UNIVERSITÀ POLITECNICA DELLE MARCHE SCUOLA DI DOTTORATO DELLA FACOLTÀ DI ECONOMIA “G. FUÀ” CURRICULUM “DIRITTO DELL’ECONOMIA” XI CICLO La tutela brevettuale dell’innovazione biotecnologica. Privatizzazione della conoscenza nel settore della ricerca e dello sviluppo Tutor Dottoranda Chiar.mo Prof. Franceschina Pisciarelli Gerardo Villanacci Anno Accademico 2012-2013 1 Indice Introduzione p. 6 Capitolo I La disciplina dell’innovazione nel regime delle fonti nazionali, comunitarie ed internazionali 1. Le invenzioni come beni immateriali 2. Tutela dell’innovazione nell’attività d’impresa. La disciplina del brevetto nel sistema delle fonti nazionali p.11 p. 13 3. Le fonti internazioni del diritto sui brevetti 4. Il Brevetto europeo con effetto unitario. Ulteriori riferimenti normativi comunitari in materia di brevetto p. 20 p. 25 Capitolo II Le invenzioni biotecnologiche: evoluzione del diritto dei brevetti ed estensione della privativa 1. Rivoluzione nel diritto dei brevetti: dalla tutela dell’innovazione tecnica a quella della “materia vivente” 2. p. 32 Esatta individuazione del significato di biotecnologie ed ambito di applicazione delle stesse. Primi brevetti concessi a protezione dell’innovazione biotecnologica p. 34 2 3. Armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di libera circolazione dei prodotti biotecnologici: la Direttiva 98/44/CE. Recepimento della direttiva da parte dell’Italia alla luce della sentenza della Corte di Giustizia UE del 9 ottobre 2001 p. 38 4. Il materiale biologico come oggetto di privativa in luogo dell’innovazione meccanica. Suoi significati e problematiche connesse 5. p. 43 Il brevetto biotecnologico tra brevetto di prodotto e di procedimento. Estensione dell’esclusiva e superamento della formula “comunque ottenuto” ed in “in tutti i suoi possibili usi” 6. p. 47 Dicotomia scoperta-invenzione: superamento del divieto di brevettare le scoperte nel settore delle biotecnologie 7. p. 55 Ricerca pura e ricerca applicata: individuazione delle differenze e delle ratio di natura economica e concorrenziale 8. p. 58 Area di confine tra ricerca pura e ricerca applicata nelle biotecnologie: la c.d. ricerca finalizzata. Il problema della brevettabilità dei risultati della ricerca di base 9. p. 61 La tutela brevettuale del materiale biologico di origine umana ed, in particolare, delle sequenze di DNA p. 66 10. La brevettabilità degli strumenti di ricerca: il caso delle sequenze ESTs p. 76 11. La brevettabilità del DNA umano alla luce del caso Myriad Genetics p. 81 Capitolo III Rilettura dei requisiti di brevettabilità alla luce delle caratteristiche proprie delle invenzioni biotecnologiche. Abbassamento della soglia per accedere alla tutela brevettuale 1. L’originalità nelle attività svolte dai gruppi di ricerca. Spersonalizzazione dell’innovazione p. 88 3 2. La presenza del requisito della novità nel materiale biologico preesistente in natura. I nuovi usi di sostanze già note p. 92 3. La liceità dell’invenzione biotecnologica 4. Limiti alla brevettabilità del materiale biologico. La sentenza della Corte di Giustizia nel caso Brüstle p. 97 p. 100 5. L’applicazione industriale dell’invenzione biotecnologica 6. Principio di proporzionalità fra esclusiva ed apporto inventivo: ratio della norma p. 105 p. 107 Capitolo IV Il fenomeno della privatizzazione della conoscenza nel settore della ricerca e dello sviluppo: criticità e rimedi posti a tutela delle istanze sociali e del mercato 1. Il ruolo della conoscenza nell’attuale sistema economico. Il capitalismo c.d. cognitivo 2. p. 112 Riflessioni sulla conoscenza come merce: criticità del processo di privatizzazione del sapere 3. p. 115 La tutela delle istanze sociali nell’innovazione brevettuale: la teoria dei beni comuni ed il sistema delle corti 4. p. 122 Derive protezioniste della proprietà intellettuale e tutela della concorrenza. Anticorpi pro concorrenziali contenuti nella disciplina brevettuale 5. Dinamiche competitive della licenza obbligatoria 4 p. 127 p. 132 Capitolo V Nuovi modelli organizzativi deputati alla produzione ed allo sfruttamento dell’innovazione 1. Nuovi saperi ed imprenditorialità. Rimodulazione degli equilibri esistenti sul mercato tramite nuove strategie organizzative 2. Il ruolo delle Università e dei centri di ricerca nel sistema imprenditoriale biotecnologico. Individuazione dei titolari dei diritti di privativa 3. p. 144 La cooperazione tecnologica come nuovo modello di sviluppo nel settore della ricerca e sviluppo. I contratti di rete 4. p. 140 p. 153 I patent pools p. 166 Bibliografia p. 170 5 Introduzione 6 Il legame appropriazione-innovazione che ha, da sempre, rappresentato la giustificazione economica della privativa brevettuale è entrato in crisi con la tutela delle invenzioni biotecnologie. L’inventore realizza un prodotto nuovo o un procedimento originale impiegando materiale biologico di origine umana, animale e vegetale; detto materiale contiene informazioni genetiche, è autoriproducibile o capace di riprodursi in un sistema biologico. Attraverso tecniche proprie di questo settore, applicate da gruppi di ricerca piuttosto che da singoli operatori, si manipola la materia vivente arrivando a produrre farmaci, vaccini, batteri transgenici, tessuti e organi per xenotrapianti, animali e piante transgenici, alimenti privi di allergeni, colture difese dai parassiti senza l’impiego di pesticidi, tecniche di biorisanamento ambientale grazie a microrganismi ed enzimi “ingegnerizzati”; i risultati della ricerca sono impiegati nell’ambito della diagnosi di malattie gravissime, nella fecondazione assistita, nello screening delle alterazioni genetiche. Le peculiarità delle biotecnologie hanno sollevato questioni di carattere etico, ambientale, economico, politico, sociale e, non da ultimo, di compatibilità con il regime dei brevetti, la cui disciplina è profondamente cambiata per il susseguirsi di molteplici eventi di cui la scoperta del DNA, risalente al 1953, rappresenta quello principale. Con il presente lavoro si vuole esaminare, senza alcuna pretesa di completezza, i cambiamenti che, nel sistema brevettuale, ha comportato l’estensione della privativa a prodotti geneticamente modificati (es. topo transgenico) oppure già esistenti in natura (es. sequenze DNA), fattispecie nelle quali sembra, invero, mancare il requisito della novità. Ammetterne la brevettabilità, ha sostanzialmente significato superare l’antica dicotomia tra scoperta ed invenzioni per arrivare a sostenere che possono essere tutelati i risultati della ricerca di base prima, ancora, che di quella applicata. In questo contesto si colloca, e trova giustificazione, la generalizzata tendenza ad abbassare la soglia richiesta per accedere alla tutela brevettuale con riferimento, in particolare, ai requisiti dell’attività inventiva e dell’applicabilità industriale. Il 7 brevetto biotecnologico non mira a premiare un flash of genius, un’intuizione felice, ma la ricerca, la grande ricerca, intesa come costoso e paziente lavoro di sperimentazione di grandi èquipe di ricercatori. Circa l’applicazione industriale è sufficiente, in alcuni casi, che l’utilità dei risultati pratici legati all’innovazione sia “credibile”. L’estensione delle privative garantisce, per un verso, il progredire della ricerca, da cui nascono importanti risorse (si pensi, in particolare, a quelle farmacologiche), ma dall’altro rischia di ridurre eccessivamente gli spazi di libero accesso ai beni immateriali con conseguenti, possibili, costi in termini sociali. Il ricorso all’esclusiva potrebbe compromettere, se non adeguatamente controllato, lo sviluppo di innovazioni future. In un’economia dove si assiste ad una crescente privatizzazione della conoscenza, ottenuta nel settore della ricerca e dello sviluppo con l’impiego di costosi finanziamenti sempre più spesso privati, si riflette sull’esigenza di rivedere i regimi di stimolo all’innovazione impiegando, a tal fine, la categoria dei beni comuni ovvero un regime normativo connotato dalla sottrazione di alcuni beni (es. sequenze di DNA) ai processi di appropriazione esclusiva. Le istituzioni deputate alla tutela degli interessi collettivi dovrebbero essere quelle politiche; tuttavia, poiché tale strategia incontra, nell’attuale assetto, i limiti della decentralizzazione del sistema delle fonti, la costante pressione della regulatory competition, l’estrema rapidità del mutamento tecnologico e la profonda asimmetria nelle capacità d’incidenza politica (ai pochi repeat players, dotati di un ampio potere economico ed interessi omogenei, si oppone una massa diffusa e piuttosto disorganica di potenziali controinteressati), si pone come idonea alternativa il sistema delle corti. Là dove il concreto assetto istituzionale di un sistema favorisca l’accesso alla giustizia e permetta di configurare gli interessi sociali in termini di pretese costituzionalmente garantire, valorizzando quindi i diritti fondamentali nella loro funzione di apertura delle sfere d’esclusiva, il circuito giurisdizionale può offrire un valido canale di emersione del retroterra non proprietario, congiunturalmente al (o in supplenza del) tradizionale processo politico. 8 Al fine poi di garantire un’effettiva circolazione di quella parte di conoscenza che, diversamente dall’informazione codificata, può essere scambiata unicamente attraverso processi di condivisione, sono fondamentali le relazioni di natura cooperativa tra imprese. A prescindere dal livello (ricerca o commercio) in cui un’impresa decida di operare nel settore biotecnologico, la stessa dovrà comunque far fronte a cambiamenti che si presentano straordinariamente veloci e che richiedono un controllo assoluto e professionale delle fonti delle conoscenze più qualificate, con le quali è essenziale stabilire relazioni e paternariati senza limitazioni di natura organizzativa e territoriale se si vogliono massimizzare i risultati degli sforzi creativi. Ricercatori, istituzioni pubbliche ed imprese private dovrebbero sempre cooperare in modo costruttivo, superando steccati e confini aziendali per aumentare la qualità e la quantità del progresso scientifico, economico e sociale al fine di creare uno sviluppo sostenibile. 9 Capitolo I La disciplina dell’innovazione nel regime delle fonti nazionali, comunitarie ed internazionali 10 1. Le invenzioni come beni immateriali L’invenzione, intesa come idea che consente la soluzione di un problema tecnico per la soddisfazione dei bisogni dell’uomo, costituisce un bene1; trattandosi di una entità ideologica, è un bene immateriale separabile dalla persona del suo autore e dalle cose nelle quali s’incorpora nel momento della comunicazione, della circolazione (documento o brevetto che lo descrive), dell’attuazione (macchina o dispositivo che lo realizza). Non essendo suscettibili di possesso materiale, le invenzioni sono in grado di soddisfare l’interesse di una pluralità indefinita di soggetti senza che il godimento dell’uno interferisca con quello degli altri (c.d. godimento per moltiplicazione)2; l’assenza di finitezza elimina, almeno apparentemente, il conflitto e l’esclusività nel godimento3. Le invenzioni possono comunicarsi con la massima facilità e circolare da individuo ad individuo, sfuggendo al dominio del loro autore; possono essere apprese con l’esame di un prototipo, la semplice lettura di una descrizione, lo studio di una fotografia, la confidenza di un dipendente. Trovano normalmente applicazione a prescindere dalla presenza fisica, dalla collaborazione o comunque dalla volontà dell’inventore4, il quale, senza una specifica tutela, potrebbe tuttavia non trarre dallo sfruttamento dell’innovazione quel profitto che gli consente di coprire i costi della ricerca; in un regime di libera concorrenza, l’invenzione potrebbe essere facilmente utilizzata da tutti e, conseguentemente, l’autore si 1 ) Il termine invenzione può comprendere qualsiasi soluzione di un problema tecnico; può consistere in un’idea che, raggiungendo un dato livello creativo e presentando date caratteristiche, può formare oggetto di quella particolare tutela realizzata attraverso la brevettazione oppure identificarsi con idee che costituiscono la semplice applicazione di nozioni e principi acquisiti alla tecnica e che, comunque, non possiedono i requisiti richiesti dalla legge per la loro qualificazione come invenzioni brevettabili ovvero invenzioni in senso tecnico giuridico: G. Sena, Invenzioni industriali, I) Diritto commerciale, in Enciclopedia del Diritto, Vol. XVII, p. 1. Cfr. anche G. Sena, I diritti sulle invenzioni e sui modelli industriali, Milano, 1990, p. 100, nel quale l’Autore definisce l’invenzione come la “creazione intellettuale consistente nella soluzione di un problema tecnico”. 2 ) G. Sena, Invenzioni industriali, cit., p. 2. 3 ) Diverso è invece il caso dei beni materiali; gli interessi individuali riguardano tutti lo stesso oggetto ed ogni persona ha, tendenzialmente, interesse a goderne in modo esclusivo poiché la finitezza della cosa importa la riduzione o addirittura l’impossibilità del godimento se diviso con altri. 4 ) Tutto ciò non è possibile per i beni materiali il cui godimento presuppone la detenzione e il possesso ovvero il trasferimento della cosa; l’utilizzazione di un servizio presuppone la presenza della persona che lo eroga. 11 troverebbe nella stessa condizione di chi non ha sopportato alcuna spesa per realizzarla. Considerati gli oneri della ricerca e della produzione, l’inventore si porrebbe in una situazione addirittura deteriore di tutti gli altri imprenditori poiché il prodotto avrebbe per lui un costo di gran lunga superiore rispetto a quello dei concorrenti, non gravati dai rischi e dalle spese connesse alla produzione dell’innovazione stessa5. L’inventore è, dunque, interessato a che nessun altro possa utilizzare la sua idea senza il suo consenso; tale esigenza è legata alla necessità di avere una posizione (che è, a volte, definita di monopolio) che gli consenta di ottenere un prezzo, nei rapporti con i terzi, sufficiente a coprire i costi della ricerca e della produzione. Pur trattandosi di un bene immateriale, anche l’utilizzazione del bene invenzione genera dunque un conflitto di interessi che deriva dall’esigenza, propria del titolare, di ottenere la remunerazione economica dell’attività di ricerca ovvero dall’interesse di garantirsi una certa probabilità di guadagno connessa con lo sfruttamento esclusivo o monopolistico, diretto o indiretto. L’invenzione necessita, quindi, di una normativa volta a regolamentare gli interessi coinvolti nel suo utilizzo. 5 ) In questi ultimi decenni, si è assistito ad una profonda trasformazione dell’impostazione e dell’organizzazione della ricerca; l’aspetto che più evidenzia questo mutamento si trova nel carattere sistematico dell’attività di ricerca, sviluppo ed innovazione. La ricerca scientifica e lo sfruttamento metodico dei suoi risultati costituiscono oggi un processo che richiede ed assorbe investimenti di entità sempre più crescenti. Tutto ciò ha determinato la creazione di laboratori di ricerca sempre più imponenti, dove lavorano centinaia ed anche migliaia di scienziati e tecnici, ove si trovano e vengono realizzati macchinari di ingentissimo valore e dove s’impiegano capitali la cui entità, sempre più rilevante, varia in funzione del campo della ricerca e delle possibilità economiche della impresa o addirittura del Paese. 12 2. Tutela dell’innovazione nell’attività d’impresa. La disciplina del brevetto nel sistema delle fonti nazionali L’attività inventiva è normalmente disciplinata, in quasi tutti i Paesi, con norme che prevedono la concessione, al termine di un procedimento più o meno complesso, di una tutela brevettuale che assicura al titolare, per un certo numero di anni, il diritto allo sfruttamento dell’innovazione6. Nucleo essenziale di questo diritto è la facoltà esclusiva di produrre, usare e vendere l’invenzione brevettata7, impedendo conseguentemente ai terzi di sfruttarla se non in virtù di un contratto stipulato con il titolare (c.d. licenza)8. 6 ) Questa sostanziale uniformità può attribuirsi a svariate circostanze: La disciplina delle invenzioni industriali costituisce in tutti i paesi una normativa speciale, svincolata dalle tradizioni giuridiche dei diversi ordinamenti; le invenzioni industriali circolano normalmente da paese a paese cosicché la loro tutela giuridica non può essere soddisfatta se limitata ad un singolo Stato; la materia della c.d. proprietà industriale è stata oggetto di una serie di convenzioni internazionali che hanno avuto una influenza determinante sulla unificazione del diritto delle invenzioni: G. Sena, Invenzioni Industriali, cit., p. 2. 7 ) L’invenzione brevettabile consiste, dal punto di vista qualitativo, in una combinazione di precedenti idee tecniche, combinazione resa possibile perché da un atto mentale di intuizione (e non di ragionamento) si scopre la idoneità delle idee ad essere utilmente combinate; dal punto di vista della sostanza, consiste invece in una scoperta intuitiva, seguita da una combinazione esecutiva: in tal senso M. Franzosi, Definizione di invenzione brevettabile, in Riv. dir. ind., 2008, p. 18. L’Autore osserva che il contributo intellettuale sta nella scoperta; ciò che caratterizza l’invenzione è un atto di intuizione diverso dal ragionamento: il ragionamento deduce una conclusione da certe premesse (è dunque deduttivo o inferenziale) mentre l’intuizione raggiunge una conclusione pur in assenza di adeguate premesse (è dunque istantanea: non ha passaggi logici intermedi). G. Floridia, Diritto industriale, proprietà intellettuale e concorrenza, Aa.Vv., Torino, 2012, p. 198, identifica l’invenzione brevettabile nella “idea di soluzione di un problema tecnico suscettibile di applicazione industriale”. 8 ) La tutela brevettuale è stata preferita al segreto aziendale sia dal legislatore nazionale che da quello comunitario ed internazionale. Il segreto aziendale permette all’imprenditore di tenere nascosta ai concorrenti la struttura della sua invenzione al fine d’impedirne la riproduzione; la messa in commercio del primo esemplare del nuovo prodotto ne consente, tuttavia, lo smontaggio e quindi la sua copiatura. Il segreto può invece essere efficace in rapporto a quelle invenzioni che attengono a nuovi processi produttivi non copiabili, in generale, da chi non abbia accesso all’interno dell’azienda; l’imprenditore tuttavia non sempre riesce ad evitare fughe di notizie. Il segreto aziendale è stato anche considerato potenzialmente pericoloso per la collettività; quest’ultima sarà infatti tenuta a sopportare una prolungata situazione di monopolio laddove l’imprenditore riuscisse a conservare a lungo il segreto, circostanza che potrebbe anche comportare la perdita dell’innovazione stessa (a causa, ad esempio, della morte improvvisa dell’unico depositario del segreto). Cfr. sul punto anche infra Cap. IV, par. 4. 13 In un sistema di libero mercato la presenza del brevetto costituisce un’apparente contraddizione stante la situazione di monopolio, di per sé contraria alla concorrenza, creata dal brevetto stesso. Tale contraddizione trova invero una valida giustificazione nella funzione di favore per il progresso tecnico propria della citata privativa. Quest’ultima rappresenta uno stimolo per la creazione di nuove invenzioni perché garantisce a chi le realizza un diritto di esclusiva, rappresenta un incentivo alla rivelazione delle invenzioni in quanto ne rende poco conveniente la gestione in regime di segreto, consente una circolazione dietro compenso del diritto sulle invenzioni, stimola la ricerca9. Con il brevetto si tutela uno dei principali fattori dell’attività di impresa consistente, appunto, nell’innovazione; l’imprenditore che riesce a realizzare un’idea nuova, introducendola nella sua attività, consegue un vantaggio competitivo sugli altri operatori del settore che può risultare decisivo ai fini della sua fortuna10. In un’economia come quella attuale, caratterizzata da uno stabile eccesso di offerta e, quindi, da una situazione di stabile concorrenza, l’innovazione rappresenta un’importante strategia concorrenziale, diversa da quella del prezzo, essenziale per la crescita di un’impresa soprattutto in un’economia globale dove la competizione è orientata verso la conoscenza prima ancora che verso i mezzi di produzione tradizionali11. In Italia, risale al secolo scorso una delle prime leggi in materia di brevetto. Si tratta del r.d. 29 giugno 1939 n. 1127 c.d. legge invenzioni; opera di un legislatore 9 ) Il brevetto è stato anche considerato come strumento di stimolo delle spese di ricerca; l’accento si sposta dalle spese nella ricerca che conduce all’invenzione alle spese nella ricerca che conduce alla successiva sperimentazione dell’invenzione, necessaria prima dell’immissione effettiva sul mercato di un prodotto nuovo. Si pensi ad un nuovo farmaco: prima di immetterlo sul mercato è necessaria una minuziosa sperimentazione che assicuri l’assenza di effetti collaterali negativi, individui precauzione da imporre nell’uso, scelga il dosaggio ed il modo di somministrazione. 10 ) L’innovazione può riguardare la fase della produzione industriale (es. un nuovo tipo di prodotto, un nuovo tipo di procedimento di fabbricazione che consente di realizzare un certo prodotto a costi più bassi di quelli consentiti dalle tecniche note), può attenere alla fase dell’organizzazione aziendale (es. la creazione di un nuovo tipo di organigramma) oppure a quella della commercializzazione (es. le grandi innovazioni della vendita a rate e la vendita per corrispondenza). Le innovazioni di tipo organizzativo o commerciale non possono essere tutelate, a differenza di quelle inerenti la fase della produzione, con lo strumento del brevetto; trovano però tutela, se ed in quanto segrete, negli artt. 98 e 99 c.p.i. 11 ) A. Vanzetti, V. Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009, p. 355. 14 attento e lungimirante, la norma ha regolamentato la materia sin quasi ai giorni nostri grazie, anche, ad alcuni interventi apportati al testo originario al fine di adeguarlo alle nuove istanze dettate, per lo più, dall’evoluzione della normativa internazionale. Alla legge, si sono poi aggiunti alcuni articoli del Codice Civile contenuti nel Capo II del Titolo IX del Libro V; le norme definiscono il concetto di invenzione industriale12 ed i conseguenti diritti riconosciuti all’inventore13. Il successivo d.p.r. 22 giugno 1979 n. 338 ha adeguato il nostro sistema all’introduzione del brevetto europeo14 ed ha recepito le indicazioni della Corte 12 ) L’art. 2585 c.c. statuisce che : “Possono costituire oggetto di brevetto le nuove invenzioni atte ad avere un’applicazione industriale, quali un metodo o un processo di lavorazione industriale, una macchina, uno strumento, un utensile o un dispositivo meccanico, un prodotto o un risultato industriale e l’applicazione tecnica di un principio scientifico, purché essa dia immediati risultati industriali. In quest’ultimo caso il brevetto è limitato ai soli risultati indicati dall’inventore”. G. Dragotti, Le invenzioni, in Trattato di diritto privato diretto da Pietro Rescigno, Vol. IV, 2009, p. 220, osserva che la norma non offre una definizione di invenzione; lo stesso vale per il Codice della Proprietà Industriale che si limita ad indicare quali, tra le invenzioni, non sono brevettabili. 13 ) Detti articoli prevedono che le invenzioni industriali sono tutelate tramite un diritto di esclusiva (art. 2584), definiscono l’oggetto del brevetto (art. 2585), l’ambito di esclusiva per i brevetti di metodo o procedimento (art. 2586), introducono la nozione di brevetto dipendente da un brevetto altrui (art. 2587). Le norme prevedono altresì che il diritto di brevetto sia attribuito all’inventore (art. 2588) e che i diritti patrimoniali nascenti dall’invenzione siano liberamente trasferibili (art. 2589), introducono la necessità di una disciplina ad hoc per le invenzioni effettuate nell’ambito di un rapporto di lavoro (2590). L’ultima norma (2591) rinvia alle leggi speciali per quel che concerne le modalità per la concessione del brevetto, l’esercizio dei diritti che ne derivano e la loro durata. Tradizionalmente, detto rinvio è stato inteso dal legislatore come un invito ad apprestare in sede extracodicistica la disciplina compiuta della materia, tanto che le norme appena richiamate hanno svolto, e svolgono in concreto, una funzione residuale: G. Dragotti, Le invenzioni, cit., p. 206, il quale osserva altresì che la collocazione delle suesposte norme nel codice civile, pur testimoniando il ruolo cardine rivestito dalla tutela delle invenzioni industriali, non risponde agli impianti sistematici moderni che tendono a proporre una visione organica e sincretica dei diversi istituti che compongono il diritto di proprietà industriale ed intellettuale, evidenziando i molteplici punti di contatto tra di essi. La gran parte delle norme in materia di brevetti per invenzioni industriali deve essere interpretata all’interno ed alla luce del più ampio sistema di diritti di privativa previsto dal diritto della proprietà industriale, la cui nozione è oggi codificata proprio dalle leggi speciali. 14 ) L’Italia con l. n. 260 del 1978 autorizzava la ratifica della Convenzione sul brevetto Europeo sottoscritta a Monaco il 5 ottobre 1973. La modifica della legislazione nazionale si rendeva dunque necessaria al fine di evitare disparità di trattamento fra i titolari del brevetto nazionale ed i titolari di quello europeo in quanto, a seguito della predetta ratifica, il nostro Paese prevedeva accanto al brevetto nazionale, disciplinato dalla legge interna, concesso dall’Ufficio centrale brevetti con sede in Roma, avente efficacia nel territorio dello Stato, anche il brevetto europeo, disciplinato dalla Convenzione di Monaco (sia pure con rilevanti rinvii alla normativa nazionale), concesso dall’Ufficio europeo dei brevetti con sede in Monaco, avente efficacia in tutti o in alcuni degli Stati (a scelta del richiedente) aderenti alla Convenzione. Per approfondimenti sulla Convenzione di Monaco vedi infra par. 3. 15 Costituzionale sull’abrogato divieto di brevettare farmaci15; sul tema dei medicamenti, il legislatore è poi intervenuto nuovamente con la legge 19 ottobre 1991 n. 349 che ha introdotto nel nostro ordinamento i Certificati Complementari di Protezione, normativa successivamente superata dal Regolamento n. 1768/92/CE, in vigore dal gennaio del 1993, istitutivo del Certificato Protettivo Complementare16. Con il d.lgs. 19 marzo 1998 n. 196 l’Italia ha adeguato le proprie norme agli accordi TRIPs17 mentre con la legge 18 ottobre 2001 n. 383 ha introdotto una nuova disciplina relativa alle invenzioni effettuate in ambito universitario18. Nell’ambito di un più ampio progetto di codificazione, è stata conferita al governo, con legge 12 dicembre 2002 n. 273, un’ampia delega volta al riassetto delle disposizioni in materia di proprietà industriale; di qui l’istituzione, con il d.lgs. 27 giugno 2003 n. 15 ) In tal senso la sentenza n. 20 del 20 marzo 978 con la quale la Corte Costituzionale dichiarava illegittimo l’art. 14 della l. n. 1127 nel testo del 1939. 16 ) Alcuni prodotti, prima di essere immessi in commercio, sono subordinati a procedure amministrative lunghe e complesse tanto che difficilmente il titolare riesce ad usufruire dell’intera durata dell’esclusiva. Si pensi al settore dell’invenzioni farmaceutiche; la commercializzazione di un farmaco è subordinata all’ottenimento dell’Autorizzazione all’Immissione in Commercio (AIC) rilasciata dall’amministrazione competente solo al termine di una procedura lunga e costosa. Al fine di reintegrare la posizione dei titolari di brevetti per invenzione aventi ad oggetto nuovi medicinali, che si trovano sostanzialmente ad usufruire di una esclusiva insufficiente ad ammortizzare i costi della ricerca, è stata appunto introdotta, prima a livello nazionale poi europeo, una protezione complementare tramite il sostanziale prolungamento della durata del brevetto per un tempo in linea di principio corrispondente al periodo intercorso tra la data del deposito della domanda di brevetto e l’ottenimento della prima AIC. Attualmente, l’art. 81 c.p.i. così recita: “Ai certificati complementari di protezione concessi ai sensi della legge 19 ottobre 1991, n. 349, si applica il regime giuridico, con gli stessi diritti esclusivi ed obblighi, del brevetto. Il certificato complementare di protezione, produce gli stessi effetti del brevetto al quale si riferisce, limitatamente alla parte o alle parti di esso oggetto dell’autorizzazione all’immissione in commercio. Gli effetti del certificato complementare di protezione decorrono dal momento in cui il brevetto perviene al termine della sua durata legale e si estendono per una durata pari al periodo intercorso tra la data del deposito della domanda di brevetto e la data del decreto con cui viene concessa la prima autorizzazione all’immissione in commercio del medicamento. La durata del certificato complementare di protezione non può in ogni caso essere superiore a diciotto anni a decorrere dalla data in cui il brevetto perviene a termine della sua durata legale. Al fine di adeguare progressivamente la durata della copertura complementare e brevettuale a quella prevista dalla normativa comunitaria, le disposizioni di cui alla legge 19 ottobre 1991, n. 939, e da regolamento (CEE) n. 1768/1992 del Consiglio, del 18 giugno 1992, trovano attuazione attraverso una riduzione della protezione complementare pari a sei mesi per ogni anno solare, a decorrere dal 1° gennaio 2004, fino al completo allineamento alla normativa europea. E’ consentito a soggetti terzi che intendano produrre per l’esportazione principi attivi coperti da certificati complementari di protezione concessi ai sensi della legge 19 ottobre 1991, n. 349, di avviare con i titolari dei certificati suddetti, presso il Ministero dello sviluppo economico, una procedura per il rilascio di licenze volontarie non esclusive a titolo oneroso nel rispetto della legislazione vigente in materia”. Cfr. anche art. 61 c.p.i. 17 ) Vedi infra par. 3. 18 ) Vedi infra Cap. V, par. 2. 16 168, di apposite Sezioni Specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale presso i principali Tribunale dello Stato19, organismi successivamente sostituiti con le Sezioni Specializzate in materia di impresa20. Altra novità, l’emanazione del Codice della Proprietà Industriale, avvenuto con il d.lgs. 10 febbraio 2005 n. 30, che ha sostituito integralmente la normativa speciale previgente, armonizzando la disciplina sostanziale rispetto alle istanze provenienti dalle norme internazionali e comunitarie21. 19 ) Le Sezioni Specializzate hanno una competenza esclusiva sulle controversie aventi ad oggetto marchi nazionali, internazionali e comunitari, brevetti d’invenzione e per nuove varietà vegetali, modelli di utilità, disegni e modelli, diritti d’autore, fattispecie di concorrenza sleale interferenti con la tutela delle proprietà industriale e intellettuale. 20 ) Cfr. art. 2 d.l. 24 gennaio 2012 n. 1 (c.d. decreto liberalizzazioni) col quale sono state incorporate nell’ambito delle istituende Sezioni specializzate in materia di impresa, e quindi soppresse nella loro specificità, le Sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale. Con una proposta di emendamento del decreto liberalizzazioni, depositata in Commissione il 25 febbraio 2012 è stato anche aumentato il numero delle Sezioni specializzate, portandolo da 12 a 21. G. Sena, Sezioni Specializzate, Riv. dir. ind., 2012, p. 113, commenta l’art. 2 del d.l. 24 gennaio 2012 n. 1 evidenziandone delle criticità. In primo luogo, l’istituzione di Sezioni specializzate competenti in materia industriale ed in “numero per quanto possibile ridotto” è espressamente richiesta dalla normativa comunitaria; qualsiasi cambiamento della legge nazionale deve essere quindi comunicato alla Commissione dagli Stati membri e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee, pubblicazione che probabilmente ne condiziona l’entrata in vigore. In secondo luogo, la disomogeneità delle materie attribuite alle nuove Sezioni specializzate comprendendo, da un lato, la proprietà industriale e intellettuale, dall’altro, il diritto delle società, compromette la specializzazione dei magistrati che, infatti, non deriva da un loro specifico percorso formativo bensì dal loro impegno e dal loro interesse per la materia. 21 ) Il codice si inserisce in un più ampio quadro di interventi di riordino delle legislazioni volte ad accorpare organicamente, in settori omogenei, norme anteriormente stratificatesi nel corso del tempo; il fine è quello di ridare coerenza sistematica ed uniformità di linguaggio alla categoria dei diritti di proprietà industriale costituendo un’unitaria categoria. 17 Il Codice della Proprietà Industriale si apre con l’enunciazione di una serie di principi fondamentali relativi a tutti i diritti di proprietà industriali di cui fanno parte: “marchi ed altri segni distintivi, indicazioni geografiche, denominazioni di origine, disegni e modelli, invenzioni, modelli di utilità, topografie dei prodotti a semiconduttori, informazioni aziendali riservate e nuove varietà vegetali”22. 22 ) Art. 1 c.p.i. Dalla lettura dell’articolo si evince che le invenzioni, come i marchi e gli altri segni distintivi, le indicazioni geografiche, le denominazioni di origine, i disegni e modelli industriali, i modelli di utilità, le topografie dei prodotti a semiconduttori, le informazioni aziendali riservate, le nuove varietà vegetali sono ricomprese nella nozione di proprietà industriale disciplinata dal relativo codice che riconduce tutti i diritti di proprietà industriale alla categoria dei beni immateriali. In passato, questa inclusione è stata contestata sulla base di una pretesa diversità di natura del diritto di proprietà rispetto all’esclusive industrialistiche. Questi dubbi sembrano oramai superati in quanto, nell’attuale contesto, la nozione di proprietà industriale è stata estesa ai segni distintivi. L’evoluzione terminologica appare del resto in linea con le convenzioni ed i trattati internazionali nonché con la giurisprudenza della Corte di Giustizia (tra le tante cfr. 18 novembre 2003, c-216/01, Budweiser, in Racc. C. giust. CE, 2003, 13617) che ha, a sua volta, ricondotto alla nozione di proprietà industriale e commerciale dell’art. 30 TCE i diritti di marchio, brevetto, d’autore e connessi: così D. Sarti, Proprietà industriale, in Enciclopedia Giuridica, Vol. XXV, 2006, p.1. Riflettendo sull’evoluzione del concetto di proprietà G. Sena, Beni materiali, beni immateriali e prodotti industriali: il complesso intreccio delle diverse proprietà, in Riv. dir. ind., 2004, p. 55, osserva che: “La regola che attribuisce all’imprenditore la proprietà del bene prodotto, consentendogli di offrirlo sul mercato ricavandone un prezzo più o meno rimunerativo (di costi, ammortamenti, utile, ecc.), non riguarda il godimento del bene, ma la allocazione delle risorse in funzione delle scelte dei consumatori. Si tratta della evoluzione storica del concetto stesso di proprietà, legato all’origine al godimento ed allo sfruttamento di risorse naturali scarse da distribuirsi fra diversi soggetti, e trasformatosi oggi nello strumento centrale per ripartire la disponibilità delle fonti produttive e soprattutto nel mezzo per attribuire, attraverso il riconoscimento della proprietà sul bene prodotto, la rimunerazione ed il rischio dell’attività di impresa. Il problema, insomma, non è quello della relazione fra proprietà e godimento, ma piuttosto quello della relazione fra proprietà e sistema produttivo. Se consideriamo il problema della proprietà intellettuale da questo punto di vista, dobbiamo in primo luogo constatare come la realizzazione di qualsiasi innovazione (invenzioni, modelli, in genere opere dell’ingegno o beni immateriali) costituisce una vera e propria attività imprenditoriale, con costi e rischi di insuccesso spesso molto elevati. La costituzione di un diritto di esclusiva sul bene prodotto (il riconoscimento della proprietà, se si preferisce, su tale bene) ancorché si tratti di un bene immateriale o infinito, è dunque il mezzo col quale si consente all’impresa innovatrice di recuperare i costi di ricerca e sviluppo, distribuendoli su coloro che fruiscono del bene così prodotto attraverso la attribuzione della facoltà di utilizzazione del trovato (cessione del brevetto, licenza ecc.) o la vendita del prodotto industriale nel quale il bene immateriale è incorporato (il costo marginale del prodotto include ovviamente i costi di ricerca e sviluppo). Ma ciò che più rileva è che, attraverso il sistema della proprietà intellettuale, la ridistribuzione dei costi di ricerca e sviluppo, e quindi indirettamente la allocazione delle risorse destinate ai diversi momenti di tale attività, è determinata dal prodotto ottenuto e dalle scelte del mercato. La natura immateriale ed infinita dei beni non gioca, in tale prospettiva, alcun ruolo e la proprietà intellettuale si pone sullo stesso piano di tutte le altre forme di proprietà. La proprietà intellettuale è dunque l’istituto giuridico che consente la allocazione delle risorse nella ricerca e sviluppo, secondo la logica della economia di mercato, al di fuori di ogni discrezionalità amministrativa”. 