35-36.
3 Ivi., p. 37.
4 Ibid.
5 Cfr. E. MENDUNI, La televisione, Il Mulino, Bologna 2004, p. 17. Per un approfondimento si segnalano inoltre: A. Grasso, Storia della televisione
italiana, Garzanti, Milano 2004; E. Menduni, Linguaggi della radio e della televisione, Laterza, RomaBari 2008; F. Monteleone, Storia della radio e della
televisione in Italia, Marsilio Editori, Venezia 2006;
M. Sorice, Lo specchio magico. Linguaggi, formati, generi, pubblici della televisione italiana, Editori Riuniti, Roma 2002.
6 Ivi E. MENDUNI, La televisione, cit.
7 Ivi., p. 18.
8 Cfr. D. PITTÈRI, La pubblicità in Italia. Dal dopoguerra a oggi, Editori Laterza, Roma-Bari 2006.
9 P. O RTOLEVA , Mediastoria, Net, Milano
2002, p. 132.
10 A. MORO, cit. in P Scoppola, Dal fascismo alla democrazia, in R. Eugeni – D. E. Viganò, Attraverso lo schermo. Cinema e cultura cattolica in Italia,
vol. 2, Ente dello Spettacolo, Roma 2006, p. 50.
11 Cfr. D. E. V IGANÒ , La chiesa nel tempo dei
media, Edizioni OCD, Roma 2008, p. 96.
12 P. P. PASOLINI , cit. in A. Giovagnoli, Cattolici e società italiana dal 1968 a oggi, in R. Eugeni - D. E. Viganò (a cura di), Attraverso lo
schermo, vol. 3, cit., p. 21.
13 Cfr. P. S COPPOLA , La repubblica dei partiti,
Il Mulino, Bologna 1997, p. 389.
14 D. E. V IGANÒ , La Chiesa nel tempo dei media, cit., p. 107.
15 Cfr. S. C OLARIZI , Storia del Novecento italiano, Rizzoli, Milano 2000, p. 464.
16 D. P ITTERI , La pubblicità in Italia, Laterza,
Roma-Bari 2002, p. 128.
17 Ibid..
18 S. C OLARIZI , Storia del Novecento italiano,
cit., p. 444.
19 Ibid.
20 D. PITTÈRI, La pubblicità in Italia, cit., p. 127.
21 Cfr. E. M ENDUNI , La televisione, cit., p. 97.
22 Cfr. D. P ITTÈRI , La pubblicità in Italia, op.
cit., p. 132.
23 Cfr. M. B ALDINI , Storia della comunicazione,
Newton&Compton, Roma 2003, p. 113.
24 F. C OLOMBO , La cultura sottile: media e industria culturale in Italia dall’Ottocento agli anni
Novanta, Bompiani, Milano 1998, p. 264.
25 J. BAUDRILLARD, Pubblicità assoluta, pubblicità
zero, in V. Codeluppi (a cura di), La sfida della pubblicità, Franco Angeli, Milano 2003, pp. 151-152.
26 A. A BRUZZESE , Metafore della pubblicità, Costa&Nolan, Genova 1991, p. 87.
27 R. NEPOTI, Tra vita ed eutanasia, una lotta senza lacrime, in “la Repubblica”, 24 settembre 2004.
28 R. NEPOTI, L’ universo dei perdenti visto da una
palestra di boxe, in “la Repubblica”, 18 febbraio 2004.
29 D. G IULIANI , Million Dollar Baby, in “Rivista del Cinematografo”, marzo 2005
30 F. F ERZETTI , in “Il Messaggero”, 18 febbraio 2004.
31 D. DANESE, 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, in “Rivista del Cinematografo”, luglio-agosto 2007.
32 F. FERZETTI, in “Il Messaggero”, 18 maggio
2007.
33 G. LOVINK, Zero Conmments. Teoria critica di
Internet, Bruno Mondadori, Milano 2008, p. 71.
34 Cfr. A. FABRIS , Etica della comunicazione,
Carocci, Roma 2006; A. FABRIS, Guida alle etiche
della comunicazione. Ricerche, documenti, codici,
ETS, Pisa 2004; G. GATTI, Etica delle professioni
formative, LDC, Torino 1992; G. BETTETINI, A.
FUMAGALLI, Quel che resta dei media, Franco Angeli, Milano 1998.
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Giorgio Vasari, Il Profeta Elia.
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Per un’etica della
comunicazione politica
di Giuliana Di Biase
Da alcuni anni lo studio della comunicazione politica si è imposto come
strumento importante ai fini della comprensione dei complessi fenomeni sociali, politici e culturali del nostro tempo; sulla scia della decennale esperienza americana, anche in Italia le indagini
in questo ambito della comunicazione
sono diventate numerose, complice certo la singolare situazione politica del nostro paese che senza veli esibisce una
esasperata collusione tra poteri (una sovrapposizione che altrove si cerca, se
non altro, di tenere celata).
Una riflessione eticamente orientata sulla comunicazione politica deve approdare ad una deontologia, ovvero fornire a coloro che operano in questo settore chiare linee guida riguardo al dover
essere di tale comunicazione; a sua volta,
il dover essere dipenderà dall’insieme
dei valori politici nei quali si identifica il
sistema politico in questione. Nell’ambito di un sistema di governo democra-
tico, uno scrutinio etico della comunicazione politica è chiamato dunque a
verificare se valori e procedure fondamentali per il buon funzionamento della democrazia sono o meno i punti di riferimento dell’agire concreto dei comunicatori; in questo senso, Johannesen1 parlava alcuni anni fa di un’etica
della comunicazione politica da fondarsi sull’intrinseca dignità e valore di tutte
le persone, sulle pari opportunità di sviluppare il potenziale individuale, sull’incremento delle capacità dei cittadini
di decidere in modo razionale, sull’accessibilità dei canali di comunicazione
pubblica e d’informazione politica, e
ancora sulla tolleranza del dissenso, sull’onesta e chiara rappresentazione di
valori, motivazioni e conseguenze rilevanti nell’ambito della scelta di determinate politiche, e così via.
D’altra parte, una riflessione sul
piano etico può anche servire ad illuminare le cause dei mutamenti profon-
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di che hanno investito la comunicazione politica negli ultimi decenni, e a verificare la tenuta dei valori democratici al suo interno oltre che nel contesto in cui si collocano i tre attori da essa coinvolti, istituzioni, media e cittadini; un’analisi di questo tipo può forse contribuire ad individuare la via
d’uscita dalle difficoltà della situazione presente, riqualificando il ruolo dei
media in seno alla società civile.
Crisi della partecipazione, mediatizzazione della politica e apatia civica
Alle recenti trasformazioni della comunicazione politica fa riscontro quella
che da più parti viene ormai etichettata
come una crisi della democrazia; un sintomo importante, forse il più evidente
di questo malessere, sta nell’insistenza
con cui, negli ultimi tempi, si parla di
crisi della partecipazione politica, un fenomeno che interesserebbe tutte le democrazie occidentali; il nostro paese,
che pure fino ad alcuni anni or sono
manteneva rispetto al resto d’Europa
un livello di politicizzazione abbastanza
elevato, sembra anch’esso manifestare i
segni di questa tendenza, benché secondo alcuni ad essere in crisi sarebbero soltanto le forme più tradizionali della partecipazione politica, non l’interesse per la cosa pubblica.
L’astensionismo elettorale è cresciuto nel tempo anche nei paesi nei
quali le pressioni per un innalzamento
del livello dell’istruzione e per il rispetto dei diritti civili sono state elevate: il caso più eclatante è quello degli Stati Uniti, dove soltanto la metà
degli elettori si reca a votare e quasi la
metà degli aventi diritto di voto non si
registra neppure nelle liste elettorali.
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In Italia le cose vanno decisamente
meglio, con un livello di astensionismo pari a circa il 25-30% degli elettori; d’altra parte, il nostro paese non
brilla certo per spirito civico, anzi si segnala per la scarsa fiducia nelle istituzioni e nello Stato 2. E mentre negli
Stati Uniti l’astensionismo riguarda
per lo più le elezioni presidenziali,
non quelle delle autorità locali 3, in
Europa sembrerebbe che l’unica maniera per incoraggiare la gente a partecipare al processo democratico ed
elettorale sia dibattere le funzioni del
governo centrale.
Gli entusiasmi suscitati dalla forte
mobilitazione per le primarie statunitensi del 2008, così come, in Italia, dalla
partecipazione alle primarie del nascente Partito Democratico nel 2006,
fanno certo sperare che l’astensionismo
e la disaffezione per la politica siano fenomeni transitori, destinati ad attenuarsi nel tempo4; d’altra parte, la dimensione transnazionale di questi fenomeni induce alla cautela e ad una maggiore riflessione.
C’è chi spiega la scarsa affluenza alle
urne con la crescente sfiducia dell’elettorato nella reale efficacia del voto, che
verrebbe ormai percepito come uno
strumento incapace di scalfire un potere divenuto inattingibile, remoto e sensibile soltanto al «suffragio dei mercati»5; la sfiducia si tradurrebbe in silenzio, una risposta del tutto conseguente
alla morte della parola pubblica.
Altri studiosi attribuiscono la responsabilità della crescente apatia civica ai media, accusandoli di una eccessiva spettacolarizzazione, drammatizzazione e personalizzazione della vita politica. Era questa grossomodo l’idea di Habermas quando, all’inizio degli anni sessanta, denunciava lo stretto legame tra il declino di
una sfera pubblica, la disintegrazione dell’elettorato e il progressivo mediatizzarsi
del campo politico, assimilato a campo di
consumo: in una sfera pubblica dominata dai media, i partiti secondo Habermas
si vedrebbero «costretti ad influenzare le
decisioni elettorali pubblicisticamente,
come fa la réclame per le scelte d’acquisto», mentre attivisti e propagandisti di
partito verrebbero soppiantati dalla nuova, politicamente neutrale figura del professionista del marketing politico6.
Più recentemente, alcuni studiosi
hanno spiegato la disattenzione dell’opinione pubblica nei confronti dei temi politici ricollegandola ad un sovraccarico di
informazioni: le campagne presidenziali
negli Stati Uniti sono percepite dalla
maggioranza della popolazione come eccessivamente lunghe e tediose7, ma anche in Europa, benché in misura certo
minore, la visibilità insistita dei candidati
in tempo di elezioni sembra avere generato fenomeni di assuefazione.
Altri studiosi hanno individuato nel
sensazionalismo negativo, e più precisamente nell’insistenza dei media sui casi di
corruzione che hanno per protagonisti
uomini politici, le ragioni di una progressiva perdita di interesse da parte dei cittadini nella cosa pubblica8. Questa tesi si
adatta particolarmente bene al contesto
americano, non solo per l’atteggiamento
spietatamente critico di un certo giornalismo nei confronti della classe politica
ma anche per l’abitudine di contrastare
l’avversario in sede di campagna elettorale mediante spot negativi. Il risultato, come Thomas Patterson ha acutamente osservato, è un clima diffuso di negatività
nel quale l’attività politica assume l’aspetto di un gioco strategico: le negative campaigns divengono per gli elettori altrettante barriere negative e la sfiducia che
ne deriva si ritorce contro gli stessi orga-
ni dell’informazione, che finiscono con il
perdere credibilità. Per giunta, la situazione non accenna a migliorare: uno studio recente di Lynda Kaid9 sulle campagne presidenziali statunitensi dell’ultimo
cinquantennio mostra che l’utilizzo della
pubblicità negativa sarebbe in aumento.
Anche prescindendo da questi eccessi, è chiaro comunque che una insistita
rappresentazione in negativo della vita
politica, che ne enfatizzi magari gli aspetti meno ortodossi in puro stile “reality
show”, può contribuire a precipitare i cittadini in una «spirale di cinismo»10 erodendo la percezione della politica come
bene pubblico: anche la consuetudine di
trasmettere in diretta le sedute parlamentari in occasione di momenti particolarmente caldi del confronto politico può
avere questo effetto, quando l’occhio impietoso della telecamera indugia sui comportamenti teatrali di certi parlamentari.
Altre volte sono le risorse informative
messe a punto dai media per supportare
l’opinione pubblica che appaiono inadeguate a promuovere l’interesse dei cittadini per la cosa pubblica, anche da un
punto di vista strettamente quantitativo:
benché la quantità delle informazioni sia
aumentata in modo considerevole con i
nuovi media, le notizie politiche devono
oggi più che in passato contrattare i loro
spazi con le soft news o adattarsi ai tempi
ristretti di uno striminzito soundbite di pochi secondi. Un confronto tra le prime
pagine dei quotidiani italiani di oggi e di
qualche decennio or sono mostra chiaramente che lo spazio riservato a notizie
riguardanti la politica si è drasticamente
ridotto; le ragioni di questo mutamento
sono certo molteplici, in primis l’aumento dei temi ed argomenti che, con il moltiplicarsi dei soggetti sociali che acquisiscono visibilità, affollano quotidianamente l’agenda mediatica portando ad
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una contrazione degli spazi tradizionalmente riservati alla politica. Ma c’è anche l’evidenza di una semplificazione in
atto, che mira a rendere la rappresentazione degli eventi più adatta ai tempi rapidi della notiziabilità e più appetibile
ai gusti di un pubblico non più elitario,
la cui attenzione è più facilmente catturata da una rappresentazione semplificata della vita politica, imperniata su artifici narrativi (quello del conflitto è il più
frequente) e visivi (un massiccio impiego
di materiale fotografico).
Il problema è quanto possa essere efficace una tale rappresentazione e quanto la semplificazione ottenuta mediante
una logica narrativa contrappositiva, pur
rendendo più accessibili i fatti, non rischi
invece di «produrre una frammentazione della realtà: gli eventi appaiono slegati e sembra diventata strutturale l’incapacità degli attori politici di rimettere
insieme i fili del gioco, con il risultato di
rappresentare una realtà più opaca»11. I
meccanismi semplificativi finirebbero
insomma per rendere la vita delle istitu-
Giacomo Balla, Dimostrazione interventista a Piazza Venezia, Collezione Privata.
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zioni incomprensibile agli occhi del cittadino, che sarebbe spinto a prenderne
le distanze.
L’importanza di mettere a disposizione del pubblico una quantità adeguata di risorse informative su temi di
rilevanza politica è sottolineata da molti teorici della democrazia12, che nella
conoscenza politica individuano un importante stimolo per promuovere le
virtù civiche e incrementare la partecipazione: una maggiore informazione
sarebbe in quest’ottica la via d’accesso
ad una più estesa coscienza civica. D’altra parte, non è immediatamente ovvio
che una maggiore conoscenza politica
si traduca in un avanzamento democratico e in una maggiore consapevolezza
dei doveri civici: un’esposizione “in solitario” al flusso informativo, per quanto abbondante, potrebbe forse produrre l’effetto contrario, rendendo i cittadini incapaci di interessarsi alla cosa
pubblica. Secondo Philip Howard13, ad
esempio, il crescente utilizzo di Internet come fonte d’informazione politica
avrebbe come controparte la formazione di una cittadinanza sempre più «privatizzata», che parteciperebbe in maniera fortemente individualizzata alla
vita politica senza afferrare la dimensione sociale, collettiva dei problemi. Il
cittadino che fruisce in solitario dell’informazione politica sarebbe indotto
piuttosto a comportarsi come un consumatore che pensa unicamente ai propri interessi.
