Esilio e ritorno nella letteratura italiana del Novecento: l'esempio di Vittorio Sereni.
Premessa
Nella presente relazione vorremmo analizzare le tracce della categorie dell'esilo in un poeta come
Vittorio Sereni, che costituisce un caposaldo del canone letterario italiano del Novecento,
analizzando in particolare, all'interno della sua produzione, il primo periodo, quello costituito dalla
raccolta Frontiera (prima edizione nel XXX), al Diario d'Algeria, pubblicato per la prima volta nel
XXXX.
A premessa e pietra di paragone di questa analisi prenderemo in considerazione alcuni aspetti
dell'opera di un altro poeta, un vero e proprio "classico" della letteratura italiana del Novecento,
Giuseppe Ungaretti, e in particolare da un lato vedremo come in Ungaretti sia attiva piuttosto la
categoria della "migranza" intesa nelle forme che definiremo, e come questi assi costituiscano un
elemento portante delle rispettive poetiche e definiscano in entrambi i casi la dimensione
dell'appartenenza allo spazio culturale e identitario italiano.
Coordinate teoriche
Il paradigma dell'esilio, con tutte le sue possibili declinazioni (rappresentazione dell'esilio,
produzione letteraria dall'esilio, condizione di esule vissuta dallo scrittore, rappresentazione
dell'Italia come terra dell'esilio), costituisce un elemento potente dello specifico identitario della
letteratura italiana. Uno spunto assai stimolante in questa direzione già stato offerto da Asor Rosa
nel quinto volume della Letteratura italiana diretta dallo stesso, il saggio «La fondazione del laico»
(Asor Rosa 1986, 90-102), con cui si apre il volume tematico dedicato alle Questioni. In particolare
Asor Rosa, risalendo agli assi esistenziali e biografici che accumunano le cosiddette tre corone, gli
autori fondanti della tradizione letteraria italiana, Dante, Petrarca e Boccaccio, arriva ad individuare
la condizione «di esule, di apolide, di refoulé» come parametro comune di una situazione culturale
ed intellettuale che è stata alla base della loro produzione letteraria da "padri fondatori" di una
nuova letteratura:
«Non si può fare a meno di notare, infatti, che l'immensa mole di scoperte concettuali e letterarie dei nostri tre
grandi autori venne realizzata in circostanze biografiche che non possono non essere definite `eccezionali´.
Nessuno dei tre, infatti, ebbe – per non andare al di là di queste piú generali considerazioni – un rapporto
stabile e compiuto con il proprio luogo natale, la propria cittá, il proprio ambiente.» (Asor Rosa 1986, 90).
Partendo da questa felice intuizione storiografica, il tema è stato ripreso a più di venti anni di
distanza in un denso numero monografico del Bollettino di italianistica, coordinato dallo stesso
Asor Rosa, dal titolo significativo: La letteratura italiana e l'esilio. Quel riferimento al mancato
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legame stabile con un luogo, con una terra natale o sentita come propria ricorre anche
nell'etimologia fantasiosa, ma secondo certuni fondata, di Isidoro da Siviglia, «Exilium dictum
quasi extra solum. Nam exul dicitur qui extra solum est». Il discorso ha una sua estrema coerenza e
lucidità in quanto non può non avere un legame forte con l'esilio l'identificazione di una letteratura
come quella italiana, che per il suo carattere colto e la sua non corrispondenza, per secoli, con una
comunità di parlanti e con la lingua cui si potesse attribuire una distribuzione areale geografica
determinata, una territorializzazione che di fatto si sarebbe realizzata definitivamente solo nel 1861,
con la proclamazione del Regno d'Italia sotto lo scettro di Vittorio Emanuele II, prima Re di
Sardegna. Se dalle origini dell'arco storico della letteratura italiana passiamo al tratto opposto,
quello che copre il Novecento e i primi anni del XXI secolo, a questa condizione di esilio, di extraterritorialità, della letteratura italiana, durata formalmente dalle origini, forse con l'eccezione della
parentesi delle repubbliche e dei regni napoleonici fra Settecento e Ottocento, fino alla nascita del
Regno d'Italia, subentrano allora dei fenomeni che potremmo definire di esplosione e di implosione
delle frontiere faticosamente definite, da un lato il fenomeno dell'emigrazione, il rapporto
problematico con uno Stato che non poteva fornire a molti figli condizioni dignitose di vita, o
addirittura neanche il presupposto della sopravvivenza. Di qui la forza centrifuga che ha portato
tanti italiani in paesi stranieri europei ed extraerupei, un fenomeno puntualmente rappresentato e
registrato negli scritti sia di scrittori che ne sono testimoni, si di scrittori che ne sono stati
protagonisti. Quella che abbiamo definito invece implosione della frontiera è quel fenomeno per
l'Italia, diventato dagli anni Novanta del Novecento paese di immigrazione, da un lato si deve
confrontare con un fenomeno nuovo, che crea tensioni e reazioni contraddittorie, dall'altro trova
espressione di questo fenomeno sia nella rappresentazione degli scrittori italiani che con
l'esperienza, ormai consolidata, di scrittori immigrati che entrano con le loro opere scritte in lingua
italiana nel canone della letteratura italiana contemporanea.
L'attenzione al significato della categoria dell'esilio e della migrazione all'interno della letteratura, e
più in generale degli studi culturali, serve sicuramente per la lettura del connettivo letterario italiano
contemporaneo, che al pari di altre tradizioni letterarie, è arrivata al punto di confrontarsi con la
presenza di autori che provengono da culture e lingue diverse, e con un contesto da rappresentare in
cui saltano le tradizionali frontiere culturali, in quanto la presenza di persone con background
migratorio comincia a caratterizzare visibilmente anche la società italiana.