18 I diritti di proprietà industriale sono divisi nelle due grandi categorie di titolati e non titolati; la fattispecie costitutiva dei primi si perfeziona attraverso un provvedimento amministrativo di brevettazione o registrazione che determina la nascita del titolo di proprietà industriale23; la natura giuridica del procedimento è definita dal Codice accertamento costitutivo24. La fattispecie costitutiva dei diritti di proprietà industriale non titolati prescinde invece da un procedimento amministrativo di brevettazione o registrazione; necessita, al fine del suo perfezionamento, solo dei requisiti previsti per ciascuna tipologia di diritti25. Le norme contenute nel Codice trovano applicazione secondo il principio di assimilazione dei cittadini stranieri nei termini previsti dalla Convenzione istitutiva dell’Unione internazionale per la protezione dei diritti di proprietà intellettuale (CUP) e dall’Accordo TRIPs; detto principio impone l’estensione del trattamento nazionale agli stranieri cittadini di paesi aderenti alla citata Convenzione e all’OMC ovvero a coloro che siano domiciliati nel nostro Paese o che abbiano in esso uno stabilimento serio ed effettivo26. Al di fuori di queste ipotesi, gli stranieri possono 23 ) Il termine brevettazione viene impiegato dal codice per le invenzioni, i modelli di utilità, le nuove varietà vegetali; sono invece oggetto di registrazione i marchi, i disegni ed i modelli, le topografie dei prodotti a semiconduttori 24 ) Cfr. art. 2, comma 5, c.p.i. Il termine accertamento sottintende che la fattispecie costituiva della tutela non si perfeziona semplicemente con il procedimento di brevettazione e registrazione ma richiede la presenza dei requisiti previsti dalle norme del codice con riferimento a ciascuna tipologia di protezione. Il medesimo termine chiarisce, inoltre, che l’autorità amministrativa competente per la registrazione o la brevettazione (Ufficio italiano brevetti e marchi) non ha alcun potere discrezionale di negare o concedere il relativo provvedimento; quest’ultimo costituisce un atto dovuto della pubblica amministrazione, mentre la meritevolezza di protezione è valutata in via generale ed astratta dal legislatore in presenza dei requisiti di tutela. Il termine accertamento non implica altresì alcuna opzione in ordine all’attribuzione all’Ufficio italiano brevetti e marchi del potere di verifica dei requisiti di protezione del titolo di proprietà industriale (cosidetto esame preventivo). 25 ) Il codice disciplina il marchio non registrato, le informazioni segrete (art. 2, comma 4, c.p.i.), le informazioni aziendali (artt. 98-99 c.p.i.), le indicazioni geografiche (artt. 29-30 c.p.i.). La protezione riconosciuta dal codice ai diritti non titolati ha attratto nell’ambito della proprietà industriale forme di tutela che precedentemente erano fondate sulla disciplina della concorrenza sleale, come la tutela dei segni distintivi diversi dal marchio. La protezione dei segni distintivi non registrati era infatti tradizionalmente ricondotta al divieto di atti confusori dell’art. 2598 n. 1 c.c., norma rimasta inalterata ed impiegata per ricostruire presupposti e limiti di tutela di alcune tipologie di diritti. 26 ) In materia di varietà vegetali l’assimilazione riguarda i cittadini, residenti o titolari di stabilimento in uno dei paesi membri della Convenzione UPOV. Cfr. infra par. 3. 19 beneficiare del trattamento riservato ai cittadini nazionali solo a condizione di reciprocità27. Altre norme del Codice, riprendono poi principi elaborati tradizionalmente a livello internazionale e comunitario28. Il Codice della Proprietà Industriale ha subito un importante intervento ad opera del d.lgs. 16 marzo 2006 n. 140 che ha dato attuazione in Italia alla Direttiva 2004/48/CE sul rispetto dei diritti della proprietà intellettuale; successivamente, il d.lgs. n. 131 del 13 agosto 2010 ha ulteriormente modificato il Codice introducendovi la Sezione IV bis contenente la disciplina delle invenzioni biotecnologiche29. Da ultimo, è intervenuto il d.lgs. 29 dicembre 2011 n. 216 convertito con l. 24 febbraio 2012 n. 14. 3. Le fonti internazioni del diritto sui brevetti Tenuto conto che i mercati hanno odiernamente assunto dimensioni sovranazionali e che gli scambi avvengono a livello globale, colui che realizza un’invenzione sarà interessato a conseguire un diritto esclusivo esercitabile in diversi Stati. 27 ) La soluzione non è peraltro in linea con l’art. 58 della Convenzione sul brevetto europeo e con la formulazione dell’art. 5 del Regolamento sul marchio comunitario che estendono la legittimazione a brevettare, o alla registrazione, ad ogni persona fisica o giuridica indipendentemente dalla reciprocità. 28 ) L’art. 4 c.p.i. disciplina il diritto di priorità inteso come la possibilità di considerare rilevanti le sole anteriorità esistenti al momento del primo deposito estero, secondo i principi della Convenzione istitutiva dell’Unione internazionale per la protezione dei diritti di proprietà intellettuale (CUP); l’art. 5 c.p.i. codifica il principio dell’esaurimento in base al quale i diritti di proprietà industriale non possono restringere la circolazione dei prodotti messi lecitamente in commercio con il consenso del titolare nella Comunità o nello SEE. Cfr. sull’argomento Capitolo IV, par. 4. 29 ) Nel Codice non aveva inizialmente trovato spazio la normativa volta a dare attuazione in Italia alla Direttiva 98/44/CE sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologie avvenuta con il d.l. 10 gennaio 2006 n. 3, convertito con l. 22 febbraio 2006 n. 78. Il mancato coordinamento era stato ricondotto al farraginoso susseguirsi di leggi delega nonché a retaggi storici. L’incompletezza della codificazione aveva così fatto sorgere problemi di carattere culturale e, prima ancora, interpretativo trattandosi di materie attinenti alla proprietà intellettuale: in tal senso D. Sarti, Proprietà industriale, cit., p. 2. 20 Di qui la natura intrinsecamente internazionale del diritto industriale che rende necessaria l’armonizzazione delle normative vigenti nei diversi Paesi così come l’introduzione di strumenti di tutela sovranazionali. Punto di partenza dell’opera di armonizzazione può essere considerata la Convenzione istitutiva dell’Unione internazionale per la protezione della proprietà industriale (d’ora in poi CUP) stipulata a Parigi il 20 marzo 1883, più volte riveduta30. Il principio di assimilazione, disciplinato dall’art. 2 CUP, è la principale innovazione introdotta dalla Convenzione; esso impone a ciascun Stato membro di applicare ai cittadini degli altri Stati membri lo stesso trattamento previsto per i suoi cittadini31. Altrettanto importante è il diritto di priorità introdotto dall’art. 4 allo scopo di facilitare l’estensione all’estero dei diritti di proprietà industriale; esso prevede che colui che ha depositato una domanda di brevetto in un Paese membro della CUP possa depositare una domanda per un brevetto corrispondente negli altri Paesi invocando la priorità del deposito nazionale di base. La domanda verrà valutata, quanto alla sussistenza dei requisiti della novità e dell’altezza inventiva, facendo riferimento alla data di priorità e non alla data dell’effettivo deposito. Si deve poi alla Convenzione anche l’abolizione della decadenza per mancata attuazione del brevetto, sostituita dalla licenza di una previsione obbligatoria32. Il tema della proprietà industriale ed intellettuale è stato oggetto anche di una convenzione conclusa nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel quadro dei negoziati GATT; si tratta dell’accordo TRIPs sugli aspetti dei diritti della proprietà intellettuali attinenti al commercio, firmato a Marrakech il 15 aprile 199433. L’accordo, cogente per tutti i membri dell’Organizzazione Mondiale del 30 ) L’ultima revisione della Convenzione è stata fatta a Stoccolma il 14 luglio 1967. L’Italia figura tra gli Stati firmatari del testo originario; il testo di Stoccolma è stato ratificato con l. 28 aprile 1976 n. 424. 31 ) La norma si applica anche a chi abbia nello Stato un domicilio, uno stabilimento industriale ed una sede commerciale. 32 ) Per ulteriori approfondimenti si rimanda a G. Sena, Invenzioni industriali, cit., p. 1. 33 ) L’Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio internazionale (TRIPS) è annesso all’Accordo istitutivo dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC); detto accordo è stato ratificato dall’Italia con la l. 29 dicembre 1994 n. 848. Per una disamina approfondita dell’accordo e dei suoi effetti per l’ordinamento italiano, si veda S. Sandri, La nuova disciplina della proprietà industriale dopo i Gatt-Trips, Padova, 1999. 21 Commercio, prevede diversi principi generali, che in parte ricalcano quelli già introdotti dalla CUP, nonché requisiti minimi di tutela per i diversi diritti di proprietà intellettuale. L’innovazione qualificante dell’accordo è costituita dalle norme che impongono agli Stati membri l’adozione di strumenti processuali che sino concretamente idonei a proteggere i diritti di proprietà industriale; altrettanto degna di nota è la previsione di un sistema per la risoluzione delle controversie tra gli Stati membri sempre nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. La materia dei brevetti per invenzione industriale è specificatamente regolamentata in trattati come la Convenzione sull’unificazione di alcuni principi della legislazione sui brevetti per invenzione fatta a Strasburgo il 27 novembre 1963 che disciplina, armonizzandoli, i requisiti di validità di tali privative. La Convenzione, aperta alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa, ha posto le basi per la costruzione del sistema del brevetto europeo, istituito con la Convenzione di Monaco del 5 ottobre 197334. Detta Convenzione ha dato vita all’ufficio Brevetto Europeo, noto anche con l’acronimo anglosassone EPO, European Patent Office, cui è affidato il compito di rilasciare un titolo di proprietà industriale unitario, il brevetto europeo appunto, destinato ad avere efficacia in tutti o alcuni degli Stati membri della Convenzione35. 34 ) La Convenzione è entrata in vigore nei primi Stati firmatari nel 1977; l’Italia l’ha ratificata con l. 26 maggio 1978 n. 260. 35 ) L’Organizzazione europea dei brevetti istituita dalla Convenzione è articolata in due organi: il Consiglio di Amministrazione e l’Ufficio europeo dei brevetti. Quest’ultimo, a sua volta, ha un presidente ed è composta da diversi settori: una sezione per i depositi, la divisione per la ricerca, la divisione per l’esame, la divisione per le opposizioni, una divisione giuridica, le camere dei ricorsi, una gran camera dei ricorsi. 22 Gli effetti del brevetto sono, in linea di principio, determinati dall’ordinamento interno dello Stato per il quale è rilasciato il brevetto stesso36. Contestualmente, però, la Convenzione disciplina un complesso di norme comuni che regolamentano, in modo uniforme, alcuni aspetti ed alcuni effetti della concessione del brevetto; indica, innanzitutto, i soggetti che hanno diritto ad ottenerlo ed introduce alcune norme relative al conflitto tra più inventori indipendenti e tra inventore ed usurpatore. A queste, si aggiungono le norme relative ai rapporti tra datore e prestatore di lavoro in merito alle invenzione dei dipendenti37. La Convenzione detta inoltre un’estesa disciplina dei requisiti che l’innovazione deve avere per formare oggetto di brevetto, delimitando, di conseguenza, il campo dei trovati brevettabili38. Nel 2000 gli Stati membri hanno deciso di rinnovare il testo della Convenzione sottoscrivendo a Monaco il 9 novembre 2000 la c.d. CBE, entrata in vigore il 13 dicembre 2007; il 5 agosto 2008 è poi entrato in vigore il c.d. London Agreement, un protocollo addizionale della Convenzione sul Brevetto Europeo in base al quale alcuni Stati membri rinunciano a subordinare l’efficacia del brevetto europeo sul 36 ) Il brevetto europeo sfocia in un insieme di privative nazionali, formalmente indipendenti (pur essendo frutto della medesima procedura di concessione) ciascuna delle quali è sottoposta, quanto agli effetti, alla disciplina vigente in ciascun Stato membro (sia pure armonizzata dalla Convenzione di Strasburgo). Tale frammentazione si riverbera anche sul regime delle lingue; l’efficacia del brevetto europeo in ciascuno Stato designato può infatti essere subordinata al deposito, nel Paese dove si richiede la protezione, della traduzione del testo del brevetto così come concesso. La circostanza contribuisce ad incrementare in maniera significativa i costi del brevetto, ponendo in tal modo le imprese che operano nell’Unione Europea in una posizione deteriore rispetto alle concorrenti extracomunitarie. A ciò si aggiungono gli effetti derivanti dalla formale indipendenza di ciascun titolo nazionale, sia sotto il profilo della legge applicabile che sotto il profilo della giurisdizione, circostanza quest’ultima che si ripercuote negativamente sulla uniformità delle decisioni e sul costo delle controversie: G. Dragotti, Le invenzioni, cit., p. 208. 37 ) La Convenzione assicura altresì al titolare della domanda un minimo di tutela provvisoria disponendo che, successivamente alla pubblicazione della domanda, il titolare ha comunque diritto a ricevere un’indennità ragionevole da chiunque attui l’invenzione. 38 ) Non consente infatti la brevettazione dei programmi di calcolatori, delle novità vegetali e delle razze di animali; enuncia, inoltre, una propria nozione di novità, di originalità, di industrialità e di liceità dell’invenzione. All’art. 138 disciplina le uniche causa di nullità del brevetto sottraendo agli Stati contraenti la competenza ad introdurne altre. 23 loro territorio al deposito della traduzione del brevetto nella lingua nazionale39. Lo scopo, è quello di ridurre i costi del brevetto40. Un ulteriore, importante, strumento predisposto dal diritto internazionale in materia di brevetti è rappresentato dal Trattato di Cooperazione in materia di Brevetti (PCT) firmato a Washington il 19 giugno 197041. Il Trattato PCT ha istituito una procedura di deposito centralizzata per le domande di brevetto (c.d. brevetto internazionale); centralizzata è anche la fase della ricerca (per le domande di brevetto provenienti dall’Italia detta fase è affidata all’Ufficio Brevetto Europeo) 39 ) Uno Stato che ha una lingua ufficiale in comune con una delle lingue ufficiali dell’UEB (inglese, francese, tedesco) deve rinunciare completamente ai requisiti di traduzione di cui all'articolo 65, comma 1, EPC; Gli Stati che non hanno invece una lingua ufficiale in comune con l’UEB devono scegliere una delle lingue ufficiali di quest’ultimo in modo che il brevetto verrà tradotto in quella lingua prima di entrare in vigore nel loro Paese. Tali Stati possono tuttavia esigere, qualora il titolare intenda azionare il brevetto nel loro paese, una traduzione delle rivendicazioni in una delle sue lingue ufficiali. 40 ) Il brevetto europeo presenta la criticità dei costi eccessivi; mediamente, il costo per ottenere un brevetto EPO è di 30.000,00 euro spesi nelle procedure amministrative e nei costi legali. Possibili rimedi alle difficoltà espresse da chi intende brevettare un’invenzione sono: a) London Agreement: riduzione dei costi di traduzione (che rappresenta circa il 10% del costo totale di un brevetto europeo). L’Italia non ha aderito; b) European Patent Litigation Agreement: un’unica giurisdizione europea che si occupi delle controversie legali. L’Italia non risulta tra i partecipanti; c) Un sistema di assicurazione per le PMI contro il rischio di azioni legali sui diritti di proprietà intellettuale; d) Apertura ai contingency lawyers (compensati in % solo se la causa è vinta); e) Discriminazione positiva a favore delle PMI (maggiore durata del periodo di priorità, brevetto non contestabile per un certo periodo); f) Sostegni alle PMI per ridurre i costi complessivi delle brevettazioni (inclusi quelli di natura legale); g) Accordo UIB-EPO: ricerca di anteriorità (a spese del governo italiano) corredata da un’opinione scritta sui brevetti depositati in Italia; h) Regolamento CE 364/2004 e Direttiva del 2006 in materia di aiuti di Stato a favore di R&S e innovazione: “Gli aiuti concessi alle PMI per coprire i costi relativi alla concessione ed al riconoscimento dei brevetti (…) sono compatibili con il mercato comune”. Sono ammissibili anche “i costi sostenuti per difendere validità del diritto (…) anche (...) dopo la concessione del diritto”. Una piccola impresa può ricevere sostegni fino al 45% di tali costi. In Italia sono state adottate utili iniziative a sostegno dei brevetti: la Provincia di Milano ha indetto un bando negli anni 2002-04 a sostegno dei brevetti internazionali; università, PMI, centri pubblici di ricerca e centri privati hanno finanziato numerose domande di brevetto; nel 2007 l’EPO ha premiato come PMI europea dell’anno la Novamont (provincia di Terni) fondata e diretta da una biologa titolare di un brevetto su un nuovo sistema per produrre plastica biodegradabile. Sul tema della riallocazione del rischio in uno specifico mercato assicurativo che risarcisca le spese legali di un inventore coinvolto in una causa per la violazione di un diritto brevettuale si rimanda a L. Buzzacchi, G. Scellato, Assicurazione di tutela legale e diritti di proprietà intellettuale: natura economica ed effetti incentivanti, in Diritto ed economia dell’assicurazione, 2009, p. 873. L’Autore rileva che l’idea di creare un mercato assicurativo non ha trovato sviluppo né negli Stati Uniti né in Europa. Dal punto di vista dell’assicuratore, vengono evidenziate le difficoltà di valutare il costo del rischio, la durata delle cause ed i relativi costi, i possibili comportamenti opportunistici da parte degli assicurati (il cosiddetto fenomeno di over-litigation). 41 ) L’Italia ha autorizzato la ratifica del PCT con la l. 26 maggio 1978 n. 260. Le norme di attuazione sono state emanate con la successiva l. 21 dicembre 1984 n. 890. 24 che sfocia in un rapporto di ricerca internazionale il quale viene poi pubblicato unitamente alla domanda. Le fasi successive restano affidate ai singoli uffici nazionali o regionali. 4. Il Brevetto europeo con effetto unitario. Ulteriori riferimenti normativi comunitari in materia di brevetto Sin dagli anni’70 il legislatore comunitario ha messo mano ad una convenzione volta ad istituire un Brevetto Comunitario. La prima proposta risale al 1975; modificata nel 1989, non entrava in vigore a causa di una serie di obiezioni sollevate da alcuni Stati membri42. Nel 2000, il Consiglio UE metteva a punto una proposta di regolamento alla luce delle risultanze delle indagini sfociate nel Libro verde sul brevetto comunitario e sul sistema dei brevetti in Europa43. La proposta prevedeva che il Brevetto Comunitario, valido in tutti i Paesi dell’Unione, venisse concesso dall’Ufficio Brevetti Europeo le cui lingue di lavoro erano, e sono, l’inglese, il francese ed il tedesco44; prevedeva inoltre l’istituzione di una giurisdizione centralizzata, questione sulla quale sorgevano una serie di difficoltà che procrastinavano l’approvazione della proposta di regolamento. Successivamente, nel 2003, la Commissione presentava tre nuove proposte45. 42 ) All’epoca, era stato creato il brevetto comunitario, titolo brevettuale unitario valevole per l’intero territorio comunitario. Esso era stato istituito con la Convenzione di Lussemburgo del 1975. La Convenzione non è mai entrata in vigore per le problematiche sollevate dagli Stati membri relativamente alla lingua ed alla giurisdizione. Circa la lingua, gli Stati membri erano restii a rinunciare alla traduzione del titolo in ciascuna lingua nazionale; circa la giurisdizione, erano contrari ad affidare alle autorità sovranazionali i giudizi di validità e di contraffazione dei brevetti. 43 ) Il testo del Libro Verde è pubblicato in italiano in Riv. dir. ind., 1997, p. 832, con un commento di De Benedetti. 44 ) Attualmente, quando l’EPO rilascia un brevetto europeo, il testo integrale del brevetto (fascicolo) è pubblicato nella lingua ufficiale scelta dal richiedente il quale è tenuto anche a fornire una traduzione degli elementi del brevetto che definiscono la portata della tutela (la rivendicazione) nelle altre due lingue ufficiali dell’EPO. 45 ) Per approfondire il contenuto della proposte del 2003 si rimanda a M. Moglia, G. Foglia, Il brevetto comunitario: dalla convenzione del 1975 al regolamento del 2003, in Riv. dir. ind., 2003, p. 497. M. Scuffi, Un brevetto comune per l’Europa, dall’accordo di Lussemburgo al progetto Epla, in Riv. dir. ind., 2007, p. 211. 25 Dopo un lungo periodo di sospensione dei lavori, veniva ripresa la proposta risalente al 2000 e veniva redatto il Progetto di accordo sul Tribunale dei brevetti europeo e comunitario46. Sul regime delle traduzioni, la Commissione presentava una proposta di regolamento del Consiglio47, il quale, nell’impossibilità di giungere ad un accordo tra tutti gli Stati membri, autorizzava la cooperazione rafforzata48. Il 17 dicembre 2012 venivano adottati i regolamenti (UE) n. 1257/2012 e n. 1260/2012 riguardanti l’attuazione di una cooperazione rafforzata per la creazione, rispettivamente, di una tutela brevettuale unitaria (cosiddetto “brevetto unico europeo”) e per il relativo regime linguistico49; successivamente il 19 febbraio 2013, a margine della riunione del Consiglio dell’UE, ventiquattro Stati membri, compresa l’Italia, ai quali il 5 marzo si aggiungeva la Bulgaria, firmavano l’Accordo sul Tribunale unitario completando così il “Pacchetto Brevetti”50. 46 ) L’obiettivo dell’accordo per la costituzione di un Tribunale è quello di istituire un sistema unico per la risoluzione delle controverse in materia di brevetti al fine di ridurre i costi e la complessità della soluzione delle controversie: in tal senso G. Caggiano, Il pacchetto normativo sul “brevetto europeo unitario” tra esigenze di un nuovo sistema di tutela, profili di illegittimità delle proposte in discussione e impasse istituzionale, in Riv. dir. ind., 2012, p. 683. 47 ) COM(2010) 350 def., 30 giugno 2010, Proposta di regolamento (UE) del Consiglio sul regime di traduzione del brevetto dell’Unione europea. 48 ) Decisione 2011/167/UE. La cooperazione rafforzata è una procedura prevista dal Trattato di Lisbona che consente ad almeno 9 Stati membri di raggiungere determinati obiettivi qualora questi non possano essere conseguiti entro un termine ragionevole dall’UE nel suo insieme. Nel caso che ci occupa, era accaduto che all’interno del Consiglio non si era riusciti a raggiungere l’unanimità richiesta per l’adozione del regolamento relativo al brevetto unico europeo a causa di forti divergenze tra gli Stati membri in relazione al regime di traduzione proposto. L’Italia e la Spagna, infatti, avevano posto il veto sulla proposta della Commissione, ritenendola lesiva del principio di parità linguistica, di utilizzare per le traduzioni del futuro brevetto unico europeo una delle lingue ufficiali dell’Ufficio europeo dei brevetti (UEB), vale a dire inglese, francese o tedesco. 49 ) Il 22 marzo 2013 la Spagna ha proposto ricorso contro entrambi i regolamenti. 50 ) Cfr. Acc. 2013/c 175/01. La competenza del Tribunale unificato si estenderà a tutti gli aspetti del contenzioso in materia brevettuale, ivi inclusa la tutela d’urgenza e risarcitoria. Le lingue ufficiali per le cause in materia brevettuale saranno l’inglese, il francese e il tedesco. Il Tribunale unificato dei brevetti sarà costituito da una divisione centrale con sede a Parigi e due sezioni, una a Monaco e l’altra a Londra. Vi saranno inoltre una o più divisioni locali in ogni Stato membro contraente che ne faccia richiesta, per un massimo di quattro divisioni locali. La Corte di Appello avrà sede in Lussemburgo. Affinché il Tribunale Unificato diventi realtà, dovranno essere portate a compimento le procedure di ratifica in almeno dieci Stati dell’Unione, oltreché necessariamente in Germania, Francia e Gran Bretagna. Alla data odierna l’Accordo non è stato firmato soltanto da Spagna e Polonia. Si tratta comunque di un Pacchetto che, così come è stato confezionato, non trova consensi unanimi visto che, ad esempio, il Max Planck Institute for Intellectual Property and Competition Law ha individuato dieci punti deboli nella nuova disciplina. 26 Con l’entrata in vigore dei predetti regolamenti51, il brevetto europeo con effetto unitario sarà concesso dall’Ufficio Europeo Brevetti ed avrà la medesima efficacia nei 25 Stati membri che hanno partecipato alla cooperazione rafforzata o che vi aderiranno in seguito52. Con sentenza del 16 aprile 2013, resa nelle cause riunite C-274/11 e C-295/11, la Corte di Giustizia dell’UE, Grande Sezione, ha respinto i ricorsi di annullamento presentati, ai sensi dell’articolo 263 TFUE il 30 e 31 maggio 2011, contro la 51 ) I regolamenti sono entrati in vigore il 20 gennaio 2013 e si applicano a decorrere dal 1° gennaio 2014 o dalla data di entrata in vigore dell’Accordo su un Tribunale unificato dei brevetti, se successivo (art. 18.2 regolamento 1257/2012 e art. 7.2 regolamento 1260/2012). L’Accordo, a sua volta, entrerà in vigore il 1° gennaio 2014 o il primo giorno del quarto mese successivo al deposito del tredicesimo strumento di ratifica o adesione (ma devono essere compresi tra questi Germania, Francia e Regno Unito) o il primo giorno del quarto mese successivo all’entrata in vigore delle modifiche al Regolamento 1215/2012 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale relative ai rapporti tra il Regolamento 1215/2012 e l’Accordo. 52 ) Il brevetto unitario avrà le seguenti caratteristiche: la domanda di brevetto unitario verrà depositata presso l’Ufficio Europeo dei Brevetti (EPO) con sede a Monaco di Baviera; la domanda di brevetto dovrà essere tradotta in una delle lingue ufficiali della Convenzione sul Brevetto Europeo (inglese, francese o tedesco); una volta richiesto, sarà rilasciato in una delle lingue dell’UEB non essendo previste traduzioni ulteriori. Allo stato, sono previsti rimborsi supplementari per i Paesi dove non si parla una delle lingue ufficiali; una volta concesso, il brevetto unitario avrà efficacia nei 25 Paesi aderenti, senza bisogno di procedere alle fasi di convalidazione nei singoli Stati (si tratta quindi di un brevetto unico, gestito in maniera centrale dall’Ufficio Europeo dei Brevetti, senza ulteriore coinvolgimento degli Uffici nazionali); il brevetto unitario potrà essere limitato, trasferito o revocato, o estinguersi unicamente in relazione a tutti gli Stati aderenti; il brevetto unitario potrà essere concesso in licenza in relazione a tutti gli Stati aderenti o solo per alcuni di essi; è comunque prevista la possibilità di accedere al Brevetto Unitario sul territorio di uno Stato membro da parte di imprenditori provenienti da Stati non aderenti. L’Italia sarà per il momento esclusa dal nuovo regime di brevetti in quanto ha deciso di non aderire alla cooperazione rafforzata, unitamente alla Spagna. 27 decisione 2011/167/UE del Consiglio del 10 marzo 2011 che autorizzava la cooperazione53. In dottrina, il brevetto comunitario non incontra unanimi consensi54. 53 ) Il 31 maggio 2011 il Governo italiano presentava alla Corte di giustizia dell’UE un ricorso per chiedere l’annullamento della decisione che autorizzava la cooperazione rafforzata (analogo ricorso era stato presentato dalla Spagna). Secondo i motivi del ricorso, la decisione violerebbe il Trattato sull’UE in quanto esso prevede il ricorso alla cooperazione rafforzata solamente nel quadro delle competenze non esclusive dell’UE, mentre la creazione di “titoli europei” rientrerebbe tra le sue competenze esclusive. Inoltre, il Governo italiano sostiene che la cooperazione rafforzata oggetto del ricorso recherebbe pregiudizio al mercato interno, introducendo un ostacolo per gli scambi tra gli Stati membri, discriminazioni fra imprese e distorsioni della concorrenza. La decisione di autorizzare la cooperazione rafforzata presenterebbe anche carenze istruttorie e difetto di motivazione. La Corte, accogliendo la posizione dell’Avvocato Generale, ha escluso che la creazione di un brevetto unitario e del relativo regime linguistico rientri tra le materie di competenza esclusiva dell’Unione. Tra le varie ragioni invocate, la Corte ha richiamato espressamente quanto affermato nei punti 56-80 delle Conclusioni dell’Avvocato Generale. In sintesi, le norme in materia di proprietà intellettuale sono essenziali per il mantenimento di una concorrenza non falsata nel mercato interno ma non costituiscono “regole di concorrenza” ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera b), TFUE. Queste devono essere ricostruite in base alle disposizioni dei trattati relative a ciascun settore (art. 2.6. TFUE) e quindi, in materia di concorrenza, in base agli artt. da 101 TFUE a 109 TFUE, che riguardano le regole applicabili alle imprese e quelle sugli aiuti di Stato, ma non riguardano la creazione di un titolo di proprietà intellettuale. Secondo l’Avvocato Generale, inoltre, “il fatto che un titolo giuridico, come il brevetto unitario, possa avere un impatto sul mercato interno non è sufficiente per farne un titolo che rientra nell’ambito delle regole di concorrenza ai sensi del diritto primario e, più in particolare, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera b), TFUE” (Conclusioni, punto 60). La Corte non ha altresì accolto il motivo del ricorso secondo il quale nell’Unione esiste già un certo livello di uniformità perché la legislazione degli Stati membri è conforme alla Convenzione sul Brevetto Europeo, mentre il brevetto unitario, applicabile solo ad una parte dell’Unione, pregiudicherebbe tale uniformità anziché migliorarla (come ha osservato anche il Max Planck Institute; vedi infra nota 54). La Corte ritiene invece che il brevetto unitario migliori l’uniformità, anche se non si applica a tutti gli Stati membri. Circa le contestazioni sul regime linguistico prescelto, che secondo le ricorrenti altererà le dinamiche del mercato interno perché, ad esempio, favorirà gli Stati la cui lingua è una delle tre lingue ufficiali del nuovo titolo (inglese, francese, tedesco), la Corte respinge le censure ed osserva che le stesse non potevano essere fatte valere con il ricorso contro la decisione che ha autorizzato la cooperazione rafforzata. 28 54 ) Il brevetto unitario non farà comunque venire meno gli attuali sistemi e, quindi, i brevetti nazionali ed il brevetto europeo valido negli Stati che sono parte della Convenzione di Monaco sul brevetto Europeo (cioè i venticinque Stati della cooperazione rafforzata oltre a Italia, Spagna, Svizzera, Turchia, Norvegia, Islanda, Serbia, Albania, Macedonia, etc.), con il risultato, evidenziato dal Max Planck Institute, di una frammentazione della protezione brevettuale europea. Il quattordicesimo considerando del regolamento n. 1257/2012 afferma che “Un brevetto europeo con effetto unitario, in quanto oggetto di proprietà, dovrebbe essere considerato, nella sua totalità e in tutti gli Stati membri partecipanti, come un brevetto nazionale dello Stato membro partecipante determinato in conformità di criteri specifici quali la residenza del richiedente, la sua principale sede di attività o la sua sede di attività”. Sotto questo aspetto, dunque, i brevetti unitari saranno soggetti a leggi nazionali diverse a seconda della residenza o sede del richiedente al momento del deposito della domanda. Il paragrafo 3 tuttavia prevede che “Se il richiedente non aveva la residenza, la sede principale di attività o la sede di attività in uno Stato membro partecipante in cui tale brevetto abbia effetto unitario ai fini del paragrafo 1 o 2, il brevetto europeo con effetto unitario, in quanto oggetto di proprietà, è considerato nella sua totalità e in tutti gli Stati membri partecipanti come un brevetto nazionale dello Stato in cui ha sede l’Organizzazione europea dei brevetti, conformemente all’articolo 6, paragrafo 1, della CBE”. Contrario al brevetto comunitario perché “nocivo” sia in generale che in particolare, cioè per l’Italia, A. Vanzetti, Ancona sul brevetto comunitario, in Riv. dir. ind., 2004, p. 81, L’Autore osserva che, secondo i sostenitori del brevetto comunitario, l’istituto dovrebbe rendere l’Europa l’economia più competitiva del mondo per effetto dei suoi vantaggi; nella specie, il minor costo rispetto ai brevetti nazionali ed europeo, la sua automatica validità in tutti i Paesi dell’Unione Europea. “Nessuna di queste due ragioni” scrive l’Autore “appare fondata, o quanto meno alla portata delle mie capacità di comprensione. Quanto al minor costo del brevetto comunitario (circostanza sulla cui effettività possono avanzarsi fondati dubbi), si sostiene in particolare negli ambienti comunitari che esso determinerà una moltiplicazione dei depositi brevettuali da parte delle industrie europee, che rafforzeranno in questo modo la propria posizione concorrenziale. Senonché a me sembra che la possibilità del deposito di brevetti, utile a fini di rafforzamento concorrenziale, non dipenda tanto dal costo dei brevetti stessi, bensì dal fatto che, a monte, si faccia della seria ricerca, capace di portare a serie invenzioni brevettabili. In altri termini non riesco a capire come la quantità di validi brevetti depositati in un sistema economico, e perciò la competitività di quel sistema, possa ritenersi proporzionale al costo dei depositi dei medesimi, anziché all’entità degli investimenti in ricerca e dei centri di ricerca presenti in quel sistema. (…) Passando ora a considerare il secondo presunto vantaggio per le imprese europee del brevetto comunitario, quello derivante dalla sua validità in tutta l’Unione, si assume che esso determinerebbe l’eliminazione di un ostacolo alla libera circolazione delle merci nello Spazio Economico Europeo, secondo uno dei principali obiettivi del Trattato istitutivo. Senonché, a me sembra che la sostituzione con un sistema brevettuale rigido in tutti i Paesi dell’Unione, degli esistenti sistemi elastici nazionali ed europeo, che consentono alle imprese di limitare la brevettazione ai Paesi che siano di loro reale interesse, determini esattamente il contrario dell’eliminazione di un ostacolo alla libera circolazione delle merci. I sistemi elastici di cui ho appena parlato, infatti, consentono un minimo di concorrenza sui prodotti brevettati quantomeno nei Paesi per i quali la brevettazione non sia stata richiesta, ed inoltre la circolazione nell’Unione dei prodotti immessi sul mercato in quei Paesi dal titolare o con il suo consenso. Al contrario il sistema rigido proposto per il brevetto comunitario determinerebbe un blocco monopolistico totale per il prodotto brevettato, che in tutta l’Unione potrebbe circolare soltanto a discrezione del titolare. Se dunque il brevetto comunitario così come vuole essere configurato non gioverebbe né ad un’automatica trasformazione di quella europea nella «economia più competitiva del mondo» né a diminuire gli ostacoli alla libera circolazione delle merci nell’ambito dell’Unione Europea, cooperando in tal guisa al primo fine istituzionale del Trattato; se dunque, ripeto, il brevetto comunitario non sembra idoneo a conseguire questi scopi nell’interesse pratico ed istituzionale dell’Unione, pare legittimo chiedersi a quali interessi esso in realtà giovi. Non par dubbio che lo strumento costituito da questo brevetto comunitario giovi alle imprese che hanno quale propria strategia (e nel contempo le possibilità economiche per realizzarla) quella di depositare il maggior numero di brevetti possibile in tutto il mondo, in base al convincimento che «dobbiamo possedere i 29 Oggetto di un accesso dibattito è stata anche la normativa sulla protezione delle invenzioni biotecnologiche, approvata con la Direttiva 98/44/CE del 6 luglio 199855; anni dopo, precisamente nel 2004, il legislatore comunitario ha poi emanato la Direttiva 2004/48/CE del 29 aprile 2004 sul rispetto dei diritti della proprietà intellettuale, c.d. direttiva enforcement, che si propone di rafforzare la tutela concreta di tali diritti nei Paesi dell’Unione prevedendo degli standard di protezione minimi e regolando gli strumenti processuali all’uopo destinati. La Direttiva è stata attuata in Italia con il d.lgs. 13 giugno 2006 n. 140 che, tra l’altro, ha introdotto nel nostro sistema l’istituto della discovery o, almeno, una versione compatibile con i principi degli ordinamenti del civil law. È stata infine profondamente innovata la disciplina del risarcimento del danno cagionato dalla contraffazione in un’ottica volta ad amplificare la funzione deterrente della misura, sia pure a prezzo di alcune tensioni sistematiche rispetto all’impianto generale della responsabilità extracontrattuale56. brevetti non per proteggere i nostri prodotti, ma perché essi ci danno il potere di escludere gli altri in settori dove essi possono voler inserirsi» (dichiarazione del dirigente della Hewlett-Packard, Marc Schuyler, riportata dal Wall Street Journal del 4 ottobre 2002, relativa alle ragioni per cui la sua impresa desidera aumentare il numero dei brevetti). È evidente che a questo tipo di imprese con il brevetto comunitario si fa un bel regalo, mettendo a loro disposizione uno strumento semplificato sia sotto il profilo del deposito sia sotto quello della «manutenzione», ed oltretutto a buon mercato. Ed è anche evidente che imprese di questo tipo si trovano principalmente negli Stati Uniti e in Giappone, ed assai meno in Europa. Un regalo viceversa non sembra si faccia alle piccole e medie imprese, le quali dovranno confrontarsi con un numero di brevetti sempre maggiore ottenuti da imprese concorrenti assai più grandi e vedranno corrispondentemente ridursi l’area di attività economica e produttiva liberamente disponibile. Solo poche di esse (pochissime in Italia), effettivamente innovative nel loro settore, usufruiranno a più basso costo di una copertura brevettuale automatica per i quindici o i venticinque paesi dell’Unione Europea. Ma la gran parte delle imprese (e tutte le medio-piccole) non avranno né un interesse né soprattutto la capacità di coprire un mercato così vasto, ed il costo relativo di registrazione (a prescindere da ciò, si avranno per le piccole e medie imprese degli ulteriori e gravi inconvenienti, di cui dirò più avanti). Il brevetto comunitario di cui sto parlando, dunque corrisponde essenzialmente all’interesse delle grandi imprese multinazionali, soprattutto di origine statunitense o giapponese, per le quali costituisce, come ho appena detto, un bel regalo. Ma qual è l’interesse del nostro Paese, e della Unione Europea a far questo regalo? Esiste un simile interesse?”