Tra i mezzi di comunicazione, i maggiori sospetti si concentrano senz’altro
sulla televisione, la cui enorme diffusione sarebbe per molti studiosi la principale responsabile del calo della partecipazione politica: in un interessante (e
discusso) contributo di alcuni anni fa,
Robert Putnam14 denunciava il netto
declino, nell’ultimo trentennio, di varie
forme di associazionismo individuandone le cause, oltre che nell’aumento
delle famiglie a doppio reddito e nella
crescita incontrollata delle aree suburbane, nello sviluppo delle tecnologie
della comunicazione e soprattutto nella diffusione capillare del mezzo televisivo, che avrebbe drasticamente modificato le abitudini di vita dei cittadini. La
riduzione delle interazioni sociali, dunque delle occasioni di scambio di idee e
opinioni a seguito del diffondersi di
uno stile di vita più casalingo e atomizzato non avrebbe favorito affatto, secondo Putnam, il buon funzionamento
della sfera pubblica, indebolendo anzi
le basi della convivenza democratica.
La crescente frammentazione del
target generata da un’offerta informativa sempre più specializzata sembra confermare questo genere di preoccupazioni: se nella televisione generalista
l’offerta informativa era unitaria e consentiva quindi ai cittadini di formarsi
una cultura politica omogenea, l’attuale panorama estremamente diversificato delle fonti restringe di molto questa
possibilità. Canali televisivi tematici e siti web si rivolgono a porzioni precise di
audience, incrementando certo la distribuzione ma anche la parcellizzazione
dell’informazione.
Neppure gioverebbe alla vita democratica, secondo molti, la mediatizzazione della scena pubblica e la conseguente contaminazione tra logica dei media
e logica della politica: la necessità di
adeguarsi ai meccanismi del mercato
avrebbe imposto alle istituzioni di rivedere le proprie modalità comunicative
per renderle mediaticamente efficaci, e
la crescente personalizzazione della vita
politica sarebbe uno dei risultati più appariscenti di questo percorso. Con il
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moltiplicarsi degli strumenti di comunicazione, e soprattutto con l’imporsi della televisione quale medium più diffuso
e accreditato, sarebbe infatti progressivamente emersa la figura del candidato
autonomo, non più concepito come
rappresentante di un partito ma come
diretto garante di una certa linea di
pensiero. All’origine della trasformazione vi è certo l’indebolimento dei partiti iniziato negli anni sessanta con la crisi delle ideologie, ma anche un’esigenza di semplificazione: è certamente più
facile interessarsi a, e formarsi un’opinione su una persona concreta piuttosto che su un astratto programma di
partito, ed è per questo che l’immagine
dei candidati è diventata, nelle elezioni moderne, l’elemento centrale sul
quale si focalizza l’attenzione dei media. Per orientarsi nel mondo complesso della politica, gli elettori hanno
bisogno di punti di riferimento e il
candidato autonomo risponde appunto a questa esigenza: in quanto persona, egli suscita negli elettori reazioni
emotive, e il «ricorso alla sfera emotiva
costituisce una formidabile “scorciatoia cognitiva” per gli elettori»15. Per i
media, dunque, il candidato autonomo rappresenta un prodotto assai più
“vendibile” di un’ideologia o di un
programma politico, mentre per un
partito la visibilità del proprio candidato significa risonanza politica.
Di qui la forte attenzione riservata
nelle recenti campagne elettorali all’immagine dei candidati e alla loro capacità di suscitare nel pubblico emozioni positive, un’attenzione che ai livelli più elevati della gerarchia politica
si traduce nel ricorso ad una nuova figura professionale, quella dello spin
doctor, in competizione con i giornalisti politici nella messa a punto delle
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notizie e nella stessa strutturazione
dell’agenda mediatica16.
L’esigenza di una visibilità insistita e
prolungata pone certo la classe politica
in una posizione di potere diversa rispetto al passato, anzitutto per quel che
riguarda la definizione dell’agenda mediale, che dev’essere ora contrattata con
gli organi dell’informazione. È altresì
evidente quanto, almeno a partire dagli
anni novanta, sia cambiato il volto stesso del potere, divenuto meno austero e
distaccato, più accessibile e, almeno apparentemente, più umano. I nuovi leader sono seduttori carismatici17 che partecipano a programmi di infotainment,
sorridono amichevolmente agli elettori
e non lesinano informazioni sulla loro
vita privata; proprio in virtù della familiarità e accessibilità acquisite con la ripetuta esposizione sullo schermo, essi
sono oggi in grado di svolgere il ruolo di
garanti e di punti di riferimento, rimpiazzando partiti ed ideologie. Il caso
italiano, ormai oggetto di studio a livello internazionale, mostra in modo
esemplare che la scelta di un leader e la
decisione di voto «non si basano più su
motivazioni politiche e ideologiche e
neppure sulle qualità esteriori e apparenti dei suoi rappresentanti, ma su
aspetti psicologici e bisogni profondi, ai
quali un leader è chiamato a dare risposta»18; il risultato è una forte personalizzazione dei confronti elettorali, segnata
dallo «slittamento dall’argomentazione
politica a elementi prepolitici»19.
Dalla centralità della politica, con i
suoi temi e tempi lenti, si è dunque passati alla centralità dei media con i loro
ritmi rapidi e le loro logiche di gradimento: si pensi alla campagna elettorale italiana del 2008 e al duello televisivo
giocatosi a “Porta a porta” fra Berlusconi
(12 febbraio) e Veltroni (13 febbraio),
cui ha fatto seguito il giorno successivo
la polemica tra i rispettivi portavoce riguardo a quale tra i leader avesse ottenuto lo share più alto.
Qual è il rischio di una leadership politica che si trasforma in celebrità mediatica? Se ciò che conta, più delle
idee, è l’appeal popolare del leader, che
può essere usato per garantirsi direttamente il consenso dei cittadini, scavalcando cioè la mediazione dei Parlamenti, il dibattito democratico è seriamente compromesso: i leader populisti
di cui parlano Taguieff 20 e Dahrendorf21 sono il segnale di un processo in
atto, che può sfociare in una erosione
della vita democratica esautorando da
ogni funzione di rappresentanza le istituzioni politiche. Lo spettro dell’autoritarismo, ammonisce Dahrendorf, è
sempre in agguato quando la mediazione tra i vertici e la base viene meno,
e con essa la possibilità da parte dei cittadini di esercitare un effettivo controllo su chi ha il potere.
Tra gli attuali teorici della leadership,
c’è chi sostiene con maggiore ottimismo che il controllo continuo esercitato
dai nuovi media (soprattutto Internet)
sui leader politici abbia per effetto una
loro maggiore responsabilizzazione,
spingendoli ad adottare uno stile più
transazionale e comunicativo che in
passato. Secondo Joseph Nye 22 , ad
esempio, con la democratizzazione e la
rivoluzione informatica si sarebbe avviato un cambiamento tendenziale a lungo termine: i cittadini vedrebbero notevolmente accresciuto il loro potere di
contrattazione, pertanto anche lo stile
comunicativo della leadership avrebbe
dovuto aggiornarsi, assumendo una modalità più consultiva. L’abilità di soft
power che consiste nella capacità di instaurare una comunicazione autentica,
disponibile al dialogo e all’ascolto, secondo Nye alla lunga verrebbe a premiare i leader che ne fanno uso, pertanto la tendenza emergente nella leadership attuale sarebbe un’attenzione
mirata a coniugare l’etico con l’efficace;
d’altra parte, è sempre Nye a sottolineare che la forza giustificativa intrinseca
alla leadership può spingere i leader a
porsi al di sopra dei principi morali che
si applicano alla gente comune23.
Quanto alla rivoluzione informatica
e alle frontiere da essa dischiuse alla comunicazione politica, è certamente vero che i nuovi media si sono mostrati capaci non solo di informare ma anche di
mobilitare l’opinione pubblica, esercitando un forte impatto sul processo democratico e creando gli spazi per un
dialogo diretto tra istituzioni e cittadini: in quanto mezzo a forte vocazione
decentralizzante, la Rete si è affermata
come un interlocutore di tutto rispetto
e come un avversario temibile non solo
per i leader politici con i loro spin doctors
ma anche per i media tradizionali, fornendo ai cittadini gli strumenti per contrastare il rischio di manipolazioni provenienti dagli uni come dagli altri.
Consapevoli delle enormi potenzialità della Rete, i leader attuali hanno anch’essi imparato a sfruttarle: ben lo ha
dimostrato la campagna per le presidenziali di Segoléne Royal e Sarkozy nel
2007, tutta giocata sulla costruzione di
una blogosfera in cui dialogare con i cittadini, e più recentemente le campagne
di Barack Obama e Hillary Clinton, costruite su Internet già a partire dall’annuncio della candidatura.
Meno inclini al cambiamento si
sono mostrate le classi politiche italiane, per non parlare della scarsa attenzione che gli italiani riser vano
agli usi politici della rete: secondo
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un’indagine citata da Cristian Vaccari 24 e condotta subito dopo le elezioni del 2006, l’80% degli elettori
avrebbe dichiarato di non avere mai
visitato un sito politico e solo il 6,7%
menziona Internet come una tra le
fonti favorite di comunicazione politica. Questi dati spiegano l’ancora
scarso investimento dei partiti italiani in un tipo di comunicazione rivelatosi decisamente di nicchia; per lo
più è il centrosinistra a mostrarsi attento a riguardo, con un maggiore
numero di siti (tra i quali quello personale di Romano Prodi), ma anche
con un maggiore numero di elettori
che prediligono la rete come strumento di informazione e dialogo. Gli
elettori del centrodestra mostrano
invece una netta preferenza per la televisione, indiscussa protagonista
delle politiche del 2006 25.
Nel complesso, le applicazioni di
Internet alla politica, attuali e possibili, fanno certo sperare in una maggiore presa di coscienza, da parte dei
cittadini, dei propri diritti-doveri e
del valore della vita democratica; pur
senza rinnegare questo “cyber-ottimismo” è legittimo chiedersi, come fa
Sara Bentivegna26, se non si sia sottovalutata la portata discriminante di
un digital divide che rischia di ampliare divari già esistenti, così come appare legittimo dubitare della immunità dalle contraffazioni della blogosfera, tenendo conto delle abilità dimostrate dagli spin doctors dei governi
occidentali.
Il problema che si pone con i cosiddetti social media, tutto sommato,
sembrerebbe il medesimo che si fronteggia con i media tradizionali, quello del controllo della verità: il proliferare di spazi d’interazione e fonti
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d’informazione può alimentare «l’illusione che una mancanza di controllo da parte delle fonti possa evitare la
manipolazione e assicurare la verità»,
e così spingere i soggetti ad abbassare
la guardia ogni qual volta l’informazione proviene da canali distinti da
quelli dei media tradizionali27.
A confronto con l’esaltante anarchia dei social media, i media tradizionali mostrano certo una maggiore disponibilità al controllo in virtù della
responsabilità sociale che si assume
chi fa informazione, ma anche una
minore capacità di mobilitazione;
un’integrazione tra media tradizionali e nuovi sembrerebbe allora, come
suggerisce la giornalista Paola Stringa28, la combinazione ottimale per assicurare al cittadino un’informazione
politica esaustiva, credibile e al tempo
stesso capace di risvegliare le coscienze assopite. D’altra parte, un’opzione di questo genere sarebbe pensabile solo per un’élite intellettuale
(quella che attualmente legge i quotidiani e si confronta con altri elettori
sui siti di argomento politico), non
certo per quell’“elettorato liquido”
perennemente distante dalla politica
e dagli schieramenti, che neppure i
social media riescono a riagganciare.
Il diffondersi su Internet di iniziative sia dal basso che dall’alto, volte ad
incrementare la partecipazione e il
dialogo tra cittadini e istituzioni, sta
comunque dando i suoi frutti; anche
nel nostro paese si registra ultimamente una rinnovata partecipazione
politica, modellata su forme di democrazia dialogica. Si pensi alle primarie
del 2006 per la designazione del leader del nascente Partito Democratico,
ma anche ai “Circoli della libertà”di
Forza Italia, questi ultimi, per la ve-
rità, modellati più sul mondo dell’impresa che su forme di democrazia dialogica. Ma soprattutto, si pensi ai movimenti collettivi (no-global, movimento per la pace, girotondini, etc.)
nei quali oggi si struttura, fuori dai
tradizionali circuiti dei partiti, una
nuova forma di partecipazione politica promotrice di eventi pensati per essere altamente visibili e immediatamente comunicabili, oltre che intensamente emotivi. Si tratta di forme di
partecipazione certo meno impegnative e totalizzanti rispetto a quelle del
passato, una sorta di «militanza light»29 in perfetta linea con i tempi accelerati della vita contemporanea ma
comunque capace di un forte impatto
e di una elevata mobilitazione.
Tenendo conto di questi recenti
fenomeni, c’è chi afferma che la partecipazione politica sarebbe oggi in
netta ripresa, come dimostrerebbe
anche in Italia, dopo la crisi degli anni Ottanta, il rifiorire dell’associazionismo sia nel numero degli iscritti
che in quello delle associazioni. A
questo dato non fa però riscontro,
non solo nel nostro paese, una rinnovata fiducia nelle istituzioni; semmai, la singolarità del caso italiano è
proprio nella presenza diffusa in alcune regioni di forti reti di solidarietà
e di un vitale associazionismo, slegati
da un sentimento più ampio di appartenenza allo Stato e alla nazione.
La mancanza di sinergia tra spirito
civico, da un lato, e rapporto di fiducia
con le istituzioni, dall’altro, non giova
certo alla diffusione di una cultura civica: se quest’ultima nasce non solo da
un insieme di valori morali e da sentimenti di una comune appartenenza,
ma anche da atteggiamenti di fiducia e
cooperazione, è probabile che sia pro-
prio la mancanza di fiducia nelle istituzioni la causa, non solo nel nostro
paese, della progressiva disaffezione
per la vita politica e più in generale
per la vita democratica. Una riprova è
l’insistenza con cui sociologi attenti
come Anthony Giddens parlano della
necessità di risvegliare nella società civile una fiducia attiva30, che «anziché
derivare dalla tenuta di posizioni sociali prestabilite […] deve essere conquistata», né può essere annullata dalla delusione nei confronti delle istituzioni, perché piuttosto va conquistata
a prescindere da esse. Una fiducia attiva capace di resistere alle inadempienze delle istituzioni sarebbe per i teorici della società civile la chiave di volta
per ricostruire una cultura civica durevole e salda, svincolata da umori politici contingenti.
Tenendo conto di quest’ultima osservazione, può essere utile indagare
fino a che punto la mediatizzazione
della sfera pubblica abbia influito sulla perdita di fiducia e di interesse dei
cittadini nella vita delle istituzioni.