Nella stessa ottica vorremmo applicare ad un poeta del Novecento nella cui opera una forma
particolare di esilio ha segnato un marchio particolare, ma per il quale potremmo anche dire che la
ricerca di un legame di appartenenza e di un territorio sentito come proprio ha costituito un
elemento importante.
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Se dagli albori della parabola storica della letteratura italiana ci spostiamo alla sua fase più vicina a
noi, e in particolare alla letteratura del Novecento, possiamo monitorare il peso che l'elemento
dell'esilio ha continuato ad avere. Si potrebbe quasi affermare che la categoria dell'esilio, in una
realtà frammentata e plurale come la geografia culturale su cui insiste la letteratura italiana possa
costituire una sorta di collante, di elemento unificante. Talora la figura dello straniero o di chi in
straniero viene trasformato per sottrazione o allontanamento può costituire quello sguardo
dall'altrove che aiuta a percepire meglio i contorni dell'identità. Vorremmo accostarci a questo
dittico composto da identità italiane ed esilio, all'interno della letteratura italiana, attraverso un
percorso poetico, per mostrare come parallelamente a quello che Asor Rosa aveva individuato per
quanto riguarda la genesi della poesia di Dante e Petrarca, la componente dell'esilio si ritrova anche
nella linea della poesia italiana del Novecento.
Il modello ungarettiano
La dimensione dell'esilio, o meglio della migranza, è una vera e propria caratteristica peculiare nella
poesia di Giuseppe Ungaretti, nato e cresciuto ad Alessandria d'Egitto, che ha portato nella sua
lirica tutte le tracce della sua terra di origine, cui si incrociava il senso di appartenenza della
famiglia, costituita da emigranti lucchesi:
«A casa mia, in Egitto, dopo cena, recitando il rosario, mia
madre ci parlava di questi posti.» (L'Allegria. Prime, Lucca, 1-2)
«Una donna s'alza e canta
La segue il vento e l'incanta
E sulla terra la stende
E il sogno vero la prende.» (Sentimento del tempo, L'AMORE, Canto beduino, 1.4)
«E una delle Arabe accalcate, scatta,
Fulmine che una roccia graffia
Indica, e, con schiumante bocca attesta:
Un mahdi ancora informe nel granito,
Delinea le sue braccia spaventose;
Ma mia madre, Lucchese,
A quella uscita ride
Ed un proverbio cita:
Se di Febbraio corrono i viottoli,
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Empie di vino tutti i ciottoli.» (Un Grido e Paesaggi, Monologhetto, 154-163)
La categoria dell'esilio si lega alla definizione nazionale identitaria anche attraverso l'elemento del
confine, o della frontiera, anche questo ricorrente nella poesia del Novecento. In particolare per
quanto riguarda Ungaretti tutta la sua identità composita, da (e-)migrante e da esiliato, si ritrova
sintetizzata nella lirica dal titolo significativo Italia. Ci troviamo all'interno della prima raccolta
poetica di Ungaretti, Il porto sepolto pubblicata nel 1916, quindi confluita in Allegria di naufragi
del 1919 come sezione, conservando il titolo originale. prendendo in considerazione la prima
edizione, si tratta di una raccolta costituita da 33 liriche scritte al fronte durante la prima guerra
mondiale, anche su supporti di fortuna, e pubblicate per iniziativa del sottotenente Ettore Serra, che
aveva conosciuto tramite riviste letterarie alcune poesie pubblicate precedentemente da Ungaretti
(cfr. Piccioni 1971, 54-55). Significativamente Ossola apre così la presentazione della sua edizione
critica:
«`Amo le mie ore di allucinazione [...]. Anche le mie ore di randagio, d'immaginario perseguitato in esodo verso una
terra promessa´ (G. Ungaretti, lettera a G.Papini del 25 luglio 1916 dalla Zona di guerra; inedita).
1. Verso i miti
Introdurre al Porto Sepolto con una citazione che presenta il `nomade´ già in viaggio, in esodo, verso la Terra
Promessa, significa già proporre al lettore – nella sua stesura originaria – non già e non solo un'`opera prima´, o il
modello presente (come scrive Vittorio Sereni nella lezione qui citata a suggello di Poesia) a due generazioni di poeti;
implica insieme la persuasione che quell'opera non sia un incipit, ma un'origine, il nucleo generatore primo, e più
fecondo, dei grandi miti ungarettiani di `riconoscimento´ e di `quête´ sino – appunto – alla Terra promessa.» (Ossola
1981, VII)
Nella sua presentazione del Porto Sepolto, Ossola da un lato mette in gioco la centralità del tema
della migranza, dell'esodo, dall'altro la rilevanza, quasi la centralità di questa raccolta sia all'interno
dell'opera poetica di Ungaretti, anche in quanto modello per i poeti successivi che a lui si sono
ispirati, fra cui anche Vittorio Sereni.