. 55 ) Il testo della Direttiva 98/44/CE sarà illustrato nel successivo capitolo. 56 ) Cfr. A. Sirotti Gaudenzi, La riforma del diritto processuale “industriale” alla luce del d.lgs. n. 140/2006, consultabile alla pagina http://www.altalex.com/index.php?idnot=35064#sdfootnote4sym. 30 Capitolo II Le invenzioni biotecnologiche: evoluzione del diritto dei brevetti ed estensione della privativa 31 1. Rivoluzione nel diritto dei brevetti: dalla tutela dell’innovazione tecnica a quella della “materia vivente” Il legame appropriazione-innovazione che storicamente ha rappresentato la giustificazione economica del sistema delle privative industriali è entrato in crisi con la tutela del vivente oggetto delle invenzioni biotecnologie. Queste ultime rappresentano, insieme con il software, una delle tappe di svolta della storia moderna del sistema brevettuale57; costituiscono la fonte principale del fenomeno che viene descritto come “inondazione delle privative” (patent flood)58 il cui inizio è riconducibile alla formula “anything under the sun that is made by mann” pronunciata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti59. La rivoluzione brevettuale è frutto del progressivo mutamento dell’obiettivo da tutelare. 57 ) Negli Stati Uniti la Corte Suprema ha ammesso la brevettabilità del software con la sentenza Diamond v. Diehr 450 US 175 (1981). Per approfondire il tema relativamente alla situazione in Europa si rimanda a G. Ghidini, E. Arezzo, Il software fra brevetto e diritto d’autore. Primi appunti sulla proposta di direttiva comunitaria sulla “invenzioni attuate per mezzo di elaboratori elettronici”, in Riv. dir. ind. 2005, p. 46; E. Arezzo, Nuove prospettive europee in materia di brevettabilità delle invenzioni del software, in Giur. Commerciale, 2009, p. 1017. 58 ) In tal senso G. Colangelo, La tutela delle invenzioni biotecnologiche in Europa e negli Stati Uniti alla luce dei casi Brustle e Myriad Genetics, in Giur. Comm., 2012, p. 35, il quale, a sua volta, cita Eisenberg, The Story of Diamond v. Chakrabarty: Technological Change and the Subject Matter Boundaries of the Patent System, in Intellectual Property Stories, a cura di Ginsburg e Dreyfuss, New York Foundation Press, 2006, p. 327. 59 ) Diamond v. Chakrabarty, 447 US 303 (1980). Vedi infra par. 2. G. Ghidini, Prospettive “protezionistiche” nel diritto industriale, in Riv. dir. ind., 1995, p. 73, riflette sulla profonda evoluzione che il diritto industriale ha sperimentato, su larga scala, a partire dal secondo dopoguerra, con particolare intensità nell’ultimo trentennio. Caratteristica di questa evoluzione, determinata dal concorso di molteplici fattori oggettivi, è una costante e multiforme tendenza all’ampliamento della protezione esclusiva sia dei frutti dell’innovazione industriale che dei segni distintivi. Un primo, e più visibile, profilo di questa tendenza è rappresentato, secondo l’Autore, dall’estensione della durata temporale dei diritti esclusivi sulle creazioni “immateriali” (dalle invenzioni ai modelli, dalle opere protette al diritto d’autore), dall’estensione della durata della protezione del brevetto farmaceutico attraverso il c.d. certificato complementare. Un secondo, ed altrettanto evidente, aspetto di detta tendenza è rappresentato dall’ingresso, nell’area della brevettabilità, di tipi di invenzione che, per ragioni diverse, il modello classico tradizionalmente escludeva; tra queste, le invenzioni farmaceutiche e quelle afferenti alla “materia vivente”, anche del regno animale, rispetto alle quali si è giunti ad ammettere la brevettabilità sia di procedimenti microbiologici di produzione di “nuove razze” animali, sia di microrganismi in sé. 32 I diritti di proprietà intellettuale, destinati originariamente a promuovere l’innovazione tecnica e l’espressione artistica, riguardano, nella loro attuale configurazione, la tutela della conoscenza in quanto tale; rappresentano efficaci strumenti di assoggettamento alla logica proprietaria di aree di conoscenza pura piuttosto che della sua dimensione applicativa60. La tendenza ad estendere i diritti di proprietà sulla conoscenza, realizzata attraverso il tentativo di commodification dell’informazione, ha portato ad una progressiva dilatazione dell’area della brevettabilità; la proliferazione di brevetti, frammentati e sovrapposti, anziché stimolare la ricerca e l’innovazione, rischia di determinare, in alcuni casi, una situazione di stallo61. Nel caso delle biotecnologie, il quadro si arricchisce e, al tempo stesso, si complica per via delle peculiarità di questo settore, cui sono legate, tra le tante, questioni di carattere etico, ambientale, economico, politico, sociale e, non da ultimo, di compatibilità con il diritto dei brevetti62. Le conoscenze tecniche vengono infatti impiegate per manipolare e modificare la materia vivente arrivando a produrre farmaci, vaccini, batteri transgenici, tessuti e organi per xenotrapianti, animali e piante transgenici, alimenti privi di allergeni, colture difese contri i parassiti senza l’impiego di pesticidi, tecniche di biorisanamento ambientale grazie a microrganismi ed enzimi “ingegnerizzati”; possono essere utilizzate nell’ambito della diagnosi e della cura di malattie gravissime, nella fecondazione assistita, nello screening delle alterazioni genetiche, nella riproduzione clonale degli animali. Ampia e trasversale è, dunque, la loro applicazione63. 60 ) Vedi infra par. 8. ) Per queste ed altre problematiche collegate all’estensione dell’area della brevettabilità si rimanda alle tematiche trattate nel Capitolo IV. 62 ) Cfr. sul punto V. Di Cataldo, Biotecnologie e diritto. Verso un nuovo diritto, e verso un nuovo diritto dei brevetti, in Contratto e impresa, 2003, p. 319. 63 ) V. Di Cataldo, Biotecnologie e diritto, cit., p. 331, è dell’idea che davanti ai grandi problemi del mondo di oggi e di domani, davanti all’enorme crescita della popolazione umana, alla crescita dei consumi, alla crescita della povertà, alla crescita delle disuguaglianze, alla crescita della rapidità di diffusione di patologie di origine epidemica, alla riduzione delle risorse naturali, le biotecnologie (che pure potrebbero agire non positivamente, se mal gestite) promettono di dare (se ben gestite) un contributo di enorme sollievo alla creazione di uno sviluppo sostenibile. 61 33 2. Esatta individuazione del significato di biotecnologie ed ambito di applicazione delle stesse. Primi brevetti concessi a protezione dell’innovazione biotecnologica La Convenzione sulla Diversità Biologica ONU risalente al 1992 definisce le biotecnologie come: “l’applicazione tecnologica che si serve dei sistemi biologici, degli organismi viventi o di derivati di questi per produrre o modificare prodotti o processi per un fine specifico”64. In materia, è stata adottata inizialmente una chiave di lettura finalizzata a mantenere, in modo chiaro, il collegamento delle scienze biologiche con l’approccio scientifico confluito in esse; si citano, a tal proposito, gli esempi della bio-fisica, della bio-chimica, della bio-etica. Successivamente, in virtù della consapevolezza di aver dato vita ad una nuova radice scientifica da cui derivano saperi multiformi, ognuno fondamentale per lo sviluppo sano e florido dell’intero sistema vitale che li ha originati65, si è imposta l’idea di distinguere le biotecnologie non più in base alla 64 ) La Convenzione sulla Diversità Biologica è stata firmata dalla Comunità europea e da tutti gli Stati membri nel corso della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro il 5 giugno 1992. A. Pizzoferrato, La tutela brevettale delle invenzioni biotecnologiche, in Contratto e impresa, 2000, p. 1232, elenca, tra le principali biotecnologie, la tecnologia del DNA ricombinante o ingegneria genetica, la reazione a catena della polimerasi (PCR), le sonde nucleotidiche, le immunoblotting (Southern blotting, Northern blotting, Western blotting), la tecnica di produzione di anticorpi monoclinali da colture di cellule eucariote, le reazioni immunometriche radioisotopiche e non radioisotopiche. 65 ) G.M. Golinelli, L’approccio sistemico al governo dell’impresa, Volume I, L’impresa sistema vitale, Padova, 2005. 34 matrice culturale di provenienza bensì ponendo in primo piano l’ambito di applicazione delle stesse, cui si associano generalmente differenti colori66. Questo modo di classificare il variegato, ma complesso, mondo delle scienze biotecnologiche è stato, tuttavia, ritenuto insufficiente a fornire informazioni, finanche sintetiche ed elementari, sulle peculiarità che distinguono una specifica innovazione dall’altra67. Per questo motivo, è stato suggerito d’impiegare la logica posta alla base della metodologia multidimensionale, propria della letteratura specializzata in tema di analisi e strategie d’impresa68, che propone di incrociare tre variabili esplicative dei comportamenti di mercato per focalizzare, dal versante offerta, i capisaldi dell’innovazione (tecnologia) e, dal lato della domanda, le possibili utilità (funzioni d’uso) generate dalle scoperte della scienza ed i potenziali destinatari delle stesse (tipologie di clienti)69. 66 ) Si parla, specificatamente di: Red biotechnology (biotecnologia rossa): è il settore applicato ai processi biomedici. Alcuni esempi sono l’individuazione di organismi in grado di sintetizzare farmaci o antibiotici oppure lo sviluppo di tecnologie di ingegneria genetica per la cura di patologie. White biotechnology: conosciuta anche come grey biotechnology (biotecnologia bianca e grigia). É la branca che si occupa dei processi biotecnologici di interesse industriale. Le risorse consumate dai processi industriali di tipo biotecnologico sono notevolmente minori di quelli tradizionali; per questo motivo, il settore è in notevole espansione. Si tratta, ad esempio, della costituzione di microrganismi in grado di produrre sostanze chimiche. Green biotechnology (biotecnologia verde): è il settore applicato ai processi agricoli. Tra le applicazioni, figura la modificazione di organismi per renderli capaci di crescere in determinate condizioni ambientali o nutrizionali. Lo scopo di questo settore è quello di produrre soluzioni agricole aventi un impatto ambientale minore rispetto ai processi agricoli classici. Sono state ad esempio ingegnerizzate alcune piante in grado di produrre autonomamente pesticidi, eliminandone la necessità di somministrazione esterna, più dispendiosa ed inquinante. Con questo fine è stato prodotto il mais BT. É in corso un ampio dibattito sulla eco-compatibilità di questi processi nonché sulla sicurezza degli organismi geneticamente modificati (OGM). Bioinformatica: nota talvolta come biologia computazionale, si tratta di un settore interdisciplinare che utilizza un approccio informatico per risolvere problematiche di tipo biologico. Gioca un ruolo determinante nelle applicazioni di genomica funzionale, genomica strutturale e proteomica. Ha un ruolo fondamentale anche nello sviluppo di nuovi farmaci (drug discovery). In alcune occasioni si usa anche il termine blue biotechnology (biotecnologia blu), usata per descrivere le applicazioni marine ed acquatiche delle biotecnologie. 67 ) In tal senso R. Vona, Management delle biotecnologie. Competizione, innovazione e sviluppo imprenditoriale, Milano, 2008, p. 20. 68 ) S. Sciarelli, Fondamenti di economia e gestione dell’impresa, Padova, 2004. 69 ) In tal senso R. Vona, op. cit., p. 22 cui si rimanda per approfondire le tematiche trattate. 35 La nascita dell’innovazione biotecnologica viene fatta risalire al 1953 allorquando James Watson, venticinquenne, insieme a Francis Crick individuavano e descrivevano la struttura della doppia elica del DNA, l’acido desossiribonucleico70, dandone pubblica notizia al Simposio di Cold Spring Harbor nel marzo di quell’anno (ottenendo poi nel 1962 il Premio Nobel insieme con Wilkins)71. La scoperta permetteva di capire che tutta la sostanza vivente si riduce ad alcune strutture di base, assolutamente identiche, che danno vita a realtà diverse a seconda del loro modo di combinarsi72; il genotipo (la struttura interna del DNA) interagendo con l’ambiente condiziona il fenotipo (la struttura esterna dell’organismo vivente); a modifiche delle strutture interne corrispondono modifiche delle strutture esterne73. Alla fine degli anni’70 iniziavano a svilupparsi le ricerche fondate sulla scoperta del DNA. 70 ) V. Menesini, Le invenzioni biotecnologiche fra scoperte scientifiche; applicazioni industriali; preoccupazioni bioetiche, in Riv. dir. ind., 1995, p. 193, definisce il DNA l’unità biologica. R. Cortese, Il contenuto dell’invenzione biotecnologia, in A. Vanzetti (a cura di), I nuovi brevetti, Milano, 1995, p. 3, osserva che il DNA costituisce la pietra angolare intorno alla quale ruota, in qualche modo, il concetto stesso di biotecnologia. 71 ) Watson, La doppia elica pubblicato nel 1968, l’edizione italiana è di Garzanti, Milano. 72 ) Tutti gli organismi viventi, dai batteri all’uomo, sono formati da cellule. Le cellule contengono al loro interno il DNA (acido desossiribonucleico). Questa molecola, che ha la caratteristica forma a doppia elica, contiene le informazioni essenziali per il funzionamento della cellula e, di conseguenza, dell’intero organismo. Negli organismi eucarioti (dotati di cellule che hanno un nucleo: animali, piante, funghi e protisti) le molecole di DNA, assieme ad alcune proteine, costituiscono i cromosomi (nell’uomo sono 46 in ciascuna cellula); i cromosomi si trovano all’interno del nucleo. Parte del DNA contenuto nei cromosomi costituisce i geni; quest’ultimi, contengono le informazioni che sovrintendono a tutte le funzioni della cellula. In ogni cellula o tessuto una parte dei geni viene trascritta in una o più molecole di mRNA (RNA messaggero); la maggior parte delle molecole di mRNA contengono le istruzioni per sintetizzare proteine, “macchine” cellulari che permettono il funzionamento delle cellule. 73 ) V. Di Cataldo, Biotecnologie e diritto, cit., p. 326, evidenzia come questa grande scoperta, coniugata con le altrettante grandiose acquisizioni di altri rami delle scienze e delle tecniche, dalla elettronica alla biochimica, dall’ingegneria alla medicina, abbia rivoluzionato le tecniche di manipolazione della realtà vivente. Le prospettive più allettanti si collocano nel campo della medicina e della farmacologia. Le biotecnologie consentono la realizzazione di kit diagnostici e di vaccini dopo la decodificazione del genoma dell’agente patogeno (virus, batterio o altro microrganismo). Si possono produrre artificialmente proteine con tecniche di DNA ricombinante; l’insulina, che viene già prodotta dal 1982, e l’eritropoietina sono le più note. Possono realizzarsi trattamenti per patologie provocate da “errori” in uno o più geni (es. diabete, emofilia, morbo di Alzheimer). Per la descrizione di queste ed altre applicazione delle biotecnologie si rimanda all’opera citata. 36 Nel 1972 il biochimico Ananda Chakrabarty chiedeva al Patent Office degli Stati Uniti un brevetto per un microrganismo che aveva geneticamente prodotto e che consisteva in un batterio in grado di corrodere le chiazze di petrolio. Il Patent Office americano respingeva la richiesta sostenendo che un organismo vivente non poteva essere brevettato e che, comunque, si trattava di un prodotto della natura. Ananda Chakrabarty adiva nel 1979 la Suprema Corte degli Stati Uniti la quale, nel 1980, statuiva che, ai fini della brevettabilità, era irrilevante che il prodotto dell’invenzione fosse vivo o morto in quanto ciò che contava era che l’invenzione fosse stata realizzata dall’uomo. Nel caso di specie, poiché il batterio era un’invenzione di Chakrabarty e non della natura, il prodotto poteva essere brevettato74. Altro caso di rilievo è quello, risalente sempre al 1980, del biologo della marina americana, Standish K. Allen, il quale chiedeva di poter brevettare una versione di un’ostrica del Pacifico, la Crassostrea gigas, che aveva modificato dotandola di un assetto cromosomico triplo. Il Patent Office rifiutava la richiesta mentre il Board of patent appeals and interferences dell’Ufficio brevetti, dinanzi al quale l’inventore aveva impugnato la decisione avversa, emanava una sentenza con la quale, pur negando la concessione del brevetto per una questione di ordine tecnico, decretava la brevettabilità, in via di principio, di un animale. Successivamente nel 1985 il Patent Office degli Stati Uniti concedeva, per la prima volta, basandosi sul caso Chakrabarty, un brevetto per una pianta prodotta geneticamente e, nel 1988, autorizzava il primo brevetto della storia per un animale 74 ) Diamond v. Chakrabarty, 447 US 303 (1980). Secondo la storica formula della Suprema Corte è invenzione brevettabile “anything under the sun that is made by mann” ed il criterio di distinzione tra ciò che è e ciò che non è brevettabile è “not betweeen living and hings, but between products of nature, whether living or not, and human-made inventions”. Il batterio ingegnerizzato dal dr. Chakrabarty non è mai stato prodotto industrialmente perché problemi di vario genere, evidenziatisi nella fase di sperimentazione successiva alla realizzazione dell’invenzione, ne hanno impedito un uso effettivo. 37 (si trattava di un topo geneticamente modificato ad Harvard particolarmente predisposto al cancro, c.d. Onco-Mouse di Harvard)75. In Europa, anni dopo, l’Ufficio europeo dei brevetti non sollevava sostanziali obiezioni alla tutelabilità delle invenzioni biotecnologiche; conformemente la Commissione dei Ricorsi e la Divisione di opposizione dell’EPO76. Nel frattempo veniva promosso il dibattito sulla tutela da riconoscere alle biotecnologie, discussione che si rivelerà lunga ed accesa. 3. Armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di libera circolazione dei prodotti biotecnologici: la Direttiva 98/44/CE. Recepimento della direttiva da parte dell’Italia alla luce della sentenza della Corte di Giustizia UE del 9 ottobre 2001 Il primo progetto di Direttiva sulle invenzioni biotecnologiche redatto dalla Commissione Europea risale al 198077; la discussione così avviata terminava, molti 75 ) Il gene aggiunto provocava un’elevatissima capacità di sviluppare tumori e, quindi, il topo era utilizzabile per testare farmaci antitumorali. La ricerca era stata finanziata dalla DuPont, divenuta licenziataria del brevetto. La privativa venne poi concessa anche dall’Ufficio Europeo Brevetti. Cfr. sull’argomento V. Di Cerbo, Il topo di Harvard ovvero la manipolazione genetica di animali all’esame dell’Ufficio Europeo di brevetti, in Foro it., 1991, p. 178. Ad oggi, sono stati realizzate oltre cento varietà di topi transgenici utilizzabili come modelli di studio di varie patologie, tra le quali la poliomelite, l’ulcera, la sindrome di Parkinson, la sindrome di Alzheimer. 76 ) La Divisione d’Esame del 3 aprile 1992 concedeva un brevetto avente ad oggetto un animale transgenico, seguiva quella della Commissione dei Ricorsi del 28 luglio 1994 che confermava la validità di un brevetto avente ad oggetto l’antigene dell’epatite B. Sempre la Commissione dei Ricorso respingeva, in data 21 febbraio 1995, un’opposizione presentata da Green Peace confermando la validità di un brevetto nella parte in cui quest’ultimo prevedeva la possibilità di intervenire, tramite tecniche di ingegneria genetica, sul genoma delle cellule di una pianta introducendovi una particolare sequenza di DNA. Precedentemente, la Divisione di Opposizione, respingendo un’opposizione presentata dal gruppo dei Verdi del Parlamento europeo, dichiarava brevettabile un’invenzione consistente in un frammento di DNA capace di codificare una proteina umana (nel caso di specie la relaxina). 77 ) La proposta fallì subissata da una serie di feroci critiche dovute, principalmente, all’assenza nel testo di riferimenti alla questione etica: S. Sandri, E. Caporuscio, Biotecnologie: l’ultima proposta dell’Unione Europea, in Riv. dir. ind., 1994, p. 645. 38 anni dopo, con l’approvazione della Direttiva 98/44/CE78. Nel preambolo della normativa, il legislatore comunitario, richiamato il principio di armonizzazione espresso dall’art. 100 A del Trattato UE, osserva che la biotecnologia e l’ingegneria genetica hanno una funzione crescente nella vasta gamma delle attività industriali e che, di conseguenza, la loro protezione assume un’importanza fondamentale per lo sviluppo industriale della Comunità79; la ricerca e lo sviluppo dell’ingegneria genetica esigono una notevole quantità di investimenti ad alto rischio che soltanto una protezione giuridica adeguata può rendere redditizi80. 78 ) La Direttiva 98/44/CE è venuta alla luce dopo un lungo e travagliato percorso; il testo definitivo è il risultato di un’operazione di compromesso tra diverse opinioni sul modo di tutelare le biotecnologie. Prima dell’emanazione della direttiva, il panorama delle discipline nazionali in tema di invenzione e brevetto era coordinato dai principi contenuti nella Convenzione sul Brevetto Europeo del 1973 e nella Convenzione di Strasburgo del 1963, nate, entrambi, in un periodo storico in cui il problema delle biotecnologie non era stato ancora avvertito. Da più parti, quindi, era stata indicata la necessità di formulare, per le invenzioni biotecnologiche, una protezione efficace ed armonizzata in tutti gli Stati membri al fine di mantenere e promuovere gli investimenti nel citato settore, rappresentando, lo stesso, una voce sempre più importante nella ricerca industriale. Cfr. A. Berghè Loreti, L. Marini, La protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, in Diritto dell’Unione Europea, 1998, p. 773. 79 ) Cfr. considerando n. 1 della Direttiva 98/44/CE. Il preambolo della Direttiva è costituito da 56 considerando utili nell’interpretazione dei successivi 18 articoli. Tra gli obbiettivi esplicitati dal legislatore comunitario vi è quello di tutelare la biodiversità in considerazione della crescente importanza che essa ha assunto nel quadro dell’attuazione del principio dello sviluppo sostenibile sancito dalla Conferenza di Rio de Janeiro nel giugno 1992; nel considerando 56 viene sottolineata la necessità di promuovere la giusta ed equa ripartizione dei vantaggi derivanti dall’uso delle risorse genetiche, compresa la protezione delle conoscenze, delle innovazioni e delle prassi delle comunità indigene e locali che incarnano stili di vita tradizionali importanti ai fini della conservazione e dell’uso sostenibile della varietà biologica. La salvaguardia della biodiversità è assicurata anche dal considerando 27; con esplicito riferimento alla brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche, tale considerando afferma che la domanda di brevetto relativa ad una invenzione avente ad oggetto materiale biologico, di origine vegetale o animale, “dovrebbe” indicare il luogo geografico d’origine di tale materiale allo scopo di evitare rischi di riduzione della diversità biologica e di favorire la conservazione del patrimonio genetico. 80 ) Cfr. considerando n. 2 della Direttiva 98/44/CE. L’innovazione legislativa introdotta dalla citata Direttiva è stata in qualche modo completata a livello sovranazionale. Il 16 giugno del 1999 il Consiglio di amministrazione dell’Organizzazione Europea dei Brevetti ha infatti modificato il Regolamento di attuazione della CBE introducendovi un nuovo capitolo, il VI, intitolato “invenzioni biotecnologiche” di cui fanno parte le Regole 23b, 23c, 23d e 23e. Si tratta di regole dichiaratamente ispirate alla Direttiva; la Regola 23b(1), in particolare, prescrive espressamente che, nell’applicare ed interpretare la CBE, si deve far ricorso, in via sussidiaria rispetto al Regolamento, alle norme della Direttiva 98/44/CE. M. Ricolfi, La brevettazione delle invenzioni relative agli organismi geneticamente modificati, in Riv. dir. ind., 2003, p. 5, osserva che, considerato che alcuni Stati contraenti della CBE non sono Stati membri della UE, con queste norme secondarie ci si trova di fronte ad un fenomeno davvero singolare in quanto la legislazione comunitaria finisce per proiettare il proprio ambito di efficacia territoriale al di là degli ordinamenti degli Stati membri dell’UE. Nella gerarchia delle fonti, tuttavia, osserva l’Autore, il testo originario della Convenzione prevale, in caso di conflitto, su quello del Regolamento. 39 Sulla base di tali enunciazioni di principio, l’art. 1 della Direttiva 98/44/CE sancisce la protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche attraverso il diritto nazionale dei brevetti che, ove necessario, dovrà essere adeguato agli obblighi di risultato sanciti dall’atto comunitario81. La protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche non richiede, quindi, l’introduzione di una specifica disciplina dei brevetti; necessita, piuttosto, dell’armonizzazione delle diverse legislazioni nazionali al fine di eliminare le disparità che creano ostacoli agli scambi e costituiscono un 81 ) Si considerano facenti parte delle legislazioni dei singoli Stati membri anche le convenzioni internazionali vigenti in materia di brevetti e varietà vegetali intense, queste ultime, come un insieme di vegetali nell’ambito di un unico taxon botanico del più basso grado conosciuto il quale, a prescindere dal fatto che siano o meno soddisfatte pienamente le condizioni per la concessione di un diritto di protezione delle nuove varietà vegetali, possa essere definito mediante l’espressione delle caratteristiche risultanti da un dato genotipo o da una data combinazione di genotipi, distinto da qualsiasi altro insieme vegetale mediante l’espressione di almeno una delle suddette caratteristiche e considerato come un’unità in relazione alla sua idoneità a moltiplicarsi invariato. Un procedimento di produzione di vegetali o di animali è essenzialmente biologico quando consiste integralmente in fenomeni naturali quali l’incrocio o la selezione. Tra le Convenzioni internazionali che possono considerarsi parte integrante del diritto nazionale dei brevetti vi sono quella per la protezione dei ritrovati vegetali (UPOV) firmata a Parigi il 2 dicembre 1961 e modificata da ultimo il 19 marzo 1991, il Trattato sul riconoscimento del deposito dei microorganismi ai fini della procedura in materia di brevetti firmato a Budapest il 28 aprile 1977, la Convenzione sulla concessione di brevetti europei (CBE) firmata a Monaco il 5 ottobre 1973, la Convenzione sull’unificazione di taluni aspetti della legislazione sui brevetti d’invenzione firmata a Strasburgo dagli Stati membri del Consiglio d’Europa il 27 novembre 1963. L’art. 1, § 2, della Direttiva 98/44/CE regola anche i rapporti tra la disciplina comunitaria e la normativa prevista dalla Convenzione sulla diversità biologica, firmata a Rio de Janeiro il 5 giugno 1992, e dall’Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio internazionale (TRIPS) annesso all’Accordo istitutivo dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), firmato a Marrakesh il 15 aprile 1994; conformemente alla prassi delle c.d. dichiarazioni di compatibilità, gli obblighi previsti a carico degli Stati membri dai predetti accordi internazionali prevalgano su quelli fissati dalla Direttiva. Ulteriore richiamo contenuto nella Direttiva in esame è quello ai Trattati internazionali sui diritti umani. Tra questi la Dichiarazione dell’UNESCO sul genoma umano del 1998, nella quale si afferma che gli Stati debbono incoraggiare le ricerche destinate a identificare, prevenire e curare le malattie genetiche, in particolare quelle rare o endemiche (c.d. malattie “orfane”) che colpiscono larga parte della popolazione. Il considerando 43 della Direttiva 98/44/CE richiama poi l’art. F, § 2, del Trattato di Maastricht secondo cui l’Unione rispetta i diritti fondamentali garantititi dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo e la salvaguardia delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950. Ai diritti umani fa inoltre riferimento l’art. 16, lett. a), della Direttiva 98/44/CE nel quale si prevede che la Commissione presenti al Parlamento europeo ed al Consiglio, ogni cinque anni, una relazione sugli eventuali ostacoli incontrati nell’applicazione dell’atto comunitario con riferimento agli accordi internazionali sulla tutela dei diritti dell’uomo ratificati dagli Stati membri. All’art. 16, lett. c), della Direttiva 98/44/CE il legislatore comunitario ha altresì previsto l’obbligo per la Commissione di presentare annualmente (a partire dal 30 luglio 2000) al Consiglio ed al Parlamento “una relazione sugli sviluppi e sulle implicazioni del diritto dei brevetti nel campo della biotecnologia e dell’ingegneria genetica”, la prima delle quali ha visto la luce il 7 ottobre 2002: COM (2002) 545, reperibile all’URL: http://europa.eu.int/eur-lex/it/com/rpt/2002/com2002_0545it01.pdf. 40 impedimento al funzionamento del mercato interno in violazione dei principi espressi dal Trattato U.E.82. In Italia, la legge sulle biotecnologie è contenuta nel Codice della Proprietà industriale83; il recepimento della Direttiva 98/44/CE è avvenuto con notevole ritardo84 in quanto il nostro Paese aderiva inizialmente al ricorso presentato, avverso la stessa, dai Paesi Bassi, ricorso poi respinto dalla Corte di Giustizia con sentenza del 9 ottobre 200185. I motivi di censura erano quelli della, presunta, scelta errata dell’articolo 100 A del Trattato quale base giuridica della Direttiva e la necessità di riferirsi all’articolo 308 del Trattato (ex art. 235) che richiede, per l’adozione di una direttiva, un consenso unanime degli Stati aderenti e non una mera maggioranza qualificata; altri motivi di censura erano la violazione dei principi di sussidiarietà, della certezza del diritto e del rispetto della dignità della persona. Sul primo motivo di contestazione, la Corte rileva la contiguità dello scopo concreto della Direttiva con le finalità di ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri per l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno; osserva, a tal proposito, che la Direttiva, obbligando gli Stati a proteggere le invenzioni biotecnologiche tramite il loro diritto nazionale, ha lo scopo di prevenire i rischi per l’unicità del mercato interno che potrebbero derivare dalle unilaterali decisioni degli Stati membri di concedere o negare il brevetto. La disciplina comunitaria sarebbe, dunque, chiaramente orientata 82 ) La Direttiva saggiamente evita di proporre una disciplina dettagliata e completa delle invenzioni biotecnologiche, consapevole del fatto che ancora non siamo pronti a tracciare tale disegno. Il regime delle invenzioni biotecnologiche è tutto da costruire; per questa operazione dobbiamo far tesoro, da un lato, dei non pochi spunti presenti nella Direttiva, dall’altro, delle indicazioni che possono essere colte nell’esperienza già acquisita dalla casistica di questi primi anni: V. Di Cataldo, Biotecnologie e diritto, cit., p. 351 83 ) Artt. 81 bis c.p.i. e ss. 84 ) La legge di recepimento, la n. 78, risale al 22 febbraio 2006 mentre il termine assegnato era il 30 luglio 2000. Sull’argomento si rimanda a L. C. Ubertazzi, Legge 22 febbraio 2006 n. 78 – Attuazione della direttiva CE 98/44 in materia di protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, in Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Padova, 2007, p. 1367. 85 ) Corte di Giustizia 9 ottobre 2001, causa C-377/98, Olanda, Repubblica Italiana e Norvegia c. Parlamento europeo, Consiglio dell’UE e Commissione, caso “Brevetto biotecnologico”. Cfr. G. Morelli Gradi, La legittimità comunitaria della direttiva sulle invenzioni biotecnologiche (Corte di Giustizia CE 9 ottobre 2001 ), in Il Dir. Ind., 2001, p. 323. 41 a garantire il buon funzionamento del mercato interno eliminando, e al tempo stesso prevenendo, le eventuali cause di sperequazione al trattamento brevettuale delle biotecnologie nei diversi ordinamenti nazionali. Con riferimento alla, presunta, violazione del principio di sussidiarietà, la Corte rigetta le censure rilevando come, in questo caso, l’azione progettata poteva essere meglio realizzata a livello comunitario; lo sviluppo di legislazioni e prassi nazionali differenziate osta al buon funzionamento del mercato interno e crea una distorsione competitiva fra aree “protette”, in cui viene riconosciuta la brevettabilità a certe condizioni del materiale biologico, ed aree “libere”, in cui viene negata l’esclusiva. Circa la, presunta, violazione del principio della certezza del diritto, il ricorrente lamentava un richiamo oltremodo generico ai criteri di ordine pubblico e di buon costume con un conseguente, eccessivo, margine di discrezionalità lasciato agli ordinamenti nazionali. La Corte rileva, di contro, come il trentanovesimo considerando della Direttiva riconduca i concetti di ordine pubblico e di buon costume nei principi etici e morali propri di ciascuno Stato membro; vi potrebbe quindi essere un’interpretazione non necessariamente uniforme di questi criteri senza che per questo si possa parlare di contrasto con il principio della certezza del diritto. Ordine pubblico e buon costume sono concetti tradizionalmente utilizzati nel diritto nazionale dei brevetti, cui si rinvia anche per assicurare quel margine di flessibilità nell’adeguamento interno che dia conto dei diversi contesti sociali e culturali di ciascuno Stato. La Corte evidenzia, a tal proposito, che uno dei suoi compiti è proprio quello di vigilare in modo continuo sulla corretta applicazione di questi criteri e di impedire che la discrezionalità concessa agli Stati membri possa trasformarsi in abuso. Sulla, presunta, strumentalizzazione del materiale umano vivente, lesiva della dignità umana, la Corte sostiene che un tale effetto sia stato scongiurato dalla Direttiva attraverso l’affermazione del principio secondo il quale non è brevettabile il corpo umano nei vari stadi della sua costituzione e del suo sviluppo né sono brevettabili, di per sé ed al di fuori di un’applicazione pratica, i suoi diversi elementi costitutivi; questi ultimi sono brevettabili solo a condizione che siano associati ad un 42 processo tecnico che consenta di isolarli e produrli autonomamente dal loro ambiente naturale, siano individuati e prodotti in vista di uno sfruttamento industriale e di una applicazione concreta. La Corte infine riconosce che gli Stati membri, in nome della salvaguardia di irrinunciabili principi etici, quali il diritto alla consapevole autodeterminazione delle persone, possano introdurre limitazioni o divieti legali alla ricerca ed allo sfruttamento di prodotti brevettati e, quindi, possano porre restrizioni alle operazioni anteriori o posteriori al rilascio del brevetto, senza comunque poter direttamente impedire la brevettazione di materiale biologico ottenuto ai sensi della Direttiva. Le legislazioni nazionali possono prevedere controlli sanitari, richieste di consenso sul prelievo e l’utilizzo di materiale biologico ai pazienti interessati, certificazioni di conformità, diritti di informazione per i consumatori, apposite licenze o autorizzazioni alla commerciabilità del prodotto biotecnologico brevettato; possono anche escludere tout court la realizzazione, l’uso o la vendita di un prodotto brevettato o di un suo particolare impiego purché ciò avvenga nel momento successivo alla procedura di rilascio del brevetto che non risente di tali divieti legali salvo il limite della compatibilità con l’ordine pubblico e il buon costume86. 4. Il materiale biologico come oggetto di privativa in luogo dell’innovazione meccanica. Suoi significati e problematiche connesse La normativa comunitaria, e con essa quella nazionale, permette di brevettare un prodotto biologico. È tale quello formato da materiale contenente informazioni 86 ) Vedi infra Cap. III. 43 genetiche, autoriproducibile o capace di riprodursi in un sistema biologico87; hanno queste caratteristiche gli organismi, i microrganismi e le sequenze di DNA88. 