Questa domanda ne presuppone
un’altra, più a monte: fino a che punto si può dire che la sfera pubblica sia
stata colonizzata dai media? Esaminando le relazioni che possono istaurarsi tra i tre attori della comunicazione politica, cittadini, media e istituzioni, Giampietro Mazzoleni proponeva
due modelli interpretativi: quello pubblicistico-dialogico, che sottrae ai media
il monopolio dell’azione dialogica e lo
ridistribuisce equamente tra i tre soggetti della comunicazione politica, e
quello mediatico, che invece attribuisce
al sistema dei media una netta superiorità nella creazione dello spazio
pubblico, facendo coincidere quest’ultimo interamente con lo spazio media-
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le31. Solo il primo modello attribuisce
ai cittadini e alle istituzioni un’autonoma capacità di azione dialogica, ovvero il potere di negoziare con i media
una piattaforma d’intesa: sarebbe questa per Roberto Grandi la maniera più
corretta di interpretare il rapporto tra
i tre attori della comunicazione politica, perché «se è vero che i singoli soggetti del sistema politico e istituzionale necessitano dei mezzi di comunicazione di massa per raggiungere i cittadini […] è pur vero che lo sviluppo del
sistema delle comunicazioni di massa è
soggetto anche a decisioni legislative e
amministrative promosse dal sistema
politico e istituzionale. Non ultimo, i
cittadini non sono necessariamente il
soggetto indifeso di questa arena, perché da un lato sono i destinatari-consumatori di ciò che il sistema dei mass
media propone, dall’altro sono pur
sempre la legittimazione ultima del sistema politico»32.
D’altra parte, è lo stesso Grandi a sottolineare come il forte regime di concorrenza instauratosi negli ultimi anni tra
istituzioni politiche e media sia responsabile di una diminuzione della credibilità
di entrambi i soggetti agli occhi dei cittadini, e come una tale diminuzione influisca negativamente sull’efficacia della comunicazione tra i tre attori del dialogo.
Pur essendo tutt’altro che deboli e passivi, sia come fruitori dei media che come
elettori, i cittadini sarebbero dunque seriamente danneggiati dalla perdita di
una risorsa relazionale fondamentale, la
possibilità di dare fiducia alle istituzioni
come emittenti della comunicazione politica; la responsabilità di questa perdita
andrebbe dunque equamente spartita tra
media e istituzioni.
Quanto all’altro modello, quello mediatico, esso ha oggi meno sostenitori che
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in passato: attribuire ai media l’esclusiva
nella creazione di uno spazio pubblico
equivarrebbe a negare alle motivazioni
individuali dei cittadini la possibilità di influire sulla determinazione del grado di
rilevanza da attribuire alle singole questioni politiche e ad escludere che gli stessi vertici del potere possano essere sensibili all’importanza attribuita dai cittadini
a tali questioni. L’effetto priming di cui
parlavano già diversi anni fa Iyengar e
Kinder33 attribuendo alla copertura mediatica la capacità di orientare gli interessi politici dei cittadini, è oggi ridimensionato da molti studiosi, che enfatizzano
piuttosto la sinergia tra la responsiveness
dei candidati, le motivazioni individuali
dei cittadini e la copertura mediatica nella selezione delle tematiche da considerarsi rilevanti34.
Singolare certo è il peso attribuito da
alcuni studiosi alle motivazioni individuali35, che sarebbero il vero motore
dell’impegno politico della gran parte
dei cittadini: lungi dall’essere attivi e
informati, gli elettori avrebbero, in base
a questa ipotesi, per lo più una conoscenza politica limitata a poche questioni, identificate come rilevanti in riferimento agli interessi propri o del proprio gruppo di appartenenza.
La contrazione, segnalata da questa
ipotesi, del fattore motivazionale nello
spazio ristretto degli interessi del singolo
rappresenta senz’altro un elemento importante, che può aiutare a meglio comprendere tanto l’indifferenza e la sfiducia
dei cittadini nei confronti del sistema politico-istituzionale, quanto i nuovi tratti
della comunicazione politica. In una “post democrazia”36 dominata dallo strapotere di oligarchie finanziarie e industriali
e contrassegnata da un indebolimento
degli stati nazionali, sono in molti ormai
a lamentare l’agonizzare della vita demo-
cratica tra partiti “leggeri”, che si mobilitano solo per le tornate elettorali, e un’opinione pubblica spesso inerte, manipolata dalle comunicazioni di massa. Sono
invece ancora pochi coloro che al tramonto della stagione dei grandi conflitti
di classe fanno corrispondere l’attuale incremento dei conflitti individualizzati, segno inequivocabile del venire meno di un
senso di appartenenza e di un impegno
sociale capaci di motivare i singoli al rispetto di leggi e valori.
La disintegrazione sociale procede di
pari passo con la crescente competitività
globale e si accompagna al diffondersi di
un profondo senso di anomia e insicurezza, elementi che certo non giovano alla costituzione della libertà: nelle parole
di Dahrendorf, «la libertà fiorisce in un
clima di fiducia: fiducia in se stessi e nelle opportunità offerte dal proprio ambiente, ma anche nella capacità del gruppo sociale in cui si vive di garantire certe
regole fondamentali, lo stato di diritto»37.
Là dove domina l’insicurezza, la paura si
diffonde e fidarsi diventa più difficile: la
società del rischio non è certo un buon
posto per il fiorire della libertà.
Per rinsaldare la fiducia dei cittadini
nelle istituzioni occorrerebbe una rappresentanza credibile, capace di far sentire in alto la propria voce; se le istituzioni
che un tempo assicuravano la mediazione tra il cittadino e il potere non si mostrano più in grado di mantenere vitale il
dibattito pubblico, i media appaiono come possibili sostituti, forse gli unici in grado di assumere questo ruolo. Ovviamente, per dare voce al dissenso e mantenere
desta la coscienza civica dei cittadini occorrono media indipendenti, svincolati
da ossequiosi asservimenti: là dove alla
debolezza di Parlamenti e partiti di opposizione si affianca un’informazione politica compromessa con le logiche del po-
tere, l’autoritarismo non incontra più
ostacoli e cresce l’apatia dei cittadini in
un clima di generale disinteresse per la
cosa pubblica. E «apatia - ci ricorda ancora Dahrendorf38 - non vuol dire necessariamente che la gente non va a votare. Significa che non esercita un controllo
informato, quotidiano e permanente sulla conduzione della cosa pubblica».
La via maestra per ricostruire un
rapporto di fiducia tra cittadini e sistema politico passa dunque per una
cesura necessaria, radicale, quella additata da Massimo Salvadori39: i governi dovrebbero essere in grado di
controllare le oligarchie economiche,
sottraendo ai potenti il controllo dei
media. Questo sarebbe sicuramente
un passo decisivo per restituire credibilità alla comunicazione politica agli
occhi dei cittadini; ma anche questi
ultimi avrebbero un compito impor-
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tante, come più volte hanno ribadito
i teorici della società civile: quando la
democrazia, come oggi, è posta sotto
pressione, diventa fondamentale il
ruolo attivo della cittadinanza, perché è una contraddizione in termini
una «democrazia senza democratici» 40. Se gli elettori si staccano sempre più dalla cosa pubblica e il loro
voto diventa fluttuante, sottoposto
agli umori del momento, è giocoforza
che trovi terreno fertile quella forza
politica che meglio di altre sa cogliere e sfruttare ciò che interessa alla
gente in un determinato momento, in
modo da acquisire una popolarità diretta. Ed è così che si afferma e si perpetua una politica senza spessore, dominata da un’agenda ipersensibile
agli esiti dei sondaggi e da programmi
di partito tra loro indistinguibili. È la
politica dei focus group, la politica di
una auscultazione diretta e continua
delle opinioni dei cittadini da parte
di sondaggisti, esperti di pubbliche
relazioni, consulenti e uffici stampa:
sono questi oggi gli artefici di una
campagna elettorale permanente, destinata non solo a monitorare ma anche ad influenzare le preferenze del
pubblico. Il ricorso massiccio a sondaggi tipico delle attuali campagne rischia effettivamente di forzare, più
che interpretare la volontà popolare:
come notava Pierre Bourdieu a proposito delle inchieste pre-elettorali, il
sondaggio può ser vire ad esibire un
consenso che nella realtà non c’è, legittimando una linea politica e le forze sociali che la sostengono. Il risultato è una mobilitazione dell’opinione
pubblica che esautora la classe politica dal ruolo di interprete41.
Nel complesso, una demonizzazione dei media che li carica per in-
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tero della responsabilità dei più traumatici mutamenti sociali e politici
del nostro tempo appare oggi un’ipotesi troppo angusta, incapace di
rendere conto dei complessi fenomeni in atto nei paesi occidentali:
anche il “modello della propaganda”
testato anni or sono da Chomsky 42
sulla stampa americana per dimostrarne l’atteggiamento troppo compiacente verso il governo sembra oggi risentire dell’usura del tempo.
Forse la spiegazione preferibile è
quella che nel sistema dei media individua uno specchio della realtà,
uno specchio a volte deformante ma
anche capace di riflettere i mutamenti sociali con grande rapidità. In
questo specchio oggi si riflettono
cambiamenti profondi, sia a livello
politico (crisi dei partiti e delle ideologie forti, ma anche crisi dei governi nazionali) che a livello economico
(globalizzazione, con la conseguente
delocalizzazione dei mercati e flessibilità del mercato del lavoro) e sociale (crisi del ruolo e delle forme
delle istituzioni sociali tradizionali,
crescente individualismo). L’immagine che lo specchio restituisce può
essere spaesante, frustrante e caotica, ma è la realtà stessa ad esserlo: sarebbe difficile non cogliere nel personalismo dei leader politici, così come nel crescente disinteresse per la
cosa pubblica, un riflesso del processo di individualizzazione tipico
del nostro tempo.
Individualizzazione vuol dire, anzitutto, rivendicazione di spazi e tempi propri, prima che comuni: l’avere
una «vita propria», ci rammenta Ulrich Beck 43, rappresenta per le persone che oggi abitano il mondo occidentale la massima aspirazione, quel-
la che maggiormente si teme di vedere delusa. Una vita propria è una
vita orientata alla ricerca di una morale dell’autodeterminazione, non
di una morale del dovere, e poiché le
persone si trovano a vivere per lo più
in condizioni che sfuggono al loro
controllo, esse devono anche assumersi in proprio tutti i rischi di un
possibile fallimento. In una società
altamente differenziata come quella
moderna, nella quale gli individui,
come viandanti, solo temporaneamente occupano i diversi settori, il
mondo sembra sempre più sottrarsi
al controllo dei singoli e il rischio è
percepito come una costante: le persone si vedono costrette ad essere autonome e a mantenere il controllo
sulla loro vita individuale, che rischia sempre di sfuggire loro di mano. Crescono dunque l’ansia e l’inquietudine legate all’incertezza del
successo, oltre che allo sgretolarsi
delle tradizionali forme e istituzioni
sociali; per lo più, l’antidoto a questi
stati d’animo, percepiti come disagi
individuali piuttosto che sociali, viene ricercato nelle risposte alla moda additate dagli esperti mediatici
del momento e si traducono in nuove spinte al consumo. Nel frattempo,
anche la protezione sociale assicurata al cittadino dal welfare state si contrae, quasi a siglare il nuovo motto
dell’imperante ideologia della competitività: chi non regge il passo viene lasciato solo.
Il cittadino consumatore è sempre più un uomo privato che non
riesce a trascendere il confine della
sua sfera individuale: la sua somiglianza con l’idiota dei greci, cioè
con colui che pensa il bene comune
solo come la sommatoria dei beni in-
dividuali 44, non deve farci dimenticare che di tali idioti la democrazia
mostra in alcuni momenti di avere
grande bisogno.
Al cittadino consumatore o homo
emptor, Franco Cassano contrappone
l’homo civicus, che alla passività e al
privatismo preferisce l’esercizio attivo della cittadinanza: creando associazioni, dunque rinsaldando legami
di solidarietà con i propri simili, l’homo civicus supera l’isolamento individualistico e nella politica, dunque
nell’interesse per il bene comune,
scopre la cura per l’inquietudine e
l’ansia che affliggono l’uomo contemporaneo.
Proprio su questa linea si muovono
oggi i teorici della società civile, che nel
caos creativo delle associazioni e nei legami di solidarietà che esse promuovono
individuano il cuore pulsante della vita
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democratica: pur se con finalità diverse
(educative, filantropiche, ma anche di
puro diletto), le associazioni si mostrano
in grado di incrementare la coesione sociale, il dialogo e la solidarietà civica, perciò appaiono determinanti nella diffusione di quell’insieme di virtù civiche
(partecipazione politica, coinvolgimento
negli affari pubblici, lealtà verso le istituzioni, attaccamento alla patria), ideali e
valori procedurali (responsabilità verso
se stessi, il prossimo e la collettività, rispetto delle leggi, tolleranza e buone maniere)45 nei quali, da ultimo, si identifica
una cultura civica.
I cittadini attivi e solidali dei quali parlano i teorici della società civile sono
dunque il vero antidoto alla cittadinanza
privatizzata di cui parlava Howard: condividendo almeno alcuni interessi ed esperienze, essi saranno più motivati a vigilare
sulla vita politica del proprio paese e più
fiduciosi nella possibilità di intervenire al
momento opportuno con qualche successo. Soprattutto, tali cittadini saranno
consapevoli di non potere aspettarsi tutto
dalla democrazia e dai suoi rappresentanti: essi conosceranno i propri diritti
ma anche le proprie responsabilità nel
mantenere viva la reciproca fiducia intesa essa stessa come bene pubblico.
Una cittadinanza attiva può trovare
nei media un’importante cassa di risonanza, e proiettare così nello specchio
un’immagine meno cupa dell’oggi; a
sua volta, una comunicazione politica
eticamente orientata si pone al servizio
del cittadino per incrementarne non solo la competenza politica ma anche l’interesse e la devozione per la cosa pubblica. Una siffatta comunicazione non
dovrebbe certo mantenersi neutrale rispetto ai valori della democrazia, ma anzi dovrebbe promuoverne la diffusione
alimentando sentimenti di cooperazio-
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ne e di appartenenza. E soprattutto, una
comunicazione politica eticamente
orientata alla formazione di cittadini attivi dovrebbe guardarsi dal minare ulteriormente la loro fiducia e fare più spazio a quella miriade di piccole storie e
iniziative locali che vedono proprio i cittadini protagonisti di un processo di rinnovamento e di sviluppo politico e sociale. Valorizzare questi eventi positivi,
all’apparenza certo meno notiziabili degli scandali di palazzo, può significare
molto, specie se si tratta di mutare un
clima di radicata, secolare sfiducia come
è nel caso del nostro meridione. Se per
fare audience c’è bisogno di speculazioni
e falsi in bilancio (per non parlare di catastrofi naturali, come il terremoto che
recentemente ha ridato visibilità alla
mia regione, l’Abruzzo, dimenticata dai
media dall’inizio del suo percorso di sviluppo), non è detto però che questa strategia si riveli alla lunga quella vincente:
alimentare la sfiducia è un gioco mortale per tutti, e può comportare una irreversibile perdita di credibilità.
Ogni tempo ha bisogno di qualche
parresiastes, che dichiari con franchezza
la verità al potere per frenarne la baldanza; il nostro tempo non fa eccezione, anzi ne mostra un’urgenza maggiore dovendo fare fronte ad un potere diventato
più sfuggente e impenetrabile. Possono i
media rivestire questo ruolo, anzi è un loro dovere morale farlo? Una morale troppo esigente genera sfiducia, il che è esattamente ciò di cui oggi non credo ci sia
bisogno. Semmai, è più realistico pensare
ad un percorso intermedio, ovvero ad
una collaborazione attiva tra due degli attori della comunicazione politica in vista
di una vigilanza sul terzo: media e società
civile possono collaborare fruttuosamente per richiamare il potere alla sua verità,
che è, sempre, la verità di un limite.
Note
1 R. L. JOHANNESEN, Ethics in Human Communication, Waveland Press, Long Grove Ill. 2002, 5ª
ed., p.23.