In effetti già il titolo, tratto dalla seconda lirica della raccolta, una sorta di argomento, che segue la
dedica all'amico e compagno di studi morto suicida In memoria, fa riferimento significativo a quello
che costituisce il punto di partenza, cui l'esule spera di approdare di nuovo un giorno, ma che è
significativemente sepolto, arenato, non più agibile. Nella raccolta troviamo anche la lirica Italia,
dove Ungaretti enuncia la propria identità composita di migrante:
«Sono un frutto
d'innumerevoli contrasti d'innesti
maturato in una serra» (L'Allegria, Il porto sepolto, Italia, 4-6)
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Si tratta di un'autorappresentazione identitaria particolarmente pregnante, in ritroviamo sia il
Ungaretti scrive queste liriche durante la guerra cui ha partecipato soprattutto nel luogo della
trincea, come risulta dalle date e dei luoghi apposti in calce ai singoli componimenti, ad esempio nel
caso di Italia la relativa data è Locvizza, il 1 ottobre 1916. In effetti la trincea costituisce la variante
più conflittuale, e al tempo stesso la più definita e la più indefinita delle linee di frontiera. Definita
perché marcata nettamente, indefinita perché non ancora sicura, labile. In effetti la linea di frontiera
costituita dalla trincea è una sorta di luogo a-topico da cui il poeta può contemplare direttamente
l'essenza dell'umanità al di là da ogni identificazione nazionale, come si può leggere ad esempio
nella lirica dal titolo Monotonia, di cui sembra significativa nella sua desolazione e nonappartenenza la collocazione spaziale nel toponimo «Valloncello dell'Albero Isolato»:
«Fermato a due sassi
languisco
sotto questa
volta appannata
di cielo» (L'Allegria, Il porto sepolto, Monotonia, 1-4)
La frontiera e l'appartenenza di Vittorio Sereni
Abbiamo fin qui insistito sulla corrispondenza fra la trincea, luogo di nascita delle liriche del Porto
sepolto, e la frontiera come elemento di delimitazione e di definizione del territorio di appartenenza,
anche in considerazione del fatto che l'esule si caratterizza per l'esclusione da quel territorio
delimitato dalle frontiere. Si è partiti da Ungaretti sia per il legame sottolineato da più parti fra la
poesia di Sereni e quella di Ungaretti, sia per la centralità della frontiera nella poesia di Sereni, o
quantomeno del primo Sereni. In effetti Vittorio Sereni ha sperimentato la condizione dell'esilio per
una fase cronologicamente assai limitata nell'arco della sua biografia, ma da un lato questa
esperienza si è inserita in una particolare sensibilità del poeta al tema della frontiera e
dell'appartenenza, dall'altro ha segnato profondamente la sua opera.
Se leggiamo la sua opera prima da questo punto di vista possiamo vedere nelle liriche di Frontiera,
la cui prima edizione risale al 1941, possiamo ritrovare come ricorrente il tema della definizione del
territorio (come suggerisce già il titolo), in cui si colloca da un lato l'appartenenza italiana, dall'altro
la più estesa patria europea, in primo luogo sulla linea di quella frontiera al tempo stesso presente e
assente del lago, dove Sereni è nato e costantemente legato:
«mentre ulula il tuo battello lontano
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laggiù, dove s'addensano le nebbie» (Frontiera, Inverno, 16-17)
Dal punto di vista biografico il lago Maggiore, e Luino in particolare, costituiscono la terra di
origine e anche il luogo ciclico di ritorno per vacanze e villeggiature, ma nei versi di Sereni dedicati
al lago, significativamente raccolti sotto il titolo di Frontiera, uscito nella sua prima edizione nel
1941 (Sasso 2002, 4), ritroviamo questo aspetto del lago, frontiera come luogo di definizione da
definire, e al tempo stesso luogo di transito e di scambio:
«UN'ALTRA ESTATE
Lunga furente estate.
La solca ora un brivido sottile
alle foci del Tresa
sì che alcuno ne trema
dei volti già ridenti,
ora presaghi.
Ma tutto quanto non soggiacque all'afa
s'appunta al volo
degli uccelli lentissimi del largo
avventurati negli oscuri golfi
di un'Italia infinita. (Frontiera, Un'altra estate)
In questo breve ma densissimo componimento ritroviamo tutti e tre gli elementi che caratterizzano
la "frontiera" di Sereni: (a) la labilità temporale, che si appoggia all'esperienza dell'alternanza delle
stagioni e in particolare alla caducità della stagione estiva che coincide con il soggiorno a Luino, (b)
il contorno indistinto della frontiera, in particolare di questa frontiera che corre sulle acque del lago,
(c) il concetto di frontiera come luogo di transito e di passaggio, qui indicato dagli uccelli. Da questi
elementi emerge la rappresentazione di una frontiera difficile da definire, non segnata in modo
univoco («Italia infinita»).
Paradossalmente laddove il «migrante» Ungaretti aveva avuto l'esperienza della più statica e
definita frontiera, quella segnata dai reticolati e dalle trincee nella Grande guerra, Sereni che nasce e
cresce con un radicamento culturale e territoriale ben più definito, fatica nella sua ricerca della
frontiera, un elemento che nelle sue liriche appare sempre come sfuggente e impalpabile, pur
ricorrendo come un'ossessivo refrain:
«PAESE
Era questo l'augurio: camminare,
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o frusciante di passi nella sera,
nell'oscura tua folla che trascorre
all'ombra fedele dei morti.