87 ) Cfr. art. 3 Direttiva 98/44/CE e art. 81 quater c.p.i. La definizione di materiale biologico è contenuta negli artt. 2 Direttiva 98/44/CE e 81 ter c.p.i. Mentre la direttiva pone semplicemente un divieto di esclusione dalla brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche (ritenute tutelabili alla stregua dei comuni requisiti di brevettabilità), il regolamento CBE detta una vera e propria definizione di invenzione biotecnologica intendendo come tale le invenzioni che concernono un prodotto consistente in materiale biologico o che lo contiene (art. 23b CBE): in tal senso T. Faelli, La tutela delle invenzioni biotecnologiche in Europa: prime valutazioni d’insieme, in Riv. dir. ind., 2001, p. 125, il quale ritiene che questa scelta non può essere considerata come il tentativo di delimitare l’ambito di applicazione delle nuove regole (operazione che sarebbe incompatibile con la natura esclusivamente interpretativa di quelle contenute nel regolamento CBE); è diretta semplicemente a regolare i casi in cui l’inventore deve procedere al deposito del trovato presso un centro di raccolta di materiale biologico al fine di assolvere l’onere di descrivere sufficientemente l’invenzione (regola 28 CBE). 88 ) Gli organismi ed i microrganismi sono entità vitali e dunque in grado di riprodursi; i secondi, a differenza dei primi, sono organismi vegetali o animali non visibili a occhio nudo. Le sequenze di DNA, pur comprendendo le informazioni necessarie per lo sviluppo della vita, non sono entità di per sé vitali; esse sono in grado di essere riprodotte solo se inserite artificialmente in un sistema biologico (vale a dire in una apposita cellula che, riproducendo se stessa, riproduce anche, nella cellula “figlia”, la sequenza di DNA che la caratterizza). Ciò posto, possono formare oggetto di privativa i microrganismi (presenti o meno in natura), le linee cellulari (incluse cellule di ibridoma), i prodotti naturali ottenuti artificialmente quali batteri mutanti, virus attenuati e protozoi, i prodotti naturali come gli enzimi, i materiali utili nella tecnologia del DNA ricombinante quali vettori, promotori, microrganismi trasferibili, ect. T. Faelli, op. cit, p. 125 ritiene che le proteine non siano invenzioni biotecnologiche essendo estranee alla definizione di materiale biologico. Per quanto ogni gene (una sequenza di DNA sufficientemente estesa) codifichi una determinata proteina, il rapporto tra i due è solo di tipo “informatico” essendo geni e proteine chimicamente e strutturalmente diversi. In altre parole, scrive l’Autore, le proteine non contengono informazioni genetiche, elemento caratterizzante della definizione di materiale biologico di cui all’art. 2 della direttiva e alla regola 23 b CBE; conseguentemente un brevetto che ha per oggetto una proteina non può dirsi biotecnologico dovendo essere considerato, più correttamente, “chimico”. La distinzione tra geni e proteine, e tra brevetto biotecnologico e brevetto chimico, non è semplicemente una questione formale, di nomen; da essa è infatti possibile trarre un’importante considerazione ovvero che al fine di non rendere superflua la protezione giuridica accordata da CE e UEB alle invenzioni biotecnologiche, è necessario garantire la brevettabilità delle sequenze di DNA in quanto tali, autonomamente rispetto alle proteine codificate. In caso contrario, risulterebbe oscuro il significato di tutta la disciplina delle invenzioni biotecnologiche data la (da sempre) pacifica brevettabilità delle proteine. 44 Il materiale biologico, per godere di protezione in quanto tale, cioè come prodotto89, deve potersi qualificare come nuovo, essere frutto di attività inventiva oltre che suscettibile di applicazione industriale90. Difficile ipotizzare la realizzazione totalmente artificiale di un materiale biologico contenente informazioni genetiche ed autoriproducibile; i requisiti della novità e dell’attività inventiva saranno verosimilmente presenti in un prodotto naturale geneticamente modificato e, quindi, nuovo in seguito agli interventi sulla struttura genetica91. In tal senso si esprime anche l’art. 8 della Direttiva 98/44/CE 89 ) In questo settore, considerate le peculiarità delle biotecnologiche, le invenzione di prodotto consistono nel prodotto della materia vivente come sopra specificato, le invenzione di processo sono quei procedimenti di produzione che possono riguardare l’isolamento, la purificazione, la cultura di cellule e tessuti, le invenzione di uso riguardano nuove qualità e funzioni del prodotto già coperto da brevetto. 90 ) Art. 3, comma 1, della Direttiva 98/44/CE: “Sono brevettabili le invenzioni nuove che comportino un’attività inventiva e siano suscettibili di applicazione industriale, anche se hanno ad oggetto un prodotto consistente in materiale biologico o che lo contiene, o un procedimento attraverso il quale viene prodotto, lavorato o impiegato materiale biologico”. In senso conforme l’art. 81 quater c.p.i. che prevede: “Sono brevettabili purché abbiano i requisiti di novità e attività inventiva e siano suscettibili di applicazione industriale : a) un materiale biologico, isolato dal suo ambiente naturale o prodotto tramite un procedimento tecnico, anche se preesistente allo stato naturale ……c) qualsiasi nuova utilizzazione di un materiale biologico o di un procedimento tecnico relativo a materiale biologico”. L’art. 3 della citata Direttiva, estendendo il brevetto al materiale biologico che costituisca un’invenzione ai sensi del diritto industriale, riprende la formula codificata dall’art. 27, § 1, dell’Accordo TRIPS nel quale si legge che possono costituire oggetto di brevetto le invenzioni, di prodotto o di procedimento, ottenute in tutti i campi della tecnologia purché siano nuove, implichino attività inventiva e siano atte ad avere un’applicazione industriale. L’articolo richiama, anche, l’art. 52.1 CBE. Un’apposita clausola di salvaguardia è prevista nel preambolo della citata Direttiva in favore degli ordinamenti nazionali che escludono dalla tutela brevettuale i metodi diagnostici, terapeutici e chirurgici destinati alla cura dell’uomo e degli animali, nonché i procedimenti diagnostici effettuati sul corpo umano o animale (considerando 35 Direttiva 98/44/CE; in senso conforme anche l’art. 52, § 4, della CBE e l’art. 27, § 3, lett. a) dell’Accordo TRIPS). 91 ) Un esempio in tal senso è rappresentato dal topo oncogeno messo a punto nei laboratori dell’università di Harvard: cfr. a tal proposito par. 2. La possibilità di brevettare organismi incontra peraltro un limite nel divieto di brevettare razze animali e varietà vegetali: artt. 4 Direttiva 98/44/CE, 81 quinques c.p.i. 45 che, riferendosi al brevetto di prodotto, definisce oggetto dell’invenzione un materiale biologico dotato, in seguito all’invenzione, di determinate proprietà92. Il prodotto può tuttavia consistere anche in un quid già esistente in natura, che non viene modificato ma semplicemente identificato ed isolato. È la Direttiva in esame che così dispone introducendo il principio secondo il quale “un materiale biologico ... isolato dal suo ambiente naturale ... può essere oggetto di invenzione, anche se preesistente allo stato naturale”93. L’esistenza del prodotto in natura sembra invero mettere in discussione il requisito della novità; l’unica interpretazione in grado di superare questa apparente contraddizione è quella di riferirsi ad un materiale biologico esistente in natura ma 92 ) L’art. 8 Direttiva 98/44/CE così recita: “La protezione attribuita da un brevetto relativo ad un materiale biologico dotato, in seguito all’invenzione, di determinate proprietà si estende a tutti i materiali biologici da esso derivati mediante riproduzione o moltiplicazione in forma identica o differenziata e dotati delle stesse proprietà”. In Italia, l’omologo art. 81, comma 1, sexies c.p.i. dispone che: “La protezione attribuita da un brevetto relativo ad un materiale biologico dotato, in seguito all’invenzione, di determinate proprietà si estende a tutti i materiali biologici da esso derivati mediante riproduzione o moltiplicazione in forma identica o differenziata e dotati delle stesse proprietà”. 93 ) Art. 3, comma 2, Direttiva 98/44/CE, art. 81 quater c.p.i. G. Spedicato, La brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche nella normativa e nella giurisprudenza comunitaria. Brevi considerazioni etico-giuridiche, in Quaderni di diritto privato europeo, Vol. V, 2003, p. 323, osserva che, in ragione della difficoltà di distinguere tra invenzione e scoperta, il legislatore comunitario, sulla scorta del principio per cui né il diritto nazionale né il diritto europeo dei brevetti (convenzione di Monaco) impongono divieti o esclusioni di principio in ordine alla brevettabilità del materiale biologico (cfr. 15° considerando Direttiva 98/44/CE), ha preferito dissipare qualunque dubbio relativo alla qualificazione giuridica di un trovato biotecnologico introducendo due fictiones relative, rispettivamente, alle invenzioni aventi ad oggetto materiale biologico di origine non umana e materiale biologico di origine umana. La prima fictio è dettata dal secondo comma dell’art. 3 in virtù del quale “un materiale biologico che viene isolato dal suo ambiente naturale o viene prodotto tramite un procedimento tecnico può essere oggetto di invenzione, anche se preesisteva allo stato naturale”. La seconda fictio è invece introdotta dal secondo comma dell’art. 5 ai sensi del quale “un elemento isolato dal corpo umano, o diversamente prodotto, mediante un procedimento tecnico, ivi compresa la sequenza o la sequenza parziale di un gene, può costituire un’invenzione brevettabile, anche se la struttura di detto elemento è identica a quella di un elemento naturale”. 46 non ancora identificato nei suoi caratteri essenziali e nella sua funzione utile94. Un materiale, cioè, non ancora scoperto95. 5. Il brevetto biotecnologico tra brevetto di prodotto e di procedimento. Estensione dell’esclusiva e superamento della formula “comunque ottenuto” ed in “in tutti i suoi possibili usi”. Molteplici sono le fonti del materiale biologico; esso può preesistere allo stato naturale, essere isolato dal suo ambiente naturale oppure essere prodotto tramite un procedimento tecnico96. Nonostante l’impiego di un linguaggio vago97, il verbo isolare sembra volto a comprendere tutte quelle tecniche tradizionali che puntano a ricavare il prodotto estraendolo da materiali naturali, più complessi, che già lo contengono98; l’espressione produrre tramite un procedimento tecnico sembra invece riguardare 94 ) I geni, ad esempio, quali sostanze esistenti in natura non possono essere considerati nuovi in senso stretto ma possono esserlo considerato che, prima della loro scoperta ed identificazione, non appartenevano al patrimonio tecnico-scientifico. 95 ) G. Sena, L’importanza della protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, in Riv. dir. ind., 2000, p. 65, il quale ritiene che la preesistenza in natura non toglie novità all’invenzione di un materiale biologico perché ciò che preesiste in natura non necessariamente è già noto, o immediatamente conoscibile, e riproducibile con caratteri costanti. In tale contesto G. Guglielmetti, La brevettazione delle scoperte- invenzioni, Riv. dir. ind., 1999, p. 111, ritiene che “la novità può sussistere se il prodotto in precedenza non era noto nella forma in cui l’inventore l’ha messo a disposizione, ma solo all’interno di un ambiente dal quale non era separabile o lo era solo con un diverso grado di purezza. Inoltre, il prodotto pur preesistente non può dirsi accessibile se la preesistenza in natura non rendeva già noto l’insegnamento di come ottenere con caratteri costanti l’oggetto dell’invenzione nella particolare forma in cui viene messo a disposizione”. Vedi infra par. 6 sulla dicotomia scoperta-invenzioni. Sempre G. Guglielmetti, Il decreto di recepimento della direttiva sulle invenzioni biotecnologiche. Brevettabilità e requisiti di brevettazione, in L.C. Ubertazzi (a cura di), Il progetto di novella del cpi. Le biotecnologie, Quaderni di AIDA, Milano, 2007, p. 131, osserva che la novità del materiale isolato dallo stato naturale comporta, anche, come logica conseguenza, che i diritti attribuiti dal brevetto sul materiale isolato non si estendono al corrispondente materiale nel suo stato naturale. Ciò consente di riconoscere la brevettabilità anche delle parti isolate del corpo umano senza che da tale brevettabilità derivi un’estensione dei diritti sul corpo umano. Cfr. considerando 20 Direttiva 98/44/CE. 96 ) In tal senso art. 3 Direttiva 98/44/CE, art. 81 quater c.p.i. 97 ) In tal senso V. Di Cataldo, La brevettabilità delle biotecnologie. Novità, attività inventiva, industrialità, in Riv. dir. ind., 1999, p. 179. L’Autore aggiunge che, forse, l’intenzione del legislatore comunitario era quella di evitare una lettura strumentalmente restrittiva della norma. 98 ) Una proteina, ad esempio, può essere prodotta con tecniche di isolamento dall’ambiente naturale raccogliendo le tracce che di essa si trovano in fluidi (sangue, urina) di organismi viventi oppure in organi (fegato, reni) di organismi morti. 47 tutte le tecniche biotecnologiche che cercano di realizzare un materiale attraverso l’attività di organismi viventi99. L’invenzione potrà riguardare anche il procedimento attraverso il quale il materiale biologico è prodotto, trattato o utilizzato100; sono esclusi dalla tutela i procedimenti essenzialmente biologici, privi, cioè, nel loro svolgimento, di una qualche fase tecnica essendo caratterizzati, esclusivamente, da fenomeni naturali101. 99 ) Individuando il gene che codifica la proteina, si possono, ad esempio, elaborare tecniche di DNA ricombinante per la sua produzione. Questa tecnica consiste nella separazione da una molecola di DNA di uno specifico frammento di DNA, solitamente attraverso l’azione di enzimi di restrizione (cioè di proteine derivanti da batteri che sono in grado di individuare una specifica sequenza all’interno di una molecola di DNA e di ritagliarla/separarla dalla molecola di DNA stessa) e nel suo inserimento attraverso un vettore in una cellula ospite. La moltiplicazione della cellula ospite da poi luogo ad una discendenza di cellule ciascuna delle quali presenta il gene selezionato che sarà dunque disponibile in grandi quantità. Detta tecnica permette anche di ottenere organismi che hanno nelle proprie cellule frammenti di DNA estraneo, superando così le barriere tra specie diverse. 100 ) Artt. 3 Direttiva 98/44/CE e 81 quater c.p.i. In tal senso anche la regola 23b CBE che definisce invenzione biotecnologica anche il procedimento con cui un materiale biologico è prodotto, trattato o utilizzato. L’art. 2 della Direttiva 98/44/CE definisce il procedimento microbiologico come il procedimento nel quale si utilizza un materiale microbiologico, si interviene su un materiale microbiologico o si produce un materiale microbiologico. In senso conforme l’art. 81 ter c.p.i. Il procedimento potrà riguardare anche le c.d. tecniche ricombinanti che permettono di realizzare in forma purificata una sostanza che è già presente nell’uomo o negli animali attraverso la manipolazione del patrimonio genetico di una cellula mediante l’unione dei tratti di DNA provenienti da cellule differenti dello stesso organismo o di organi diversi. Cfr. nota 43. Si noti comunque che nella maggior parte delle ipotesi, il procedimento impiegato nelle biotecnologie è routinario e quindi non brevettabile. 101 ) Cfr. regola 23b CBE, art. 4 lettera b della Direttiva 98/44/CE, art. 53 b della Convenzione di Monaco, T. Faelli, op. cit., p. 125, osserva che i problemi che sorgono nel valutare se un procedimento sia essenzialmente biologico, e dunque non brevettabile, sono dovuti al fatto che molto spesso un procedimento biologico comprende sia fasi microbiologiche, la gestione delle quali richiede sempre una certa tecnica, sia fasi naturali, o semplicemente biologiche, che non richiedono alcuna tecnica perché o avvengono spontaneamente o sono estremamente facili da provocare. L’Autore osserva comunque che il problema è superato stante il tenore delle citate disposizioni. 48 La dottrina si è interrogata sull’estensione della privativa ovvero se, in questo settore, il brevetto copre il materiale in sé, comunque ottenuto, ovvero il materiale in quanto prodotto secondo la tecnica indicata nella domanda di brevetto102. L’interpretazione della normativa brevettuale in materia di biotecnologie deve essere guidata dall’idea che la tutela è da rapportare alla misura dell’insegnamento proposto dall’inventore e, quindi, contenuta nei limiti dell’insegnamento stesso103. 102 ) Se, in poche parole, l’inventore ha realizzato il prodotto con tecniche di DNA ricombinante, il brevetto riguarderà anche il prodotto ottenuto con tecniche tradizionali ? Se l’inventore ha ottenuto il prodotto con tecniche tradizionali, il suo brevetto coprirà anche il prodotto ottenuto con tecniche di DNA ricombinante ? I quesiti sono posti da V. Di Cataldo, La brevettabilità delle biotecnologie, cit., p. 181, il quale, sull’argomento, riporta alcuni casi giurisprudenziali che hanno riguardato la brevettabilità di una proteina realizzata con tecniche di DNA ricombinante in presenza di un brevetto che copriva la stessa proteina realizzata, però, con un procedimento tradizionale, cioè per via di estrazione e di purificazione. Uno dei primi casi è Scripps contro Genentech. Quest’ultima società, nel 1984, aveva individuato un frammento di DNA responsabile della produzione, in natura, del Fattore VIII-C (proteina usata nel trattamento della emofilia) ed aveva elaborato una tecnica di DNA ricombinante per riprodurre la proteina in grandi quantità ed a costi relativamente bassi. La società Genentech, quando ancora non aveva avviato la produzione commerciale del prodotto né aveva ottenuto brevetti, era stata convenuta in giudizio dalla società Scripps titolare di un brevetto sul Fattore VIII-C estratto per purificazione dal plasma umano. Caso analogo quello della eritropoietina (EPO), ormone del rene che controlla la produzione dei globuli rossi. Nell’ottobre del 1983 il dott. Ken Lin, che lavorava per American Genetics (Amgen), era riuscito a clonare il gene che codificava l’EPO. La società Amgen era poi riuscita a trasformare una cellula di criceto con tecniche di DNA ricombinante, rendendola capace di realizzare una significativa produzione di EPO. Per le invenzioni, la società Amgen aveva chiesto ed ottenuto il brevetto. Successivamente, il Genetics Institute aveva brevettato un metodo di purificazione di EPO da urina concedendo la relativa licenza a Chugai il quale aveva così avviato la produzione e la commercializzazione dell’EPO. La società Amgen aveva quindi citato in giudizio la Chugada per contraffazione. In entrambi i casi, i Giudici avevano negato che un brevetto su una proteina realizzata per estrazione copriva anche la proteina realizzata con tecniche di DNA ricombinante e viceversa. Commentando i casi esposti, l’Autore osserva che entrambi presentano lo stesso problema in quanto evidenziano la possibilità di realizzare una proteina attraverso procedimenti strutturalmente diversi tra loro compresi (nei casi esaminati attraverso un processo di estrazione dall’ambiente naturale ed un processo di produzione per via biotecnologica); entrambi i processi possono essere considerati brevettabili, precisa l’Autore, se nuovi ed originali. La disciplina sulle invenzioni biotecnologiche permette infatti di considerare come nuovo un materiale allo stato naturale, isolato o prodotto tramite un procedimento tecnico, affermandone, dunque, la diversità ai fini giuridici. 49 Ne consegue che, nel brevetto di prodotto, viene a cadere la formula secondo la quale il brevetto copre il prodotto comunque ottenuto104 ed in tutti i suoi possibili 103 ) V. Di Cataldo, La brevettabilità delle biotecnologie, cit., p. 182. V. Falce, Sulla tutela dell’innovazione dei “nuovi” settori della tecnica con particolare riguardo alle invenzioni biotecnologiche. Primi appunti sul contributo dell’analisi economica, in G. Ghidini. G. Cavani (a cura di), Brevetti e biotecnologie, Roma, 2008, p. 127, osserva che in tal modo il monopolio temporaneo accordato all’inventore “in cambio” del contributo reso al progresso tecnico verrebbe necessariamente ed inderogabilmente commisurato all’apporto effettivamente fornito dall’insegnamento brevettuale. Il che, oltre a risultare consono con il principio fondamentale dell’istituto, per il quale appunto l’estensione del monopolio brevettuale trova la propria giustificazione e, dunque, anche i propri limiti nell’insegnamento reso dall’inventore al progresso tecnico e divulgato attraverso la brevettazione, sarebbe senz’altro condivisibile alla luce dei più maturi modelli dell’analisi economica per i quali la promozione dell’innovazione dinamica richiede la corrispondenza tra l’ampiezza della protezione fornita ed il contributo effettivamente reso. 104 ) La prima parte della formula (“comunque ottenuto”) descrive la regola per cui il brevetto di prodotto preclude ai terzi la produzione e la commercializzazione del prodotto a prescindere dal fatto che il titolare del brevetto provi che esso è stato realizzato attraverso il procedimento descritto nella domanda di brevetto; anche se il terzo convenuto in contraffazione dovesse dimostrare di averlo realizzato attraverso un procedimento diverso da quello descritto dalla domanda di brevetto, opererebbe comunque la tutela. Questa regola non è mai stata messa seriamente in discussione per le invenzioni della meccanica; in quest’ultimo settore una sola è, normalmente, la tecnica di costruzione di ciascun prodotto o, comunque, se possono immaginarsi tecniche diverse dalla prima, esse di solito ne sono varianti non inventive ovvero, sostanzialmente, equivalenti a quella brevettata. Per la meccanica, dunque, dire che il brevetto di prodotto copre il prodotto comunque ottenuto equivale in fatto a dire che lo copre solo in quanto prodotto per quella via proprio perché assai rara è la possibilità di immaginare una via diversa, non equivalente alla prima. La struttura generalizzante ed onnicomprensiva della formula non è più appropriata da quando altri settori della tecnica hanno iniziato a produrre invenzioni: in tal senso V. Di Cataldo, Fra tutela assoluta del prodotto brevettato e limitazione ai procedimenti descritti ed agli usi rivendicati, in Riv, dir. ind., 2004, p. 111. Sempre V. Di Cataldo, La brevettabilità delle biotecnologie, cit., p. 183, sostiene che il superamento della regola “comunque ottenuto” comporterebbe che se l’inventore ha insegnato solo ad isolare il materiale, o ha insegnato solo a realizzarlo con una tecnica di DNA ricombinante, non vi è alcun motivo per il quale dovrebbe vantare diritti rispetto a chi, successivamente, realizzi lo stesso materiale con altra tecnica; ciascuna delle due operazioni non è in nulla tributaria dell’altra. G. Ghidini, Profili evolutivi del diritto industriale, Milano, 2008, p. 95, commenta la formula del “comunque ottenuto” asserendo che la stessa evidenzia l’incombere, in ogni momento della storia ed in ogni punto della disciplina brevettuale, di una prospettiva di massima dilatazione protezionista del diritto di privativa. 50 usi105; il brevetto di prodotto copre, del prodotto, solo gli usi rivendicati e quelli ad essi equivalenti106. Sull’argomento, si deve poi tener conto che nel settore delle biotecnologie non esiste una netta distinzione tra invenzione di prodotto ed invenzione di procedimento. Si tratta di una classificazione che può riguardare soltanto quei settori della tecnica in cui il prodotto brevettato sia individuabile a prescindere dal suo processo di fabbricazione, fenomeno che non trova riscontro nei 105 ) V. Di Cataldo, Fra tutela assoluta, cit., p. 112 osserva che, secondo la formula “in tutti i suoi possibili usi”, il brevetto attribuisce al suo titolare una riserva sul prodotto che copre l’uso rivendicato dalla domanda di brevetto e tutti gli altri possibili usi, a prescindere se siano noti o ignoti. La formula, che trae le sue radici dall’esperienza secolare dei brevetti della meccanica, è, a parere dell’Autore, sbagliata così come dimostra la brevettabilità della c.d. invenzione di traslazione. Chi utilizza un trovato già conosciuto impiegandolo in un settore e per una funzione completamente diversa da quella originaria, ha realizzato una nuova invenzione, detta invenzione di traslazione, da sempre considerata brevettabile a seconda che il nuovo uso sia o meno equivalente a quello già noto. Nel primo caso, la traslazione manca di originalità e, quindi, non è brevettabile; nel secondo caso, invece, la traslazione è originale e, quindi, brevettabile. Il brevetto di traslazione è del tutto indipendente dal primo brevetto. La doppia regola della brevettabilità dell’invenzione di traslazione e dell’indipendenza del brevetto di traslazione dal primo brevetto di prodotto è logicamente incompatibile, secondo l’Autore, con l’idea che il brevetto di prodotto copra tutti i possibili usi del prodotto stesso. Se, infatti, il brevetto di prodotto coprisse davvero tutti gli usi del prodotto, anche il nuovo uso pensato dall’autore della traslazione dovrebbe rifluire all’interno degli usi riservati al titolare del primo brevetto e, quindi, non avrebbe alcun senso la concessione di un brevetto all’autore della traslazione; ancor meno, di un brevetto “indipendente”. L’Autore conclude la sua riflessione scrivendo: “La formula “in tutti i suoi possibili usi” è sicuramente sbagliata. È però, al tempo stesso, felice. La storia della tecnologia evidenzia, infatti, che le traslazioni originali, e quindi brevettabili, sono assai rare, perché nella meccanica i rapporti tra struttura e funzione sono di solito univoci e prevedibili, ed ogni prodotto è normalmente monouso. Il caso in cui un uso nuovo risulti estraneo all’esclusiva attribuita al titolare del brevetto è assolutamente marginale. In questo senso la formula “in tutti i suoi possibili usi” appare, come pure ho detto, comunque felice. Essa in fondo esprime una sorta di presunzione di equivalenza del nuovo uso all’uso noto (giustificata dalla rarità della traslazione originale). E facilita, nel giudizio di contraffazione, la difesa del brevetto sul prodotto nuovo, senza creare, proprio per la rarità della traslazione originale, costi intollerabili”. 106 ) V. Di Cataldo, Biotecnologie e diritto, cit., p. 373 osserva che la tesi trova conferma nell’art. 5, comma 3, della Direttiva 98/44/CE secondo il quale l’applicazione industriale di una sequenza o di una sequenza parziale di un gene dev’essere concretamente indicata nella domanda di brevetto; non avrebbe senso, secondo l’Autore, un onere di questo genere in capo al richiedente se poi il suo brevetto dovesse automaticamente estendersi ad ogni applicazione industriale della sequenza che venisse successivamente da altri individuata. 51 prodotti biotecnologici107; ai fini dell’identificazione di tali prodotti, infatti, deve essere esattamente individuato il procedimento di sintesi, di isolamento o di alterazione genetica che rende disponibili tali ritrovati alla collettività108. L’invenzione biotecnologica di prodotto si qualifica dunque quale product by process ovvero quale prodotto derivante da un procedimento determinato109. 107 ) A. Vanzetti, Procedimento, prodotto ed unicità dell’invenzione, in Riv. dir. ind., 2011, p. 227, osserva che in applicazione dell’art. 161, comma 1, c.p.i. “ogni domanda deve avere per oggetto una sola invenzione”. Sulla base di questa norma, e del principio dell’unicità dell’invenzione che se ne desume, si dice che nel caso di brevetto in cui vengano rivendicati sia un procedimento sia il prodotto che ne deriva, entrambi nuovi e originali, risulti violato quel principio, trattandosi appunto di due invenzioni. Si sostiene conseguentemente che chi voglia ottenere una tutela sia del procedimento, sia anche, in via autonoma e assoluta, del prodotto che ne deriva, debba chiedere due distinti brevetti Questo presupposto, aggiunge l’Autore, può considerarsi esatto oppure no a seconda che alla parola “invenzione” si dia in questo contesto un senso categoriale, classificatorio, oppure un senso sostanziale, attinente al momento genetico del nuovo trovato, e soprattutto al contenuto tecnicoconcettuale di esso. Se si adotta questa seconda accezione, il sostenere che procedimento e prodotto che ne deriva sono due diverse invenzioni mi pare in generale sbagliato. Se si cerca infatti di figurarsi il processo mentale attraverso il quale un individuo può giungere ad immaginare un utile prodotto nuovo, ed il nuovo procedimento che ne consenta la creazione, è difficile (anche se non proprio impossibile) pensare a due processi mentali separati, l’uno che si svolge ad esempio al mattino e l’altro al pomeriggio, e che a un certo punto casualmente si incontrano, senza peraltro che neanche a questo punto i rispettivi risultati si fondano. Ma se anche, tipologicamente a un altro estremo, si pensa a un’invenzione del genere conseguita da équipes di ricerca, è difficile immaginare che queste si dividano in gruppi reciprocamente impermeabili, l’uno alla ricerca di un prodotto nuovo e l’altro alla ricerca di un procedimento per realizzare non si sa bene che cosa, e senza che anche qui alla fine i rispettivi esiti si possano fondere concettualmente. 108 ) Cfr. V. D’Antonio, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati Uniti, Napoli, 2004, p. 123 52 Argomenti in senso contrario non possono trarsi dagli artt. 8 e 9 della Direttiva 98/44/CE110; se il combinato disposto dei due articoli venisse interpretato in senso estensivo, ovvero che il brevetto copre il prodotto o il procedimento in sé, comunque ottenuti, si giungerebbe al paradosso di bloccare l’evoluzione della ricerca scientifica, lasciando a colui che abbia per primo ottenuto un brevetto il potere di decidere se continuare o meno nell’indagine. Considerato lo scopo della direttiva, che è quello di favorire, tramite il riconoscimento di un diritto di proprietà industriale, il progresso scientifico e lo sviluppo della conoscenza per migliorare la 109 ) Nel settore delle biotecnologie tutti i brevetti di prodotto (quale che sia la tecnica adottata dalla sua descrizione: struttura di prodotto e procedimento di realizzazione) dovrebbero essere intesi come product by process patent così da limitarne la portata ai soli risultati indicati dall’inventore attraverso lo specifico procedimento utilizzato. Detti brevetti riserveranno al titolare la produzione, la commercializzazione e l’uso della proteina non comunque ottenuta ma solo in quanto prodotta con quella particolare tecnica: V. Di Cataldo, Fra tutela assoluta del prodotto brevettato, cit., p. 114. Con la formula, di origine statunitense, product by process patent s’intende che il brevetto per un’invenzione di prodotto copre il prodotto solo in quanto realizzato secondo il procedimento tecnico indicato nella domanda di brevetto, senza conferire un diritto di esclusiva su ogni prodotto identico a quello brevettato, anche se ottenuto con differenti metodi; l’invenzione non protegge dunque il prodotto in sé ma il prodotto volto ad un certo uso. Per approfondimenti circa l’origine del modo di descrizione dell’invenzione product by process si rimanda a V. Di Cataldo opera appena citata. V. Falce, La tutela, cit., p. 127, osserva che secondo la tecnica del product by process l’inventore che insegni ad isolare il materiale preesistente in natura o a realizzarlo con una tecnica di DNA ricombinante, potrà vantare un diritto di privativa solo nei limiti e secondo le modalità di sintesi indicate nel processo utilizzato e non anche rispetto ad altre tecniche che conducano alla realizzazione del medesimo materiale. L’inventore che identifichi una proteina sintetizzata ed almeno una delle funzioni da essa svolte, potrà ottenere un brevetto che si limita a quel contributo ed, in particolare, alla funzione identificata; il brevetto può dunque essere concesso in relazione al prodotto finito, isolato e purificato nella misura in cui esso risulti diverso non solo quantitativamente ma anche qualitativamente dalla sostanza naturale, così che esso possieda una nuova utilità, requisito la cui presenza deve essere valutata insieme a quella della originalità. Sul punto T. Faelli, La tutela delle invenzioni biotecnologiche in Europa: prime valutazioni d’insieme, in Riv. dir. ind., 2001, p. 125, ritiene che il procedimento tecnico indicato nella domanda di brevetto ha la sola funzione di rendere la sequenza “accessibile” e riproducibile con caratteri costanti, facendola assurgere allo status di “invenzione”; tale procedimento non ha invece alcun impatto sull’ambito della tutela. Le sequenze di DNA, ad esempio, una volta isolate o riprodotte, sono protette indipendentemente dal metodo con il quale esse sono ottenute. Del resto, se così non fosse, questo tipo di brevetto perderebbe di significato, dato che, una volta isolato, è molto semplice ottenere lo stesso gene attraverso un procedimento differente. La posizione secondo la quale la definisce un prodotto di brevetto è sostenuta anche dall’European Patent Office secondo il quale “a claim defining a product in terms of a process is to be constructed as a claim to the product as such” (cfr. Guidelines EPO 2012, parte F. IV, 4.12). 110 ) L’Art. 8 della Direttiva in esame dispone che l’ambito di protezione del brevetto relativo ad un materiale biologico dotato, in seguito all’invenzione, di determinate proprietà si estende a tutti i materiali biologici da esso derivanti mediante riproduzione o moltiplicazione, in forma identica o differenziata, e dotati delle stesse proprietà. Il successivo art. 9 recita: “Fatto salvo l’art. 5, paragrafo 1, la protezione attribuita da un brevetto ad un prodotto contenente o consistente in un’informazione genetica si stende a qualsiasi materiale nel quale il prodotto è incorporato e nel quale l’informazione genetica è contenuta e svolge la sua funzione”. 53 qualità e le aspettative di vita, non si può che accedere ad una lettura riduttiva degli articoli citati111. Quest’ultimi hanno la funzione di preservare le ragioni proprietarie dell’inventore contro possibili abusi commessi dai successivi utilizzatori del prodotto che, senza apportare alcun “salto ideativo”, si limitino a sfruttare parassitariamente (tramite riproduzione, moltiplicazione, incorporazione di materiale biologico brevettato) le invenzioni altrui; non inibiscono, invece, la legittima richiesta di brevettare diverse caratteristiche e funzioni del prodotto già scoperto ovvero utilizzazioni per finalità diverse in nuovi composti112. Tutto ciò nasce dalla evidente necessità di non inibire le subsequent innovation cioè soluzioni diverse, più progredite e competitive sul mercato; diversamente, si rallenterebbe l’innovazione tecnologica113. 111 ) A. Pizzoferrato, Brevetto per invenzione e biotecnologie, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia diretto da F. Galgano, vol. XXVIII, Padova, 2002, p. 153. 112 ) L’individuazione di un nuovo uso, ovvero di un nuovo risultato utile che consenta l’efficiente utilizzazione del trovato in campo e settori ulteriori rispetto a quelli in cui era stato sperimentato in precedenza, non può non essere brevettato. Circa l’art. 9 della Direttiva 98/44/CE, la norma protegge il prodotto che contiene o consiste nell’informazione genetica con riguardo non al prodotto in sé ma alla sua funzione ed utilità concreta. Se dunque il prodotto viene combinato per realizzare la sua funzione tipica, già individuata dall’inventore originario, questo sarà protetto dal brevetto; se viene utilizzato per una funzione diversa ed innovativa, sconosciuta al primo inventore, il prodotto non può essere coperto da brevetto e non sarà necessario richiedere al primo inventore una licenza d’uso: in tal senso G. Sena, L’importanza della protezione giuridica, cit., p. 65. C. Signorini, I diritti di proprietà industriale in materia di biotecnologie e la tutela della biodiversità, in G. Ghidini, G. Cavani (a cura di), Brevetti, cit., p. 206, osserva che l’art. 9 in esame dispone che il brevetto per una sequenza di DNA estende la propria tutela sia all’organismo nel quale la sequenza di DNA viene inserita sia agli organismi da questo discendenti che contengono tale sequenza; la norma non definisce una privativa verso qualunque successivo uso da chiunque compiuto, ma una protezione della funzione del prodotto contenente o consistente in una informazione genetica. La Corte di Giustizia CE con la sentenza n. 428 del 6 luglio 2010 ha deciso che l’art. 9 della direttiva 98/44/CE impedisce che una normativa nazionale riconosca protezione assoluta al prodotto brevettato in quanto tale, a prescindere dal fatto che esso svolga o meno la sua funzione nel materiale che lo contiene. Tale articolo impedisce altresì al titolare di un brevetto rilasciato prima dell'adozione di tale direttiva di invocare la protezione assoluta del prodotto brevettato che gli sarebbe stata accordata dalla normativa nazionale allora vigente. Per approfondire il testo della sentenza vedi infra. 