2 Stupisce certo quanto rileva Marcello Dei in
Sulle tracce della società civile. Identità territoriale, etica civica e comportamento associativo degli studenti
della secondaria superiore, Franco Angeli, Milano
2002, a proposito del basso livello di civismo degli studenti italiani delle scuole superiori.
3 La società civile americana trova numerosi
canali per partecipare alla vita pubblica e all’iniziativa locale, tuttavia sembrerebbe che anche
questo tipo di partecipazione sia oggi in declino:
lo afferma T. E. Patterson in The Vanishing Voter.
Public Involvement in Age of Uncertainty, Vintage
Books, New York 2002.
4 Si veda a riguardo l’articolo di D. M. Schribman, Is Politics Dead or Only just Sleeping?, «Boston Globe», Dec. 12, 1999, p.D3.
5 L. CANFORA, La natura del potere, Laterza, Roma Bari 2009, p.3.
6 J. HABERMAS, Storia e critica dell’opinione pubblica (1962), Laterza, Roma-Bari 2008, pp.250251. Il giudizio di Habermas riguardo ai media
sembra essersi addolcito nel tempo, e nella Prefazione alla nuova edizione del 1990 è riconosciuto un certo potenziale democratico ad una
sfera pubblica strutturata dai meccanismi della
comunicazione elettronica di massa; tuttavia
un tale potenziale verrebbe per Habermas sempre bilanciato dalle crescenti pressioni selettive
dalle quali tale comunicazione sarebbe improntata (ibi, pp. XLII-XLIII).
7 Cf. T. PATTERSON, The Vanishing Voter, pp.99ss.
8 Un classico su questo tema è il volume curato da J. Nye, P. Zelikov e D. King, Why People
Don’t Trust Government, Cambridge University
Press, Cambridge 1997; Nye nota che benché negli Stati Uniti non sia affatto aumentato negli ultimi decenni il numero dei casi di corruzione politica, la sovrabbondante copertura mediatica
avrebbe amplificato notevolmente la loro ricezione, contribuendo a creare un clima di generale
sfiducia nei confronti del governo.
9 Cf. L.L. KAID, “Political Advertising”, in Id.,
a cura di, Handbook of Political Communication Research, Lawrence Erlbaum Associates, Mahwah
2004, pp. 155-202.
10 Un classico sul tema è il volume di J. N. Cappella e K. H. Jamieson, Spyral of Cynism. The Press
and the Public Good, Oxford University Press, New
York 1997.
11 C. SORRENTINO, Tutto fa notizia. Leggere il
giornale, capire il giornalismo, Carocci, Roma 2007,
p.134.
12 Cf. ad es. M. X. DELLI CARPINI E S. KEETER,
What Americans Know about Politics and Why It Matters, Yale University Press, New Haven 1996, p.219.
13 P. N. HOWARD, New Media Campaigns and the
Managed Citizen, Cambridge University Press,
Cambridge 2006.
14 R. PUTNAM, Bowling Alone: the Collapse and
Revival of American Community, Simon and Schuster, New York 2000.
15 D. CAMPUS, Comunicazione politica. Le nuove
frontiere, Laterza, Roma Bari 2008, p.25.
16 P. STRINGA, Lo spin doctoring: strategie di comunicazione politica, Carocci, Roma 2009.
17 Complice anche in Italia l’orientamento
verso sistemi elettorali a elezione diretta: le riforme che hanno condotto all’elezione diretta prima dei sindaci (1992), poi dei Presidenti delle
Regioni (1999), e inoltre l’introduzione del sistema maggioritario (1994), hanno certo contribuito, accanto alle trasformazioni socio-economiche, ad un ulteriore indebolimento dei partiti.
18 Cf. E. NOVELLI, La turbopolitica. Sessant’anni
di comunicazione politica e di scena pubblica in Italia:
1945-2005, Rizzoli, Milano 2006, a p.181.
19 Ibi, p.183.
20 P. TAGUIEFF, L’illusione populista , Milano,
Mondadori 2003.
21 R. DAHRENDORF, Dopo la democrazia. Intervista a cura di Antonio Polito, Laterza,Roma Bari
2001, pp. 101ss.
22 J. S. NYE, Leadership e potere. Hard, soft, smart
power, Laterza, Roma Bari 2009, p. 172.
23 Ivi, pp.133-4.
24 C. VACCARI, La campagna del 2006 su Internet:
pubblico, siti e agenda, «Comunicazione politica»,
7, 2, 2006, pp. 329-341.
25 Accanto alla televisione, è stata la cartellonistica il veicolo principale della pubblicità
politica di Forza Italia e Berlusconi nel 2006: si
veda G. Sensales e M. Bonaiuto, a cura di, La
politica mediatizzata. Forme della comunicazione politica nel confronto elettorale del 2006, Franco Angeli, Milano 2008.
26 S. B ENTIVEGNA , Rethinking Politics in the
World of ICTs, «European Journal of Communication», 21, 3, 2006, pp.331-42.
27 P. STRINGA, Lo spin doctoring, p. 106.
28 Ibidem.
29 Così la definisce Edoardo Novelli ne La
turbopolitica, a p.213.
30 A. GIDDENS, Le conseguenze della modernità.
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Fiducia e rischio. Sicurezza e pericolo, Bologna, Il Mulino 1994.
31 G. MAZZOLENI, La comunicazione politica, Il
Mulino, Bologna 1998, pp.24-27.
32 R. GRANDI, La comunicazione pubblica. Teorie,
casi, profili normativi, Carocci, Roma 2007, p.60.
33 S. IYENGAR, D. R. KINDER, News that Matters,
University of Chicago Press, Chicago 1987.
34 V. L. HUTCHINS, Public Opinion and Democratic Accountability. How Citizens learn about Politics, Princeton University Press, Princeton and
Oxford 2003, pp.14ss.
35 P. CONVERSE fu tra i primi a sottolineare l’importanza delle motivazioni individuali nell’apprendimento politico: si veda il suo “The Nature of Belief Systems in Mass Publics”, in D. Apter, a cura di,
Ideology and Discontent, Free Press, New York 1964.
36 È questo il titolo di un importante volume di
C. Crouch: Postdemocrazia, Laterza, Roma Bari 2003.
Bruno Vespa a “Porta a Porta”
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37 R. DAHRENDORF, Quadrare il cerchio ieri e oggi,
Laterza,Roma Bari 2009, p.25.
38 DAHRENDORF, Dopo la democrazia, p. 102.
39 M. SALVADORI, Democrazie senza democrazia,
Laterza, Roma Bari 2009, p.XII.
40 DAHRENDORF, Democrazia attiva. Sei lezioni su
un mondo instabile, Laterza, Roma Bari 2003,
p.115.
41 P. BOURDIEU, L’opinione pubblica non esiste,
«Problemi dell’informazione» I, 1976, 1, p.88.
42 N. CHOMSKY, E. S. HERMAN, La fabbrica del
consenso. La politica e i mass media, Il Saggiatore,
Milano 1998.
43 U. BECK, Costruire la propria vita, Il Mulino,
Bologna 2008.
44 F. CASSANO, Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni, Dedalo, Bari 2004, p.21.
45 L. SCIOLLA, Come si può costruire un cittadino,
Il Mulino, Bologna 1999, p.11.
I dilemmi etici della
comunicazione pubblica
di Marica Spalletta
Se dovessimo indicare uno dei settori
della comunicazione che, soprattutto negli ultimi tempi, si è reso protagonista del
più sensibile ed evidente processo di trasformazione ed evoluzione, non cadremmo certo in errore individuandolo nella
comunicazione pubblica, e in particolare
in quella istituzionale. Ambito poliedrico
e complesso, dove valori, testi e pratiche
propri dell’universo comunicativo ormai
da anni si incontrano, si contaminano,
talvolta si scontrano con le esigenze tipiche di un contesto dove la funzione di
emittente spetta al soggetto pubblico per
eccellenza: lo Stato.
In questo ambito tradizionalmente (e
talvolta erroneamente) considerato impermeabile a qualsiasi forma di cambiamento, a qualsiasi apertura nei confronti
delle trasformazioni in atto nella comunicazione tout court, in realtà è ormai da
tempo avviato un significativo processo di
rinnovamento, tale per cui oggi la comunicazione pubblica tende a farsi sempre
più espressione della galassia comunicativa, pur senza rinunciare a quella tipicità
che la rende diversa da qualsiasi altra forma di comunicazione.
A conferma del cambiamento in atto,
basti pensare all’uso sempre più quantitativamente rilevante e qualitativamente
efficace che la comunicazione pubblica
fa delle nuove forme di comunicazione e
di pubblicità che nascono e si sviluppano
nel recinto della non convenzionalità: un
recinto dagli steccati molto labili, in cui la
parola d’ordine è contaminazione e dove le
pratiche utilizzate per la diffusione dei
messaggi solitamente riescono a travalicare i confini di una comunicazione stereotipata, prevedibile, per certi versi percepita dal fruitore come “annunciata”.
La tipicità degli attori, la complessità
del contesto, in generale le esigenze di
una comunicazione che vuole (e deve)
essere nel contempo al servizio del cittadino e funzionale alle esigenze dell’emittente, nonché le tendenze a una
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159
maggiore apertura verso modelli di comunicazione fino a pochi anni orsono
estranei al bagaglio culturale dei comunicatori pubblici fanno dunque sì che la
comunicazione pubblica rappresenti
un terreno fertile di indagine, e non solo in chiave semiotica, sociologica o giuridica: discipline, queste, che per tradizione si sono occupate e si occupano
dell’argomento.
La recente evoluzione della comunicazione pubblica verso modelli sempre
più in linea con le logiche della pubblicità, e più ancora con le logiche delle
“nuove terre” della pubblicità (Ambrosio, a cura, 2005) che oggi tendono a
dominare la scena dell’advertising nazionale e internazionale, consente infatti un approccio al tema anche in
chiave etica, laddove per etica si intende quella linea di confine tra i comportamenti condivisi all’interno di una comunità e quei comportamenti che invece la comunità percepisce come contrari ai propri valori, alle proprie tradizioni, al proprio modo di agire e sentire.
Se l’etica è, infatti, l’insieme dei comportamenti condivisi e, nel contempo,
la riflessione sugli stessi, appare evidente che proprio l’etica rappresenta una
chiave di lettura interessante per studiare le recenti evoluzioni che hanno
così profondamente modificato il modo di fare comunicazione pubblica.
L’obiettivo finale è quello di dimostrare che, al di là di taluni preconcetti
con cui si è dovuto talvolta fare i conti, anche la comunicazione pubblica può e sa
maneggiare con successo testi e pratiche
che possono provenire da contesti sociali
e culturali lontani e diversi, senza tuttavia
perdere quell’eticità che è tipica, congenita, irrinunciabile di qualsiasi forma di
comunicazione che abbia nello Stato il
proprio soggetto emittente.
Nuova Civiltà delle Macchine 3/2009
160
La comunicazione pubblica: “convenzionale” e “eticamente corretta” per
definizione o per necessità?
Quando la comunicazione pubblica
vede la luce – siamo sul finire degli anni
Novanta – essa viene percepita come un
qualcosa che nasce e si sviluppa in seno all’amministrazione e che nell’amministrazione stessa trova il proprio fondamento.
Non a caso, ricostruendo la genesi del fenomeno, alcuni anni orsono Alessandro
Rovinetti (2000, p. 211) rimarcava come
essa fosse «più figlia della semplificazione
e dell’innovazione amministrativa che di
McLuhan», più «vicina ai processi di modernizzazione che alla pubblicità», «componente della riorganizzazione interna
più che tecnica giornalistica»: dunque,
un qualcosa che nasce e si sviluppa in seno all’amministrazione e che, conseguentemente, tende a utilizzare testi e
pratiche che appartengono per tradizione al bagaglio culturale dell’amministrazione e a quello professionale di coloro
che, presso l’amministrazione, lavorano.
Una forma di comunicazione che,
quindi, con la comunicazione – almeno
all’origine - sembra avere poco a che fare. Considerazione questa per certi versi
rafforzata da quel percepito e diffuso
imbarazzo con cui la comunicazione
pubblica (e, a seguire, i comunicatori
pubblici) maneggiavano i termini propri del linguaggio comunicativo: emblematico di questo atteggiamento è il rifiuto, in molti casi, di qualificare come
“pubblicità” forme di comunicazione
che, a tutti gli effetti, sono delle forme di
pubblicità (Gadotti 2003). Questo perché la “sacralità” del contesto in cui la
comunicazione pubblica nasce sembra
rifiutare, a priori, l’assimilazione a fenomeni la cui reputazione non è sempre
stata cristallina. Per nulla al mondo, in-
fatti, i nascenti “comunicatori pubblici”
vorrebbero essere assimilati ai “persuasori occulti” di packardiana memoria.
L’altra questione che in parte segna lo
sviluppo della comunicazione pubblica
nel nostro Paese ha naturalmente a che
fare con la l’atipicità dei soggetti che vengono preposti allo svolgimento delle attività di comunicazione: personale già appartenente ai ranghi della pubblica amministrazione, più avvezzo all’uso del linguaggio burocratico che a quello della
comunicazione. Con la conseguenza che,
almeno all’origine, la comunicazione
pubblica sembra voler comunicare senza
tuttavia avere padronanza degli strumenti di
comunicazione (Baldini 2004). Né, tanto
meno, giovano alla nascente categoria
professionale dei comunicatori pubblici i
numerosi corsi di formazione che, nell’intento del legislatore, avrebbero dovuto trasformare degli amministratori (talvolta degli ottimi amministratori) in comunicatori (Scandaletti 2005).
A ciò va aggiunto che, almeno nelle
prime fasi del suo sviluppo, la comunicazione pubblica tende a privilegiare, nella
costruzione dei propri messaggi, l’integrazione funzionale piuttosto che quella
simbolica: categorie concettuali – queste
– proposte da Paolo Mancini (2002), con
cui si è soliti distinguere le attività di comunicazione «finalizzate a determinare il
campo funzionale dell’istituzione distinguendola e integrandola con le altre istituzioni sociali (integrazione funzionale orizzontale), collegandola con i possibili fruitori dei prodotti/servizi offerti (integrazione funzionale verticale)» e quelle invece
orientate a «rafforzare l’identità dell’istituzione che la promuove e a veicolarne i
valori caratterizzanti». Nel primo caso
(integrazione funzionale) abbiamo dunque
a che fare con «quelle attività che, seppure condizionate nel risultato dall’instau-
rarsi di un corretto scambio comunicativo, sono essenzialmente destinate a veicolare nozioni e conoscenze», mentre
nella comunicazione di integrazione simbolica «rientrano quelle attività finalizzate alla promozione di atteggiamenti e
comportamenti» (p. 191).
La scelta, almeno all’origine, di privilegiare una comunicazione di servizio
piuttosto che una comunicazione capace
di promuovere atteggiamenti e/o comportamenti (e conseguentemente in grado di valorizzare il ruolo e la funzione
svolta dal soggetto che quei comportamenti/atteggiamenti si propone di promuovere), giustifica in parte la scelta, fatta da molte amministrazioni, di indirizzare la propria comunicazione lungo
sentieri molto “tradizionali”: tradizionali
nei valori cui si ispirano (la trasparenza, la
correttezza, la semplificazione: in una
parola quei valori su cui si fonda il cambiamento che, a partire dagli anni Novanta, investe la pubblica amministrazione nel suo complesso), nei linguaggi che
adottano (ancora stralci di burocratese, rivisto e corretto alla luce delle indicazioni
contenute nel “Manuale di stile” redatto
dal Dipartimento della funzione pubblica), nelle pratiche cui affidano la veicolazione dei messaggi (quelle tradizionali legate
ai media analogici, e solo in una seconda
fase i media digitali).