Ma tu neghi
e monotono ti chiudi
in prati grami d'inverno,
in disperate brughiere
che salgono verso il confine.» (Frontiera)
Come possiamo vedere ad un io dinamico, che invita alla migrazione, o quantomeno al viaggio, alla
partenza, ad una partenza che come accade all'Enea di Virgilio, è caratterizzata dalla presenza
rassicurante dei penati, della memoria dei morti che dà identità e appartenenza anche
nell'allontanamento, si contrappone il tu statico e sedentario («e monotono ti chiudi»), che cerca
disperatamente di aggrapparsi ad un territorio che gli sfugge, che si manifesta ostile («in prati grami
d'inverno»), e i cui confini si fanno oscuri e quasi minacciosi («disperate brughiere»). La presenza e
il ricordo persistente dei morti, simbolo di una memoria identitaria cupa ma rassicurante, si ritrova
anche in STRADA DI CREVA, dove il ricordo dei morti in coincidenza con la festa di Ognissanti
richiama tinte pascoliane (cfr. NOVEMBRE): «Questo trepido vivere nei morti.» (Frontiera, Strada
di creva, 15). Anche in questo testo, come in Paese, la frontiera assume caratteri indistinto e
funzione di passaggio, con la difficoltà di distinzioni identitarie fra quello che resta al di qua e
quello che si trova al di là:
«Ma dove ci conduce questo cielo
che azzurro sempre più azzurro si spalanca
ove, a guardarli, ai lontani
paesi decade ogni colore.
Tu sai che la strada se discende
ci protende altri prati, altri paesi,
altre vele sui laghi:
il vento ancora
turba i golfi, li oscura.» (Frontiera, Strada di Creva, 16-24)
Ritornano i «golfi» per indicare la natura irregolare e inesplorabile della frontiera del lago, ma
anche se la frontiera fosse nitida, a che cosa servirebbe: meglio piuttosto guardare al di là e vedere
che tutto è simile e si ritrovano, come al di qua, «altri prati, altri paesi, altre vele». In questo caso la
frontiera, luogo di passaggio, è intesa in un duplice senso, in quanto la strada di Creva, che dà il
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titolo al testo non solo è luogo del passaggio, ma anche limite della condizione dell'esistenza
umana, in quanto si tratta della strada che conduce al cimitero di Luino. A proposito della presenza
del viaggio e della storia letteraria di questa figura, si noterà solo per inciso il richiamo ariostesco in
questi versi, finemente dissimulato dall'enjambement:
«Altri fiumi, altri laghi, altre campagne,
Sono lassù, che non son qui tra noi;
Altri piani, altre valli, altre montagne,
C'han le cittadi, hanno i castelli suoi,
[...]» (Orlando furioso, XXXIV, 72)
Come si può notare sia nel catalogo di Sereni che in quello ariostesco ricorrono elementi naturali
del paesaggio accanto ad elementi antropici. Il paesaggio dell'oltretomba evocato da Sereni,
collocandosi sulla scia del viaggio sulla Luna di Astolfo alla ricerca del senno di Orlando, assume
connotati di geografia fantastica piuttosto che di escatologia dantesca, ma ottiene anche l'effetto di
dare una valenza speculare alla frontiera, in questo caso fra regno dei vivi e regno dei morti, in
quanto dall'altra parte si ritrova un paesaggio speculare a q uello sentito come proprio.
Un'ulteriore declinazione del paradigma della frontiera è quella fra città e ciò che città non è più.
Potremmo quasi leggere in alcune liriche di Sereni un'anticipazione di quelli che saranno codificati i
non-luoghi della post-modernità. Si veda ad esempio il ruolo di frontiera assunto nell'esempio
seguente da elementi come strade di periferia, ponti della ferrovia, sottopassaggi e anonime
campagne fuori dalla città. Ad esempio in Canzone lombarda l'attaccamento alla città di Milano e al
tempo stesso il desiderio di uscirne dai confini è ben espresso nel canto delle ragazze, che esprime i
confini non più individuabili della moderna città in periferia:
«- Digradante a cerchi
in libertà di prati, città,
a primavera» (Frontiera, Canzone lombarda, 9-11)
Il desiderio di evasione e di superamento dei confini della città diventa quindi contrapposizione fra
gli elementi della natura e gli elementi anonimi della struttura della metropoli moderna, con la forte
assonanza dei tre termini chiave, che da un ritmo cadenzato a tutto il finale:
«E noi ci si sente lombardi
e noi si pensa
a migrazioni per campi
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nell'ombra dei sottopassaggi» (Frontiera, Canzone lombarda, 13-16)
Tali elementi della non-topografia urbana ritornano in altre liriche, come 3 dicembre:
«All'ultimo tumulto dei binari
hai la tua pace, dove la città
in un volo di ponti e di viali
si getta alla campagna» (Frontiera, 3 dicembre, 1-4)
Come vediamo il poeta concentra quelli che sono i luoghi creati dalla moderne vie di
comunicazione per indicare quell'intrico di strutture che caratterizza la terra di nessuno fra la città e
la campagna circostante. Inoltre tali elementi topografici (o non-topografici), vengono descritti con i
termini che ne indicano la spinta invasiva verso la campagna (volo, si getta). Da notare anche che la
pace e la serenità idilliaca che tradizionalmente è attribuita alla campagna, viene qui risolta in
sensazione sonora e anche motoria, in quanto si individua come luogo di frontiera della pace il
punto in cui la fine degli scambi e dei bivi ferroviari rende più regolare la marcia del treno, con la
conseguente sensazione di pace.