113 ) A. Pizzoferrato, Brevetto per invenzione, cit., p. 155. Sull’estensione del brevetto di prodotto biotecnologico si veda anche G. Guglielmetti, Il decreto di recepimento, cit, p. 135, ritiene che si debbano distinguere due ipotesi. Quando, come spesso accade, i due materiali ottenuti, rispettivamente, con un procedimento già noto e con quello nuovo, non si presentino in forma identica, ma ad esempio il secondo, realizzato con un procedimento di ingegneria genetica, si caratterizzi per avere un grado di purezza maggiore rispetto al materiale ottenuto per mezzo di procedure di estrazione dall’ambiente naturale, la brevettabilità, come prodotto, del risultato del secondo procedimento non dovrebbe presentare particolari dubbi. Qualora invece i due materiali siano assolutamente identici, pare inevitabile concludere per il difetto di novità della seconda invenzione relativamente al prodotto. Resta salva la possibilità di brevettare il nuovo procedimento. 54 6. Dicotomia scoperta-invenzione: superamento del divieto di brevettare le scoperte nel settore delle biotecnologie L’estensione del brevetto alle biotecnologie fa riemergere la dicotomia scopertainvenzione posto che un prodotto biotecnologico, esistente già in natura, può essere scoperto più che inventato. L’espressione scoperta può essere utilizzata per designare tutte le forme di conoscenza della natura; può trattarsi della mera descrizione empirica di determinati oggetti o fenomeni naturali ovvero della spiegazione scientifica delle cause, degli effetti e delle relazioni intercorrenti tra di essi114; la scoperta permette di individuare un quid prima ignoto ma esistente in natura, ovvero le proprietà e le utilità, prima ignote, di un quid già conosciuto115. L’invenzione rappresenta invece una forma di applicazione pratica delle conoscenze; porta ad un risultato tecnicamente utile116, idoneo ad essere sfruttato industrialmente. Il quid creato dall’uomo non esisteva né deriva dal suo intervento sulla natura. La brevettazione delle scoperte è normalmente vietata117; la ratio del divieto è ricondotta alla carenza del requisito di materialità giacché la scoperta, solitamente, viene fatta coincidere con principi, proprietà e fenomeni naturali, accostata alle 114 ) G. Guglielmetti, La brevettazione, cit., p. 97, ritiene che il termine scoperta designi il risultato dell’attività consistenti nel riconoscere ciò che preesiste in natura ma che non era prima noto; le teorie, i principi scientifici indicano invece la creazione, da parte dell’uomo, di ipotesi e modelli per interpretare, spiegare fenomeni della realtà. Non esiste tuttavia, a parere dell’Autore, una rigida separazione tra scoperte e teorie (o principi) scientifici. La percezione di un oggetto o di un fenomeno preesistente in natura ma in precedenza ignoto non è rigidamente separabile dalla sua comprensione e spiegazione scientifica. A volte non è possibile afferrare il significato di una nuova scoperta senza la risistemazione dei principi scientifici accolti. Si tratta dunque di due forme di conoscenza della natura di grado diverso. 115 ) G. Sena, La brevettazione delle scoperte e delle invenzioni fondamentali, Riv. dir. ind., 1990, p. 316. 116 ) Il carattere tecnico dell’invenzione deve essere inteso nel senso di utilizzazione della materia e dell’energia per la soluzione di un problema: G. Guglielmetti, op. cit., p. 121. 117 ) In tal senso l’art. 52 della Convenzione di Monaco e l’art. 45 c.p.i. In queste norme si legge: “non sono considerate come invenzioni ... le scoperte”. Diversamente la legge americana (Patent Act, 35 U.S.C. §§ 100 a e 101) che definisce il termine “invention” come “invention or discovery” e precisa che può ottenere il brevetto “ Whoever invents or discovers ...”. 55 teorie scientifiche ed ai metodi matematici118. Non vi sarebbe quindi alcun arricchimento del patrimonio tecnologico119. Se, concettualmente, la scoperta si distingue dall’invenzione, vi è tuttavia una sostanziale identità fra le due fattispecie dal punto di vista dell’attività di ricerca, dell’oggetto e dei risultati concreti; la ricerca che conduce ad isolare, e quindi a scoprire, una sostanza naturale o ad individuare caratteristiche della materia prima ignote è qualitativamente del tutto analoga all’attività che porta alla creazione di un nuovo prodotto, di una nuova molecola, alla realizzazione di un nuovo composto o, comunque, di un quid novi120. La scoperta, come l’invenzione, mette a disposizione della tecnica un mezzo prima ignoto per la soluzione di determinati problemi e per la soddisfazione di dati bisogni121. La normativa che esclude la brevettazione delle scoperte riguarda, quindi, solo quelle sovrapponibili con le teorie o i principi scientifici privi, di per sé, di 118 ) A conferma, l’art. 45 c.p.i. dispone che non sono considerate invenzioni le scoperte, le teorie scientifiche e i metodi matematici, i piani, i principi ed i metodi per attività intellettuali, per gioco o per attività commerciale ed i programmi di elaboratore, le presentazioni di informazioni. 119 ) In tal senso G. Dragotti, Le invenzioni, in Trattato di diritto privato diretto da Pietro Rescigno, Vol. IV, 2009, p. 230. 120 ) La scoperta può avere ad oggetto minerali, sostanze chimiche, microrganismi, virus, geni, ecc.; in questi casi, i requisiti della concretezza, o materialità, e della immediata utilità si presenterebbero in modo assolutamente identico con quelli propri delle invenzioni: in tal senso G. Sena, La brevettazione delle scoperte, cit., p. 316. 121 ) G. Floridia, Le invenzioni universitarie, in Riv. dir. ind., 2001 p. 215, osserva che la regola della non brevettabilità della scoperta, nata per essere applicabile al settore della tecnologia meccanica, non si adatta al settore della biotecnologia dove spesso scoperta ed invenzione si compenetrano in un tutto inscindibile. V. Menesini, Le invenzioni biotecnologiche fra scoperte scientifiche, applicazioni industriali, preoccupazioni bioetiche, in Riv. dir. ind., 1996, p. 191, osserva, sull’argomento, che l’esigenza di una disciplina giuridica che incentivi la ricerca e che garantisca una remunerazione agli investimenti, sempre ingentissimi, che tale attività comporta, sussiste indipendentemente dal fatto che il risultato sia concettualmente qualificabile come scoperta o come invenzione. 56 immediata utilità122. In senso conforme si è espresso anche il legislatore comunitario che, proprio nella Direttiva 98/44/CE, ammette la brevettabilità dei prodotti biologici che, pur preesistendo allo stato naturale, non sono conosciuti perché non 122 ) G. Sena, La brevettazione delle scoperte, cit., p. 317, osserva che il divieto non ha ragione di esistere nel caso in cui l’oggetto della scoperta sia, di per sé, un prodotto dotato di immediata utilità. A. Ottolia, Riflessi sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni EST, in Riv. dir. ind., 2005, p. 457, osserva che il discrimine semantico tra scoperta e invenzione, ai fini dell’accesso alla tutela brevettuale, consiste nell’esistenza o meno di una conoscenza applicabile. In questo senso, limitando l’ambito semantico del termine scoperta alle conoscenze o ai fenomeni meramente teorici, ovvero privi di applicazione immediatamente utile all’industria, l’ambito dell’entità brevettabili arriva a comprendere anche conoscenze attinenti ad un’entità naturale qualora siano però dotate di immediata applicazione pratica. L’interpretazione trova conforto, osserva l’Autore, non solo nell’analisi dell’evoluzione storica della disciplina, ma anche nel dato testuale. L’art. 2585 c.c. prevede la proteggibilità della “applicazione tecnica di un principio scientifico purché dia immediati risultati industriali”. Similmente, l’art. 45, comma 3, c.p.i. e l’art. 52 CBE che escludono la brevettazione delle scoperte e delle teorie solo nella misura in cui il brevetto “concerna scoperte, teorie... considerate in quanto tali”. Queste previsioni escludono dalla brevettazione solo il mero contenuto conoscitivo della scoperta, riconoscendo, implicitamente, la legittimità di un’esclusiva conferita sulla soluzione applicativa della stessa quale inedita risposta a un problema non in precedenza soddisfatto. Questa impostazione consente di premiare, attraverso la ricomprensione fra le entità brevettabili, la capacità dell’uomo di accrescere il proprio “approfittamento delle forze della natura”, attraverso l’individuazione delle catene ideative che ne colgono i nessi funzionali, e di ricavarne nuove applicazioni utili. Questo riconoscimento non sembra rappresentare, a parere dell’Autore, un quid novi rispetto al modello brevettuale tradizionale, nonostante parte della dottrina abbia sottolineato taluni rilevanti profili di specificità rispetto alla disciplina generale. In senso conforme V. Di Cataldo, Biotecnologie e diritto, cit., p. 364, il quale ritiene esemplificativa delle suesposte circostanze la vicenda relativa alla brevettazione da parte della società Chiron, nel 1987, di un kit immunodiagnostico del virus dell’epatite C. La società, impegnata sin dal 1982 ad identificare il genoma del citato virus, era riuscita a predisporre il kit utilizzando tecniche note; in concreto, dunque, l’invenzione (di prodotto e/o di procedimento) consistente nel kit o nel procedimento di realizzazione dello stesso era priva dei requisiti di novità e/o di originalità. In casi del genere, in cui erano state coinvolte capacità operative di varie decine di scienziati di primo piano a livello mondiale, finanziamenti valutati in ordine di vari milioni di dollari, la sola possibilità concreta di attribuzione di un titolo brevettuale all’autore era nel ravvisare l’invenzione brevettabile proprio nella individuazione della struttura del virus che era, in realtà, la sola operazione che richiede attività inventiva. Si trattava, però, di una acquisizione che il linguaggio comune qualificava come scoperta e non come invenzione. Nonostante ciò, venne ammessa la brevettabilità della scoperta in quanto essa presentava una immediata applicazione pratica, limitandosi gli effetti del brevetto proprio a quella applicazione; la scoperta è stata detta brevettabile, quindi, ma solo in funzione della realizzazione di quel particolare metodo e di quel particolare strumento diagnostico. Per questa via, può darsi una risposta positiva, afferma l’Autore, ad una esigenza reale. Il sistema brevettuale può essere utilizzato come strumento di incentivazione/remunerazione della ricerca nel settore biotecnologico, per un tipo di problemi la cui soluzione contribuisce notevolmente al miglioramento della qualità della vita umana, rispetto ai quali il momento decisivo è proprio quello della scoperta, cioè della decodificazione del virus. In concreto, la brevettazione diviene possibile perché la presenza dei requisiti di brevettabilità (novità e originalità) può e deve essere accertata in rapporto all’invenzione, che in questo caso è la scoperta cioè l’individuazione del virus; il rischio di superbrevettazione, cioè della concessione di uno spazio di esclusiva eccessivo (cioè superiore all’apporto dato dall’inventore al patrimonio collettivo) viene controllato dal fatto che il brevetto copre la scoperta solo in funzione della particolare applicazione descritta e rivendicata. Sul punto, si rimanda anche infra nota 81 57 ancora scoperti123. 7. Ricerca pura e ricerca applicata: individuazione delle differenze e delle ratio di natura economica e concorrenziale Dalla dicotomia scoperta-invenzioni deriva l’ulteriore, importante, distinzione tra ricerca pura, o di base, e ricerca applicata. La prima, è diretta a produrre risultati teorici e astratti, privi di applicazioni concrete; la seconda è finalizzata a realizzare innovazioni capaci di soddisfare bisogni di carattere pratico. La ricerca pura realizza scoperte inidonee ad essere oggetto di privativa mentre la ricerca applicata crea invenzioni sfruttabili su scala industriale124. 123 ) Cfr. artt. 3 Direttiva 98/44/CE e 81 quater c.p.i. A tal proposito, relativamente alla scoperta di una sequenza di DNA e delle relative proteine, V. Di Cataldo, Biotecnologie e diritto, cit., p. 364, scrive: “In presenza di un sicuro bisogno (spesso drammaticamente avvertito) dell’uomo a disporre di una determinata proteina, diviene difficile sostenere che colui il quale per primo la rende disponibile in quantità e con un grado di purezza tali da poter effettivamente realizzare una distribuzione commerciale non ha trovato una soluzione originale di un problema tecnico. L’invenzione è stata individuata, in questi casi, nella scoperta della funzione di un frammento di DNA, in quanto direttamente utilizzabile al fine della produzione della proteina”. M. Ricolfi, op. cit., p. 7, osserva che il legislatore comunitario ha ritenuto di dover introdurre nella direttiva un criterio discretivo consistente nello sceverare tra scoperta ed invenzione non più in ragione della distinzione tra svelato e creato, bensì in ragione del differente estrinsecarsi del rapporto tra l’attività dell’uomo e la materia vivente. Allorché questi compie un’attività meramente conoscitiva, puramente cerebrale, avente ad oggetto materiale biologico egli compie una scoperta; laddove invece l’attività che l’uomo pone in essere ha carattere materiale, comportando il compimento di un procedimento tecnico, la “tecnicità” di tale procedimento permea, per così dire, di sé anche il prodotto, rendendolo suscettibile di costituire oggetto di brevetto. A questo punto, l’Autore ritiene necessario andare a chiarire quando possa parlarsi di procedimento tecnico, ovvero, in altre parole, se esista un minimum di “tecnicità” che tale procedimento deve possedere. A tal uopo può farsi riferimento a quanto previsto nelle Guidelines dell’EPO, dove si sottolinea che l’intervento umano deve essere tale da svolgere un ruolo significativo nel determinare o controllare il risultato che si desidera ottenere, dovendosi intendere il termine “significativo” in riferimento a tutti quei procedimenti tecnici che soltanto l’uomo è capace di mettere in atto e che la natura di per sé stessa non è in grado di compiere (cfr. anche il 21° considerando direttiva 98/44/CE). G. Sena, La brevettazione delle scoperte, cit., p. 316, riguardo all’art. 3 della Direttiva in esame ritiene che la norma, pur regolamentando le biotecnologie, abbia una rilevanza interpretativa generale. 124 ) Il brevetto non protegge le teorie, le scoperte e le ideazioni che, pur evidenziano ricadute applicative, non si siano tradotte (o non siano traducibili) in una specifica idea di soluzione direttamente sfruttabile su scala industriale. La privativa copre soltanto una particolare idea di soluzione di un problema pratico; ciò, anche quando l’ideazione applicativa presenta una minusvalenza intellettuale rispetto a quella della teoria che la precede: in tal senso G. Ghidini, Profili evolutivi del diritto industriale, Milano, 2008, p. 68 58 Dal punto di vista economico, questa distinzione si è tradotta in una ripartizione dei compiti tra il settore pubblico e quello privato: la ricerca di base è tendenzialmente svolta presso le Università, o enti pubblici, ed è finanziata con fondi statali125; la ricerca applicata è, invece, sviluppata dalle imprese che compiono investimenti per poi ottenere prodotti da immettere sul mercato. In questa fase, la tutela brevettuale riveste un ruolo essenziale in quanto permette di recuperare i costi sopportati. 125 ) Le università, specie nel settore biotecnologico, hanno “scoperto” le potenzialità economiche della brevettazione dei risultati delle ricerche da loro condotte. Il fascino delle royalties ha fatto sì che all’interno di molti atenei si vadano moltiplicando gli uffici addetti al trasferimento tecnologico (TT) e si dia vita ad imprese c.d. spin-off, con frequente compartecipazione, finanziaria e professionale, dei privati. L’obiettivo, un tempo separato, tende a farsi comune, e così a favorire la mobilitazione di risorse finanziarie dedicate appunto ad una ricerca “finalizzata”, orientata prevalentemente alla realizzazione di nuovi farmaci (frutto non della chimica tradizionale bensì dei procedimenti di ingegneria genetica), come pure di nuovi prodotti capaci di rispondere alle emergenze alimentari ed energetiche. Questo fenomeno va letto anche in relazione al consistente aumento degli stanziamenti in favore della ricerca pubblica nel campo biotecnologico, aumenti giustificati dalle speranze riposte in questo settore per la produzione di nuovi farmaci, biocombustibili, OGM. Il 7º Programma Quadro dell’Unione Europea ha aumentato le risorse per la ricerca (passando da uno stanziamento medio di 7.217 milioni di euro l’anno contro i 4.375 milioni di euro annui stanziati nel Sesto programma quadro (per il periodo 2002-2006). In questo scenario le università e gli enti pubblici di ricerca stanno assumendo un ruolo di primo piano nella ricerca biotecnologica, circostanza testimoniata dal consistente incremento del numero di privative ottenute. La prospettiva evocata ha, notoriamente, le sue radici nell’esperienza negli Stati Uniti i quali, per primi e più di ogni altro Paese, hanno sviluppato la ricerca e l’industria nel campo delle biotecnologie. Da detta esperienza è possibile trarre utili indicazioni sia per evitare gli errori che essa ha fatto emergere, sia per modellare assetti normativi volti a perseguire gli obbiettivi dello stimolo all’innovazione e del benessere della collettività: P. Errico, I brevetti sulle biotecnologie fra ricerca pubblica e sviluppo privato. Indicazioni dall’esperienza statunitense, in Riv. dir. ind., 2009, p. 311. Sul ruolo delle Università nel settore della ricerca si veda anche Capitolo V. 59 Tale suddivisione trova la sua ratio nella necessità di difendere il tipico modo di produzione della ricerca pura126. La scienza si nutre di confronti, di scambi, di condivisione critica del sapere, di verifica di comunità, pur talora in vivace contrapposizione personale fra i ricercatori, delle nuove ipotesi affacciatesi; attirare la ricerca pura nella logica proprietaria di quella applicata vorrebbe dire diminuirne le potenzialità innovatrici oltre che gli stessi spazi di libertà, valore di rilievo costituzionale127. L’industria tenderebbe a trascurare ambiti di ricerca poco profittevoli seppur di grande interesse scientifico e/o sociale128, adattando tali ricerche ai bisogni del pubblico-cliente129. 126 ) Modello definito “non escludente” da G. Ghidini, Profili evolutivi, cit., p. 69, il quale osserva che a tale modo di produzione ricorrono anche le imprese della Information Technologies ed i sistemi c.d. Open Source; questi non negano, anzi postulano, l’esistenza di un diritto di proprietà industriale, in particolare del diritto d’autore, sui risultati della ricerca, ma li aprono all’altrui condivisione in funzione di più rapide ed ampie dinamiche di innovazione derivata. 127 ) Da un lato, i ricercatori procederebbero più lentamente nel perseguire ulteriori avanzamenti giacché non potrebbero liberamente usare, o dovrebbero pagar dazio per farlo, ogni precedente nuova acquisizione teorica; dall’altro, se condizionati da una prospettiva di esclusiva di sfruttamento sui primati scientifici, opererebbero in compartimenti stagni, ciascuno in segreto rispetto gli altri, rinunciando così a sfruttare le preziose sinergie derivanti dallo scambio e, quindi, dalla condivisione di idee ed esperienze. 128 ) Una siffatta tendenza riguarda gli investimenti per la ricerca-sviluppo inerenti i brevetti sui farmaci destinati alla diagnosi, profilassi e terapia delle malattie rare; la contestuale possibilità di brevettare (a valle) e quella di esternalizzare sulle istituzioni pubbliche i costi della ricerca pura (a monte), creano il massimo incentivo alla messa in cantiere di prodotti di pur scarso mercato, propensione incoraggiata dalla reputational reward conseguibile, e, quindi, da un più ampio vantaggio di immagine sfruttabile anche sul piano competitivo. La Comunità Europea ha regolato il settore con norme che utilizzano il meccanismo della concessione di un diritto di esclusiva limitato nel tempo, cioè una sorta di brevetto rilasciato senza che siano richieste novità ed originalità del trovato; è prevista anche una riduzione delle tasse relative alla procedura di autorizzazione. In presenza di un’autorizzazione per l’immissione in commercio di un farmaco per una malattia rara, la Comunità europea e gli Stati membri non accettano altre domande di autorizzazione con le stesse indicazioni terapeutiche per un periodo di dieci anni. 129 ) Il che tende a vincolare l’industria stessa ad una cultura mediamente più arretrata di quella posseduta dalle avanguardie futurizzanti: G. Ghidini, Profili evolutivi, cit., p. 70. 60 Altra, importante, ragione della suddivisione è quella di natura proconcorrenziale. Un sistema industriale che opera in regime di concorrenza richiede che tutto il patrimonio di conoscenze generali, portato alla luce dalla ricerca scientifica, sia considerato e resti una common resource, sottratta ai diritti esclusivi; se così non fosse, l’impresa che viene ad acquisire diritti esclusivi su quel tipo di ideazione verrebbe a detenere un monopolio esteso ad una serie di applicazioni pressoché indeterminabili a priori130, coprendo l’intera catena delle applicazioni ricollegabili, anche in via derivata, all’elaborazione scientifica. Si verrebbe, quindi, a costituire un monopolio pluriapplicativo e potenzialmente illimitato131. 8. Area di confine tra ricerca pura e ricerca applicata nelle biotecnologie: la c.d. ricerca finalizzata. Il problema della brevettabilità dei risultati della ricerca di base In settori come quello delle biotecnologie la contrapposizione, poc’anzi esposta, fra ricerca pura e ricerca applicata appare particolarmente problematica; l’elaborazione che dall’una rifluisce nell’altra è sovente un continuum. 130 ) Nella sentenza n. 7083 risalente al 29 dicembre 1988 la Corte di Cassazione osservava che la regola della non brevettabilità delle scoperte (ci si riferiva alla scoperta di un principio scientifico) si fonda, non su una loro supposta intrinseca incapacità di produrre concreti risultati pratici, bensì proprio, all’inverso, sulla loro capacità di determinare un insieme di applicazioni tecnologiche a larghissimo ventaglio, pressoché indeterminato; attribuendo all’autore della scoperta la facoltà di interdire l’attuazione pratica di tutte le innovazioni che altri potranno portare alla tecnologia basandosi sulla scoperta, si giungerebbe a paralizzare ogni progresso. 131 ) G. Sena, La brevettazione delle scoperte, cit., p. 316, osserva che la ragione più profonda di tali posizioni è da rinvenire nel timore che una esclusiva sui risultati della ricerca di base possa costituire un vero e proprio blocco delle sue applicazioni tecnologiche, che possa cioè comportare un effetto di sbarramento e precludere lo sbocco pratico dei risultati della ricerca stessa. 61 I prodotti ed i procedimenti biotecnologici sono spesso realizzati mediante tecniche di routine che, facenti oramai parte dello stato dell’arte, vengono applicate ai nuovi risultati della ricerca di base che, conseguentemente, sfociano in soluzioni tecniche perdendo l’astrattezza che li caratterizzava132. Non solo. Sempre più frequentemente le ricerche scientifiche vengono condotte, o comunque sostenute economicamente, da privati, interessati a conseguire le ricadute applicative delle ricerche stesse. Tutto ciò porta ad ampliare la c.d. ricerca finalizzata, area di confine tra la ricerca pura in senso stretto e quella applicata. In questi casi, ci si chiede dove si collochi la soglia della brevettabilità. Si pensi, ad esempio, alla messa a punto di nuovi composti chimici i quali possono rappresentare un importante risultato non solo dal punto di vista scientifico ma anche da quello della prevedibile, futura, utilità industriale e commerciale. In questi casi, si dovrà negare il rilascio del brevetto sino a quando la utilizzazione di detti composti non produca risultati applicativi ? Quale dovrà essere, a fronte del citato continuum, l’ampiezza di una esclusiva che copra la c.d. formula generale di una molecola biologicamente attiva ? Si estenderà o meno a tutti i composti che ne derivino al di là delle specifiche indicazioni di varianti realizzative espressamente formulate in sede di domanda brevettuale ? Nell’ipotesi che il carattere innovativo del risultato finale, suscettibile di concreta applicazione, sia individuabile nello stadio della ricerca, anziché in quello dello sviluppo applicativo in senso stretto, si dovrà applicare il divieto di brevettare le scoperte ? 132 ) L’individuazione di un gene, ad esempio, potrebbe condurre, con tecniche note, alla realizzazione di varie invenzioni: un test di predisposizione ereditaria ad una malattia, un nuovo farmaco, nuove tecniche sanitarie. T. Faelli, op. cit., p. 125, osserva che nel settore delle biotecnologie la ricerca di base viene svolta con l’obiettivo di raccogliere il maggior numero di informazioni possibili intorno ad un oggetto nella speranza che tali informazioni suggeriscano successivamente concrete applicazioni. 62 Negare, in questi casi, la brevettabilità significherebbe penalizzare l’attività di ricerca ed i costosi investimenti che essa richiede; emergerebbe una grave inelasticità ed una vistosa inadeguatezza del paradigma normativo rispetto alla missiva, propria del sistema brevettuale, di incoraggiare ricerca e sviluppo anche nelle ipotesi in cui la ricerca rappresenti l’antecedente necessario di successive applicazioni utili ovvero produca essa stessa, come tale, risultati utili, seppur intermedi, rispetto alla realizzazione di risultati finali133. In risposta ai suddetti quesiti, è stata formulata la tesi dell’equilibrio efficiente che tiene conto, da un lato, dell’esigenza di remunerare gli investimenti dedicati all’innovazione, dall’altro di stimolare l’innovazione successiva; la finalità è quella di incentivare gli investimenti dei concorrenti degli innovatori precedenti salvaguardando la fisionomia concorrenziale del mercato134. Premesso ciò, si esclude la brevettabilità di quelle ideazioni che presentino un potenziale applicativo ancora indeterminato e, quindi, non traducibile, con il mero ausilio di tecniche ordinarie, in specifiche soluzioni applicative135. Se, invece, il passo in avanti richiesto per tradurre le potenzialità di ricadute di una sostanza in soluzioni applicative determinate (e determinabili anche dalla destinazione 133 ) Se venisse, in queste ipotesi, negato il brevetto apparirebbero giustificati i ricorrenti tentativi di modificare, ammorbidendolo, l’attuale testo dell’art. 52.2 CBE, che equivale al nostro art. 45 c.p.i., per riscriverlo in consonanza con l’art. 27 TRIPs; quest’ultimo non menziona tali esclusioni e la Nota aggiunta, che fa parte del testo ufficiale dell’Accordo, precisa, con manifesta apertura alla più estensiva impostazione statunitense, che la idoneità ad avere un’applicazione industriale, sostanziale discrimen fra ricerca teorica e ricerca applicata, può essere intesa, da uno Stato membro, come (mero) sinonimo di utile. 134 ) La tesi è proposta da G. Ghidini, Profili evolutivi, cit., p. 76. 135 ) Ammetterne la brevettabilità, in specie di prodotto, significherebbe “prenotare” tutte le ricadute applicative della ideazione stessa. I ricercatori e gli investitori, non potendo brevettare la ideazione che non ha ancora precise ricadute applicative, saranno costretti a proseguire nella ricerca per arrivare, appunto, alla fase applicativa, innestando un virtuoso effetto-stimolo dell’attività di ricerca-sviluppo. Il ricercatore che ha seguito il lavoro sin dalle primissime fasi della sperimentazione ha un grande vantaggio competitivo sotto il profilo della qualità dei risultati finali e dell’anticipazione temporale del loro conseguimento. G. Guglielmetti, La brevettazione delle scoperte, cit., p. 135, scrive: “Attribuire allo scopritore di un nuovo principio scientifico astratto un diritto esclusivo su tutte le successive realizzazioni tecniche che oggettivamente possono essere spiegate come applicazione del principio scoperto, significherebbe allora garantirgli un compenso che non è normalmente proporzionato al suo contributo, al corso del progresso tecnico, e anzi un compenso paradossalmente tanto maggiore quanto più il principio scientifico scoperto è generale e quindi distante da uno scopo pratico. Si arriverebbe così a elevare a dismisura i costi della ricerca tecnica per finanziare quella scientifica, solo perché talvolta, e in certi settori, questa può anche favorire ricadute tecniche. Inevitabilmente, si finirebbe per intralciare la stessa ricerca scientifica”. 63 funzionale) sia alla portata del tecnico medio, le ideazioni saranno brevettabili. Il brevetto coprirà le varianti nominate nella formula e quelle che, seppur non espressamente indicate, siano deducibili dalla formula generale con il mero impiego delle conoscenze del tecnico medio136. Le invenzioni che, pur migliorando e/o variando le espressioni applicative di una sostanza brevettata, la utilizzassero, in tutto o in parte, secondo lo stesso approccio concettuale e funzionale, sarebbero dipendenti dal brevetto sulla sostanza e la loro attuazione dipenderebbe da una licenza del primo titolare. Non mancato, tuttavia, posizioni estreme secondo le quali la tutela giuridica deve, sempre, essere estesa al momento della ricerca di base, assicurando in tal modo 136 ) In tale ipotesi, si realizzerebbe un diritto di monopolio circoscritto con precisione; non sbarrerebbe la strada alle innovazioni successive dei terzi che utilizzassero detta sostanza secondo un percorso concettuale ed in una prospettiva funzionale radicalmente diversa e distante: G. Ghidini, Profili evolutivi, cit., p. 76. 64 protezione anche alla fase che precede la specifica applicazione pratica137. La scoperta o l’invenzione di grande portata che si vuole mettere a disposizione della collettività, consentendone il libero sfruttamento da parte dei terzi, deve essere innanzitutto prodotta; senza una normativa che renda convenienti gli ingenti investimenti che essa richiede, non si produrranno quei beni che si vogliono offrire allo sfruttamento gratuito. In un tale contesto, detti beni, seppur realizzati, verrebbero tenuti segreti fino al conseguimento delle invenzioni minori (comunque più specifiche e di concreta applicazione) alle quali solamente la protezione verrebbe 137 ) G. Sena, Brevi note sulla brevettabilità delle scoperte e delle invenzioni biotecnologiche, in Riv. dir. ind., 2000, p. 364. L’Autore osserva che la dicotomia tra scoperta-applicazione tecnica si presta a due possibili costruzioni secondo che si ponga attenzione sul momento della scoperta o su quello della sua applicazione tecnica; in altre parole, rimane da chiedersi se l’oggetto del brevetto consista nella scoperta che dia immediati risultati industriali o, piuttosto, nella sua applicazione tecnica. A tal proposito, un importante dibattito si era, anni fa, incentrato sul problema della novità e della attività inventiva nei risultati della ricerca; secondo una prima tesi, detti requisiti andavano ricercati nella scoperta e non necessariamente nella sua applicazione pratica che poteva essere immediata e del tutto ovvia; secondo la tesi opposta, dovevano sussistere con riferimento alla applicazione pratica che poteva essere brevettabile solo se nuova ed implicante una attività inventiva, non derivando in modo evidente ed immediato dalla scoperta. La prima tesi è stata accolta dal Tribunale di Milano nella sentenza dell’11.11.1999. L’impresa Chiron Corporation aveva svolto delle ricerche sull’epatite C riuscendo ad isolare e decodificare il virus della malattia; dall’operazione di decodificazione, l’impresa Chiron era riuscita a mettere a punto un Kit immunodiagnostico ottenendo un brevetto statunitense nel 1987 e, successivamente, un brevetto europeo. Per difendere la privativa in Italia, l’impresa aveva citato in giudizio per contraffazione la Sorin, la quale eccepiva la nullità del brevetto sostenendo che il trovato non era brevettabile, non era applicabile industrialmente, mancava di originalità e di sufficiente descrizione. In sede cautelare, il giudici milanesi avevano ammesso la brevettabilità dell’individuazione della struttura del virus in quanto scoperta che possiede un’immediata industrialità quanto alle sue utilizzazioni in analisi immunologiche; inoltre, i magistrati avevano rilevato che la brevettabilità della scoperta scientifica avente diretta applicabilità industriale implicava che il requisito dell’attività inventiva doveva essere riferito all’individuazione della scoperta stessa poiché l’applicazione industriale, nel caso considerato, era per definizione automatica ovvero tale da richiedere l’utilizzo di dispositivi già noti o alla portata del tecnico medio. I giudici applicavano quindi l’art. 2585 c.c. secondo cui può costituire oggetto del brevetto anche l’applicazione tecnica di un principio scientifico purché dia immediati risultati industriali. Secondo questo orientamento, riaffermato nella sentenza di primo grado, una volta brevettata la cognizione scientifica a monte (nel caso di specie l’individuazione del virus), purché suscettibile di immediata applicazione industriale, i requisiti della novità e dell’originalità vanno ricondotti alla ricerca compiuta per pervenire alla scoperta e non all’attività che ha portato alla sua applicazione industriale (Kit immunologico). In senso conforme C. Galli, Problemi in materia di invenzioni biotecnologiche e di organismi geneticamente modificati, in Riv. dir. ind., 2002, p. 398, il quale osserva che un importante corollario della brevettazione dei risultati della ricerca di base è quello che i requisiti di validità dell’invenzione vanno valutati in relazione alla scoperta, e non all’applicazione della stessa, che può essere, di per sé, alla portata di un tecnico del ramo. Si rimanda alla Cass. civ. 29.12.1988 n. 7083, in Riv. dir. ind., 2000, p. 13 con nota di L. Biglia per la nozione di principio scientifico. Ivi si legge che principio scientifico sta a significare scoperta, teoria scientifica, metodo tecnico o matematico, da cui possa discendere una immediata applicabilità dal punto di vista industriale intesa come idoneità a risolvere un problema tecnico. 65 garantita. Se è vero che vi sono scoperte ed invenzioni fondamentali, frutto della ricerca di base, che possono determinare un insieme di applicazioni tecnologiche a larghissimo ventaglio, è altrettanto certo che è necessario promuoverne la produzione, l’accessibilità e la circolazione proprio per favorire lo sviluppo tecnico che da esse deriva138. 9. La tutela brevettuale del materiale biologico di origine umana ed, in particolare, delle sequenze di DNA L’art. 5, commi 1 e 2, della direttiva 98/44/CE dispone che la scoperta di uno degli elementi del corpo umano, di una sequenza o di una sequenza parziale di un 138 ) G. Sena, L’importanza, cit., p. 65, osserva che se si ritiene che il sistema dei brevetti stimoli l’attività inventiva, la divulgazione e la circolazione delle invenzioni, non vi è alcun motivo per disapplicarlo proprio nella fase più rilevante della ricerca, costituita appunto dalla ricerca di base. Il prezzo che la comunità paga alla ricerca sarà evidentemente maggiore quanto più importanti sono i suoi risultati e l’istituto della esclusiva brevettuale assicura appunto tale equilibrio. Senonché, la caratteristica delle scoperte ed invenzioni frutto della ricerca di base è costituita dal fatto che da esse possono derivare numerosissime applicazioni tecniche, eventualmente qualificabili, a loro volta, come vere e proprie invenzioni e che, anche con riguardo a queste ultime, si ripropongono gli stessi problemi di promozione e di tutela. Il problema è insomma quello della sequenza di più invenzioni: parrebbe che, se si tutelano con l’esclusiva brevettuale scoperte ed invenzioni fondamentali, si disincentiva e addirittura si blocca il successivo sviluppo; se si nega, d’altra parte, la tutela brevettuale alle prime, si riduce quella spinta, decisiva al progresso tecnologico, che è costituita dalla ricerca di base. Ma questa alternativa, che costituisce il presupposto implicito della tesi qui criticata, è superata dall’istituto della licenza, negoziale od obbligatoria. P. Errico, I brevetti sulle invenzioni sulle biotecnologie fra ricerca pubblica e sviluppo privato. Indicazioni dall’esperienza statunitense, in Riv. dir. ind., 2009, p. 311, osserva che l’innovazione nel settore delle biotecnologie non si esprime in grandi progressi rispetto allo stato dell’arte. I risultati brevettabili consistono, tipicamente, in innovazioni incrementali che possono ben scaturire in un’attività inventiva compiuta con basse aspettative di successo. L’attività di ricerca in questo settore comporta, per la sua intrinseca complessità, ingenti investimenti in termini di capitale umano e finanziario e lunghi tempi di elaborazione ed attuazione. In questo settore, dunque, la promozione dell’attività di ricerca-sviluppo, tipicamente affidata allo strumento brevettuale, postula che la soglia di “merito” per l’accesso alla privativa si situi sul piano dei progressi incrementali e non delle c.d. blockbuster inventions. Non solo. In questa materia appare spesso problematica la netta contrapposizione normativa fra “ricerca pura” e “ricerca applicata”, sì da rendere particolarmente ardua l’applicazione del divieto di brevettare le scoperte (artt. 52 CBE e 45 Codice della Proprietà Industriale). Fatta salva la ratio fondamentale del divieto, vale a dire evitare il rischio di monopolizzazioni di portata potenzialmente indeterminata sulle elaborazioni scientifiche, è stata avvertita l’esigenza di remunerare adeguatamente quel tipo di ricerca detta “finalizzata”: ossia di base ma orientata a, e produttiva di risultati che, ancorché non “industriali”, siano comunque utili; ovvero, ancora, di una ricerca applicata il cui carattere innovativo si collochi propriamente in acquisizioni scientifiche “a monte”. 