La comunicazione che ne deriva è una
comunicazione che di tutto può essere
accusata, ma non di essere eticamente
scorretta: si tratta di una comunicazione
lineare, semplice, priva di qualsiasi coinvolgimento emozionale, prevalentemente fondata sul codice verbale seppur poco
avvezza al ricorso a qualsiasi tipologia di
gioco linguistico. Una comunicazione
che non corre il rischio di offendere nessuno perché neutra per scelta, prima ancora che per necessità. Ovviamente, dire
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161
che questa forma di comunicazione è eticamente corretta impone di chiarire preliminarmente il significato che vogliamo
attribuire all’avverbio “eticamente”. In
questo senso, il vocabolario italiano ci viene poco in aiuto, perché definisce l’avverbio in relazione al corrispondente aggettivo, oppure non lo definisce affatto.
Nel primo caso, è “etico” ciò che riguarda
i costumi, il comportamento: dunque, l’eticità consisterebbe in quella linea di confine di cui dicevamo pocanzi, rispetto alla quale i vari comportamenti (e di conseguenza le strategie di comunicazione)
vengono a posizionarsi.
Comportarsi in modo etico, per
l’amministrazione, significa dunque applicare quelle «regole dell’onestà» di
cui parla Bernardo Mattarella (2007),
norme giuridiche e/o convenzioni che
disciplinano/scandiscono il dipanarsi
dei rapporti tra l’amministrazione e il
cittadino, nonché tra le diverse amministrazioni e, all’interno della stessa amministrazione, tra diversi uffici. Ma convenzioni che vengono a incidere anche
nel processo di costruzione dei messaggi che dall’amministrazione vengono
proposti, nel momento in cui la comunicazione cessa di assolvere a una funzione meramente di servizio e diventa
invece finalizzata all’integrazione simbolica. Comunicare in modo etico è infatti funzionale al raggiungimento di alcuni obiettivi ben precisi: rafforzare il
legame fiduciario tra il cittadino e le istituzioni; rendere il cittadino partecipe
della vita delle istituzioni e le istituzioni
attente ai bisogni (espressi o latenti) del
cittadino; creare una “cultura delle istituzioni”; promuovere e rafforzare l’identità e l’immagine dell’amministrazione, aspetto che si sposa con i valori
costituzionali su cui deve fondarsi l’agire amministrativo (art. 97).
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162
È soprattutto con riferimento a quest’ultimo aspetto che il discorso sull’etica
si intreccia nuovamente con quello sull’efficacia. Una comunicazione come
quella proposta in origine dalla pubblica
amministrazione (sicuramente corretta
dal punto di vista etico) è anche efficace?
Oppure è una comunicazione che solo in
parte riesce a soddisfare gli ambiziosi
obiettivi per cui essa stessa vede la luce?
Questo è il nodo centrale della questione.
Ammesso infatti che la comunicazione,
nelle intenzioni dei suoi promotori, non
dovesse ridursi a essere un “aspetto” dell’azione amministrativa, bensì diventare
la linea di confine tra una buona amministrazione e una cattiva amministrazione, è possibile fare della buona comunicazione sposando alcune sue pratiche
pur senza chiamarle con il loro nome e,
soprattutto, ignorando le nuove modalità
e tecniche che nella comunicazione stessa nascono e si affermano?
A questa questione risponde in parte
una attenta osservazione di Gregorio Arena (a cura, 2001, p. 31), tra i primi teorici della nascente comunicazione pubblica: partendo infatti dal presupposto che
una buona amministrazione è quella che
sa comunicare, egli sottolinea infatti come «oggi per le amministrazioni non soltanto comunicare è indispensabile, ma
addirittura si può dire che vale anche per
esse (sia pure in un’accezione del tutto
particolare) il principio più generale, valido per tutti i soggetti, secondo il quale è
impossibile non comunicare». Se dunque anche all’amministrazione è applicabile l’assioma di Watzlawick (1971), è impossibile immaginare che una buona comunicazione (ossia una comunicazione
efficace) possa prescindere dalla conoscenza e dalla pratica delle strategie su cui
la comunicazione fonda di volta in volta
la propria efficacia.
Ciò detto, il passaggio successivo consiste nel chiedersi perché la pubblica amministrazione – e più nello specifico la comunicazione pubblica che, invece, per
sua stessa natura è una «disciplina in progress» (Faccioli 2000) – ha mostrato tanta
resistenza nei confronti di testi e pratiche
che in altri ambiti (ad esempio la comunicazione d’impresa) sono stati invece
molto più facilmente e rapidamente metabolizzati. Rispondere a questa domanda impone tuttavia di fare un passo indietro, e di andare a esaminare il contesto in cui le nuove strategie della comunicazione (pubblicitaria e non) nascono
e si formano.
L’unconventional: valori, testi e pratiche
di un fenomeno emergente
Ancora pochi anni orsono, chiedere a
un esperto o a un docente di marketing
di dare una definizione di “marketing
non convenzionale”, e aspettarsi una risposta chiara e condivisa, era cosa quanto
mai difficile e, soprattutto, aspettativa destinata a rimanere insoddisfatta. Storcendo il naso dinanzi all’aggettivo “non convenzionale”, molti dei professori/esperti
intervistati avrebbero infatti risposto che
non esiste un marketing “non convenzionale” perché a monte non esiste un
marketing “convenzionale”. Il marketing
è uno, e chi lo pratica (e/o lo studia) sa
che esistono vari e diversi strumenti attraverso cui esso può essere realizzato. A
giustificare questa risposta c’era infatti
una certa prudenza, da parte del marketing più “tradizionale”, a considerare come proprie quelle strategie comunicative
nate nel contesto dell’antipubblicità che,
a seguito di un’osmosi incontrollabile,
hanno presto iniziato a insinuarsi in altri
ambiti/settori.
Oggi non è più così, ovviamente. Oggi tanto gli studiosi di marketing quanto
coloro che il marketing lo praticano quotidianamente (perché si tratta del loro lavoro) sono costretti a fare i conti con tutto quel bacino di testi e pratiche che, teorizzati in origine da Adbusters, sono oggi
considerati strategie irrinunciabili per
catturare l’attenzione del pubblico e indurlo a tradurre l’attenzione in azione.
Fondato nel 1989 da Kalle Lasn, Adbusters è espressione di quel culture jam –
«espressione traducibile in modo approssimativo con “sabotaggio culturale”», osserva Peverini (2009) – che utilizza la manipolazione del linguaggio pubblicitario come strumento per esprimere
la propria critica nei confronti del sistema dei media. «Le corporation fanno
pubblicità – scrive lo stesso Lasn (2004, p.
198) – I Culture Jammer disfano pubblicità. Una “contro pubblicità” ben fatta fa
il verso alle immagini e al timbro di un
certo spot, provocando la classica reazione a scoppio ritardato nel pubblico, che
si accorge di trovarsi di fronte all’esatto
opposto di quel che si aspettava. Una
contropubblicità è un potente esplosivo.
Spezza il magico incanto costruito dalla
realtà mediata e, per un attimo, svela in
maniera chiarissima il triste spettacolo
che questa nasconde».
A caratterizzare la non convenzionalità, almeno alle sue origini e nelle intenzioni dei suoi primi teorizzatori, sta dunque la volontà di “porsi contro”, di svolgere un’azione di sensibilizzazione “dell’ambiente mentale” (come recita lo slogan che accompagna la pubblicazione di
una rivista trimestrale da parte del gruppo), e di farlo sfidando i media tradizionali sul loro stesso terreno, ma giocando
con pratiche e linguaggi totalmente estranei alla galassia nella quale i media si erano, fino a quel momento, sviluppati.
Nuova Civiltà delle Macchine 3/2009
163
Il passaggio dal contesto di “contrapposizione”, di “protesta”, di “rottura”
(nell’ambito del quale la non convenzionalità, come abbiamo visto, nasce), alla
sua osmosi in altri ambiti è per certi versi breve, per altri assai lunga e complessa.
In primo luogo perché tali ambiti, pur attirati da quell’evidente capacità di penetrazione che è propria della non convenzionalità (penetrazione a sua volta dovuta al fatto che essa si inserisce negli interstizi della vita quotidiana, dove la soglia
di attenzione del cittadino/consumatore
è più bassa e dove dunque è più semplice che l’azione possa produrre l’effetto
di destare l’attenzione stessa), devono
tuttavia fare i conti con questa particolare “natura ribelle” della non convenzionalità. Devono, cioè, “far digerire” ai propri committenti il fatto che i nuovi
marketing possano parlare e contattare il
pubblico utilizzando la protesta rivolta,
in taluni casi, proprio contro quel sistema di cui i committenti stessi possono essere espressione.
La grande svolta, e dunque la definitiva consacrazione della non convenzionalità nel marketing, coincide con una rilettura degli obiettivi e delle finalità del
culture jam: non più cioè cercare una
condivisione degli obiettivi (cosa, questa,
evidentemente difficile), bensì una condivisione dei linguaggi e delle pratiche.
Lasciata dunque la contestazione al subvertising, il marketing non convenzionale
si appropria invece delle strategie della
non convenzionalità, e comincia ad applicarle in settori vari e diversi.
Dal marketing alla pubblicità il passo
è breve: sedotta da queste nuove strategie
che, in molti casi, consentono di superare la tradizionale associazione pubblicità/mezzo (in ragione della quale la
pubblicità non esisterebbe a prescindere
dal medium attraverso cui essa si veicola),
Nuova Civiltà delle Macchine 3/2009
164
l’advertising tradizionale comincia a
esplorare i nuovi canali di diffusione praticati, fino ad allora, esclusivamente dal
subvertising: lo spazio, fisico e/o virtuale,
diventa il luogo dove azioni di ambient
piuttosto che di viral marketing prendono forma, predispongono imboscate nei
confronti di un pubblico la cui soglia di
attenzione è volutamente bassa, producono effetti che non si esauriscono all’istante in cui l’azione ha luogo, ma si propagano in virtù di quell’effetto buzz che il
web, perfetta cassa di risonanza, può garantire e garantisce.
Studiati dal punto di vista degli effetti
sociali che producono, smontati dall’analisi semiotica, indagati in prospettiva giuridica, gli strumenti della non convenzionalità rappresentano un interessante fenomeno da studiare e osservare anche da
una prospettiva etica. Qui le chiavi di una
possibile analisi sono naturalmente molte e diverse, come del resto è congenito a
una prospettiva – quella etica appunto –
dove gli approcci possibili sono molteplici e diversi: come ben osser va Fabris
(2006), c’è infatti un’etica che si fonda
sulla deontologia, un’etica della comunicazione e un’etica nella comunicazione.
Partiamo da una constatazione, quanto mai ovvia. Se analizziamo infatti la non
convenzionalità nella prima delle tre prospettive proposte da Fabris, uno dei temi
principali che emerge ha a che fare con il
problema della riconoscibilità. Ammesso
infatti che uno dei valori etici su cui si fonda la pubblicità (e che nel codice di autodisciplina pubblicitaria trova la propria
consacrazione) è quello della riconoscibilità del messaggio agli occhi di quello
che il codice stesso definisce “consumatore medio”, come si pone la questione rispetto a testi e pratiche che spesso fanno
dell’imboscata il proprio marchio di fabbrica? È etico il ricorso a strategie che, per
loro stessa natura, nascono nel silenzio e
di cui il pubblico prende coscienza solo
quando è ormai tardi per opporvisi e/o
per resistervi? Questione complessa, che
tocca uno dei temi cruciali che oggi animano il dibattito etico e giuridico sulla
pubblicità, e che verte attorno al problema centrale della tutela del consumatore.
La risposta, a nostro avviso, sta proprio in quella definizione di “consumatore medio” cui il codice di autodisciplina rapporta le norme contenute nel Titolo I. Chi è oggi il consumatore medio?
È il consumatore di pochi anni fa, per
cui Internet era esclusivamente un mezzo di informazione, oppure il navigatore
che oggi vede nella Rete una forma di
partecipazione? Definire il consumatore
medio impone dunque di riflettere a
monte sul concetto di audience, perché è
in una diversa concezione dell’audience
che risiede la nozione stessa di etica condivisa da una determinata comunità. Ne
deriva che, dal piano puro e semplice
della deontologia, il ragionamento debba salire di qualche gradino, fino a quell’etica nella comunicazione che Fabris
sintetizza a partire dagli studi di Apel
(1992) e Habermas (1983).
Secondo i due autori, l’errore commesso dagli studi sulle etiche applicate (e
sull’etica della comunicazione in particolare) consisteva infatti nell’aver cercato al di fuori dell’ambito comunicativo
criteri e principi etici di cui si era finita
per ipotizzare una validità universale. A
loro avviso, invece, i parametri su cui fondare l’agire etico andrebbero rintracciati nella comunicazione stessa (che così
assurgerebbe al ruolo di etica generale).
Il discorso, dunque, come insieme di
aspetti «che assumono di fatto il carattere di obblighi morali» (Fabris 2006, p.
61). Tuttavia, anche in questo caso la teoria incontra un limite, questa volta deter-
minato dal fatto che, affinché l’etica nella comunicazione funzioni, è necessario
che «il momento dell’elaborazione delle
norme morali pragmaticamente messe
in opera nel discorso quotidiano non sia
disgiunto dalla percezione di esse, dal loro riconoscimento e da quella scelta che
effettivamente le privilegia» (p. 63). L’etica, dunque, non solo come insieme di
principi elaborati e fissati, ma anche come riconoscimento e condivisione di
quegli stessi principi.
È in questa prospettiva che la non
convenzionalità supera le perplessità etiche che ne possono aver segnato la nascita e lo sviluppo, per acquisire invece
quel riconoscimento etico che ne consente, a sua volta, la diffusione a macchia
d’olio in molteplici e diversi settori dell’universo comunicativo. E, di settore in
settore, la non convenzionalità approda
anche nel recinto della comunicazione
istituzionale.
Pratiche non convenzionali: nuove prospettive della comunicazione pubblica
in Italia e nel mondo
La prospettiva etica proposta da Apel
e Habermas e ripresa da Fabris si fonda
dunque sull’idea che l’eticità non sia un
qualcosa da ricercarsi al di fuori dell’ambito nel quale essa viene poi a essere applicata, bensì al suo interno, a patto tuttavia che la sua messa in opera si sposi
sempre con la sua percezione e il suo riconoscimento. Si tratta, come appare evidente, di un modello pienamente applicabile al contesto in esame, e che anzi trova proprio nel connubio tra non convenzionalità e comunicazione pubblica un
perfetto esempio di corretta funzionalità.
Come già in parte richiamato in un
precedente lavoro (Spalletta 2009), il so-
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165
dalizio tra queste due realtà si caratterizza, almeno in origine, per la sua applicazione in un preciso contesto: quello della
comunicazione sociale. Laddove infatti la comunicazione pubblica - secondo la nota
tripartizione in comunicazione istituzionale, comunicazione politica e comunicazione sociale da più autori richiamata
(Faccioli 2000, Rovinetti 2002, Rolando
2001, Grandi 2001) - va a toccare temi di
carattere sociale rispetto ai quali viene
chiesto al pubblico di assumere un determinato comportamento (o di astenersi
dal comportamento contrario), la non
convenzionalità rappresenta un terreno
fertile per la condivisione di valori antichi
quanto di valori emergenti, perché affida
la veicolazione degli stessi a testi e pratiche capaci di catturare l’attenzione del
pubblico, indurlo a una riflessione, trasformare il suo convincimento in azione.