Ma questa definizione sfuggente del proprio territorio attraverso il tracciato di una frontiera
indefinita si allarga talvolta a comprendere la comune patria europea, un concetto, quello di Europa,
che suonava fortemente utopistico negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale, ma di
cui l'esule interiore non rinuncia a costruire nella sua poesia:
«A quest'ora
innaffiano i giardini in tutta Europa.» (Frontiera, Concerto in giarddai tuoi spaltiino, 1-2)
Questi versi introducono una sinfonia di vitalità che esprime l'anelito ad alzare lo sguardo e il cuore
e a vedersi appartenenti all'unica realtà identitaria europea. Un concetto che ritorna in Diario
d'Algeria, allorché il poeta si trova ad attraversare la città di Belgrado destinato al fronte greco:
«E non so che profondità remota
di lavoro e di voci dai tuoi spalti
celebra una tranquilla ora d'Europa
nata con te tra due chimere» (Diario d'Algeria, Belgrado, 5-8)
Qui come si vede l'idea di Europa è sospesa fra idillio o utopia di pace, guerra e separazione,
suggerita dagli spalti e mito con le due chimere. Queste chimere che appaiono durante il viaggio
non possono non richiamare la chimera di un precedente viaggiatore ed esule ormai perduto, Dino
Campana.
Se, come abbiamo cercato di mostrare in questi sondaggi a campione, il migrante interiore Sereni
esprime in Frontiera il suo bisogno di mappe di definizione identitaria dello spazio e lo scoramento
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di fronte alle frontiere non facilmente individuabili e indistinte, come quella fra città (moderna) e
campagna, in Diario d'Algeria si costruisce attorno all'esperienza biografica, ma anche letteraria,
dell'esilio/prigionia in Africa, tutto un romanzo poetico incentrato proprio sull'esilio in Africa.
Seguendo le tre sezioni della raccolta si possono individuare in effetti i tre momenti di tale
romanzo: (1) il percorso preparatorio dell'esilio – La ragazza d'Atene, (2) l'esilio – Il diario
d'Algeria, (3) i postumi dell'esilio – Il male d'Africa.
Come abbiamo visto precedentemente in Ungaretti era stata un elemento centrale della creazione
poetica la condizione di migrante che ha trovato il più radicale radicamento territoriale, quello di
soltato che combatte in trincea. Nel caso di Sereni, che ha Ungaretti per maestro ed esempio, si
ritrova al centro della poetica la condizione di esule, preannunciata e quindi vissuta realmente in
occasione della prigionia in Africa. Il Diario d'Algeria di Sereni, uscito per la prima volta nel 1947.
Il titolo dell'opera esplicita la caratteristica autobiografica e cronachistica della raccolta poetica, in
quanto costituita da singoli componimenti datati che ci narrano le vicende del personaggio-poeta.
Nella prima sezione La ragazza d'Atene, le liriche seguono le vicende dell'interminabile marcia
verso il fronte di Sereni, che per alterne vicende non riuscirà a raggiungere la destinazione prevista
che era la Tunisia: prima viene bombardato l'aeroporto di Castelvetrano da cui doveva partire, poi il
raggimento viene inviato in Grecia, ma qui deve ritirarsi per la sconfitta delle truppe italo-tedesche,
quindi viene destinato alla Sicilia, ma anche da qui non riesce a partire per l'Africa perché nel
frattempo le potenze dell'Asse hanno ne perso il controllo.
In La ragazza d'Atene si segue questo esilio in negativo, questa impossibilità di esserci, di prendere
parte alla guerra che era sentita anche come dovere etico, ed anche in questo caso il luogo come
reticolo di confini e di strade e la dicotomia città/campagna, fa da scenario della condizione di esule
del poeta, come si legge nella lirica d'esordio della raccolta, che racconta il distacco da Milano del
poeta richiamato alle armi: «La giovinezza è tutta nella luce / d'una città al tramonto / dove straziato
ed esule ogni suono / si spicca dal brusio.» (Diario d'Algeria, Periferia 1940). Ritornano anche in
questo caso gli elementi anonimi della città (sui ponti, dei fari), e il titolo stesso richiama il luogo
indistinto di confine della città, ma anche il punto estremo in cui la vita che ha avuto in passato si
confonde e sfuma nelle futura vita da soldato (esule), la cui condizione era preannunciata dalle
caratteristiche attribuite ai suoni della città.
Ma se dovessimo assegnare un motivo sonoro ricorrente in questa discesa ad inferos che precede
l'esilio vero e proprio, sarebbe lo sferragliare del treno e in particolare delle tradotte militari, treni
che non hanno fermate e passeggeri che scendono e salgono, che hanno portato il poeta dall'Italia
alla Grecia e poi di nuovo in Italia:
«Inquieto nella tradotta
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che ti sfiora così lentamente» (Diario d'Algeria, Città di notte, 1-2)
«dice la sentinella e rulla un ponte
sotto il convoglio che s'attarda.» (Diario d'Algeria, Belgrado, 3-4)
D'altra parte avevamo già incontrato in Frontiera i versi:
«All'ultimo tumulto dei binari
hai la tua pace [...]»(Frontiera, 3 dicembre, 1-2)
Sereni, riprendendo il modello del Porto sepolto di Ungaretti non solo dà il titolo, ma anche la
struttura di diario lirico e narrativo alla sua raccolta, indicando nel singolo componimento il luogo e
le data di composizione. In questo modo il nucleo centrale del trittico che lo compone, che porta lo
stesso titolo dell'intera raccolta, ci porta proprio ai giorni dell'esilio vero e proprio, cioè la prigionia
sotto il controllo degli americani:
«Lassù di torre
in torre balza e si rimanda
ormai vano un consenso,
il chivalà dell'ora,
– come quaggiù di torretta in torretta
dai vertici del campo nei richiami
tra loro le scolte marocchine –
chi va nella tetra mezzanotte
dei fiocchi veloci, chi l'ultimo
brindisi manca su nere
soglie di vento sinistre
d'attesa chi va...