66 gene non possono costituire invenzioni brevettabili139; è, invece, brevettabile l’elemento del corpo umano isolato o diversamente prodotto, mediante un procedimento tecnico, ivi compresa la sequenza o la sequenza parziale di un gene, anche se la struttura di detto elemento è identica a quella di un elemento naturale. Quando ad essere brevettate sono le sequenze geniche, nella relativa domanda deve essere anche indicata la concreta applicazione industriale dell’invenzione140. La CE e l’UEB offrono spiegazioni differenti sulla consistenza di tale indicazione. Secondo il considerando 24 della Direttiva 98/44/CE “affinché sia rispettato il criterio dell’applicazione industriale, occorre precisare, in caso di sequenza di un gene o di sequenza parziale di un gene utilizzata per produrre una proteina o una proteina parziale, quale sia la proteina o la proteina parziale prodotta o quale funzione essa assolva”. 139 ) La Convenzione di Oviedo, trattando del divieto di profitto all’art. 21 così recita: “il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonti di profitto”. 140 ) Le sequenze di DNA sono generalmente distinte in “geni, “sequenze parziali di geni”, “ESTs” e “SNPs”. I geni sono tratti distinti (presentano un segnale di inizio e uno di fine) dell’intera sequenza di DNA disposta in doppia elica contenuta nei cromosomi di un organismo. I geni contengono le istruzioni per la sintesi di proteine complete; ogni gene “codifica” una particolare proteina. Le sequenze parziali dei geni sono tratti di DNA; sono utili a codificare, per esempio, parti di proteine individuate (come il nucleo attivo di una sostanza). L’ottenimento di parti di proteine opportunamente selezionate può rendere disponibili sostanze con proprietà dieci o venti volte superiori rispetto a quelle reperibili allo stato naturale. Gli ESTs, expressed sequence tags, sono invece brevi sequenze di DNA utilizzate per individuare sequenze di geni che ancora non si conoscono. Poiché gli ESTs inducono le sequenze ricercate ad evidenziarsi, la loro funzione viene definita di “marker”. Gli SNPs, single nucleotide polimorphism, sono brevi tratti di DNA introdotti in più ampie sequenze geniche in modo che queste ultime codifichino proteine diverse rispetto a quelle naturali (o comunque già nello stato della tecnica) ovvero con nuove proprietà. In ultima analisi, dunque, la sequenza genica può avere prevalentemente due funzioni: quella di decodificare una proteina oppure essere utilizzata come marker di geni. In questo secondo caso, le sequenze geniche hanno un ruolo essenziale sia per la ricerca di base (es. il compimento di esperimenti di laboratorio) sia per quella applicata (es. predisposizioni di farmaci). La decodificazione di frammenti e di sequenze di geni ha un ruolo conoscitivo enorme; negli anni novanta veniva lanciato il progetto “genoma umano” sostanzialmente esaurito alle soglie del 2000 con la mappatura dell’intero DNA dell’uomo. In questo settore, le prime domande di brevetto risalgono al 1991 quanto il National Institute of Health (NIH) depositava avanti al Patent Office USA una serie di domande di brevetto per varie sequenze di geni dell’uomo, di funzione ancora ignota, decodificate da Venter. Il deposito veniva immediatamente accompagnato da commenti e reazioni negative. Lo stesso Governo USA, taluni governi europei e molti scienziati, manifestavano la propria contrarietà. Il Patent Office rifiutò il brevetto; la decisione non veniva reclamata. 67 La nota alla regola 23e CBE dispone, invece, che quando le sequenze e le sequenze parziali di un gene sono l’oggetto di un’invenzione “è necessario indicare in particolare quale funzione è svolta dalla sequenza e dalla proteina da essa codificata”. Diversamente dalla Direttiva 98/44/CE, il Regolamento pone dunque sull’inventore l’ulteriore onere d’indicare, nella domanda di brevetto per un gene, la funzione sia del gene (l’indicazione della proteina codificata) che della proteina codificata (e non rivendicata). Posto che l’indicazione della funzione del gene è soddisfatta dall’indicazione della proteina codificata, e ciò attraverso il nome della proteina (qualora questa sia già nota) oppure attraverso la descrizione della struttura della proteina, la dottrina ha cercato di capire in quali termini debba essere indicata dall’inventore del gene la funzione della proteina codificata o, meglio, con quale grado di concretezza141, e se il sistema brevettuale possa garantire una privativa sui risultati degli stadi intermedi, la cui utilità è, cioè, solo per gli stadi successivi142. La CE e l’UEB, prescrivendo l’onere di indicare la concreta applicazione industriale delle sequenze di DNA che s’intendono brevettare143, si preoccupano di assicurare la possibilità che le ricerche di primo grado siano ulteriormente sviluppate, rendendo accessibile la brevettazione solo all’inventore che indichi, con una certa precisione, la direzione nella quale concentrare le ricerche ulteriori. 141 ) T. Faelli, La tutela delle invenzioni biotecnologiche in Europa: prime valutazioni d’insieme, in Riv. dir. ind., 2001, p. 125, osserva, a tal proposito, che le conoscenze sulla funzione (o le funzioni) di una proteina possono giungere ad un ragionevole grado di certezza anche molto tempo dopo la sintesi della proteina stessa. 142 ) Nel campo delle biotecnologie è, infatti, frequente che vengano svolte ricerche finalizzate ad ottenere risultati precisi (come la sintesi di una data proteina) la cui utilità è però incerta (la funzione della proteina). In questi casi, il ricercatore confida che, una volta resa disponibile la proteina, uno studio specifico su di essa ne evidenzi le proprietà ed uno studio specifico di queste ultime renda possibile la realizzazione di un prodotto con una qualche utilità. Fino a quest’ultimo stadio, la collettività non trae nessun beneficio concreto dall’attività di ricerca. 143 ) Rispettivamente con l’art. 5, comma 3, Direttiva 98/44/CE e art. 23e CBE. 68 L’onere di descrivere la funzione della proteina sintetizzata da un gene, quando oggetto del brevetto è il gene, assolve dunque la funzione di permettere la prosecuzione della ricerca in una determinata direzione e nulla più. Da tale indicazione non ci si può aspettare che essa conduca il tecnico del settore alla realizzazione del prodotto finale (cioè di un prodotto che utilizza le proprietà della proteina) in quanto ciò esula da quanto rivendicato144. Non si pone, conseguentemente, alcun problema ai sensi dell’art. 83 CBE, per il quale la descrizione brevettuale deve essere sufficientemente precisa ovvero tale da porre l’esperto del ramo in grado di attuare l’invenzione; quest’ultima riguarda infatti solo il gene e non la proteina o il suo utilizzo145. In altre parole, se per brevettare una sequenza di DNA come strumento per produrre una proteina è necessario indicare la funzione di tale proteina, non è altrettanto necessario 144 ) La tesi è di T. Faelli, op. cit., p. 126. ) T. Faelli, op. cit., p. 127, il quale ritiene che il brevetto biotecnologico sul gene riguarda solo il gene in sé, mentre la proteina è coperta da autonomo brevetto chimico. 145 69 descriverne l’utilizzo146. Diversamente, se si pretendesse una descrizione della proteina come se proprio questa fosse oggetto di privativa, verrebbe meno il 146 ) In tal senso T. Faelli, op. cit., p. 128. L’Autore, a supporto della tesi, illustra numerosi orientamenti giurisprudenziali a partire da quelli formatisi oltre oceano. Nel 1966 la Corte Suprema statunitense stabiliva, nel caso Brenner v. Manson, che le invenzioni brevettabili devono possedere una “utilità pratica” dalla quale sono esclusi prodotti e procedimenti impiegabili solamente come strumenti di ricerca (per le ricerche di stadio successivo). Successivamente, nel 1985 la Corte Suprema nel caso Cross v. Iizuka sanciva che l’utilità di un’invenzione può essere dimostrata anche in via indiziaria, attraverso una serie di dati concordanti che la rendano almeno probabile. Nel 1995 il Federal Circuit, nel caso Brana, affermava che l’utilità pratica delle invenzioni farmaceutiche è soddisfatta dalla descrizione di un’utilità in vitro (vale a dire “in provetta”, sulla base dei soli esperimenti di laboratorio) purché non sia evidente l’impossibilità di un’utilità in vivo (direttamente sull’organismo destinatario, sulla base dei test clinici). La Corte sottolineava anche che la prova di una concreta utilità in vivo non può essere richiesta nella domanda di brevetto, dato che essa può raggiungersi, almeno per i farmaci, solo dopo l’esame da parte della FDA (l’ente statunitense preposto al rilascio delle autorizzazioni al commercio anche dei farmaci). Tale esame, perché il sistema brevettuale sia ancora di incentivo alla ricerca, deve necessariamente avvenire dopo la brevettazione dell’invenzione (la sperimentazione clinica rischierebbe tra l’altro di divulgare l’invenzione privandola della novità); secondo la Corte, dunque, l’utilità nel diritto brevettuale, e in particolare nel campo delle invenzioni farmaceutiche, include necessariamente la possibilità di ulteriori ricerche e sviluppo. A parere dell’Autore, con questi due ultimi casi è stato introdotto il concetto di “credibilità” dei risultati pratici; in altre parole il rigore del requisito di utilità pratica dell’invenzione è stato attenuato, risultando necessaria una puntuale indicazione di un’utilità almeno sperimentale dell’invenzione ed essendo sufficiente che l’utilità pratica vera e propria non sia a priori esclusa sulla base delle conoscenze dello stato della tecnica. Di un gene quindi, osserva l’Autore, deve senz’altro essere indicata la proteina codificata, oltre alla “credibile” utilità di tale proteina. La credibilità dell’utilità della nuova proteina può anche essere dimostrata in via presuntiva, facendo richiamo, nella domanda di brevetto, alla già nota utilità di una proteina che l’inventore giudica essere almeno in parte simile alla propria. In Europa l’UEB ha avuto modo di pronunciarsi su questo argomento in alcuni casi, dall’esame dei quali si evince che pure l’ufficio europeo pare non ritenere necessaria, nella domanda di brevetto per un gene, la descrizione precisa della funzione della proteina codificata dal gene. Nel caso T 301/87, deciso il 16 febbraio 1989, l’UEB accoglieva l’appello contro la decisione della propria Divisione di opposizione che aveva revocato, per difetto di chiarezza delle rivendicazioni e insufficienza della descrizione, un brevetto in cui la rivendicazione principale verteva su una sequenza di DNA che codificava un polipeptide [una proteina] del tipo IFN-alfa [interferone alfa]. L’UEB aveva ritenuto che, a fronte della rivendicazione di una sequenza di DNA, non era necessario descrivere anche il modo in cui la proteina operava come interferone (nella descrizione brevettuale vi era solamente un generico richiamo alle proprietà immunologiche e antivirali dell’interferone alfa). Una decisione ancora più chiara sull’argomento veniva presa il 16 giugno 1994 nel caso T 886/91. Nel brevetto controverso, la Biogen rivendicava alcuni tratti genici che codificavano polipeptidi con funzione HBV antigenica. La critica mossa al brevetto in sede di appello era la mancanza del requisito di applicabilità industriale ai sensi dell’art. 57 CBE perché non c’era nessuna indicazione concreta circa la HBV antigenicità di cui era fatto riferimento. In altre parole, gli opponenti al brevetto sostenevano che fosse troppo generica, nelle rivendicazioni relative ai geni, l’indicazione della funzione dei polipeptidi codificati da tali geni. L’UEB accoglieva il motivo d’appello, giudicando sufficiente quanto contenuto nella descrizione del brevetto, vale a dire che i polipeptidi ottenuti erano genericamente utili come antigeni nel campo della diagnosi e della cura dell’epatite B. Questo, secondo l’Autore, può essere considerato un esempio del livello di specificità richiesto dall’UEB nell’indicazione della funzione della proteina codificata dal gene brevettato. Tra l’altro nel brevetto Biogen erano autonomamente rivendicati anche i polipeptidi ottenuti: in un brevetto che si limiti invece a rivendicare i geni, la funzione dei polipeptidi codificati da tali geni può forse essere indicata 70 significato delle norme sulla brevettazione delle biotecnologie che ammettono la tutela di invenzioni aventi ad oggetto un prodotto consistente in materiale biologico o che lo contiene. in maniera ancora meno precisa. Diversamente dalle precedenti decisioni, nel caso T 923/92, definita l’8 novembre 1995, l’UEB ha invece affermato: “Una rivendicazione di un procedimento che comprende la preparazione di una proteina che svolge funzione di attivatore del plasminogeno di tessuto umano (t-PA), senza ulteriore indicazione di quale sia tra le molte funzioni del t-PA umano quella cui è fatto riferimento, non è ammissibile ai sensi degli articoli 83 e 84 CBE [sufficienza della descrizione, chiarezza e fondatezza delle rivendicazioni]”. In questo caso l’UEB ha adottato un criterio per la valutazione della concretezza dell’indicazione della funzione della proteina codificata dal gene solo apparentemente più severo rispetto ai casi precedenti. Infatti nel caso in esame l’UEB ha contestato semplicemente il fatto che, tra le molte possibili funzioni del t-PA umano, nessuna era stata indicata. Questa motivazione è coerente con il principio per cui i risultati della ricerca di base possono essere brevettati a patto che l’inventore indichi la direzione nella quale la ricerca deve proseguire. Nel caso in esame l’UEB, sottolineando l’elevato numero di possibili funzioni del t-PA, pare avere rilevato proprio il mancato assolvimento di questo onere. Diversamente M. Ricolfi, op. cit., p. 5, il quale osserva che, specie dopo le innovazioni introdotte dalla Direttiva 98/44/CE, incorporate nel diritto dei brevetti della CBE, la funzione di una sequenza di DNA deve essere prevista e descritta in modo attendibile e, soprattutto, riferendosi ad usi che non siano speculativi ma sostanziali, specifici e credibili. L’Autore cita, a tal proposito, la decisione della Divisione di opposizione dell’EPO del 20 giugno 2001, caso ICOS/Smith & Kline Beecham e Duphar International Research, che, relativamente al considerando 24 della Direttiva 98/44/CE, precisa che la norma deve essera intesa nel senso della necessità di indicare nella domanda di brevetto anche l’utilità, e non solo la struttura, dalla proteina codificata dalla sequenza. V. Di Cataldo, E. Arezzo, Scope of the patent and uses of the product in the European biotechnology directive, in G. Ghidini, G. Cavani (a cura di), Brevetti, cit., p. 78, sono dell’idea che non possa essere oggetto di brevetto il gene in quanto tale (la cui idoneità a costituire la base di partenza genetica per la codificazione di una proteina è un fatto scientifico oramai accertato) ma soltanto il risultato del processo che dal DNA porta alla definizione di uno specifico mRNA, capace di codificare una (e una soltanto) data proteina. Solo in tal caso si ha una coincidenza tra contenuto informativo e sua concreta applicazione industriale. Sull’argomento G. Guglielmetti, Il decreto di recepimento, cit., p. 142, osserva che, in via generale, la brevettabilità dovrebbe essere ammessa ogni volta che possa essere indicata una qualsiasi funzione industrialmente utile, anche diversa dalla produzione di proteine o parti di proteine (es. una sonda nucleica con finalità di diagnosi di una particolare malattia genetica). 71 Ciò posto, ne consegue che sono brevettabili anche le sequenze di DNA utili a mettere a punto applicazioni per ricerche successive147. In materia, è stato poi sostenuto che qualora l’applicazione venga descritta nella domanda piuttosto che nelle rivendicazioni la tutela delle sequenze sarebbe assoluta148; in senso contrario, è stato rilevato che il brevetto deve coprire non la 147 ) T. Faelli, La tutela, cit., p. 128. L’Autore rileva che questo atteggiamento di favore verso la tutela dei vari stadi della ricerca è, tra l’altro, coerente col basso grado di originalità richiesto dall’UEB per la concessione di un brevetto. Se infatti il livello di originalità dell’invenzione richiesto dall’UEB fosse particolarmente alto, questo potrebbe essere raggiunto solamente sulla base del cumulo dei risultati di ricerche di più stadi successivi, risultando così vanificato il tentativo di incentivare la ricerca di base attraverso la sua pronta brevettazione. Il basso grado di originalità richiesto dall’UEB è testimoniato dal fatto che, nel giudizio sull’originalità dell’invenzione, l’ufficio ricostruisce l’esperto del ramo come un tecnico totalmente privo di inventiva o immaginazione. Nel caso Genentech Interferone gamma T 223/92 del 1992, l’esperto del settore è stato indicato come “colui che ha la conoscenza di una squadra di esperti, ma la capacità di iniziativa di un tecnico, senza immaginazione inventiva e con la capacità di attuare solo metodiche già sperimentate”. Questa definizione era già stata proposta dall’UEB con la decisione T 455/91, decisione nella quale si poteva leggere che “l’esperto del ramo di media preparazione si presume essere una persona che ragiona lungo le linee di una convenzionale conoscenza del ramo e che non intraprende alcuna attività di innovazione” (cfr. inoltre T 422/93, T 666/89, T 32/81, N DE01/91). È dunque possibile affermare, conclude l’Autore, che ad ogni brevetto biotecnologico (quello che si arresta al tratto genico con l’indicazione “credibile” della funzione della proteina sintetizzata) seguono brevetti frutto di ulteriori ricerche che conducono alla realizzazione di prodotti pronti per l’uso (come i farmaci); anche in Europa, dunque, pare configurarsi un sistema di brevettazione per stadi della ricerca. Per approfondire l’argomento si rimanda infra par. 10. 148 ) G. Guglielmetti, Tra tutela assoluta e relative del brevetto sul nuovo composto chimico, originalità dell’invenzione, dinamiche della ricerca, in Studi in onore di A. Vanzetti, Milano, 2004, p. 768. 72 sequenza genica in sé bensì la sola applicazione pratica che il richiedente abbia esplicitamente individuato149. Le problematiche sino ad ora esposte, sono state affrontate anche dal Parlamento europeo nella risoluzione adottata il 26 ottobre 2005, concernente i brevetti relativi alle invenzioni biotecnologiche150, nella quale rileva: “la direttiva consente di brevettare il DNA umano solo in relazione ad una funzione, ma ... non è chiaro se il campo di applicazione del brevetto si limiti solo a detta funzione o se possa estendersi ad altre funzioni … la questione da esaminare è quella di stabilire se i brevetti di sequenze genetiche ... debbano essere autorizzati secondo il modello 149 ) In tal senso M. Ricolfi, La brevettazione delle invenzioni relative agli organismi geneticamente modificati, in Riv. dir. ind., 2003, p. 7. T. Faelli, op. cit., p. 128 è dell’avviso che la questione non abbia rilevanza nel settore e, a tal proposito, scrive: “I geni a differenza delle proteine hanno come unica funzione la sintesi di una precisa proteina, risultando irrilevante chiedersi se la tutela brevettuale sia limitata all’unica funzione possibile. Anche le sequenze di DNA brevettate come elemento di modifica destinato a essere inserito in un gene (SNPs), o come marker al fine di risalire al gene che codifica una certa proteina (ESTs), pare possano svolgere solamente la funzione per la quale sono state selezionate. Il caso in cui una stessa sequenza parziale possa fungere da marker per un gene e da modifica inventiva per un altro (così che l’indicazione nella domanda di brevetto di una delle due funzioni lasci «libera» l’altra) pare prima facie di dubbia credibilità. In generale, dunque, poiché le sequenze di DNA vengono selezionate in virtù della funzione che si desidera far loro svolgere, diviene irrilevante il problema del «nuovo uso» di una sequenza di DNA e dei suoi rapporti con i precedenti usi. In senso contrario non pare possano essere invocati gli artt. 8 e 9 della direttiva che prevedono l’estensione della tutela brevettuale al materiale biologico riprodotto o incorporante la sequenza solo quando la sequenza di DNA svolge la «propria» funzione. Questa condizione, infatti, non è dettata per l’ipotesi in cui la sequenza di DNA svolga nel nuovo materiale biologico una funzione «diversa», ma per l’ipotesi in cui la sequenza di DNA non svolga alcuna funzione perché «inattiva». Questa interpretazione muove da considerazioni di ordine tecnico. Tutte le cellule contengono infatti l’intero patrimonio genetico dell’organismo, nonostante siano adibite a funzioni particolari. Così le cellule del fegato contengono anche le istruzioni per «funzionare» come cellule polmonari; la differenziazione delle funzioni delle cellule (caratteristica di tutti gli organismi ad eccezione di quelli unicellulari) avviene attraverso un sistema di attivazione/disattivazione dei geni interessati. La precisazione degli artt. 8 e 9 della direttiva sull’effettivo svolgimento della funzione propria della sequenza mira dunque a evitare che un materiale biologico (ad es. un organismo) sia colpito dalla protezione brevettuale attribuita a una sequenza di DNA nei casi in cui tale sequenza sia presente nel materiale biologico in via meramente incidentale, rimanendo inattiva. Resta ora da capire se neppure l’indicazione della funzione della proteina codificata dal gene brevettato, richiesta sempre dalla regola 23 e CBE, limiti in qualche misura la protezione brevettuale della sequenza di DNA. A questo proposito occorre tenere presente che, come sopra accennato, la proteina (la cui multifunzionalità non è un’ipotesi scolastica ma è una caratteristica naturale) è estranea alla tutela conferita dal brevetto biotecnologico di prodotto (che ha ad oggetto una sequenza di DNA). Risulta così fuorviante chiedersi se l’indicazione della sua funzione possa limitare una tutela che, almeno direttamente, non la riguarda. L’indicazione della funzione della proteina codificata, col grado di precisione e nei termini sopra descritti, ha infatti la sola funzione di individuare la soglia minima di conoscenza attorno alle sequenze di DNA perché queste possano essere brevettate”. 150 ) La risoluzione è stata pubblicata sulla Guce n. C272E del 9 dicembre 2006, p. 440. 73 classico della richiesta di brevetto, in virtù del quale il primo inventore può rivendicare un’invenzione che copre possibili impieghi futuri di tale sequenza, o se il brevetto vada ristretto in modo che possa essere rivendicato unicamente l’uso dichiarato nella richiesta di brevetto (tutela basata sugli scopi)”. Riferendosi, in particolare, alla privativa concessa dall’Ufficio europeo dei brevetti relativamente ai metodi per la selezione di cellule germinali umane, il Parlamento ha invitato tale Ufficio a “concedere brevetti sul DNA umano solo in presenza di un’applicazione concreta e limitando il brevetto d’invenzione a tale applicazione, in modo che altri utilizzatori possano utilizzare e brevettare la stessa sequenza di DNA per altre applicazioni (tutela basata sugli scopi)”; dopo aver ricordato che “nessuna considerazione relativa alla ricerca può scavalcare quella della dignità della vita umana”, il Parlamento ha invitato la Commissione a studiare se l’interpretazione della direttiva fondata sulla c.d. tutela di scopo possa essere perseguita per mezzo di una raccomandazione agli Stati membri o se sia necessario apportare un emendamento all’art. 5 della direttiva medesima151. 151 ) Pur con esclusivo riferimento alle biotecnologie vegetali, la questione è stata espressamente affrontata anche dalla Corte di giustizia con la sentenza del 6 luglio 2010, causa C-428/08, Monsanto c. Cefetra et Al. (in Raccolta, 2010, p. I-6765 e ss). Con detta pronuncia, la Corte sembra accogliere la tesi della c.d. tutela di scopo (cfr. i punti 33-50), che era stata sostenuta, molto più incisivamente, dall’Avvocato generale nelle conclusioni presentate il 6 marzo 2010 (cfr. i punti 21-41). Secondo l’Avvocato generale, infatti, “la grande importanza riconosciuta dalla direttiva alla funzione che una sequenza genetica svolge è finalizzata, naturalmente, a permettere una distinzione tra la “scoperta” e la “invenzione”. L’individuazione di una sequenza genetica senza che ne sia indicata una funzione costituisce una semplice scoperta, in quanto tale non brevettabile. Viceversa, è l’indicazione di una funzione che la sequenza svolge a trasformare la stessa in un’invenzione, la quale può dunque godere della protezione del brevetto. Ora, l’interpretazione secondo la quale una sequenza genetica godrebbe della protezione brevettuale “classica”, estesa cioè a tutte le possibili funzioni della sequenza stessa, anche a quelle non conosciute al momento della richiesta di brevetto, significherebbe riconoscere un brevetto per funzioni ancora ignote nel momento in cui lo stesso è stato richiesto. In altri termini, basterebbe chiedere un brevetto per una singola funzione di una sequenza genetica per ottenere una protezione per tutte le altre possibili funzioni della sequenza stessa. A mio avviso, tale interpretazione finirebbe per consentire, in pratica, la brevettabilità di una semplice scoperta, in contrasto con i principi di base in materia di brevetti” (cfr. il punto 31 delle conclusioni). 74 Sul tema in esame, il legislatore italiano ha assunto un atteggiamento di maggior rigidità. Ha infatti prescritto l’obbligo, per chi intenda percorrere la strada della brevettazione del materiale biologico umano, di indicare e descrivere concretamente nonché di rivendicare specificatamente nella domanda di brevetto la relativa funzione ed applicazione industriale152. La ratio della norma è quella di escludere, in radice, il rischio che accedano all’area della brevettabilità delle ideazioni che non rivelino immediate possibilità applicative e la cui sottrazione al pubblico dominio determinerebbe, a fronte di indeterminate ed indeterminabili conseguenze monopolistiche sul fronte dell’applicazione industriale, un impoverimento della conoscenza che si alimenta e rinnova con il continuo contributo dei ricercatori sul fronte della ricerca di base153. 152 ) Cfr. art. 81 quinques, comma 1 lett. c), c.p.i. nel quale si legge che non può essere brevettata: “Una semplice sequenza di DNA, una sequenza parziale di un gene, utilizzata per produrre una proteina o una proteina parziale, salvo che venga fornita l'indicazione e la descrizione di una funzione utile alla valutazione del requisito dell'applicazione industriale e che la funzione corrispondente sia specificatamente rivendicata”. Quella contenuta nell’art. 81 quinques c.p.i. è una specifica che attribuisce alla norma un valore astringente assai forte; ciò diversamente dalla Direttiva comunitaria che si limita a prevedere la semplice descrizione dell’applicazione industriale, e non anche la rivendicazione, relativamente, peraltro, alle sole sequenze di DNA o sequenze parziali di DNA e non anche a qualsiasi indiscriminato elemento del corpo umano: V. Falce, Sulla tutela dell’innovazione dei “nuovi” settori della tecnica con particolare riguardo alle invenzioni biotecnologiche. Primi appunti sul contributo dell’analisi economica, in G. Ghidini, G. Cavani (a cura di), Brevetti e Biotecnologie, Roma, 2008, p. 125. C. Germinario, L’attuazione della Direttiva n. 98/44/CE in materia di protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, in Dir. Ind., 2006, p. 315, ritiene che il concetto di funzione utile alla valutazione dell’applicazione industriale di una sequenza nucleotidica non deve essere interpretato in maniera restrittiva. Benché la funzione inerente ad una sequenza nucleotidica sia quella di esprimere, cioè produrre, una proteina o di esprimere una funzione di controllo, sequenze o frammenti di DNA anche silenti possono pur tuttavia avere applicazioni importanti che ne giustifichino la brevettabilità. 153 ) Rischio che appare tanto più grave ove si consideri che l’estensione del raggio della disciplina brevettuale anche alle ideazioni di carattere e portata generale avrebbe l’effetto di abbracciare necessariamente tutti i possibili impieghi e, quindi, di impedire lo sfruttamento delle possibili applicazioni pratiche di quel medesimo principio che il titolare del brevetto non riuscisse ad individuare (in quanto indeterminate o non immediatamente percepibili al tempo della brevettazione) ovvero non avesse intenzione di trasformare in innovazioni da immettere sul mercato. 75 La legge nazionale, ancorando al testo delle rivendicazioni la concreta e specifica indicazione delle funzioni e dell’applicazione industriale dell’elemento isolato, e, ancor più, disponendo la brevettabilità di qualsiasi applicazione nuova di un materiale biologico o di un procedimento tecnico già brevettato, fornisce un’indicazione ulteriore circa l’estensione della privativa. In particolare, sembra accreditare l’impostazione secondo cui alle invenzioni biotecnologiche si darebbe una protezione non assoluta ma limitata all’uso indicato, e rivendicato, dall’inventore154. 10. La brevettabilità degli strumenti di ricerca: il caso delle sequenze ESTs. Tra le sequenze di DNA, le ESTs ricoprono una posizione particolare in quanto non sono idonee a codificare una proteina155; vengono normalmente impiegate per individuare sequenze complete di geni, utili, a loro volta, a codificare una determinata proteina, per valutare l’espressione di un gene, per capire la fisiologia di un organismo in contesti ed in tessuti diversi, per assolvere funzioni diagnostiche156. Stante le predette caratteristiche, si discute se nelle sequenze ESTs siano presenti, o meno, i requisiti della utilità e della industrialità. Parte della dottrina tende ad escludere la ricorrenza di detti requisiti trattandosi di sequenze che vengono impiegate, solitamente, per svolgere ricerche ulteriori157. 154 ) V. Falce, La tutela, cit., p. 126. ) Una sequenza ESTs, Expressed Sequence Tags, letteralmente “etichetta di sequenza espressa”, è una porzione di un cDNA (DNA complementare) sintetizzato in laboratorio partendo dall’mRNA messaggero. 156 ) T. Faelli, op. cit., p. 126, ritiene che l’onere dell’indicazione volta a specificare la concreta applicazione industriale dell’invenzione non deve essere assolto quando una sequenza di DNA è utilizzata come marker (es. gli ESTs) piuttosto che per produrre una proteina, completa o parziale; in questo caso, infatti, l’indicazione della concreta applicazione industriale della sequenza consisterebbe semplicemente nell’indicazione del materiale biologico evidenziato dal marker. La conclusione trova conferma, secondo l’Autore, nel considerando 24 della Direttiva 98/44/CE che prevede l’onere della indicazione relativa alla proteina solo nel caso in cui la sequenza di DNA sia brevettata per la produzione della proteina stessa (ciò che non avviene nel caso degli ESTs). 157) M. Ricolfi, op. cit., p. 5. 155 76 Di contro, è stato osservato che, se pare potersi escludere una qualche utilità delle sequenze prive di applicazioni specifiche, più sfumati devono considerarsi i casi nei quali le ESTs svolgano una funzione particolare, permettendo, ad esempio, la ricerca di un gene necessario alla produzione di una proteina determinata, oppure assolvano una funzione diagnostica per una malattia già individuata158. In tali fattispecie appare più difficile escludere, a priori, l’esistenza di un’immediata utilità di ricerca sfruttabile industrialmente159. Le problematiche relative alla brevettazione delle sequenze ESTs rappresentano un esempio del dilemma che attiene alla scelta della metodologia preferibile al fine di predisporre meccanismi di accesso alla conoscenza compatibili con i necessari incentivi all’innovazione160. La dottrina intervenuta sull’argomento ha prospettato alcune possibili soluzioni. È stata, innanzitutto, sostenuta la necessità di escludere la brevettabilità delle sequenze ESTs attraverso una previsione legislativa che avrebbe come principale conseguenza quella di relegarle al pubblico dominio161. Una simile soluzione, pur avendo il pregio di restituire la conoscenza di base al pubblico dominio, richiederebbe la dimostrazione che l’esclusione della tutela brevettuale sia, in ogni caso, un modello da preferire ad altri. Una tale conclusione è, tuttavia, indimostrata non esistendo sufficienti dati empirici per provarlo; trattandosi di scelte di interesse generale, incontra poi i tipici limiti del modello di previsione legislativa ex ante ed unilaterale non sempre da preferire a quello basato su bilanciamenti ex post e decentrati quali quelli, per esempio, operati tradizionalmente dal giudice162. 158) G. Guglielmetti, Tra tutela assoluta, cit., p. 769. 159 ) A. Ottolia, op. cit., p. 458. 160 ) Tali problematiche verranno approfondite nel Capitolo IV. 161) Di questo avviso sono Rebecca Eisenberg & Arti Rai, The Public and the Private in Biopharmaceutical Research, 2003, consultabile sul sito www.law.duke.edu/papers/raieisen.pdf. 162 ) Tale perplessità è fatta propria da Lemley e Burk, che criticano l’idea di una abolizione di property rights a favore del controllo governativo sulle invenzioni sostenute dal finanziamento pubblico, in Lemley, Burk Biotechnology’s Uncertainty Principle, 2002, UC Berkeley Public Law Research Paper No. 125; Minnesota Public Law Research Paper No. 03-4. 77 Altre ipotesi, si muovono invece all’interno di un modello in cui coesistono la privativa brevettuale con un meccanismo di accesso al trovato da parte di terzi; l’idea è quella di introdurre una clausola generale che consenta l’uso legittimo di taluni trovati biotecnologici in caso di “utilizzo ragionevole”163. Questa soluzione è ipotizzata da studiosi nordamericani164 anche in virtù della familiarità che la dottrina nutre, in generale, nei confronti delle limitazioni alle privative industriali basate su clausole generali165. Il modello consente un uso ragionevole del trovato da parte dei terzi ed affida al giudice il bilanciamento fra gli interessi di quest’ultimi e quelli dell’inventore; si tratta di un modello non privo di utilità in un’ottica di frammentazione dei soggetti preposti al perseguimento dell’interesse generale, in previsione anche di una specializzazione della classe dei magistrati nel sistema comunitario, in particolare italiano166. L’introduzione di un simile meccanismo dovrebbe, tuttavia, tener conto della biforcazione esistente, per quanto attiene al ruolo del potere giudiziario, tra ordinamenti di civil law e common law, sicché appare difficile immaginare che una simile soluzione possa essere agevolmente importata in ordinamenti dell’Europa continentale167. 163 ) Cfr. O’Rourke, Toward a Doctrine of Fair Use in Patent Law, in Colum. Law Rev., 2000, p. 1177. ) Si veda Gitter, International Conflicts Over Patenting Human DNA Sequences in the United States and the European Union: An Argument for Compulsory Licensing and a Fair-Use Exemption, in N.Y.U. L. Rev., 2001, 76, p. 1623. Si veda inoltre, per un’altra soluzione interna alla privativa brevettuale ma de iure condendo Holman & Munzer, Intellectual Property Rights in Genes and Gene Fragments: A Registration Solution for Expressed Sequence Tags, in Iowa L. Rev., 2000, 85, p. 735. 165 ) Ciò accade, nel diverso contesto della disciplina del copyright, con la clausola del fair use. Il fair use (17 U.S.C. 107) è stato descritto come l’istituto più problematico nell’intera disciplina del diritto d’autore (così il giudice Hand nella causa Dellar v. Samuel Goldwyn, Inc., 104 F. 2d 661, 2d Cir. 1939). In tema di ruolo creativo di questa clausola generale nella disciplina del copyright statunitense si veda Posner, When is Parody fair use? in J. Legal Stud., 1992, 21, 67 ss.; Merges, Are you making fun of me?: notes on market failure and the Parody defense in Copyright, in AIPLA Q. J., 1993, 21, 305 e ss. Per i rapporti tra fair use e misure tecniche di protezione si veda Burk & Cohen, Fair Use Infrastructure for Digital Rights Management Systems, in Harv. J. Law & Tech, 2001, 15, p. 44. 166 ) Così A. Ottolia , op. cit., p. 458. 167 ) A. Ottolia, op. cit., p. 459. 164 78 Un’ulteriore tesi è quella di impiegare licenze obbligatorie di dipendenza168. Nell’ordinamento italiano, l’istituto consente al titolare di un’invenzione dipendente di ottenere una licenza non esclusiva dal titolare dell’invenzione principale; le condizioni sono che l’invenzione dipendente comporti un progresso tecnico considerevole, che la licenza sia necessaria per la sua attuazione, che sia corrisposta una congrua royalty e che sia concessa, specularmente, una licenza al titolare del brevetto principale169. L’impatto di questo istituto nel contesto biotecnologico è, tuttavia, limitato per due ordini di motivi. In primo luogo, l’istituto della licenza obbligatoria, presupponendo l’esistenza di un brevetto (dipendente), è applicabile ai soli casi in cui il prodotto biotecnologico renda necessaria la violazione di un brevetto altrui (riducendo i costi di transazione orizzontali): essa non è, pertanto, applicabile alla fattispecie più problematica del brevetto delle sequenze ESTs. In secondo luogo, sussistono, anche in questo campo, limiti strutturali dell’istituto che ne rendono generalmente difficile l’applicazione; tra questi, la complessità del procedimento, l’indeterminatezza delle condizioni richieste e l’aleatorietà della individuazione del canone170. 