Comunicazione sociale, dunque, ma
anche terzo settore. L’altro fattore che in
larga parte contribuisce alla diffusione
della non convenzionalità nell’ambito
della comunicazione pubblica si lega infatti alla sua “affinità elettiva” con il
mondo del non profit, che trova proprio in questa nuova strategia comunicativa un veicolo perfetto (perché tanto
efficace quanto economico) per conciliare la necessità di farsi conoscere con
l’altrettanto irrinunciabile esigenza di
non sottrarre fondi alle attività che rappresentano la mission stessa di queste organizzazioni. Il passaggio dal terzo settore alla pubblica amministrazione è
breve, ma significativo.
A ciò si aggiunge l’apporto, fondamentale, che il web dà al proliferare di
queste iniziative. È il web, infatti, che svolge una fondamentale azione di “cassa di
risonanza” tale per cui esso riesce a sopperire all’unico vero limite che la non
convenzionalità presenta: quello, cioè,
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166
dell’estemporaneità dei messaggi, tale
per cui solo chi è presente nel luogo e nel
momento in cui l’azione ha luogo ne viene a conoscenza. Il web contribuisce a annullare questa distanza, e dunque consente il propagarsi degli effetti dell’azione: economica, efficace, etica nella misura in cui essa viene percepita come tale
dal pubblico (e ciò avviene, come opportunamente segnala il web che tratta del
fenomeno come di una vera e propria moda), innovativa.
Dunque, degna di essere praticata
anche da soggetti che, all’apparenza,
rappresentano quanto di più lontano
possibile dal contesto in cui la non
convenzionalità, come abbiamo visto,
si è venuta in origine a sviluppare. A
dare il via a questa pratica oggi ampiamente diffusa nel mondo sono alcune associazioni molto note in ambito internazionale: Amnesty, Greenpeace, il WWF. Ma ben presto la moda
dell’unconventional si diffonde anche presso le istituzioni. Esempi in tal
senso ce ne sono moltissimi, ciascuno
dei quali caratterizzato per una sua
spiccata originalità e per una reale efficacia, come confermano le molte indagini in proposito che, soprattutto
all’estero, accompagnano con sempre maggiore frequenza la diffusione
di una campagna mediatica.
È targata Comune di Parigi, ad
esempio, un’originale iniziativa che
ha per tema la salvaguardia dell’ambiente. Lungo i boulevards della capitale francese l’amministrazione comunale ha infatti posizionato alcuni
anomali manifesti pubblicitari, tridimensionali nella misura in cui, invece
che mostrare raffigurati su carta alcuni rifiuti e invogliare i cittadini a buttarli negli appositi contenitori, mostrano realmente i rifiuti in questione
e suggeriscono ai passanti come comportarsi nei loro riguardi (Dans la
poubelle jaune, merci).
Sempre in tema di protezione dell’ambiente, la Denver Water (associazione municipalizzata che sovrintende all’approvvigionamento idrico della metropoli statunitense) ha lanciato
una campagna volta a sensibilizzare
l’opinione pubblica sul tema del risparmio idrico. Allo slogan di Use only
what you need, la Denver Water ha disseminato per la città automobili rivestite solo per metà dalla carrozzeria,
panchine dove possono sedere almeno tre persone con una seduta fatta
“su misura” per una sola persona,
enormi contenitori in cui è visivamente contenuta tutta l’acqua che ciascun
abitante della città usa (e talvolta abusa) in un anno.
Un altro settore dove la comunicazione sociale fa ormai uso costante di
pratiche non convenzionali è quello
dei diritti umani. Le Nazioni Unite sono infatti tra i promotori di un’iniziativa (denominata UN Voices Project)
il cui scopo, come recita lo slogan, è
appunto quello di dare voce a quelle
persone che, solitamente, non ne hanno. Per fare ciò, l’ONU utilizza a piene mani i registri della cross-medialità: presso le fermate dell’autobus di
molte città europee sono stati infatti
collocati dei manifesti che raffigurano
persone (donne, anziani, bambini)
che chiedono di avere voce. In corrispondenza della loro bocca, c’è un riquadro che, se fotografato tramite il
telefono cellulare e inviato al numero
di telefono indicato, consente di accedere a un file multimediale in cui ciascuna delle persone raffigurate racconta la propria storia.
Gioca invece sull’effetto sorpresa, e su
un possibile disorientamento del destinatario del messaggio, una campagna ambient promossa dall’Alto commissariato
per i rifugiati: facsimili di banconote distribuite in luoghi pubblici, dove al posto
dei consueti regnanti, padri della patria,
esponenti di spicco della cultura, ci sono
invece madri con bambini in braccio, anziani, persone sole. Obiettivo dell’iniziativa: ricordare alla gente che spesso 50 dollari sono più che sufficienti per dare un
effettivo aiuto a queste persone.
Infine, in questa rapida carrellata
non possiamo non citare le numerose
azioni che, nel mondo, hanno avuto
per tema la sicurezza, e la sicurezza
stradale in particolare. La campagna
più famosa in tal senso (perché di vera e propria campagna si tratta e non
di azione isolata) è quella proposta
dal governo britannico e dal comune
di Londra: Do the test è infatti il titolo
del primo di una serie di video virali
che, diffusi sul web, hanno sensibilizzato con ironia ma con altrettanta efficacia la popolazione sul tema della
sicurezza. Il primo video, il più cliccato dal popolo di YouTube al punto di
essere diventato un vero e proprio fenomeno di culto, sfrutta l’episodio di
una semplice partita a basket tra alcuni ragazzi per chiedere allo spettatore
di compiere uno sforzo di attenzione:
l’obiettivo – ma questo lo si capisce
solo alla fine del video, quando viene
svelato lo slogan (It’s easy to miss something you’re not looking for. Looking
out for cyclists) – è quello di ricordare
agli automobilisti quanto può essere
semplice (e al tempo stesso rischioso)
distrarsi quando si è al volante. Particolarità del video, oltre che il carattere assolutamente ironico e il modo
“leggero” ma efficace con cui si affronta la questione: il logo dei pro-
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167
motori l’iniziativa viene svelato solo
alla fine e, soprattutto, è assolutamente non invasivo rispetto al contesto in cui si viene a collocare.
Fin qui il mondo. E in Italia?
Quanto spazio c’è in Italia per esperienze di tal genere? Quanto la comunicazione pubblica nazionale e locale avrà saputo (o in un futuro) saprà lasciarsi contagiare da un nuovo
modo di fare comunicazione, che rinuncia ai toni accusatori per lasciare
spazio all’ironia, che si sgancia dai
media tradizionali e raggiunge invece il destinatario nello spazio fisico
della quotidianità oppure in quello
virtuale della Rete, che soprattutto
chiede ai propri committenti di rinunciare all’ostentazione del proprio logo in nome di una visibilità
che è meno autoreferenziale e sicuramente più concreta? E, soprattutto,
quanto il pubblico italiano saprà dimostrare di percepire e riconoscere
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l’efficacia di queste nuove forme di
comunicazione, affermandone di fatto la conseguente eticità?
Da quest’ultimo punto di vista
non sembrano esser vi dubbi che anche il pubblico italiano abbia iniziato a guardare con maggiore interesse (e con conseguenti minori pregiudizi) queste nuove forme di comunicazione, soprattutto i più giovani che, navigando sul web, hanno
maggiori possibilità di dialogare con
altre realtà sociali e culturali, confrontare esigenze e aspettative, infine imparare a praticare nuove esperienze di consumo. Ma una conferma viene anche dalle istituzioni che,
soprattutto nell’ultimo anno, si sono
mostrate assai sensibili al cambiamento, a conferma del fatto che anche presso di loro si è avviato un processo di rinnovamento che, in un
prossimo futuro, potrebbe portare
anche la loro comunicazione a esse-
re meno autoreferenziale e più funzionale alle esigenze del cittadino.
Oltre che più efficace sul versante
dei risultati raggiunti.
Due iniziative, in particolare, meritano di essere segnalate. La prima
ha per protagonista la provincia di
Napoli e affronta il tema, delicatissimo, della sicurezza sul lavoro. Tema
molto sentito nel nostro Paese, come dimostra il grande interesse con
cui il settore dell’informazione tratta l’argomento sulle pagine dei giornali, in televisione, nei dibattiti sul
web. A questo tema si lega una campagna di ambient molto ef ficace,
tanto più innovativa perché si tratta
di uno dei primi casi in cui l’emittente (in questo caso un’amministrazione locale) sceglie di annullare il proprio logo per lasciare invece
spazio esclusivamente al messaggio.
Messaggio che gioca su due diversi
concetti: da una parte la necessità di
non calpestare i diritti dei lavoratori, dall’altra l’idea che la tutela di tali diritti è un fatto che coinvolge tutti. Sul primo versante la campagna si
è concretizzata nella collocazione di
alcuni sticker a grandezza umana in
luoghi pubblici del territorio provinciale partenopeo: sticker applicati sul pavimento, che riproducono
una sagoma umana e sulla cui schiena è impresso lo slogan Non calpestate i diritti dei lavoratori. Istintivamente, come mostrano le immagini che
hanno filmato alcune reazioni del
pubblico, la gente che passa accanto
allo sticker si ferma a leggere la scritta ed è automaticamente indotta a
non calpestare la sagoma. Sul secondo versante, invece, la campagna si è
tradotta nella distribuzione, nei bagni pubblici della provincia, di alcu-
ne bustine di sapone per le mani; su
ogni bustina, di colore bianco, è
stampata l’immagine rossa del sangue e una scritta, che ricorda a chi
utilizza quel sapone che non calpestare i diritti dei lavoratori è un problema che riguarda tutti, e del quale
nessuno può lavarsi le mani (Non lavartene le mani).
La seconda iniziativa ha invece
avuto per protagonista l’INPS, che
nel 2008 si è fatta promotrice di una
campagna sempre sul tema del lavoro, ma questa volta nella prospettiva
della battaglia contro il lavoro nero.
Destinatari dell’iniziativa, questa volta, i datori di lavoro e gli stessi lavoratori in nero: a entrambi si vuole infatti ricordare che una nuova normativa
è in vigore per la regolarizzazione di
badanti, colf, collaboratrici domestiche, ecc. La campagna, dal titolo Cancella il lavoro nero, è stata realizzata –
per la prima volta – completamente
con mezzi non tradizionali: ecco dunque che abbiamo opuscoli multilingue distribuiti con la free press o appesi nei bus, tovagliette distribuite
nella rete dei fast food, sacchetti per
il pane distribuiti attraverso una fitta
rete di esercenti che ha aderito all’iniziativa, gomme da cancellare con su
scritto lo slogan della campagna.
Ambiente, sicurezza, diritti umani:
il virus ormai si sta diffondendo e un
approccio che voglia mettere al centro l’etica non può non tener conto
degli effetti benefici sulla comunità
che da esso potranno derivare. Per
una comunicazione più consapevole,
più moderna, più efficace. E per una
pubblica amministrazione sempre
più vicina al cittadino seppur custode
attenta di quei valori su cui la società
stessa si fonda.
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Rassegna di libri
a cura di Pasquale Rotunno
SILVANO TAGLIAGAMBE, Lo spazio
intermedio. Rete, individuo e comunità, Milano, Egea-Università
Bocconi 2008.
Stiamo cambiando in
fretta. Ma continuiamo a
pensare noi stessi e il mondo con vecchi schemi. Grazie a internet sta nascendo
un nuovo “spirito comunitario”. La creatività e la capacità di pensiero del singolo
individuo crescono nello
scambio relazionale consentito dalle nuove tecnologie
della comunicazione. Non è
la prima volta che accade.
Perché già la rivoluzione
che por tò alla nascita del
pensiero scientifico moderno derivò dalla condivisione
di conoscenze; resa allora
possibile dall’invenzione
della stampa. La comunità
scientifica poté far convergere l’aspetto privato del
calcolo, dell’intuizione, del-
la sperimentazione, fr utto
del lavoro del singolo ricercatore, e quello pubblico
della comunicazione e dell’interscambio reciproci. La
conoscenza cresce quanto
più è condivisa. Perciò «le
forme, più o meno strutturate e organizzate, in cui si
manifesta e si concretizza
questa condivisione costituiscono una delle forze propulsive di maggior peso dello sviluppo delle società e
dell’umanità nel suo complesso». L’autore analizza in
profondità i caratteri della
transizione in atto. Da una
prospettiva insolita e originale, rivisita i classici del
pensiero occidentale e autori russi poco noti per gettare luce sui fenomeni che
stanno cambiando le nostre
categorie mentali.
Le relazioni tra privato
e pubblico, tra individuale
e sociale si moltiplicano. Il
confine tra naturale e artifi-
ciale si assottiglia sempre
più. La circolarità tra organismi naturali e artefatti
produce nuovi spazi: intermedi tra la dimensione oggettiva e quella soggettiva.
All’inizio del Novecento, il
grande matematico e mistico r usso Pavel Florenskij
aveva denunciato l’insostenibilità di un’ontologia fondata sull’idea di sostanza.
Anche l’identità personale
è una questione di confine.
Ogni individuo è un sistema aper to. Il rappor to di
alterità è costitutivo dell’io,
aveva aggiunto il critico letterario Michail Bachtin. E
nelle pagine di Dostoevskij
emergeva come lo scarto, la
distanza tra sé e l’altro e tra
sé e il mondo sono elementi costitutivi dell’identità
personale. Nell’epoca della
rete, sostiene Tagliagambe,
«il pensiero diventa sempre
più una forma di connessione e collaborazione tra per-
Nuova Civiltà delle Macchine 3/2009
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sone diverse». Il risultato,
quindi, di una condivisione
con altri soggetti, individuali e collettivi. La convergenza in rete crea comunità
di sapere che trasformano
l’infor mazione in azione.
In ciò la logica di mercato
trova un limite. La società
della conoscenza richiede
inv e sti men t i n ot ev oli che
né il mercato né le imprese
possono sostenere. La ricerca deve essere “socializzata”, cioè finanziata dallo
Stato e realizzata in laboratori pubblici.
Le prospettive teoriche
incentrate sull’individuo
non riescono a dar conto
della complessità dei processi in atto. La condizione
normale dell’io non è la
completezza. L’autonomia è
cosa ben diversa dall’autosufficienza. Importante è soprattutto la capacità di condividere con gli altri. L’attitudine alla mediazione è così un elemento chiave dello
sviluppo della persona. Le
città diventano luoghi di
sperimentazione di inedite
modalità di aggregazione.