È un'immagine nostra
stravolta, non giunta
alla luce. E d'oblio
solo un'azzurra vena abbandona
tra due epoche morte dentro noi.
Sainte-Barbe du Thélat, Capodanno 1944
(Diario d'Algeria, Lassù di torre)
In questa lirica che apre la sezione centrale del diario troviamo una sorta di condensato dei temi
dell'esilio, e il rapporto lirico fra esilio e frontiera. Il primo elemento che abbiamo già rilevato nella
prima raccolta è la sovrapposizione di frontiera spaziale e frontiera temporale, qui simboleggiata dal
fatto che l'ingresso nel campo di prigionia viene ricordato proprio la notte di capodanno, in cui il
passaggio da un tempo all'altro è anche occasione per riflettere sulla condizione degli esuli del
campo che non sanno che differenza ci possa essere fra passato e futuro: «tra due epoche morte
dentro di noi». Il secondo elemento che insiste sulla frontiera è la distinzione fra prigionieri e
carcerieri, i secondo individuati secondo la loro appartenenza etnica («le scolte marocchine»). Il
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terzo elemento della frontiera contrappone l'esule a chi è rimasto a casa, distinzione binaria
fortemente scandita dai deittici («Lassù» / «quaggiù»). Come l'autore ha scritto anche in una nota
autografa pubblicata da Dante Isella nella sua edizione critica, lo spunto della lirica è stato
l'accostamento delle torrette di guardia del campo di prigionia alla selva di campanili che
caratterizza il paesaggio italiano ed europeo, una contrapposizione che caratterizza anche la
distanza fra chi è esule e chi è a casa. Tuttavia il poeta contraddistingue qui coloro che non sono
esuli non con una condizione domestica di stabilità geografica, ma ben diversamente. Mentre i
campanili scandiscono in una sorta di reticolato visivo e auditivo noto la mezzanotte, la frontiera
temporale dell'anno, in quello spazio geografico non troviamo persone fortemente radicate, ma tutto
sommato dei migranti, persone che si muovono continuamente e che quindi non hanno neanche una
casa dove festeggiare il brindisi di mezzanotte: «chi va nella tetra mezzanotte / dei fiocchi veloci,
chi l'ultimo / brindisi manca su nere / soglie di vento sinistre / d'attesa, chi va...».
Ecco che allora la sola possibilità di sentirsi a casa è nella poesia, l'unico forte elemento possessivo
di appartenenza riguarda la poesia e quello che la poesia riesce a creare: «È un'immagine nostra /
stravolta, non giunta / alla luce». Pur connotata in modo distorto e confuso, questa immagine che
offre la poesia è l'unico segnale di appartenenza. Potremmo dire che qui il poeta condensa lo
scontro fra la propria condizione precedente di migrante, di apolide, e quella attuale di esule, che
trova casa solo nella letteratura e nella poesia.
Ci sembra opportuno accostare questa poesia a quella che potrebbe esserne stato se non il modello
l'auctoritas più o meno profonda, la poesia Veglia di Ungaretti. In questo caso la dialogicità interna
è affidata alla compresenza in scena del poeta e del compagno di trincea morto accanto a lui. Anche
nella poesia di Ungaretti il luogo di redenzione, l'elemento di appartenenza che salva è la poesia:
«con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d'amore» (Il Porto Sepolto, Veglia, 8-13)
Nel caso di Ungaretti la data è il 23 dicembre, data vicina al Natale che fa emergere il contrasto fra
quello che accade sulla trincea al poeta, e a quello che si festeggia in situazioni normali in quei
giorni.
Anche l'elemento notturno accumuna le due liriche, come per attribuire alle tenebre della notte
l'unico colore possibile da attribuire alla realtà della guerra o più in generale alla situazione
dell'uomo, solo e disorientato per condizione esistenziale.
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Alla lirica di Ungaretti si richiama anche il testo di Sereni Non sa più nulla, è alto sulle ali, che ci
mostra la misura della distanza fra il migrante Ungaretti e l'esule Sereni. Anche nel testo di Sereni
troviamo in scena il poeta e un soldato morto, ma se il primo era in rapporto di stretta contiguitá
spaziale con il «compagno» morto accanto a lui in trincea, e così rimasto per ore, Sereni in esilio in
Marocco, tenuto lontano dalla guerra sia perché prigioniero, sia perché si trovava ricoverato in un
ospedale militare americano, come recita la data del componimento. Il morto che evoca Sereni non
è nella stessa trincea, bensì è il primo morto dello sbarco in Normandia, dunque assai lontano dal
poeta, con una lontananza che sottolinea la condizione di esilio del poeta. Differente anche la
postura del soldato. Laddove Ungaretti era accanto al soldato morto che mostrava il viso («con la
sua bocca / digrignata / volta al plenilunio»), il soldato che evoca Sereni è «il primo caduto bocconi
sulla spiaggia normanna». Nella lirica di Ungaretti l'ancoraggio forte allo spazio, quella variante
concreta e cruenta del confine che è la trincea militare, risulta ben saldo nella coerenza fra l'incipit e
la chiusa della poesia: il poeta si dice all'inizio «buttato / vicino» al soldato morto; alla fine della
poesia sempre il poeta è «tanto attaccato / alla vita». Nel caso di Sereni invece l'apertura e la chiusa
della poesia sottolineano la distanza fra l'io lirico e il soldato morto, una distanza sottolineata
tematicamente e formalmente dai versi che si riferiscono al soldato morto:
«Non sa più nulla, è alto sui pali»
e dall'altra parte nella chiusa la condizione del poeta:
«Questa è la musica ora:/
delle tende che sbattono sui pali.