168 ) In favore di un meccanismo di licenza obbligatoria è G. Sena, L’importanza della protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, cit., p. 65. 169 ) Si vedano gli art. 71 c.p.i. sulla licenza obbligatoria per brevetto dipendente, l’art. 47 della Convenzione sul Brevetto Europeo, l’art. 32 TRIPS, l’art. 12 direttiva 98/44/CE. Per approfondire la tematica della licenza obbligatoria si rimanda al cap IV, par. 5. 170 ) Si veda F. Leonini, Il ruolo del brevetto nella ricerca biotecnologica, in Studi di diritto industriale in onore di A. Vanzetti, Giuffrè, 2004, p. 825 79 Devono infine segnalarsi alcune iniziative poste in essere da imprese biotecnologiche dirette a garantire l’accesso a biblioteche di sequenze parziali ESTs attraverso delle banche dati171. Queste iniziative, tendenti a realizzare un open 171 ) La Merck Pharmaceuticals, dal febbraio 1995, ha provveduto alla creazione di una banca dati contenente informazioni sulle sequenze Ests; al fine di impedirne la brevettazione da parte dei competitori, ha preservato la natura pubblica di tali trovati riducendo così il rischio di anticommons. Nel 1999 il SNP Consortium ha creato una mappa degli SNPs accessibile a tutti dando così vita ad un progetto cui aderivano importanti società biotecnologiche, farmaceutiche ed informatiche. Sull’argomento P. Errico, Tutela brevettuale e ricerca biotecnologica. Un binomio non sempre perfetto, in G. Ghidini, G. Cavani (a cura di), Brevetti e biotecnologie, Roma, 2008, p. 54, osserva che la proliferazione dei brevetti sui risultati della ricerca di base ha incoraggiato le imprese private a creare pubblici databases per sequenze geniche ignorando la tutela brevettuale. Questa soluzione permette di divulgare informazioni scientifiche raggiunte dalle imprese impedendo ai concorrenti di richiedere esclusive sulle stesse. La via del copyright servirebbe per tutelare i risultati della ricerca di base che siano carenti sotto il profilo dell’applicazione industriale. G. Ghidini, Profili evolutivi, cit., p. 200, è contrario all’impiego del diritto d’autore per tutelare le banche dati che, a suo parere, rappresentano delle raccolte strutturate di informazioni che ricordano quelle “presentazioni di informazioni” che la Convenzione sul Brevetto Europeo (e sulla scia la nostra legge invenzioni) esclude, come tale, dalla tutela brevettuale. Si tratta di una consacrazione che, a parere dell’Autore, rappresenta un’aperta violazione del principio classico delle non appropri abilità di dati conoscitivi non specificatamente oggetto di copyright. Per remunerare l’attività svolta e gli investimenti effettuati nel ricercare informazioni e dati si sarebbe potuto semplicemente ricorrere, osserva l’Autore, ad un sistema di accesso pagante sul modello delineato dall’art. 99 L.A. (oltre che alle norme in materia di concorrenza sleale in presenza di modalità scorrette di apprendimento ed uso dei dati). Detta soluzione avrebbe conciliato, con maggiore equilibrio, l’esigenza di compenso del costitutore con quella dell’accesso dei terzi ai dati in sé non protetti (o addirittura non proteggibili). Sul punto si deva anche V. Falce, Il rapporto tra ricerca di base e ricerca applicata alla luce del recente completamento della mappa genetica dell'uomo, in Working Papers 2001 dell’Osservatorio di Proprietà intellettuale, concorrenza e comunicazioni, consultabile alla pagina http://ricerca.giurisprudenza.luiss.it/centri-diricerca/opicc/pubblicazioni/working-papers ritiene che con questa forma di protezione si realizza un controllo sul contenuto della banca dati e quindi sulle sequenze geniche. Applicando la tutela sui generis, infatti, al titolare di questo diritto, il costitutore, sarebbe riservata ogni attività di estrazione e reimpiego dei dati contenuti nel database (le sequenze). Di qui, l’aggiramento della norma che vieta l’esclusiva sulle sequenze in quanto tali. L’auspicio è dunque quello di un nuovo intervento a livello istituzionale che si preoccupi di come effettivamente finanziare la ricerca di base e remunerare i suoi sforzi, specie quando i risultati raggiunti sono inerentemente legati a successive applicazioni pratiche. A. De Robbio, A. Corradi, Biobanche in bilico tra proprietà privata e beni comuni: brevetti o open data sharing ?, in JLIS.it, Volume 1, n. 2, Dicembre 2010, p. 305, consultabile alla pagina http://leo.cilea.it/index.php/jlis, osservano che molti scienziati sono convinti dei benefici di un “approccio aperto” e partecipativo alla scienza. Nel 2005 venne creato un open data sharing da alcuni dottorandi in bioingegneria del Massachusetts Institute of Technology, diventato poi una vera comunità on line dove i gruppi di ricerca possono pubblicare i protocolli utilizzati, i risultati (positivi e negativi) ottenuti e altre informazioni utili alla comunità del ricercatori. Concetti come open data sharing stanno a significare, secondo le Autrici, che i dati di quei progetti sono rilasciati nel pubblico dominio, soggetti a certe condizioni, incluso il requisito che non vengano esercitati diritti di proprietà intellettuali tali da che possano precluderne l’accesso agli altri utilizzatori. A tal proposito, riportano l’esempio della scoperta che riguarda la ricerca sulle staminali di Shinya Yamanaka, ricercatore giapponese di Kyoto, che nel 2006 scoprì il modo di riportare indietro nel tempo cellule staminali adulte, precisamente allo stato di simil-embrionali. Nei quattro anni successivi alla scoperta, la tecnica fu perfezionata grazie al fatto che Yamanaka aveva messo a disposizione i dati in condivisione aperta 80 genomics, sono indizio di un nuovo dinamismo nel pubblico dominio, non determinato da un’iniziativa dello Stato ma derivante da un processo che vede la spontanea proliferazione dei soggetti che si fanno (strategicamente) carico dell’interesse generale, le cui implicazioni vanno ben oltre l’esperienza delle sequenze parziali ESTs. La scelta fra le diverse soluzioni prospettate non dovrebbe, comunque, dipendere esclusivamente dalla sola verifica del risultato più efficiente bensì dalla democraticità del processo decisionale auspicato, ovvero dalla sua capacità di possedere anticorpi nei confronti delle pressioni e degli interessi di parte172. 11. La brevettabilità del DNA umano alla luce del caso Myriad Genetics Negli Stati Uniti d’America, il dibattito sulla brevettabilità delle sequenze di DNA umano è giunto dinanzi ai tribunali federali. Il 29 marzo 2010, la Corte distrettuale federale di Southern District di New York dichiarava invalidi, nella controversia Association of Molecular Pathology v. USPTO173, sette dei ventitré brevetti conseguiti dalla società Myriad Genetics in relazione alla sequenza di geni onocosoppressori BRCA1 e BRCA2 (dalle cui mutazioni deriva la predisposizione al carcinoma mammario e a quello ovarico) e dei relativi tests diagnostici. di modo che tutti i laboratori del mondo potessero (e possano tuttora) lavorare alla ricerca in modo collaborativo 172 ) Così A. Ottolia, op. cit., p. 457. G. Guglielmetti, Il decreto di recepimento, cit. p. 143, osserva che la brevettabilità dei risultati intermedi della ricerca ha effetti positivi poiché consente alle imprese di raccogliere più agevolmente sul mercato le risorse necessarie al finanziamento della ricerca di tali oggetti e di trasferire poi i risultati alle imprese attive nella ricerca a valle, favorendo così la divisione del lavoro e la specializzazione delle attività di ricerca che sono in generale fattori di maggiore efficienza e di progresso. Per altro verso, tuttavia, la brevettazione dei risultati intermedi accresce i costi e gli ostacoli per i ricercatori che operano a valle, che si trovano a dover negoziare con un’ampia cerchia di soggetti fornitori di input della loro ricerca. Il bilancio complessivo è difficilmente calcolabile e può variare a seconda di un complesso numero di fattori in gioco che incidono sui costi di transazione (tipologia di research tool, sua sostituibilità con altri, politica delle licenze più o meno aperta, prassi informali di scambio, ecc.). 173 ) Association of Molecular Pathology v. United States Patent and TrademarK Office. 81 La società Myriad Genetics174 aveva depositato nell’agosto del 1994 la domanda per brevettare 47 mutazioni del gene BRCA1; qualche anno dopo, precisamente nel 1997, l’U.S. Patent and Trademark Office le aveva consesso il brevetto richiesto al quale, negli anni, si erano aggiunti quelli relativi ai metodi diagnostici per analizzare il gene ed identificarne le mutazioni. Nel 1998, la società aveva ottenuto il brevetto sull’intera sequenza del gene BRCA1. Dopo che nel cromosoma 13 era stata individuata la sede di un secondo gene correlato al cancro al senso, il BRCA2, la società Myriad, completandone il sequenziamento, aveva depositato la relativa domanda di brevetto175. Le privative concesse alla società Myriad le avevano, di fatto, conferito un monopolio sull’analisi del geni BRCA1 e BRCA2, sulle rispettive mutazioni nonché sull’uso dei test diagnostici. Al fine di consolidare la propria posizione, la Myriad Genetics aveva deciso di non concedere licenze a terzi e di entrare direttamente nel mercato diagnostico aprendo un proprio laboratorio specializzato, con sede a Salt Lake City, per offrire un servizio di analisi “in house”, differenziandolo per prezzo e comprensività dei tre 174 ) La società era stata costituita nel 1991 dal genetista Mark Skolnick e dal Prof. Walter Gilbert, Premio Nobel per la chimica grazie ai suoi lavori sul sequenziamento dell’acido nucleico. All’epoca, Skolnick era a capo di uno dei più importanti gruppi di ricerca, a livello internazionale, impegnati nell’identificazione dei geni coinvolti nell’insorgenza del tumore al seno. Tale gruppo, avvalendosi anche della collaborazione di alcuni studiosi del National Institute of Health, aveva intrapreso uno studio ad ampio raggio sul profilo genetico del gruppo dei Mormoni. Skolnick aveva a disposizione anche un database da lui stesso costituito negli anni’70 presso il Center fir Cancer Genetics Epidemiology della University of Utah, contenente informazioni su 200.000 famiglie e la maggior parte dei 1,6 milioni di discendenti degli originari 10.000 coloni stabiliti nello Utah. Tale database era stato incrociato con il registro dei malati di cancro dello Utah (contenente più di 100.000 files) dando vita ad un campione di 40.000 profili genetici altamente rappresentativo, sul quale si erano concentrate le ulteriori ricerche di Skolnick. In questo contesto era stata fondata la società Myriad creata con gli spin off del Center fir Cancer Genetics Epidemiology della University of Utah al fine di attrarre il capitale di rischio necessario al completamento della ricerca. La società Myriad, pur disponendo di cospicui finanziamenti pubblici specificatamente destinati alla ricerca sul gene BRCA1 dal National Insitute of Health (tra i 2 e i 5 milioni di dollari, equivalenti a circa un terzo dei finanziamenti necessari per condurre a termine la ricerca) e dal National Cancer Institute of Canad, concludeva un accordo con l’impresa farmaceutica Eli Lilly & Co., la quale erogava, anch’essa, un cospicuo finanziamento. 175 ) La domanda riguardava la sequenza del gene BRCA2, le sue mutazioni ed i relativi metodi diagnostici. 82 tests principali176. Aveva poi fatto ricorso alla pubblicità diretta ai consumatori, aveva costruito una fitta rete commerciale con gli operatori sanitari, i centri diagnostici e gli assicuratori (considerata l’assenza di sanità pubblica), aveva imposto a tutti i laboratori collegati di inviare per posta i campioni di DNA al proprio centro di Salt Lake City al fine di costituire, nel medio periodo, un ampio database di dati clinici preziosi per lo svolgimento di ulteriori studi sulle varie forme di tumori con base genetica. La società era arrivata a minacciare azioni legali contro qualsiasi centro diagnostico che avesse effettuato test sui geni BRCA1 e BRCA2; tra questi, vi erano non solo istituti privati ma anche enti universitari come la Univesity of Pennsylvania o il Yale DNA Diagnostic Laboratory che avevano sviluppato in maniera autonoma altri test di suscettibilità di tumore al seno. Tale strategia, seppur vincente sul piano finanziario, aveva contribuito a creare una tensione crescente; il mondo della ricerca scientifica e quello delle professioni mediche avevano denunciato il blocco che la politica adottata dalla Myriad aveva avuto sulla ricerca scientifica e sullo sviluppo di test più attendibili di quelli già in commercio177. 176 ) Il test standard, denominato Comprehemsive BRACAnalysis, aveva, nel 2009, un prezzo di euro 3.150 dollari. 177 ) Nel 2001 in Europa un’ampia schiera di genetisti molecolari e clinici, oncologi ed altri ricercatori, guidati da Dominique Stoppa-Lyonnet dell’Istituto Curie di Parigi, coadiuvati da diversi governi nazionali ed enti non profit (Greenpeace e il Partito Socialdemocratico svizzero), promossero la prima di una lunga serie di procedure d’opposizione contro le privative concesse a favore della Myriad dall’Ufficio europeo brevetti. Il brevetto sui tests diagnostici relativi al gene BRCA1 fu revocato dall’Opposition Division nel 2004 per ragioni formali correlate a vizi della domanda. Gli altri brevetti furono ridotti o revocati con decisioni confermate dal Board of Appeals. 83 Nel maggio del 2009 alcune delle principali associazioni di categoria, rappresentate da più di 15.000 genetisti, oncologi e biologi molecolari, medici, ricercatori universitari e pazienti, rappresentati dall’American Civil Liberties Association, l’ente impegnato, da sempre, nelle più importanti battaglie per i diritti civili negli Stati Uniti, decidevano quindi di promuovere una causa contro la società Myriad Genetics, l’University of Utah Research Foundation (in qualità di co-titolari e licenziatari esclusivi dei brevetti) e l’Ufficio brevetti e marchi statunitense chiedendo la nullità di 7 dei complessivi 23 brevetti conseguiti dalla predetta società sui geni BRCA1 e BRCA2178. Il Giudice, pur lasciando impregiudicate le censure di natura costituzionale179, impostava l’intera decisione sull’interpretazione del § 101 del Patent Act; il thema decidendum veniva ricondotto all’interrogativo se, alla luce dei criteri fissati dalla suddetta norma, i frammenti isolati di DNA e le tecniche di comparazione delle rispettive sequenze costituivano o meno vere e proprie invenzioni, situate all’interno della frontiera “dell’anything under the sun that is made by man”180, oppure dei prodotti della natura semplicemente scoperti dall’uomo e, quindi, non brevettabili al 178 ) La tesi della nullità era fondata sulle seguenti considerazioni: i) violazione del § 101 del U.S. Patent Act concernente i requisiti di brevettabilità del trovato; ii) contrarietà all’art. 1, sez. 8, comma 8 della Costituzione USA, in quanto il brevetto in esame impediva, piuttosto che promuovere, “the progress of science and the useful arts”; iii) violazione del Primo e del Quattordicesimo Emendamento della Costituzione in quanto tali brevetti davano vita ad una forma di monopolio di “idee astratte e conoscenza base” incompatibile con le garanzie della libertà, di parola e di informazione (segnatamente con il diritto di essere informato in ordine alla propria salute). 179 ) Si rimanda, per approfondimenti sul punto, a G. Resta, La privatizzazione della conoscenza e la promessa dei beni comuni: riflessioni sul caso Myriad Genetics, in Riv. crit. del dir. priv., 2011, p. 300. 180) Diamond v, Diehr, 450, U.S., 175, 182, (1981). Cfr. par. 2. 84 pari delle “leggi di natura, fenomeni naturali e idee astratte”181. La Corte distrettuale perveniva alla conclusione che i brevetti erano nulli in quanto contrari al § 101 del Patent Act ed, in particolare, alla regola, di formazione giurisprudenziale, della non brevettabilità dei prodotti della natura e di idee astratte; il trovato in esame non era, pur costituendo un composto chimico, un’entità “markedly different” rispetto a quella presente in natura182. Di conseguenza, i brevetti attinenti ai metodi per comparare o analizzare i geni BRCA1 e BRCA2 erano invalidi in quanto consistevano in processi mentali astratti, esclusi, come tali, dalla brevettabilità183. 181 ) Le posizioni, radicalmente diverse, tra le quali il Giudice si trovava a decidere erano le seguenti: a) il DNA è un composto chimico, tecnicamente un acido deossiribonucleico, il quale, una volta estratto dal suo ambiente naturale e separato dalle altre sostanze alle quali era originariamente associato (proteine, altri nucleotidi, etc.), assume una connotazione strutturalmente diversa da quella preesistente; b) il DNA rappresenta una sequenza di acidi nucleici con una spiccata valenza informazionale, la quale non viene alterata dalle attività di purificazione ed isolamento cosicché il DNA isolato non può ritenersi funzionalmente diverso dal DNA nel suo stato naturale. L’Ufficio brevetti e marchi statunitensi avevano operato, sino a quel momento, in base all’assunto che una molecola di DNA isolata e purificata, avendo caratteristiche chimiche fondamentalmente diverse da quelli naturali (se non altro per l’assenza delle proteine e delle altre sequenze di nucleotidi presenti nell’ambiente naturale) doveva ritenersi una differente entità, prodotta dall’uomo con ingegno e dispendio di mezzi e, quindi, brevettabile. I genetisti ed i biologi molecolari erano invece dell’idea che le attività di isolamento e purificazione non determinavano alcuna significativa alterazione nella struttura chimica o nel contenuto informazionale del DNA. 182 ) Enfatizzando le peculiarietà del DNA in quanto vettore di informazioni, la Corte esclude che le differenze di struttura conseguenti all’attività di purificazione ed isolamento siano tali da giustificare un giudizio di alterità: la sequenza di nucleotidi, elemento cruciale sia per la funzione biologica originaria sia per l’utilità delle molecole di DNA isolato, rimarrebbe infatti del tutto invariata. 183 ) Resta, op. cit., p. 302, osserva che le ragioni della decisione attengono, in realtà, più che ad aspetti di carattere strettamente biologico, alle conseguenze sociali del monopolio ventennale esercitato e garantito dalla Myriad con effetti altamente discorsivi sia sul piano clinico che della ricerca. Il modello di business perseguito dalla citata società aveva avuto come effetto quello di rendere impossibile ai pazienti di rivolgersi ad altre strutture per avere conferma dei risultati evidenziati dal BRACAnalysis o per usufruire di tests alternativi più accessibili sul piano economico. L’adozione di una politica aggressiva di tutela dei brevetti anche nei confronti di centri universitari e di laboratori di ricerca non profit aveva creato una situazione di forte disagio presso la comunità medica e scientifica, finendo talvolta per dissuadere lo sviluppo di nuovi tests genetici e la prosecuzione della ricerca sulle malattie ereditarie multigeniche. Il problema fondamentale del progresso in ambito biotecnologico, osserva l’Autore, è rappresentato dal fatto che, una volta concesso un brevetto su un gene, risulta estremamente difficile aggirare tale privativa. Un tests genetico che non prenda in considerazione un gene potenzialmente rilevante per una malattia risulterà inattendibile. Si tratta di una vera e propria barriera a monte, la quale rischia di divenire tanto più grave quanto più la ricerca e l’attività diagnostica tendono a concentrarsi sulle malattie a carattere multigenico. 85 La decisione è stata conferma dalla Corte Suprema degli Stati con la sentenza pronunciata il 13 giugno 2013; i Giudici hanno, all’unanimità, stabilito che i brevetti sui geni, anche quando isolati, non sono ammissibili in quanto prodotti di natura. Rimane invece brevettabile il DNA sintetico, cDNA, in quanto non disponibile in natura. La Corte, pur riconoscendo alla Myriad il merito di avere individuato la sequenza genetica dei geni BRCA1 e BRCA2, statuisce che l’avere isolato detti geni dal loro ambiente non costituisce un’invenzione bensì una scoperta che, benché rivoluzionaria, innovativa, o addirittura geniale, non soddisfa di per sè le richieste del §101 del Patent Act184. 184 ) Lo stesso giorno in cui la sentenza è stata resa pubblica, l’USPTO ha comunicato nuove linee guida ai suoi esaminatori chiedendo loro di rifiutare le richieste sui prodotti che si riferiscono ad acidi nucleici o frammenti naturali, isolati o meno, motivando la decisione con la sentenza emessa dalla Corte Suprema sul caso Myriad. Alla luce della sentenza, la prassi sino ad ora seguita dal United States Patent and Trademark Office negli ultimi venti anni, che ha condotto alla brevettazione circa il 20% del genoma umano, risulterebbe fondamentalmente errata e dovrebbe essere immediatamente modificata. 86 Capitolo III Rilettura dei requisiti di brevettabilità alla luce delle caratteristiche proprie delle invenzioni biotecnologiche. Abbassamento della soglia per accedere alla tutela brevettuale 87 1. L’originalità nelle attività svolte dai gruppi di ricerca. Spersonalizzazione dell’innovazione Nel settore delle biotecnologie la ricerca utilizza normalmente tecniche note applicandole, in modo routinario, a materiali biologici preesistenti. Si tratta di operazioni che necessitano di ingenti risorse finanziarie, tempi di esplorazione lunghissimi, dotazioni strumentali sofisticate; non richiedono invece tecniche nuove, capacità personali particolari, creatività ed ingegno elevati. Tali peculiarità pongono il problema se nei risultati della ricerca biotecnologica sia presente o meno il requisito dell’attività inventiva185; si potrebbe infatti sostenere che detta qualità non ricorra posto che qualsiasi operatore del ramo sarebbe in grado di realizzare l’invenzione se solo avesse a disposizione molto tempo, risorse finanziarie e strumentali adeguate186. Questa conclusione avrebbe sicuramente effetti disincentivanti per determinate ricerche; investimenti elevati, propri del settore biotecnologico, non verrebbero molto probabilmente affrontati sapendo di non poter contare su un’esclusiva 185 ) Il requisito dell’altezza inventiva ha la funzione di escludere la valida brevettazione di tutto ciò che, pur essendo nuovo, altro non è che una estrinsecazione del normale progresso tecnico: G. Dragotti, Le invenzioni, in Trattato di diritto privato diretto da Pietro Rescigno, Vol. IV, 2009, p. 238. Il requisito dell’attività inventiva misura la distanza della nuova invenzione dallo stato della tecnica in termini di impegno intellettuale (e quindi di norma anche finanziario, dato che la ricerca è per lo più svolta in forma organizzata tramite lavoro e capitali) necessario per giungervi: G. Guglielmetti, La brevettazione delle scoperte- invenzioni, Riv. dir. ind., 1999, p. 107. G. Sena, I diritti sulle invenzioni e sui modelli industriali, Milano, 1990, p. 143, definisce il requisito dell’altezza inventiva come: “L’apporto creativo, il contributo al progresso tecnico in cui consiste l’attività inventiva o novità intrinseca od originalità o, se si preferisce, il quantum di novità richiesto dall’invenzione deve distingue quest’ultima da ciò che è un’ovvia implicazione del notorio, ma non deve necessariamente essere eccezionale, geniale sorprendente o comunque notevole”. Nella giurisprudenza risalente, il requisito dell’altezza inventiva viene sovente denominato originalità o novità intrinseca, e viene distinto dalla novità c.d. estrinseca. Con il primo termine, s’intende lo stacco qualitativo rispetto al patrimonio della conoscenza acquisita; con il secondo, l’obbiettiva differenziazione dalle soluzioni tecniche note. 186 ) Cfr. l’art. 48 c.p.i. che esclude il requisito dell’attività inventiva se, per una persona esperta del ramo, essa risulti in modo evidente dallo stato della tecnica ovvero si tratti di un’invezione che il tecnico medio sia in grado di realizzare. Il giudizio di originalità (chiamata, in accordo con i testi convenzionali, attività inventiva) si svolge secondo le seguenti fasi: occorre prima individuare il settore cui attiene l’invenzione; si deve poi costruire un modello “persona esperta del ramo” ed il giudice deve valutare se quel modello considererebbe l’invenzione evidente o non evidente. Tale valutazione deve essere agganciata il più possibile ai dati della realtà e, a tal fine, si deve dar spazio anche ai c.d. indizi di evidenza e di non evidenza. Si tratta di indizi oggettivi in quanto direttamente dedotti dall’analisi della realtà e, più precisamente, dalle caratteristiche tecniche dell’invenzione o del procedimento che ha condotto alla sua realizzazione, dalla storia del settore anteriore o successiva all’invenzione. 88 brevettuale. Si arriverebbe alla conclusione, paradossale, che certe tecniche note (come quelle del DNA ricombinante) capaci di pervenire alla realizzazione di proteine, vaccini, kit diagnostici, sarebbero alla portata di qualunque operatore del settore eppure non effettivamente impiegate da alcuno187. Al fine di verificare la presenza dell’attività inventiva, il cui scopo è quello di selezionare ciò che è al di là del divenire normale di ciascun settore188, si deve valutare se l’attività in questione rientri tra quelle che per costi, tempi e probabilità di successo vengono affrontate da un operatore medio del settore o piuttosto da gruppi di ricerca; in quest’ultimo caso, le capacità del tecnico medio riguardano sia le caratteristiche intellettuali che di formazione professionale nonché un certo grado (medio) di organizzazione degli elementi personali e materiali189. L’idea che l’attività inventiva sia riconducibile alle capacità intellettuali dell’inventore deriva dalle riflessioni sull’archetipo dell’inventore persona fisica e 187 ) Una conclusione del genere sarebbe assai deludente. La qualità della nostra vita può essere tremendamente migliorata dalla disponibilità di proteine, vaccini ed altri materiali biologici artificiali che, in assenza di brevetto, sarebbe più difficile o addirittura impossibile ottenere. La disciplina brevettuale ha la funzione di promuovere il progresso tecnico, cioè il miglioramento della qualità della nostra vita. Dire che il diritto dei brevetti non consente di incentivare in certi settori talune attività di ricerca, che potrebbero dare risultati importanti, non può essere considerato un modo accettabile di chiudere il problema. Significa semplicemente che bisogna cercare tutte le strade per dare ad esso una soluzione diversa se del caso mutando l’interpretazione delle norme esistenti o cambiando le norme o creando delle norme ad hoc: V. Di Cataldo, La brevettabilità delle biotecnologie. Novità, attività inventiva, industrialità, in Riv. dir. ind., 1999, p. 185. 188 ) V. Di Cataldo, L’originalità dell’invenzione, Milano, 1993, p. 76. G. Guglielmetti, La brevettazione, cit., p. 100 osserva: “Esistono settori della tecnica, in particolare la chimica e la biotecnologia, dove proprio le scarse cognizioni scientifiche sui meccanismi di azione dei prodotti spesso sorreggono il giudizio di originalità. Infatti, le insufficienti nozioni possono rendere imprevedibili gli effetti che mutamenti strutturali generano sulle proprietà dei prodotti noti, e la non ovvietà dell’invenzione può essere data proprio dal fatto di mettere a disposizione prodotti nuovi con proprietà inattese, o anche nello scoprire e sfruttare tali proprietà in prodotti di per sé noti”. L’Autore comunque precisa che la mancata o insufficiente comprensione scientifica dei rapporti struttura-funzione limita lo spazio disponibile per la brevettazione in quanto minori saranno le rivendicazioni relative agli insegnamenti descritti nel brevetto. A. Vanzetti, V. Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009, p. 390 scrivono: “L’originalità segna una linea di confine tra ciò che appartiene al divenire normale di ciascun settore, che potrebbe essere realizzato da qualunque operatore del settore, e quindi non merita il brevetto, e ciò che è frutto di una idea che supera le normali prospettive di evoluzione del settore, che non è alla portata dei tanti che in esso operano, e quindi merita l’attribuzione del diritto esclusivo”. 189 ) Nelle invenzioni biotecnologiche ricorre il requisito dell’originalità in quanto l’invenzione, pur non richiedendo operazioni mentali di cui il tecnico medio non sarebbe capace, è resa possibile solo dallo svolgimento di operazioni che per la loro complessità ed il loro costo richiedono dotazioni umane, finanziarie e strumentali superiori a quelle che può impiegare un operatore medio del settore: in tal senso A. Vanzetti, V. Di Cataldo, op. cit., p. 480. 89 dell’invenzione come frutto spontaneo del genio. Quando, però, la ricerca assorbe investimenti importanti e diviene attività di gruppo, il riferimento esclusivo alle capacità dell’inventore non trova più alcuna giustificazione190; entrano in gioco prepotentemente altri fattori come la dotazione finanziaria e strumentale, il tempo a disposizione, il livello di organizzazione ed il grado d’integrazione dell’équipe191. In questi casi, il requisito dell’originalità deve essere valutato tenendo conto che si vuole premiare non già un flash of genius192, un’intuizione felice, ma la ricerca, la 190 ) Il riferimento alla persona esperta del ramo è andato perdendo progressivamente di pregnanza allorché, conformemente con una giurisprudenza dell’Ufficio europeo dei brevetti, tale soggetto viene indicato come “colui che ha la conoscenza di una squadra di esperti, ma la capacità di iniziativa di un tecnico, senza immaginazione inventiva e con la capacità di attuare solo metodiche già sperimentate”: così l’EPO nel caso Genentech Interferone Gamma, EPO Appeal Board Decision T 223/92, 20 luglio 1993. Nella prospettiva dell’UEB viene pressoché svuotato il momento soggettivo, giacché la persona esperta del ramo viene declassata ad un tecnico “senza immaginazione inventiva” e con la “capacità di attuare solo metodiche già sperimentate”; inoltre, si presume che l’esperto del ramo di media preparazione è una persona che ragiona lungo le linee di una convenzionale conoscenza del ramo, che non intraprende alcuna attività di innovazione (T 455/1991). 191 ) Nel campo delle biotecnologie sempre più di frequente risultati positivi sono ottenuti grazie alle dimensioni dell’investimento effettuato piuttosto che alla particolare creatività degli approcci seguiti. Se questi dati di fatto non precludono l’accesso alla protezione, è perché lo standard della persona esperta del ramo tende oggi ad essere inteso in modo più riduttivo che in passato. Assumendo infatti che il parametro di riferimento possa essere reperito nella figura di un tecnico senza immaginazione inventiva e con la capacità di attuare solo metodiche già sperimentate diventa meno problematico ravvisare l’altezza inventiva anche in innovazioni che, pur avendo mobilitato risorse assai ampie, posseggano in effetti un gradiente di originalità relativamente basso. L’abbassamento di questo requisito di accesso alla protezione non è, peraltro, carattere specifico dell’innovazione biotecnologica. Al contrario, esso corrisponde ad una tendenza diffusa del diritto brevettuale degli ultimi decenni, che trova alla propria base ragioni di ordine generale le quali, nel caso della brevettazione della materia vivente, si sono incontrate con ragioni specifiche di quest’ultimo settore. Ancor oggi esistono, tuttavia, soglie al di sotto delle quali si tende a negare che ricorra altezza inventiva. Così, quando si deducano le funzioni di una sequenza di DNA conducendo comparazioni computerizzate con altre sequenze la cui funzione sia già nota, è probabile che la brevettabilità venga negata per l’assenza del requisito in esame. In questo senso la decisione della Divisione di opposizione dell’EPO del 20 giugno 2001, caso ICOS/Smith & Kline Beecham e Duphar International Research. 192 ) La Corte di Cassazione 14 aprile 1988 n. 2965 così decideva: “è invenzione brevettabile non solo quella che è frutto di genialità (flash of [creature] genius), non solo quella che dà un risultato sorprendente, ma anche quella che più semplicemente ottiene un risultato nuovo, non deducibile per semplici e agevoli passaggi mentali dallo “stato della tecnica” esistente, cioè che non sia un’inevitabile implicazione del notorio”. 90 grande ricerca, intesa come costoso e paziente lavoro di sperimentazione di grandi équipes di ricercatori193. 193 ) A. Vanzetti, Presentazione del volume I nuovi brevetti – Biotecnologie e invenzioni chimiche. Milano 1995, p. VII. G. Spedicato, La brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche nella normativa e nella giurisprudenza comunitaria. Brevi considerazioni etico-giuridiche, in Quaderni di diritto privato europeo, Vol. V, 2003, p. 323, osserva che in termini generali è possibile rilevare come nel corso del tempo si sia assistito ad un continuo abbassamento della soglia richiesta per accedere alla tutela brevettuale. Tale abbassamento se per un verso potrebbe essere interpretato dai più maliziosi con la volontà, politica ed economica, di facilitare l’accesso a questa forma di tutela in modo da garantire ai richiedenti (spesso e volentieri grosse multinazionali che possono sostenere gli elevati costi richiesti dalla procedura di concessione del brevetto) la forte protezione offerta da tale strumento, riflette per altro verso il cambiamento epocale, verificatosi in maniera più significativa a partire dai primi decenni del secolo scorso, nel modo di fare ricerca scientifica e tecnologica. Dalla figura del genio solitario (alla Leonardo o alla Newton, per capirci) che, proprio in virtù delle sue straordinarie capacità e di una improvvisa folgorazione, riesce a “creare” quasi ex nihilo teorie o macchinari che ancora oggi, come allora, non cessano di stupirci, si è transitati gradualmente verso la figura dell’equipe scientifica, in cui un consistente numero di scienziati e tecnici collabora in un faticoso ed oneroso (sotto tutti i profili) lavoro di migliaia, a volte centinaia di migliaia, di esperimenti, di tentativi ed errori. Se il lavoro di ricerca è oggi questo, è evidente che la pur suggestiva nozione del flash of genius, ritagliata su una realtà scientifica in cui lo scienziato agisce e viene considerato come singolo soggetto, corre il serio rischio di diventare anacronistica. Il genio, per forza di cose, è uno, mentre un’equipe è ontologicamente, oltre che nominalmente, più d’uno. E’ pertanto, in tal senso, fisiologico che il requisito dell’attività inventiva, ad uno con la scienza cui si riferisce, si sia evoluto partendo dalla soggettività del flash of genius transitando attraverso l’oggettività dell’inventive step fino a giungere, secondo l’indirizzo che pare oggi prevalente, al dato quasi meramente formale della non-ovvietà. Tale richiamata oggettivizzazione del requisito dell’attività inventiva se per un verso si spiega con il passaggio da una dimensione “singolare” ad una dimensione “plurale” della ricerca scientifica, riflette peraltro la perduta centralità del fattore “persona” rispetto al fattore “risorsa economica”, in una evoluzione che potremmo definire “asimmetrica”, poiché non è tanto l’importanza del primo fattore ad essere scemata in termini assoluti, quanto piuttosto il peso del secondo ad essere cresciuto esponenzialmente. Se infatti il numero di ricercatori qualificati attualmente operanti è sufficientemente alto (soprattutto se paragonato ad un secolo fa) da poter far ipotizzare una certa intercambiabilità soggettiva tra gli stessi, la rilevanza della disponibilità di (spesso ingenti) risorse economiche è tale da risultare, in determinati settori quale quello biotecnologico, dove gli investimenti si quantificano in milioni di dollari, assolutamente pregiudiziale. Critica con la tendenza ad abbassare la soglia della brevettabilità è C. Signorini, I diritti di proprietà industriale in materia di biotecnologie e la tutela delle biodiversità, in G. Ghidini, G. Cavani, (a cura di) Brevetti e Biotecnologie, Roma, 2008, p. 212. L’Autrice osserva che un abbassamento della soglia di tutela in riferimento ai requisiti di applicabilità industriale e di attività inventiva non costituiscono necessariamente un incentivo allo sviluppo; non risulterebbero infatti liberamente appropriabili i risultati di quelle ricerche che non segnano un effettivo contributo tecnico industriale e che, nonostante ciò, sarebbero oggetto di una forte protezione grazie alla concessione del brevetto. Le conoscenze intermedie potrebbero invero trovare altre forme di tutela meno forti (es. una durata, più limitata nel tempo, di eventuali diritti esclusivi). In questo modo, per ogni diverso stadio di ricerca sarebbe definita una specifica ed adeguata tutela. 