Nasce una sfera pubblica
basata sui processi di comunicazione. Dove non mancano conflitti e malintesi. Ma
anche possibilità di riconoscimento delle differenze. Il
t o t a l it a ri smo, d en u nciav a
Hannah Arendt, abolisce i
confini fra gli individui. La
ricchezza della rete sta oggi
nel fatto che essa rappresenta lo «spazio inter medio»,
dove «l’individuo si fa sempre più comunità». I teorici
dell’individualismo metodologico, come Hayek, sottovalutano la funzione di strutture attraverso le quali
l’informazione viene aggregata e organizzata per ren-
derla fr uibile da parte dei
singoli utenti. Valorizzare la
persona non può indurre a
mortificare il «sistema relazionale che è la base di qualunque forma di organizzazione sociale». Nemmeno va
taciuto il rischio di frammentazione della sfera pubblica, come conseguenza di
un’esasperazione della chiusura in personali universi
d’interesse. Non sarebbe
più possibile quel confronto
d’idee essenziale in ogni democrazia. John Dewey, alfiere con Popper della società
aperta, avvertiva che la democrazia non è una questione di conteggio di voti; ma
di confronto, discussione e
dibattito prima del voto. Il
problema oggi non è il “digital divide”, di cui tanto si
parla. È piuttosto la possibilità che ciascuno ha di ritagliarsi un’infor mazione su
misura. Personalizzata al
punto da escludere qualsiasi
contatto con interessi e
punti di vista diversi.
Internet sta scardinando
anche i modelli economici
del passato. In economia diventano importanti le nicchie, non il mercato di massa. L’intelligenza “connettiva” promossa dalla rete mette in crisi tipologie di produzione tradizionali. Sono
necessarie però forme di relazione interpersonale, di
collaborazione e co-decisione, che possono derivare solo da un inedito, quanto necessario, spirito comunitario. Ciò non vuol dire assimilare individuo e comunità; bensì mettere in contatto domini differenti e farli coesistere per un reciproco arricchimento.
PASQUALE ROTUNNO
Nuova Civiltà delle Macchine 3/2009
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LUIGI ALICI, Cielo di plastica. L’eclisse dell’infinito nell’epoca delle
idolatrie, San Paolo, Cinisello
Balsamo 2009.
Disillusi e creduloni. Svanite le utopie di rigenerazione universale, non si sa a cosa appigliarsi. Tutto è divenuto equivalente. Niente è
davvero importante. Eppure
si continua a credere. Ci si
accontenta di piccoli idoli.
Si dà fiducia a imbonitori di
passaggio. «Assistiamo ad
una proliferazione di paradisi artificiali a buon mercato nelle forme e nei luoghi
più diversi». Non solo all’esterno, ma addirittura all’interno della comunità cristiana. Vi è una patologia del
credere che non risparmia
nessuno. Più che negare il
cielo, il vero pericolo consiste oggi nella tentazione di
ricrearlo sulla terra. Perché
«il credere non è una variabile facoltativa, di cui avrebbe il monopolio l’uomo religioso, ma appartiene allo
statuto elementare dell’umano, costantemente in bilico fra cielo e terra». È raro
ormai incontrare libri insieme appassionati e colti come questo.
Se le chiese sono sempre
più vuote, gli studi di maghi
e cartomanti non registrano
crisi. I programmi televisivi
dedicati agli oroscopi fanno
il pieno di ascolti. Di solito,
però, la “seduzione idolatrica” ha forme meno pacchiane. Ma non risparmia chi vive una fede cristiana pigramente adagiata su se stessa,
denuncia Alici. Il vero nemico della fede non è più l’ateismo: è l’idolatria. «L’idolatria promette un’alternativa a Dio, promette di ri-
crearselo in casa, a propria
immagine e somiglianza, un
idolo addomesticato e inoffensivo, non troppo compromettente. Un cielo di plastica. Questo è il cancro che
sta divorando il nostro tempo». Il libro, dichiara Alici,
vuole «aiutare a riconoscere
l’urgenza di una salutare
scossa anti-idolatrica». La
mappa delle idolatrie è vasta. Perché l’idolatria è politeista. Gli idoli più facili da
fabbricare sono legati ai sensi. Incapaci di perseguire
progetti di lunga durata, inseguiamo i piccoli piaceri
della vita. Basta una patina
di cultura per trasfor mare
l’immediatezza del piacere
in raf finato edonismo. Se
aggiungiamo un po’ di retorica libertaria, possiamo illuderci persino di attuare
quell’emancipazione individuale che invano le ideologie promettevano a livello
collettivo. Eppure l’infelicità cresce. È il paradosso
dell’edonista infelice: «è
pieno di desideri perché
non è disposto ad accettare
che il piacere abbia fine».
Anche quando metto l’avere
al di sopra dell’essere trasformo in idolo la relazione
di possesso con le cose. Viene meno la dif ferenza tra
necessario e super fluo, tra
utile e inutile. Se non riusciamo ad anteporre un’etica dei bisogni a un’economia dei consumi, il capitale
finisce per schiacciare il lavoro. Lo aveva denunciato il
teorico del personalismo
Emmanuel Mounier, dopo la
crisi del ’29. E prima di lui
Mar x. Il denaro scambia
realtà e rappresentazione.
Smaterializza e rende “spirituale” la relazione di possesso. La mercificazione inve-
ste così tutti gli ambiti della
vita. Altro feticcio insidioso
è l’idolatria del potere. Tutto viene sacrificato in nome
del potere. E chi non ce l’ha
supplisce al deficit di potere
con l’onnipotenza dell’ambizione.
La logica idolatrica non
rispar mia la comunità cristiana. «Quando la religione
è abbandonata dalla fede,
può illudersi di resistere per
forza d’inerzia, cercando di
sostenere il proprio edificio
con i puntelli esteriori dell’abitudine». Si cercano allora luoghi speciali, emozioni spirituali forti, la messa
speciale (meglio se in latino). A questa “concupiscenza devozionale” fa riscontro
un pragmatismo a volte spregiudicato: «chi fa un’indigestione di sacro ha diritto ad
uno sconto nella moralità
della vita ordinaria». In difficoltà nel dialogare con una
società indifferente, quando
non ostile, la chiesa quando
inter viene nel dibattito pubblico dà l’impressione sgradevole di una lobby preoccupata soprattutto dei propri spazi e del proprio futuro. Per avere un finanziamento per un’opera buona
si cercano raccomandazioni
e deroghe. Ai principi incrollabili si accompagnano
comportamenti trattabili.
«C’è qualcosa di strano in
una comunità cristiana in
cui i laici sono invitati in sacrestia, mentre preti e vescovi inter vengono continuamente su questioni di economia, diritto, sociologia,
politica internazionale». Fede e ragione non sono in
contrasto. Non c’è un “tiro
alla fune” tra due contendenti. La fede «ci precede,
pone le domande». Dobbia-
mo allargare lo spazio del
credere: «Considerarlo come l’orizzonte originario e
più comprensivo dentro il
quale può allargarsi anche
lo spazio della razionalità».
La fede non sfugge alla prova del dubbio. Non ha bisogno di una falsa certezza. All’opposto, il razionalismo diventa «un simulacro, con il
quale cerchiamo di mascherare l’idolatria della certezza, che è un ostacolo alla vera conoscenza e quindi la
forma peggiore di irrazionalismo». Con linguaggio chiaro e partecipe, Alici torna a
porre le domande fondamentali che ciascuno di noi,
credente o non credente, incontra nei momenti decisivi
della propria vita.
PASQUALE ROTUNNO
SALVO D’AGOSTINO, Fra storia e
memoria. Ricerca e insegnamento
nella fisica italiana, Barbieri Selvaggi Editori, Manduria 2009.
Ridefinire i rapporti tra
scienza e società è possibile
solo guardando alla dimensione storica della ricerca
scientifica. Per evitare malintesi o paure ingiustificate gli
scienziati devono saper comunicare le loro scoperte.
La didattica della scienza è
un momento non secondario
dell’attività di un buon ricercatore. Il Nobel Enrico Fermi, ad esempio, aveva una
straordinaria capacità didattica. Dalla scienza non vanno
separate questioni tradizionalmente classificate come
filosofiche. Er win Schrödinger, padre della fisica quantistica, asseriva la sostanziale
unità della conoscenza. Solo
Nuova Civiltà delle Macchine 3/2009
173
dall’unione dei saperi scaturisce il valore autentico della
conoscenza. Purtroppo l’insegnamento medio e universitario è frammentato in materie, come se il mondo fosse
realmente str utturato allo
stesso modo dei raggruppamenti concorsuali. D’altro
canto, la formazione scientifica dei giovani soffre di
un’angustia dovuta al “dogmatismo culturale” di una
parte dell’élite scientifica,
che rifiuta “una cultura valutativa problematica”. In tal
modo allontana dalle carriere scientifiche giovani sensibili ad esigenze riflessivo-critiche. Danneggiando così la
stessa scienza e la cultura
scientifica del Paese. L’autore denuncia perciò «il perdurare di culture paleo-umanistiche che si oppongono
alla cultura scientifica». Il libro è un importante contributo di riflessione sulla ricerca e l’insegnamento della
fisica in Italia. Se gli scienziati vogliono contare di più
nella decisione politica, devono modificare la for mazione tipica della stessa comunità scientifica. E dar vita
a d u n « n u ovo u ma nesimo
scientifico». Non a caso l’importanza della componente
umanistica per lo sviluppo
della conoscenza scientifica
è stata ribadita da tutti i
grandi maestri della scienza
moder na: Einstein, Schrödinger, Pauli, e i nostri premi Nobel Carlo Rubbia e Rita Levi-Montalcini.
Di notevole interesse sono le analisi sull’insegnamento scientifico e la pedagogia della ricerca. Il grande
fisico Enrico Persico richiamava spesso l’importanza
del “contesto” nella scienza,
cioè della ben determinata
situazione storica in cui avviene una scoperta. La sottovalutazione o l’ignoranza del
contesto da parte dell’insegnante ha come conseguenza un impoverimento concettuale della scienza. Perché determina un artificiale
isolamento tra discipline. La
pratica didattica tende a
ignorare i punti di contatto
“ester ni”, che collegano le
diverse scienze in un dato
periodo. Una componente
umanistica è parte determinante in qualsiasi attività di
insegnamento. Nell’apprendimento di qualsiasi tecnica
è, infatti, determinante l’espressione linguistica e grafica. Purtroppo la fisica è insegnata come una «retorica
delle conclusioni». I costrutti scientifici della scienza, di
per sé fluidi e congetturali,
sono presentati come verità
empiriche immutabili. Questo «appiattimento epistemologico» genera alla fine
disinteresse. Inducendo la
convinzione che la maggior
parte delle cose della fisica
riguardi “verità” indiscutibili, quasi dogmatiche. Il contrario insomma dello spirito
critico insito nell’approccio
scientifico alla realtà.
Lo spirito di ricerca si
esercita contemporaneamente su una scienza e sul
suo metodo. È quella che
Ernst Cassirer definisce “riflessione critica” dello scienziato sulla sua scienza, tipica
della fisica moder na degli
inizi del Novecento; a riprova del ruolo essenziale che la
cultura e la riflessione filosofica hanno nella ricerca
scientifica. L’avversione per
la filosofia, che Cassirer riscontra in troppi scienziati,
si manifesta come un discredito dell’intera tradizione fi-
Nuova Civiltà delle Macchine 3/2009
174
losofica europea. Un discredito inspiegabile, se solo si
pensa che è l’Europa il luogo di nascita del pensiero
scientifico. Eppure, «la reciproca compenetrazione tra
scienza e filosofia si è dimostrata positiva nella grande
tradizione del pensiero occidentale e orientale». Sono
numerosi e sapienti, poi, gli
accenni di D’Agostino alle
peculiarità del nostro mondo accademico. Al contrario
di quanto avviene all’estero,
da noi le citazioni nei saggi
scientifici privilegiano quasi
esclusivamente i grandi nomi. A scapito dei “parigrado
scientifici”, cioè dei giovani
ricercatori anch’essi duramente impegnati nel decollo
pubblicistico. Esaminando i
nomi citati nelle riviste
scientifiche specializzate,
D’Agostino rileva che «la costante preoccupazione è
quella di citare solo personalità eminenti nei rispettivi
campi di ricerca, ignorando
i contributi a volte molto più
pertinenti di colleghi italiani, per lo più giovani e agli
inizi di importanti ricerche».
Viene così penalizzato l’atteggiamento critico, che si
può esercitare meglio tra pari. Nei paesi anglosassoni le
critiche anche dure “alla pari” sono considerate un gradito stimolo a migliorare la
ricerca. Si apre qui la questione del reclutamento dei
docenti universitari e dei criteri di valutazione da adottare. Il conformismo intellettuale può abbondare pure
tra gli scienziati. Il libro offre quindi validi spunti di riflessione per il rinnovamento del nostro insegnamento
scientifico.
P. R.
L UCA S ERIANNI , G IUSEPPE B E N E D E T T I , Scritti sui banchi.
L’italiano a scuola tra studenti e insegnanti, Roma, Carocci, 2009.
Fondandosi su un corpus di
compiti in classe del primo anno di scuola superiore provenienti da tutte le regioni d’Italia e da varie tipologie di scuola, corretti da oltre 100 insegnanti diversi, Serianni, professore ordinario di Storia della lingua italiana all’Università
“La Sapienza” di Roma, e Benedetti, docente di italiano e
latino nella scuola superiore,
analizzano i tratti dell’italiano
della scuola e le modalità con
le quali la didattica linguistica
è organizzata e si esplica entro
un sistema scolastico scarsamente considerato nella sua
complessità.
Un documentato excursus
sulla natura delle prove atte a
valutare la competenza linguistica, nel quale si spazia dalle
aspettative insorte sul “tema”
nel corso della sua storia all’introduzione, con vari esiti, di altre tipologie di testo, soffermandosi poi sul sistema di valutazione degli scritti di italiano, introduce i protagonisti
del libro: si tratta dei testi elaborati dagli studenti, riportati
in versione originale e corredati dalle correzioni, dai voti e
dai giudizi degli insegnanti.
Tra di essi si inseriscono le note degli autori, che entrano
nel merito delle “tracce” proposte, delle tipologie più comuni di errore e di come i docenti siano inter venuti su di
esse, facendo emergere diversi
elementi interessanti, dal divario tra istituti tecnici e licei alle
difficoltà degli studenti stranieri. Emergono, nel contempo, diversi punti critici: l’ambi-
gua separazione tra “forma” e
“contenuto” della quale talvolta si trova menzione nei giudizi, la presenza di valutazioni
che oscillano tra l’assenza di
chiarezza e la mania dell’integrazione, la presenza di correzioni talvolta incoerenti, condizionate dalla concezione che
competenza linguistica significhi, tout court, rispetto della
grammatica normativa e scarsamente attente all’adeguatezza pragmatica, tanto che, ad
esempio, nelle mende ad articoli di giornale capita che si
correggano termini poco marcati, o si intervenga su uno stile nominale, con commenti
come “troppo giornalistico”
oppure “è un tema!”. Risaltano, infine, le difficoltà che la
scuola ha avuto nel trovare un
modello linguistico adeguato
«[...] tra lo Scilla di un ingessamento linguistico nell’antiparlato e il Cariddi di una indifferenziazione tra scritto e orale
[...]» (p. 159), e gli effetti che
la ricerca, talvolta incondizionata, di un registro “alto”, ha
avuto sull’italiano scritto degli
studenti.