Non è musica d'angeli, è la mia
Si noti l'uso contrapposto di pali usato come rima equivoca, che all'inizio sono i pali del telegrafo da
cui si allontana l'anima del soldato morto, collocandosi nello spazio "angelico" superiore, mentre
nel secondo caso indica i pali a cui è fortemente ancorata a terra la tenda, che quindi non ha niente a
che fare con la sfera dell'angelico e del divino, concetto che viene anche esplicitato nel verso
successivo.
Un ulteriore elemento che vorremmo rilevare in questa lirica di Sereni è il ritorno del tema di una
identità culturale europea: l'esule Sereni ritorna come nella raccolta precedente su questo tema e in
particolare in questa lirica opera anche la memoria storica del patrimonio europeo comune, un
patrimonio culturale che tuttavia è basato sulla serie interminabile di guerre. La presenza angelica
che appare in sogno al poeta e gli chiede di pregare per l'Europa, fa riferimento ad uno degli eventi
storici più importanti, quella disastrosa spedizione navale organizzata da Filippo II di Spagna nel
XXXX contro l'Inghilterra della regina Elisabetta, che avrebbe potuto cambiare il corso della storie
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europea, e che viene letta come l'immagine a vettore invertito dello sbarco in Normandia, che
invece ha realmente cambiato il volto dell'Europa e l'esito della seconda guerra mondiale.
In questo dialogo con l'anima del soldato morto si esplica ancora sul piano interiore la profonda
condizione di esule del poeta. Infatti l'io lirico risponde alla sua richiesta manifestando la propria
collocazione irrevocabile di esule, esprimendo la propria estraneità alla condizione umana; come
nella lirica precedentemente si individuava uno spazio «tra due epoche morte dentro di noi», qui
parallelamente il poeta dichiara:
«prega se tu lo puoi, io sono morto / alla guerra e alla pace».
Il passaggio al terzo tempo di questo romanzo dell'esilio è già nell'ultima lirica di questa sezione,
dal titolo Algeria, che adombra le conseguenze e le persistenze profonde dell'esilio sulla vita futura
del poeta:
«Come mi frughi riaffiorata febbre / che mi mancavi e nel perenne specchio / ora di me baleni»
(Diario d'Algeria, Algeria, 5-7)
Nella terza sezione significativamente Il male d'Africa, vengono descritte le conseguenze profonde
dell'esilio nell'animo del poeta. Già il titolo, scelto in alternativa ad altri, come Vecchio conto con
l'Africa, contiene una doppia valenza. Da un lato si riferisce con connotazione negativa a quello che
è stato per il poeta l'esilio, dall'altro fa riferimento al motto fascista, che ha dato anche il titolo ad
un'opera di Mussolini, e che nella retorica del regime, con un superamento in falsetto del paradigma
dell'identità nazionale, esprimeva la spinta coloniale che doveva animare la guerra d'Africa
intrapresa dal regime fascista.
La poesia che dà il titolo a questa raccolta, un poemetto di 104 versi, prevalentemente lunghi
(endecasillabi e ipermetri), ripercorre il viaggio di ritorno dall'Algeria, mostrando anche tutto quello
che il poeta si porta sulle spalle dal suo esilio. Il poemetto, anche in questo caso con una struttura
ciclica, si apre e si chiude con un'immagine di intimità domestica:
«Una motocicletta solitaria.
Nei tunnel, lungo i tristi
cavalcavia di Milano
un'anima attardata. Mah!
È passata, e ora fa la sua strada
e un'eco a noi appena ne ritorna,
col borbottio della pentola familiare
nei tempi che si vanno quietando.
Diversa da Orano cantava
la corsa del treno sul finire della guerra
[...]» (Diario d'Algeria, Il male d'Africa, 5-7)
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cui risponde nel finale:
«Quanto avevo da dire
questo groppo da sciogliere
nell'ultimo sussulto di gioventù
questo rospo da sputare,
ma a te la fortuna e buon viaggio
borbotta la pentola familiare.» (Diario d'Algeria, Il male d'Africa, 99-104)
Il poeta prima di passare il testimone all'amico Giansiro Ferrata, in partenza per l'Algeria, affida al
simbolo della pentola che borbotta, un simbolo a metà fra sacralità del focolare domestico e
familiarità quotidiana, una sorta di oracolo dolente che richiama tutto quello che l'esilio ha segnato
sull'anima del poeta, in particolare rievocando l'interminabile viaggio di ritorno:
«e a quel febbrile poi sempre più fioco
ritmo di ramadàn
che giorni e giorni ci durò negli orecchi
ci fermammo e fu,
calcinata nel verbo
sperare nel verbo desiderare,
Casablanca.» (Diario d'Algeria, Il male d'Africa, 99-104)
Notevoli in questi verbi le suggestioni dantesche (fioco), pascoliane (ritmo di ramadàn), montaliane
(calcinata nel verbo), e la forte assonanza imperfetta a distanza ramadàn/Casablanca.