La condivisione di esperienze e competenze dalla
quale nasce il lavoro permette
di offrire dunque un quadro
completo, nel quale i dati più
strettamente linguistici relativi
all’“italiano a scuola” emergono, vivi, nel loro inscindibile
legame con la quotidiana
realtà della prassi didattica. Al
fine di fornire una competenza linguistica consapevole, gli
autori suggeriscono, fra le righe, che si dovrebbe «[...] riconoscere la compresenza di
più norme, corrispondenti alle
varietà linguistiche, evitando
posizioni eccessivamente rigide [...]» (p. 160) e «[…] addestrare all’uso dei registri linguistici» (p. 142), introducen-
do correzioni chiare ed analitiche, che non facciano apparire la scuola come il mondo
dell’errore indistinto, nelle
quali accanto al rosso e al blu
«[...] occorrerebbe prevedere
il verde […]» (p. 111), per
premiare soluzioni particolarmente felici. Prima ancora di
tutto questo, occorrerebbe, anziché delegare all’esterno la
valutazione “oggettiva” di problemi, restituire ai veri soggetti
di questo mondo, docenti e discenti, il ruolo che è loro proprio, fornendo agli insegnanti
modi e mezzi, possibilità e
tempo, per elaborare soluzioni
attraverso l’aggiornamento
culturale e attraverso una riflessione continua sulla propria attività, che può essere migliorata, di volta in volta, solo
in relazione alla realtà che si
ha di fronte e si vive quotidianamente. Coinvolto da una lettura piacevole e interessante, il
lettore è condotto nel vivo dell’attività didattica dell’italiano
scritto e reso partecipe di un
dibattito che è, e deve essere,
inesauribile, perché focalizzato sul rapporto tra due realtà,
la scuola e la lingua, in continuo divenire.
SILVIA CAPOTOSTO
M AURIZIO V IROLI , L’Italia dei
doveri, Milano, Rizzoli 2008.
«Senza doveri non c’è libertà». Una società formata da
cittadini persuasi di avere soltanto diritti degenera nel dominio dei prepotenti sui deboli, dei furbi sugli onesti. Tutti
pensano di avere diritti. Pochi
riconoscono che i diritti impongono di assolvere dei doveri. Purtroppo, in Italia, se qualcuno prova a richiamare il sen-
Nuova Civiltà delle Macchine 3/2009
175
so del dovere, è subito zittito
con l’epiteto di “moralista”. I
diritti sono stati elaborati e invocati per proteggere la dignità
degli esseri umani dalle varie
forme di degradazione e di oppressione. Ma senza doveri i diritti si trasformano in privilegi
odiosi o diventano del tutto illusori. I diritti hanno bisogno
del senso del dovere. Ovvero
del rispetto delle regole e dei
principi morali non per interesse o timore di legge, ma semplicemente per l’obbligo che si
ha nei confronti della propria
coscienza. Senza medici e personale sanitario con senso del
dovere, il diritto alla salute diventa una crudele finzione.
Senza maestri e professori con
senso del dovere, il diritto all’educazione e alla cultura diventa privilegio di pochi. Senza
amministratori e senza cittadini
che sentano sul serio il dovere
di conser vare e abbellire le
città e l’ambiente naturale, il
diritto di ammirare il nostro patrimonio storico e artistico e di
vivere in un ambiente bello e
salubre lascia il posto a una vita
in città e ambienti degradati e
degradanti.
Non c’è progresso economico senza fiducia reciproca. Per
poter cooperare è necessaria la
fiducia. E la fiducia nasce dal
senso del dovere. Se manca il
senso del dovere dilaga la corruzione. Se vogliamo evitare la
decadenza morale e civile, “la
strada obbligata è ritrovare il
senso del dovere e farne non solo il fondamento della consapevolezza dei diritti, ma elevarlo a
principio ispiratore della nostra
vita”. Questo non vuol dire che
mentre i diritti sono libertà, i doveri rappresentano una costrizione. Anzi, il dovere è la vera libertà: perché è la nostra coscienza a considerare giusta una
determinata azione e dunque
avvertiamo il dovere di compierla. Il dovere non può essere imposto né comandato; né può essere stimolato con la promessa
di un premio o la minaccia di
una sanzione. Solo la nostra coscienza può comandarci il dovere. Oltre ad essere l’espressione
della libertà interiore, il senso
del dovere è condizione necessaria dei diritti e delle libertà, civili e politiche.
L’enfasi sui diritti fa dire, ad
esempio, che il fondamento della democrazia è il diritto di parlare. In realtà, sostiene Viroli, «il
fondamento della democrazia,
e della vita civile, è il dovere di
ascoltare». La democrazia, ha
scritto il filosofo Guido Calogero, non è il paese degli oratori,
ma il paese degli ascoltatori.
Certo la libertà di esprimere la
propria opinione è sacra. Eppure, se tale diritto non è accompagnato dal dovere di ascoltare,
la democrazia degenera nel governo dei ciarlatani, dove tutti
parlano e nessuno ascolta. L’immagine delle aule parlamentari
vuote, o dove un oratore parla e
nessuno ascolta, segnala una
malattia della democrazia. Come pure i “dibattiti” televisivi dove tutti parlano e nessuno ascolta. Saper ascoltare è più difficile
di saper parlare: esige, infatti, rispetto dell’altro, raccoglimento
e disponibilità. Saper ascoltare
vuol dire capire bene l’argomento che ci viene proposto. Ed
evitare tanto di “capire senza
giudicare” quanto “giudicare
senza capire”. Chi sa ascoltare
parla con quella saggezza che è
l’anima del vivere civile. La corruzione del vivere civile non viene dalla retorica, ma dalla cattiva retorica.
Il problema più difficile
per quanto riguarda il senso
del dovere è riuscire a estenderlo e diffonderlo nell’animo
dei cittadini. Non si può impor-
Nuova Civiltà delle Macchine 3/2009
176
lo per legge. L’esempio deve
venire dall’alto. Machiavelli osservava: «non si dolgano li principi delli peccati de’ populi,
perché li peccati de’ populi nascono dalli peccati de’ principi». Primo dovere di chi governa e di chi siede nelle assemblee legislative è quello di parlare e agire in modo da incoraggiare nei cittadini il senso
del dovere. La nostra cronica
mancanza di senso civile non è
né un dato naturale né una
condanna divina. C’è bisogno
di religione per far nascere il
senso del dovere? Secondo Viroli no. Ciò non vuol dire che la
fede sincera in una religione
non sia valido aiuto alla vita morale. Norberto Bobbio faceva
notare con quanto impegno e
sacrificio i religiosi si dedicano
al ser vizio degli altri. L’insegnamento evangelico, concede
Viroli, si accorda con il dovere
civile perché ha riscattato la coscienza morale da ogni autorità
terrena; ma anche per il suo
contenuto fondamentale, vale
a dire la legge della carità: la
virtù che insegna a mettere il
bene comune al di sopra del bene particolare o individuale.
Sbaglia perciò chi ritiene di dover tenere la religione fuori dalla vita pubblica; ma anche chi
ne invoca una presenza maggiore. I primi sbagliano perché
rifiutano tanto il male quanto il
bene che la religione può dare
alla vita civile. I secondi perché
sarebbe velleitario far accettare
ai non credenti leggi e norme
che hanno valore esclusivamente per chi crede in una particolare religione rivelata. Una rinascita del senso del dovere può
venire perciò dalla mobilitazione delle persone di buona volontà. Com’è avvenuto nei momenti alti della storia italiana.
P. R.
Summaries
GUIDO GILI
Responsibility in the communicative relationship
VIRGINIO MARZOCCHI
The ethics of communication
or of argumentation?
Responsibility is a constituent element of communication and communicative
behaviour. In posing a question on responsibility, one implies the positioning of oneself within a level of discourse
pertinent to the “ontology” of
communication and, subsequent to this, to the ethics of
communication.
Firstly, I describe the cultural framework in which the
discourse ethics of K.-O. Apel
and J. Habermas emerges, i.e.
the debates on the difference
between explanation and understanding in the sphere of
social sciences and the consensus theory of truth of the abovementioned authors. Secondly,
I address the way in which
these thinkers interpret and
revise the speech act theor y of
J.L. Austin and J. R. Searle.
Thirdly, I explain why the
pragmatic-discursive understanding of communication
represents a decisive break
with a widespread perspective, that reduces communication to a mere propositional
exchange on states of things
and mental states. Finally, I
criticize the Habermasian approach by showing how it
tends to idealize the ordinary
ADRIANO FABRIS
For ethics of communication
today
Communication is not a
show and neither is it indifferent in the face of truth. Whoever communicates is held to
account with regards to that
which is said, the persons one
addresses and to oneself. Respect in this sense defines the
communicator’s reliability.
communication of lifeworld
and consequently to disregard
the risks connected to a restricted and/or blocked communication. I conclude that only
an adequate theory of meaning is able to establish the criteria and perspectives that the
propositional contributions
of participants should follow
in order that their practical
consensus may be qualified
and not only factual.
VALERIO MEATTINI
Elements for a discourse on
ethics
Tugendhat’s proposition
of a “moral minimum” which
does not involve superior
truths but “weak thinking” has
the advantage, when compared to the discourse ethics,
of acknowledging that it is
not so much communicative
discourse in itself which is
fundamental, but rather that
which is allowed to emerge
Nuova Civiltà delle Macchine 3/2009
177
through discourse as reasons
in its justification.
DANIELLA IANNOTTA
Language, action, communication: a question of ethics
Ever y distortion of language, in the measure to
which it represents an abuse,
denies the vocation of language itself, namely saying
something to someone. In
agreement with Ricoeur, the
authoress analyzes the categories of forgiveness and giving within the communicative context.
GIAN PIERO JACOBELLI
The ethics of Babel
Communication ethics
plays a major role, after the
crisis of scientific thought, in
the recent renaissance of
ethics: because of its founding
value, according to the Aristotelian view of the being as
communication; because of its
innovative value, with
a view to liberating ethics from
the ties of morals and deontology; because of its community
value, with a view to an appre-
ciation of anthropological differences. Within this ethic dimension, communication itself can be reconsidered, with
reference to the biblical tale of
Babel and the hermeneutics
of translation.
RENATO STELLA
The good moral of television
The author discusses aspects concerning the representation of ethics in television communication. He
highlights the need to reflect
on “how television may contribute to defending the
ethics of the world as a
whole”, and not “how television must function ethically”.
ENRICO MORRESI
Ethics and journalism: the
question of objectivity
Although it is difficult to
d e f i n e o b j e c t i v i t y, i t i s
nonetheless possible to define certain conditions enabling one to draw closer to
the truth: detachment, non
partisanship, reverence for
facts, balance and transparency.
Nuova Civiltà delle Macchine 3/2009
178
DARIO E. VIGANÒ
Notes on ethics in film
The paper analyzes subject matters surrounding the
end of life in certain successful films. With reference to
the Biblical figure of Elijah,
he calls for the restoration of
the categor y of listening.
GIULIANA DI BIASE
For ethics in political communication
An ethically oriented
form of political communication acts in the ser vice of citi z e ns , i ncr e a s i ng no t o nl y
their political competence
but also their interest in the
public domain.
MARICA SPALLETTA
Ethical dilemmas in public
communication
Studied from the perspective of the social effects
they generate, the instr uments of unconventional
marketing represent an interesting phenomenon to be
studied and obser ved also
from an ethical perspective.
Hanno collaborato a questo numero
Silvia Capotosto
Cultore della materia in Glottologia e Linguistica, Università di Roma Tor Vergata
Virginio Marzocchi
Professore ordinario di Filosofia politica e
sociale, Sapienza-Università di Roma
Giuliana Di Biase
Docente di Etica e deontologia della comunicazione, Università Gabriele D’Annunzio
Chieti-Pescara
Valerio Meattini
Professore ordinario di Filosofia teoretica,
Università di Bari
Adriano Fabris
Professore ordinario di Filosofia morale,
Università di Pisa
Guido Gili
Professore ordinario di Sociologia dei processi
culturali e della comunicazione, Università
del Molise
Onorato Grassi
Professore ordinario di Storia della filosofia
medioevale e direttore del Centro Europeo
di Ricerche Filosofiche, LUMSA, Roma
Daniella Iannotta
Professore associato di Etica della comunicazione,
Università di Roma Tre
Gian Piero Jacobelli
Docente di Etica della comunicazione e Semiotica
della moda, Sapienza-Università di Roma
Enrico Morresi
Giornalista, presiede la Fondazione del
Consiglio Svizzero della Stampa
Pasquale Rotunno
Giornalista professionista, Rai, Roma; docente
LUMSA e Università del Molise
Marica Spalletta
Docente di Cultura, etica e deontologia della
comunicazione, LUISS-Guido Carli
Renato Stella
Professore ordinario di Sociologia delle comunicazioni di massa, Università di Padova
Dario Edoardo Viganò
Professore di Semiotica e di Storia e critica
del cinema, preside dell’Istituto Redemptor
Hominis, Pontificia Università Lateranense
Nuova Civiltà delle Macchine 3/2009
179
Titoli fascicoli pubblicati
• Kant e la scienza
• Individuo, stato, libertà
• Marx: scienza e ideologia
• Scienza: metodo e storia
• Sociologia e storia
• Riflessioni sulla tecnologia
• 1984: comincia il futuro
• Origine e sviluppo dell’uomo
• Mente e cervello
• La ragione nel diritto
• Il concetto di regola
• Verso un nuovo sapere
• Spazio, tempo, evoluzione
• La razionalità nella scienza e
nella politica
• Le scritture della ragione
(Italo Calvino)
• Galileo e Copernico
• Ragione: scienza e morale
• Conoscenza e intelligenza
artificiale
• Oriente e Occidente
• Strategie nel guarire
• Percezione e memoria
• De anima
• Il futuro del lavoro tra
utopia e realtà
• Lo spazio dell’ingegneria
nella scienza moderna
• Newton e Mach
• Dal profondo del pensiero
• Scienza e tecnica per la
qualità della vita
• Scienza e tecnica nel mondo
classico
• Nel crepuscolo della
probabilità. Etica e politica
• Dagli automi all’automazione
• Metodo e circolazione delle
conoscenze
• Della felicità
• Scienza e tecnica nel Medioevo
• Le scienze e i problemi della
filosofia
• Machina multa Minax
• Scienza e tecnica nel
Rinascimento
• Intelligenza Artificiale
• Filosofia e fisica
• La malattia e i suoi modelli
• Tecnica e filosofia
• Tecnologia e società
• Oltre la pietra - Scienza,
filosofia e teologia
• Musica: le ragioni delle
emozioni
• Il mestiere dello scienziato
sociale
• Il profilo del tempo
• Il senso del tempo
• Economia e creatività
• Tra scienza e politica;
Carlo Matteucci
• Il romanzo tra scienza e
filosofia
• La scienza e l’errore
• L’alfabeto di Pitagora
• La vittoria di Babele
• Tecnologia e vita
• Libertà e responsabilità
della scienza
• Leggi di natura e teorie
della mente
• Karl R. Popper, 1902-2002:
ripensando il razionalismo
critico
• Etica, cultura, comunicazione
• Geymonat, filosofo
del rinnovamento
• Francesco Barone
• Scienza e Islam
• Filosofi italiani del Novecento
• La scuola nelle tecnologie
• Passati e presenti della televisione
• Riflessioni sulla chimica I e II
• Grammatiche del senso
comune
• Gli emisferi di Magdeburgo
• Incertezza e metodo in
medicina (I) e (II)
• Mente e natura (I) e (II)
• Einstein filosofo (I) e (II)
• Epistemologia e storiografia (I) e (II)
• Guido Bonatti:
astrologia, scienza e letteratura
• La sociologia relazionale
• Industria Ricerca Cultura (I) e (II)
• La razionalità dell’azione umana:
prospettive e orientamenti (I) e (II)
• Parole della scienza:
caso e probabilità
• Il medico, lo storico e il giornalista
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Nuova Civiltà delle Macchine 3/2009
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