Nel poemetto, vero e proprio esempio di anti-epos in cui confluiscono come da un esilio lontano
tutti i cocci rotti della retorica fascista, fino al grido che ci fa capire quel era la giuntura profonda fra
esilio e tempo, la sensazione del poeta di aver vissuto un tempo che gli ha sottratto, come ad un
esule la sua terra, il tempo migliore della giovinezza:
«Siamo noi, vuoi capirlo, la nuova
gioventù – quasi mi gridi in faccia – in credito
sull'anagrafe di almeno dieci anni...» (Diario d'Algeria, Il male d'Africa, 85-87)
Per tirare le fila di questa riflessione sul filo dei versi di Sereni, potremmo affermare che di là dalle
contingenze concrete, di singole biografie letterarie di esuli e transfughi, possiamo dire che l'esilio,
nel Novecento come nei secoli precedenti della letteratura italiana, costituisce una particolare forma
di straniamento e di sguardo dall'esterno o dall'altrove, oppure uno sguardo all'esterno e all'altrove,
che talora conduce ad una visione dello spazio geografico culturale e letterario particolarmente
lucida. Nello sviluppo della letteratura e in particolare della poesia italiana del Novecento, troviamo
una figura particolare che incrocia la sua produzione letteraria con l'esperienza dell'esilio, e cioè
Vittorio Sereni. In particolare la sua opera centrale, il Diario d'Algeria, è incentrata sull'esperienza
della seconda guerra mondiale, vissuta da lui sostanzialmente come prigionia in Africa, catturato
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dagli americani dopo l'8 settembre. Ma la cifra dell'esilio non è in Sereni solo biografica, come si
legge già nella prima lirica della raccolta (Periferia 1940):
«La giovinezza è tutta nella luce
d'una città al tramonto
dove straziato ed esule ogni uomo
si spicca dal brusio.
E tu mia vita salvati se puoi
serba te stessa al futuro
passante e quelle parvenze sui ponti
nel baleno dei fari.» (Diario 11)
Esilio è dunque l'evento centrale della prigionia in Algeria, che da anche il titolo alla raccolta, ma
esilio identifica anche la posizione esistenziale del poeta e la sua identità. Particolarmente fruttuoso
è il confronto fra la condizione di esilio, presente in filigrana nell'opera di Sereni, e la condizione
migrante di Ungaretti, maestro non solo di Sereni. Con questi esempi vorremmo avvalorare l'idea di
Asor Rosa, presentata in apertura di questa comunicazione, che l'esilio sia fra le categorie fondanti
della nostra letteratura italiana e la sua individuazione e analisi possa contribuire da un lato a
leggere meglio la letteratura italiana del ventunesimo secolo, dall'altra a gettare nuova luce
sull'identità letteraria italiana considerata nel suo sviluppo diacronico.
Bibliografia primaria
Ludovico Ariosto: Orlando furioso. A c. di R. Ceserani. Torino: Utet 1972. 2 voll. [=Orlando furioso, seguito dal
numero del canto e dell’ottava]
Giovanni Pascoli: Odi e inni. A c. di A. Colasanti. Roma: Newton Compton 2006, 404-510.
Vittorio Sereni: Diario d'Algeria. Milano: Mondadori 1965 [=Diario d'Algeria, titolo della poesia, numero del verso]
Vittorio Sereni: Poesie. A c. di Dante Isella. Milano: Mondadori 2010. [Prima ediz. 1995] [=Titolo della raccolta, titolo
della poesia, numero del verso]
Vittorio Sereni: Poesie scelte (1935-1965). A c. di Lanfranco Caretti. Milano: Mondadori 1965.
Vittorio Sereni: Poesie
Giuseppe Ungaretti: Il Porto Sepolto. A c. di Carlo Ossola. Milano: Il Saggiatore 1981. [=Porto Sepolto, titolo della
poesia, numero del verso]
Bibliografia secondaria
Alberto Asor Rosa: «La fondazione del laico». In Alberto Asor Rosa (a c. di): Letteratura italiana. Volume quinto. Le
Questioni. Torino: Einaudi 1986, 17-124.
Alberto Asor Rosa: «La letteratura italiana e l'esilio». In: Bollettino di italianistica. La letteratura italiana e l'esilio,
n.s., anno VIII, n.2, 2011 – Speciale, 7-14.
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Stefano Giovanardi: «Diario d'Algeria di Vittorio Sereni». In In Alberto Asor Rosa (a c. di): Letteratura italiana.
Volume 16. Il secondo Novecento. Le opere 1938-1961. Torino-Roma: Einaudi-L'Espresso 2007, 229-252.
Romano Luperini: «Letteratura e identità nazionale: la parabola novecentesca». In Romano Luperini / Daniela Brogi (a
c. di): Letteratura e identità italiana del Novecento. Lecce: Manni 2004, 7-33.
Pier Vincenzo Mengaldo: «Iterazione e specularità in Sereni». In Pier Vincenzo Mengaldo: La tradizione del
Novecento. Prima serie. Torino: Bollati Boringhieri 1996, 382-410. [prima ediz. 1975].
Carlo Ossola: «Introduzione». In Ungaretti 1981, VII-XXI.
Leone Piccioni: «Introduzione». In L.P. (a c. di): Ungaretti. Un'antologia delle opere. Milano: Mondadori 1971, 19-66.
Stefano Sasso: Vittorio Sereni tra canzoniere e diario. Alla riscoperta di un percorso poetico (1935-1952). Hamburg:
Verlag Dr. Kovač 2002.
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Esilio e ritorno nella letteratura italiana del Novecento: l`esempio di