91 2. La presenza del requisito della novità nel materiale biologico preesistente in natura. I nuovi usi di sostanze già note Uno dei requisiti necessari per accedere alla tutela brevettuale è quello della novità. Un’invenzione è considerata nuova se non è compresa nello stato della tecnica194 del quale fa parte tutto ciò che è stato reso accessibile al pubblico, per mezzo di una 194 ) Art. 46, comma 1, c.p.i., art. 54 CBE. Lo stato della tecnica viene normalmente inteso come patrimonio mobile in continuo progressivo accrescimento per via delle piccole innovazioni che vengono quotidianamente realizzate dalla massa anonima degli operatori di ciascun settore. Commentando l’articolo in esame, G. Ghidini, Profili evolutivi del diritto industriale, Milano, 2008, p. 101, scrive: “Si accorda tutela esclusiva anche all’innovazione di merito concettuale obbiettivamente modesta, purché appunto, agli occhi di un esperto del settore, essa non appaia evidentemente (ovviamente) deducibile dalla tecnica nota. Come accennato, tale impostazione “riduzionista” (se non “minimalista”) vuol corrispondere all’esigenza di adeguare la tutela brevettuale alla ricordata tipica connotazione della moderna attività di ricerca: la quale, più frequentemente che per stacchi intellettuali di particolare livello, avanza, come ricordato, grazie a continue successive sperimentazioni e applicazioni affidate a complesse èquipe e a mezzi tecnologici avanzati (elaboratori di grande potenza ecc.). Avanza insomma, facciamola breve, grazie alla quantità degli investimenti più che al “genio” di singoli ricercatori (e del resto proprio quella degli investimenti appare la chiave più appropriata per interpretare anche il rilevato indirizzo a “spostare in alto” al piano cioè della scoperta, l’individuazione dell’attività inventiva). Da ciò, appunto, per adempiere anche in siffatto contesto alla missione di premio/stimolo dell’innovazione, il consolidarsi della tendenza all’abbassamento dello strandard di originalità. Ovvio corollario della ridotta selettività dell’accesso al brevetto è la facilità, per i concorrenti, di elaborare soluzioni diversificate che sfuggano allo ius excludendi del titolare del brevetto. Proprio il modesto grado di “originalità” ritenuto sufficiente per ottenere la privativa, consentirà più facilmente altre soluzioni di non qualificarsi come mere variazioni attuative di una stessa “idea di soluzioni” i.e. come meri “equivalenti”, dunque contraffazioni, assurgendo invece ad autonoma dignità inventiva: e al contempo, sottraendosi al raggio dell’altrui esclusiva ed altresì accedendo, coeteris paribus, ad autonoma brevettabilità”. 92 descrizione scritta od orale, mediante l’utilizzo o in qualsiasi altro modo, prima della data del deposito della domanda di brevetto195. I fatti distruttivi della novità vengono distinti in anteriorità e predivulgazioni. Sono anteriorità distruttive della novità tutte le conoscenze brevettate e non brevettate, diffuse in qualunque modo in Italia o all’estero, anteriormente alla data di domanda di brevetto; lo sono a prescindere dal fatto che siano o non siano note all’inventore. La ratio della regola è chiaramente quella di non rilasciare un brevetto a chi è autore di un’invenzione già realizzata da altri. In alcuni sistemi stranieri, si tende in vario modo a temperare la severità delle regole che pretendono la novità assoluta escludendo, ad esempio, che abbiano capacità distruttiva della novità le anteriorità puramente cartacee, quelle cioè costituite da informazioni pubblicate che non hanno alcun seguito in quanto dimenticate. Regole di questo tipo sono sicuramente ragionevoli nella loro ispirazione; fatto distruttivo della novità non è, infatti, la pura esistenza di un’anteriorità bensì la sua accessibilità al pubblico (e quindi anteriorità trasmesse in forma criptica, o non trasmesse ai terzi, dovrebbero essere considerate irrilevanti)196. Nello stesso spirito, la novità di un materiale biologico che venga isolato dal suo 195 ) Art. 46, comma 2, c.p.i., art. 54 CBE. G. Spedicato, op. cit., p. 325 ritiene che nel concetto di stato della tecnica rientrino le comuni conoscenze generali, le conoscenze potenziate, le conoscenze nascoste, le domande di brevetto anteriori pubblicate o rese accessibili al pubblico. Nello stato della tecnica rientrerebbero quindi sia le conoscenze generali comunemente a disposizione dell’esperto sia quelle a lui difficilmente accessibili (le conoscenze potenziate) o nascoste (sebbene solo in senso relativo poiché, seppur non possedute dall’esperto medio, esse rientrano sicuramente nel patrimonio conoscitivo di “qualcuno nel mondo”). A tali conoscenze devono poi aggiungersi, secondo quanto previsto l’art. 46 c.p.i. e dall’art. 54 CBE, quelle desumibili dalle domande di brevetto già depositate in uno Stato membro della Comunità, o all’estero, e quelle pubblicate o altrimenti rese accessibili al pubblico. Poiché la legge vuole evitare che vengano rilasciati due brevetti diversi per la stessa invenzione, l’art. 46, comma 3, c.p.i. ritiene distruttive delle novità anche le domande di brevetto italiano ancora segrete ovvero le domande di brevetto europeo o internazionale designanti l’Italia ancora segrete. M. Franzosi, Novità e non ovvietà. Lo stato della tecnica, in Riv. dir. ind., 2001, pag. 68, rileva, a proposito della conoscenza nascosta, che “(…) il fatto che non sia nota all’esperto non è considerato rilevante; la tecnica è attribuita alla conoscenza dell’esperto, anche se egli non la conosce …… a volte la tecnica nota, ignota in alcuni paesi o per determinate tecnologie, può essere considerata non sconosciuta in altri paesi o in altri settori”. 196 ) In tal senso A. Vanzetti, V. Di Cataldo, op. cit., p. 386. 93 ambiente naturale o venga prodotto per via biotecnologica non è esclusa dal fatto che lo stesso materiale preesista in natura se in natura non è accessibile197. Si ha predivulgazione quando l’inventore comunichi, volontariamente o involontariamente, l’invenzione a terzi in data anteriore alla domanda di brevetto198. Proprio in relazione al requisito della novità sono sorte, nel settore delle biotecnologiche, alcune questioni spinose riguardanti, in particolari, il fenomeno 197 ) G. Sena, L’importanza della protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, Riv. dir. ind., 2000, pag. 71. L’Autore osserva che “il fatto che i geni sono sostanze esistenti in natura, che essi possono essere scoperti, ma non inventati, e che perciò non possono essere nuovi in senso stretto, non ne esclude la brevettabilità; anche i geni possono essere considerati nuovi perché, prima della loro scoperta ed identificazione, non appartengono al patrimonio tecnico-scientifico”. L’invenzione, osserva l’Autore, può consistere nel mettere il prodotto a disposizione della collettività isolandolo dal suo ambiente naturale oppure purificando un prodotto che già era noto in forma diversa. La novità potrà sussistere se il prodotto in precedenza non era noto nella forma in cui l’inventore l’ha messo a disposizione ma solo all’interno di un “ambiente” dal quale non era separabile o lo era solo con un diverso metodo. Inoltre il prodotto, pur preesistendo, può non dirsi accessibile se la preesistenza in natura non rendeva già noto l’insegnamento di come ottenere, con caratteri costanti, l’oggetto dell’invenzione. Cfr. sul punto anche le considerazioni già espresse nel Capitolo II, par. 4. 198 ) La predivulgazione è causa di distruzione della novità in quanto realizza l’accessibilità al pubblico dell’invenzione. Deve riguardare l’invenzione nella sua interezza e deve essere stata fatta a persone (o anche ad una persona) in grado di capire il messaggio ricevuto e di ritrasmetterlo. Non si ha la perdita della novità se l’invenzione viene riferita ai terzi che collaborano con l’inventore ai fini della messa a punto dell’invenzione stessa; in tali casi si applica l’art. 2105 c.c. Qualora il prestatore di lavoro violi il segreto, la novità verrà meno e l’inventore potrà pretendere solo il risarcimento dei danni. L’unico caso in cui la predivulgazione non fa venir meno la novità è quello disciplinato dall’art. 47 c.p.i.. Il sistema U.S.A., a differenza di quello europeo, concede all’inventore un periodo di grazia ritenendo che la comunicazione dell’inventore fatta a terzi prima del deposito della domanda non distrugga la novità dell’invenzione se poi l’inventore deposita la domanda entro il brevissimo termine di un anno. 94 della biopirateria ovvero se ricorra il requisito in esame nell’invenzioni ottenute tramite fenomeni di biocolonianismo199. Questione diversa, ma altrettanto delicata, è quella della presenza della novità nei nuovi usi di sostanze già note200. Nel settore della chimica, il fenomeno in esame è piuttosto frequente tant’è che la brevettabilità del nuovo uso del composto noto è oramai, da tempo, un dato 199 ) V. Shiva, Il mondo sotto brevetto, Milano, 2002, pag. 49 definisce i termini biocolonianismo e biopirateria come l’utilizzo dei sistemi di proprietà intellettuale per legittimare il possesso e il controllo esclusivo di risorse, prodotti e processi biologici utilizzati per secoli nelle culture non industrializzate. L’Autore considera, a tal proposito, paradigmatico il caso del neem, albero originario dell’India e dall’estratto dei cui semi, per secoli, le popolazioni autoctone avevano realizzato, tra le altre cose, un efficace pesticida naturale in grado di combattere più di duecento tra insetti e parassiti. Come una vera e propria usurpazione, pertanto, era stato visto il tentativo, in parte riuscito, condotto dal colosso dell’industria chimica statunitense, la W.R. Grace, di ottenere dall’US Patent and Trademark Office brevetti su tutta una serie di metodi per la produzione dell’estratto del seme di neem estremamente simili, per molti versi, a quelli utilizzati secondo la tradizione millenaria da parte della popolazione indiana. Sulla vicenda l’Autore osserva: “A parte ogni considerazione di merito sul fenomeno in parola, sicuramente deprecabile dal punto di vista delle conseguenze socio-economiche che produce nei paesi in via di sviluppo, può seriamente revocarsi in dubbio che invenzioni biotecnologiche quali quelle aventi ad oggetto il neem e tante altre cui si è pervenuti attraverso attività di «biopirateria» possano integrare il requisito della novità per come lo si è andato sopra delineando. Le conoscenze indigene infatti, rientrano a pieno titolo nello stato della tecnica, per lo meno a titolo di conoscenze nascoste … In tal caso pertanto, quand’anche non si versi in un’ipotesi di identità fotografica ma meramente funzionale rispetto alla tecnica nota costituita dalla conoscenza indigena, quest’ultima costituisce senz’altro un’anteriorità distruttiva della novità che dovrebbe pertanto precludere all’invenzione la possibilità di accedere alla tutela brevettuale”. Identica la valutazione dell’Ufficio Europeo dei Brevetti che il 10 maggio 2000 aveva revocato il brevetto detenuto, congiuntamente, dalla W.R. Grace e dal governo degli Stati Uniti poiché privo dei requisiti della novità e dell’attività inventiva. Caso simile quello del turmeric: si tratta della curcuma, una spezia che presenta anche proprietà curative e cosmetiche. Per la curcuma era stato rilasciato dall’ufficio brevetti U.S.A., su richiesta di due ricercatori indiani espatriati negli Stati Uniti, un brevetto poi rapidamente revocato a seguito dell’intervento dell’India, con cui si è dimostrata la ricomprensione nello stato dell’arte di tali proprietà della radice. 200 ) Le rivendicazioni d’uso sono espressamente contemplate come genere separato sia dalle rivendicazioni di prodotto che da quelle di procedimento; in altri sistemi, le rivendicazioni d’uso sono considerate una forma di rivendicazioni di processo o di metodo. 95 acquisito201. Stante la ricorrente affinità tra il settore della chimica e quello delle biotecnologie, in quanto, in entrambi, il brevetto si estende all’insegnamento apportato dall’inventore, si ritiene che le conclusioni raggiunte nella ricerca chimica debbano applicarsi a quella biotecnologica202. Da chiarire se esista un rapporto, e quale eventualmente, tra il brevetto di nuovo uso di un composto ed il brevetto (anteriore) eventualmente rilasciato a favore di chi abbia per primo realizzato il composto stesso; rimane cioè da chiarire se il secondo brevetto sia dipendente dal primo. La soluzione di questo problema deve dare attenzione primaria alla funzione del sistema brevettuale ed alla necessità che l’estensione della privativa sia proporzionata all’apporto che l’inventore ha dato al progresso tecnico ed al benessere collettivo. La domanda può dunque trovare una risposta equilibrata solo individuando due sottoipotesi di cui vanno valorizzate le specifiche caratteristiche203. La regola più ragionevole è quella che varia a seconda che il composto (alla data della prima invenzione, cioè dell’invenzione che ha dato vita ad un composto nuovo) sia dotato di originalità per la sua struttura o per la sua funzione. Può darsi, infatti, che il primo inventore abbia creato un composto strutturalmente non ovvio perché dotato di una struttura non derivabile (da parte di un tecnico medio) dai composti già noti; può 201 ) Si pensi al caso primordiale dell’etere, del D.D.T. cui hanno fatto seguito molte altre note vicende dello stesso genere. Nel caso T 231/85, 8 dicembre 1986, Triazole derivates/Basf, OJ EPO, 1989, 74, ed in quello G 2/88, 11 dicembre 1989, Friction reducing additive/Mobil Oil, OJ EPO, 1990, 93, riguardanti, rispettivamente, un agente chimico usato per favorire la crescita delle piante che rivelò proprietà fungicide ed una composizione nota per le sue proprietà di agente antiossidante dei motori che dimostrò di possedere proprietà lubrificanti. In tali casi, l’Ufficio europeo brevetti decideva che un effetto che si produca in maniera inerente in una utilizzazione già nota di una sostanza o di un prodotto non può essere considerato, per questo solo fatto, privo di novità. Il concetto di novità si fonda infatti sulla appartenenza allo stato della tecnica, intesa come accessibilità e, dunque, conoscenza effettiva o quantomeno immediata pubblica conoscibilità delle informazioni della cui novità si discute. La proprietà nascosta, che non sia immediatamente riconoscibile nel corso dell’utilizzazione nota della sostanza o del prodotto, non può dirsi accessibile al pubblico ai sensi dell’art. 54 CBE. In dottrina, si rimanda a G. Guglielmetti, La brevettazione, cit., p. 104 per approfondimenti. 202 ) Cosi V. Di Cataldo, Fra tutela assoluta del prodotto brevettato e limitazione ai procedimenti descritti ed agli usi rivendicati, in Riv, dir. ind., 2004, p. 111. 203 ) G. Guglielmetti, Tutela “assoluta” e “relativa” del brevetto del nuovo composto chimico, originalità dell’invenzione e dinamiche della ricerca, in Studi in onore di A. Vanzetti, Milano, 2004, p. 765. 96 invece accadere che l’inventore abbia costruito un composto strutturalmente ovvio perché dotato di una struttura agevolmente derivabile da composti già noti, ma provvisto di funzioni non ovvie perché diverse e non equivalenti alle funzioni dei composti già noti. In entrambi i casi l’inventore del nuovo uso ha diritto al brevetto, ma il suo brevetto verrebbe ad avere estensione diversa nei due casi. L’invenzione di nuovo uso di un composto noto dovrebbe essere considerata dipendente dalla prima quando il composto, alla data della prima invenzione, era strutturalmente originale; in questa ipotesi, è ragionevole riconoscere un debito dell’inventore del nuovo uso rispetto all’inventore del composto, visto che appunto, il composto era strutturalmente non ovvio, ed il secondo inventore ha utilizzato il nocciolo della prima invenzione (cioè la sua struttura). L’invenzione di nuovo uso di un composto noto dovrebbe invece essere considerata indipendente dalla prima quando il composto, alla data della prima invenzione, era strutturalmente ovvio, ed ha ottenuto il brevetto solo per originalità di funzione; in questo caso, l’inventore del nuovo uso non ha fruito dell’invenzione precedente visto che, essenzialmente, essa risiedeva nella funzione del composto e non nella sua struttura204. 3. La liceità dell’invenzione biotecnologica Nell’ambito delle biotecnologie, il requisito della liceità dell’invenzione non ha sicuramente il compito di risolvere i problemi etici, ambientali, sociali connessi al 204 ) Sul punto sia veda anche la decisione della Commissione ampliata dei ricorsi dell’UEB dell’11 dicembre 1989, Mobil Oil Corp. c. Chevron, in Riv. dir. ind. 1990, p. 141 e in Foro it., 1990, p. 311 con nota di V. Di Cerbo, Brevetto (europeo) d’uso: modifica delle rivendicazioni e novità del trovato, caso Friction reducing additive/Mobil Oil III e G. Guglielmetti, La brevettazione, cit., p. 101. 97 settore205. La brevettazione è un fenomeno giuridico che concerne il regime di appartenenza (monopolistico e privato anziché concorrenziale o pubblico) dei risultati della ricerca che nulla ha a che fare con la liceità della ricerca medesima né, tanto meno, con la liceità dello sfruttamento dei suoi risultati. A conferma l’art. 50 c.p.i. che, vietando la brevettazione delle invenzioni la cui attuazione sia contraria all’ordine pubblico o al buon costume206, distingue il piano della realizzazione da quello dell’accesso al brevetto207; il rilascio della privativa non implica il diritto di utilizzare l’invenzione ma concerne solo il potere, in capo al titolare, di vietare a terzi di attuarla208. La nostra disciplina prevede, non a caso, che sui brevetti venga apposta l’annotazione che l’attuazione dell’invenzione non potrà essere effettuata se non con l’osservanza delle disposizioni legislative e regolamentari concernenti la produzione ed il commercio dei prodotti oggetto dell’invenzione”209. Si può quindi osservare che, almeno in linea di principio, il divieto di brevettazione riguardi i casi in cui l’illiceità attenga alla modalità monopolistica di 205 ) Un ordinamento che tema l’uso di una certa invenzione non può limitarsi a proporre per essa un divieto di brevettazione; un divieto del genere può avere un effetto disincentivante più o meno marcato, perché alla ricerca nel settore mancherebbe l’incentivo dato dalla prospettiva del brevetto, ma non può affatto garantire che quella ricerca non venga comunque effettuata e, ancor meno, che poi quell’invenzione non venga utilizzata. L’ordinamento deve piuttosto incidere sulla sfera dei comportamenti dei consociati, proponendo, se lo crede opportuno, divieti di conduzione di una determinata linea di ricerca, o di uso dell’invenzione, quand’anche non brevettata: V. Di Cataldo, Biotecnologie e diritto. Verso un nuovo diritto, e verso un nuovo diritto dei brevetti, in Contratto e impresa, 2003, p. 345. 206 ) Si tratta di un divieto che non ha trovato invero frequente applicazione. La ragione deve essere individuata nella circostanza che il rilascio del brevetto è sostanzialmente escluso solo per le invenzioni per le quali non è pensabile neppure un uso lecito; di contro, se è pensabile almeno un uso lecito, l’invenzione è brevettabile. La norma rimane dunque confinata in uno spazio marginale. 207 ) Diversi sono i soggetti deputati al controllo sull’attuazione dell’invenzione rispetto a quelli competenti al rilascio della privativa. Il controllo sull’attuazione viene di norma affidato ad autorità dotate specificamente degli strumenti per procedere alla valutazione del rischio corrispondente (si pensi al settore dei farmaci), munite della necessaria legittimazione, piuttosto che a funzionari di un Ufficio dei brevetti, i quali difettano sia della preparazione sia dell’investitura corrispondenti. 208 ) L’inventore di un nuovo tipo di fucile mitragliatore ha diritto al rilascio del brevetto; l’avere ottenuto la privativa non gli consente tuttavia di andare in giro con la sua nuova arma sparando tra la folla. G. Ghidini, G. Cavani (a cura di), Brevetti e biotecnologie, Roma, 2008, p. 20, osservano che il diritto di brevetto attribuisce al titolare solo uno ius excludendi alios e non anche una (neppure implicita) autorizzazione a fare ciò che costituisce oggetto del brevetto. 209 ) Cfr. art. 33 l. inv. commentato da P. Spada, Liceità dell’invenzione brevettabile ed esorcismo dell’innovazione, Riv. dir. ind., 2000, p. 16. 98 produzione e vendita in regime di privativa piuttosto che ad una valutazione dell’anteriore fase di ricerca o della successiva fase di attuazione210. Non mancato tuttavia tesi favorevoli ad innestare nella fase di brevettazione, e nel giudizio di validità del titolo di protezione da questa conferito, la considerazione di più ampi valori sociali inerenti, fra gli altri, la salute umana, la biodiversità211, l’equa ripartizione dei benefici derivanti dalla ricerca biotecnologica212. Pur essendo stato esposto a non poche, e trascurabili, obiezioni213, tale approccio ha il pregio di porre l’attenzione sulle conseguenze avverse che possono manifestarsi con l’attuazione dell’invenzione214. 210 ) M. Ricolfi, La brevettazione delle invenzioni relative agli organismi geneticamente modificati, in Riv. dir. ind., 2003, p. 7. 211 ) In tal senso R. Pavoni, Brevettabilità genetica e protezione della biodiversità: la giurisprudenza dell’Ufficio Europeo dei brevetti, in Riv. dir. ind., 2000, p. 429 ss. Tra le tante, assumono rilievo le preoccupazioni dell’impatto che un organismo geneticamente modificato per essere resistente ai diserbanti può avere sulla medesima quantità di diserbanti impiegati ovvero il rischio di innescare processi che determinino l’insorgere di specie resistenti al controllo umano (i c.d. superweeds); discussi anche gli effetti avversi che vegetali, animali e microrganismi ricombinanti possono avere sulla salute umana e sulla biodiversità. Per un’attenta rassegna di questi rischi si rimanda all’inquadramento generale fornito dal Ministero dell’Ambiente della Repubblica italiana, Problematiche connesse all’impiego di Organismi Geneticamente Modificati e proposte di interventi, Bari, 2001. 212 ) Si pensi ad un dolcificante naturale diverso dalla barbabietola e dalla canna da zucchero che, conservato per molti millenni nell’anfratto di una micro-cultura, sia capace di svolgere le sue funzioni senza produrre gli inconvenienti, dietetici e salutistici, dello zucchero di barbabietola o di canna e dei suoi sostituti artificiali. Arriva qualche impresa occidentale; preleva un campione del materiale conservato in situ; ne decuplica la resa con una manipolazione genetica ed ottiene il brevetto sulla varietà “modificata”. Un momento dopo, il prodotto originario è inevitabilmente fuori mercato data la sua bassa resa rispetto a quello modificato. Tutti i profitti del nuovo prodotto, sulla base delle regole di appartenenza del regime brevettuale, appartengono solo ed esclusivamente al titolare del brevetto e non alle collettività che hanno conservato il germoplasma di partenza. Questo risultato è chiaramente iniquo ma non del tutto infrequente se è vero, ad esempio, che il fenomeno della “biopirateria”, così è designata l’appropriazione non autorizzata di risorse genetiche da piante ed animali del Sud del Mondo, è un fenomeno denunciato con crescente frequenza ed asprezza dai paesi in via di sviluppo: M. Ricolfi, La brevettazione, cit., p. 8. 213 ) Tra queste, l’osservazione che il divieto di brevettazione non incide sull’attuazione dell’invenzione e che, anzi, potrebbe indurre l’inventore a sfruttare l’innovazione in regime di segreto con la conseguenza che verrebbe ridotto anziché ampliato il controllo sociale sulle tecnologie pericolose: P. Spada, Liceità dell’invenzione brevettabile, cit., p. 15. In senso conforme G. Ghidini, G. Cavani, Brevetti, cit., p. 20, i quali sostengono che il rifiuto di brevettare una tecnologia non ne preclude, di per sé, l’attuazione; ove ciò sia fattualmente possibile, ne promuove fatalmente la produzione in regime di segreto aggiungendo così all’inutilità (sul piano etico) della mancata brevettazione il danno, consistente in una riduzione della quantità delle conoscenze scientificotecnologiche rese di pubblico dominio, determinando un conseguente rallentamento del processo di subequent innovation. 99 4. Limiti alla brevettabilità del materiale biologico. La sentenza della Corte di Giustizia nel caso Brüstle In linea di principio, non esiste alcun divieto di brevettare le invenzioni biotecnologiche215; ciò nonostante, sono stati posti dei limiti alla concessione della privativa216. Sono esclusi dal novero delle invenzioni brevettabili il corpo umano nei vari stadi della sua costituzione e sviluppo compreso l’embrione217; le invenzioni il cui sfruttamento218 commerciale sia contrario alla dignità umana, all’ordine pubblico e al buon costume219, alla tutela della salute, dell’ambiente e della vita delle persone e degli animali, alla preservazione dei vegetali e della biodiversità ed alla prevenzione di gravi danni ambientali, in conformità ai principi contenuti nell’articolo 27, paragrafo 2, dell’Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (TRIPS)220. L’esclusione riguarda, in particolare: i procedimenti di clonazione di esseri 214 ) In quest’ottica, è stata presa in considerazione la necessità di istituire autorità specificamente preposte al controllo di particolari tipologie di rischi connessi alle invenzioni (nella specie: ambientali correlativi all’introduzione di piante resistenti agli erbicidi: Commissione tecnica di ricorso dell’UEB del 21 febbraio 1995, caso "Plant Genetic Systems") piuttosto che mettere in discussione la competenza dell’UEB ad operare la valutazione corrispondente. 215 ) In tal senso il considerando n. 15 Direttiva 98/44/CE. 216 ) Nel considerando n. 14 della Direttiva 98/44/CE si legge: “un brevetto di invenzione non autorizza il titolare ad attuare l’invenzione, ma si limita a conferirgli il diritto di vietare ai terzi di sfruttarla a fini industriali e commerciali e che, di conseguenza, il diritto dei brevetti non può sostituire ne´ rendere superflue le legislazioni nazionali, europee o internazionali che fissino eventuali limiti o divieti, o dispongano controlli sulla ricerca e sull’utilizzazione o sulla commercializzazione dei suoi risultati, con particolare riguardo alle esigenze di sanità pubblica, sicurezza, tutela dell’ambiente, protezione degli animali, conservazione della diversità genetica e relativamente all’osservanza di alcune norme etiche”. 217 ) Art. 81 quinques, commi 1, lett. a), e 2, c.p.i. L’Italia recependo la direttiva comunitaria, ha escluso dalla brevettabilità ogni procedimento tecnico che utilizzi cellule embrionali umane; il divieto è assoluto ed include anche le linee di cellule staminali embrionali umane. 218 ) La locuzione sfruttamento è sufficientemente ampia da essere considerata equivalente alle nozioni di pubblicazione od attuazione dell’invenzione: in tal senso R. Rossolini, La tutela dell’embrione umano nelle invenzioni biotecnologiche alla luce della sentenza della Corte di Giustizia nel caso Brustle, in Riv. dir. ind., 2012, p. 136. 219 ) La costante giurisprudenza della Corte di giustizia richiede il verificarsi di una minaccia effettiva ed abbastanza grave ad uno degli interessi che, in un determinato momento storico, sono considerati fondamentali dal Paese interessato. Anche la violazione del buon costume, che solitamente non assume valore autonomo rispetto all’ordine pubblico, richiede che lo sfruttamento, in un dato contesto culturale caratterizzante la società, sia considerato ripugnante. 220 ) Art. 81 quinques, comma 1 lett. b) c.p.i. 100 umani221; i procedimenti di modificazione dell’identità genetica germinale dell’essere umano; ogni utilizzazione di embrioni umani, ivi incluse le linee di cellule staminali embrionali umane; i procedimenti di modificazione dell’identità genetica degli animali atti a provocare su questi ultimi sofferenze senza utilità medica sostanziale per l’essere umano o l’animale, nonché gli animali risultanti da tali procedimenti; le invenzioni riguardanti protocolli di screening genetico, il cui sfruttamento conduca ad una discriminazione o stigmatizzazione dei soggetti umani su basi genetiche, patologiche, razziali, etniche, sociali ed economiche, ovvero aventi finalità eugenetiche e non diagnostiche222. I suesposti limiti sono contenuti anche nella Direttiva comunitaria 98/44/CE223; la ratio della disciplina è quella di tutelare la dignità umana224. In tal si è espressa anche la Corte di giustizia nella sentenza del 9 ottobre 2001 con la quale, respingendo il ricorso volto all’annullamento della direttiva in esame, attribuiva alla dignità umana un rilievo autonomo rispetto agli altri diritti fondamentali dell’Unione225. 221 ) La clonazione comprende tutti quei procedimenti rivolti a produrre un essere umano con le stesse informazioni genetiche nucleari di un altro essere umano, vivo o morto, comprese le tecniche di scissione degli embrioni (41° considerando della direttiva). La clonazione può essere applicata all’uomo con finalità riproduttive o terapeutiche. Nel primo caso, consiste nella produzione in vitro di un embrione che, impiantato nell’utero, sviluppa un feto. Nel secondo caso, lo sviluppo del clone è bloccato in laboratorio al fine di ottenere cellule staminali embrionali umane. Il divieto di clonazione è sancito dall’art. 11 della Dichiarazione dell’UNESCO sul genoma umano del 1998 nonché dal Protocollo addizionale alla Convenzione sulla biomedicina firmato a Parigi il 12 gennaio 1998. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel campo medico e biologico vieta soltanto la clonazione riproduttiva. 222 ) Art. 81 quinques, comma 1 lett. b) c.p.i. 223 ) Cfr. artt. 5 e 6 Direttiva 98/44/CE. 224 ) R. Rossolini, op. cit., p. 139 ritiene che sia di difficile connotazione il concetto di dignità umana, ritenendola una nozione più facile da percepire più che da definire pur essendo alla base di tutte le libertà. Generalmente, essa è ricondotta al dato comune in base al quale l’essere umano non può essere svilito a grandezza misurabile e, quindi, equiparato a cosa. Una più precisa connotazione del termine può essere fornita in relazione al caso concreto che, nella fattispecie che ci occupa, è connessa ad una concezione di uomo intesa come realtà o continuum biologico. 225 ) La sentenza ritiene che la direttiva 98/44/CE salvaguardi la dignità umana assicurando l’indisponibilità ed inalienabilità del corpo come materiale biologico umano. In tal senso, il 38° considerando della direttiva avverte che non sono brevettabile invenzioni contrastanti con la dignità umana; il 14° considerando richiama la Carta dei diritti fondamentali dell’uomo che, all’art. 1, protegge la dignità dell’uomo. Per approfondire il testo della sentenza della Corte di Giustizia si rimanda al Cap. II, par. 3. 101 Qualche anno fa, la Corte è tornata ad occuparsi della direttiva 98/44/CE226. La vicenda riguarda un brevetto rilasciato in Germania al sig. Oliver Brüstle relativamente a cellule staminali isolate e purificate di neuroni, ai processi necessari per produrle a partire dalle cellule staminali embrionali, all’uso delle cellule precursori227 per il trattamento delle malattie neuronali come il morbo di Parkinson. Il brevetto era stato impugnato, tra gli altri, da Greenpeace innanzi al Tribunale dei brevetto tedesco che l’aveva invalidato per il fatto che le cellule precursori erano state ottenute da cellule staminali embrionali umane ricavate dall’embrione, allo stadio di blastula228, che veniva poi distrutto dal prelievo. Detta pronuncia era stata, a sua volta, impugnata dall’interessato dinanzi alla Corte federale di Cassazione tedesca che sottoponeva, in via pregiudiziale, alla Corte di Giustizia i quesiti concernenti l’interpretazione dell’art. 6, n. 2, lett. c) della direttiva; alla Corte veniva, tra gli altri, sottoposto anche il quesito di precisare a quale stadio di sviluppo della vita umana poteva ritenersi esistente l’embrione229. Richiamando, ancora, il principio della dignità umana, la Corte interpreta la normativa comunitaria in senso ampio statuendo che qualsiasi ovulo umano deve essere considerato embrione sin dalla fase della sua fecondazione. Sono da considerarsi ovuli anche le cellule uovo non fertilizzate, nelle quali è stato impiantato il nucleo di una cellula umana differenziata230 o, alternativamente, stimolate a dividersi e svilupparsi per partogenesi; queste cellule infatti, pur non essendo fertilizzate, sono ugualmente in grado di dare inizio ad un processo di sviluppo di un organismo proprio al pari della cellula uovo fertilizzata da uno 226 ) Causa C-34/10, Brüstle/Greenpeace, sentenza del 18 ottobre 2011. ) Una cellula precursore è una cellula non differenziata, immatura, ancora incapace di moltiplicarsi e di differenziarsi. Una cellula precursore di cellule neuronali è in grado di differenziarsi in cellule mature del sistema nervoso: i neuroni. 228 ) Cfr. infra. 229 ) Per un’esaustiva e completa descrizione dei quesiti si rimanda a R. Rossolini, op. cit., p. 143. 230 ) Si tratta della c.d. clonazione di organismi alla base della produzione di organismi geneticamente modificati (OGM). 227 102 spermatozoo231. Nell’esaminare il caso Brüstle, la Corte si occupa anche delle cellule staminali ottenute da un embrione umano quando è ad uno stadio di sviluppo denominato blastocisti; si tratta di cellule multipotenti incapaci, una volta isolate, di dare origine ad un organismo232. A tal proposito, la Corte ha scelto di non dare una risposta definitiva e cristallizzata, assumendo, piuttosto, come occorra tenere in considerazione gli sviluppi della scienza; se infatti la ricerca permettesse, in futuro, di generare un individuo da una cellula embrionale umana prelevata da un embrione allo stadio di blastocisti, essa rientrerebbe nella definizione di embrione umano e, quindi, ne sarebbe impedita la brevettabilità di ogni uso ai sensi dell’art 6 n. 2 lett. c) della Direttiva 98/44/CE. Escluso dalla brevettabilità è anche l’impiego di embrioni umani ai fini di ricerca; nonostante, in linea generale, le finalità della ricerca scientifica devono essere tenute distinte dalle finalità industriali e commerciali, l’utilizzo di embrioni umani per ricerche che poi conducano ad una materia oggetto di brevetto non può essere distinto dal diritto brevettuale che esso stesso generi233. La sola eccezione ammessa dalla Corte a tale diniego è rappresentata dagli usi di embrioni umani a scopi terapeutici o diagnostici come, ad esempio, per correggere malformazioni o per 231 ) Per determinare il significato di embrione, la Corte considera lo scopo della direttiva ovvero la tutela della dignità umana; tale concetto assorbe, menzionato dal 13° considerando della direttiva, quella di integrità del corpo umano in quanto la dignità costituisce un implicito, quanto necessario, corollario dell’indisponibilità ed inalienabilità della materia umana vivente. Da tale premessa, la Corte desume che occorre interpretare la nozione di embrione in modo ampio stante l’indisponibilità della materia vivente ai fini brevettuali. 232 ) Una blastocisti è uno stadio tardivo dello sviluppo embrionale di un vertebrato che per la specie umana si ottiene almeno cinque giorni dopo il momento della fertilizzazione. Le cellule staminali che compongono i blastocisti, pur essendo ancora immature, non differenziate, sono oramai programmate e, pertanto, multipotenti, in grado ciò di differenziarsi solo in alcune direzioni. 233 ) Il giudizio appare rafforzativo della regola generale che nega l’estensione del diritto di brevetto a ricerche condotte a fini sperimentali contenuta nelle leggi nazionali (per l’Italia art. 68, comma 1, lett. a), c.p.i.). 103 limitare casi spontanei di aborti234. Coerentemente con le predette dichiarazioni, la Corte, chiamata a pronunciarsi sulla brevettabilità di un’invenzione che implica la produzione di cellule precursori neuronali da cellule staminali embrionali umane, con la conseguente distruzione dell’embrione per il loro ottenimento, ne ha escluso la brevettabilità; l’esclusione si estende infatti anche ai casi in cui l’oggetto delle rivendicazioni, pur non menzionando o non consistendo nell’utilizzazione di embrioni umani, presupponga però il loro uso o distruzione235. La sentenza non ha tuttavia escluso la brevettabilità di cellule staminali di derivazione non embrionale che non abbiano le potenzialità di totipotenza, cioè che non siano in grado di dare origine ad un organismo236; in altre parole, l’unico spazio di brevettabilità è quello che riguarda cellule staminali pluripotenti che non derivino da procedimenti in cui sia necessario distruggere un embrione umano. 234 ) Il 42° considerando della Direttiva 98/44/CE recita: “Le utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali devono a loro volta essere escluse dalla brevettabilità; che tale esclusione non riguarda comunque le invenzioni a finalità terapeutiche o diagnostiche che si applicano e che sono utili all’embrione umano”. O. Capasso, La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sulla brevettabilità di cellule staminali derivate da embrioni umani, in Riv. dir. ind., 2012, p. 261, commenta la sentenza osservando che la statuizione sarà di difficile applicazione sia in considerazione dell’imprescindibile divieto di ottenere un brevetto se si attuano procedimenti che comportano la distruzione dell’embrione umano, sia per l’estesa interpretazione, fornita dalla Corte stessa, al concetto di embrione. Per ulteriori commenti alla sentenza si rimanda a L. Marini, Brevetto biotecnologico e cellule staminali nel diritto comunitario, in Giurisprudenza Commentata, 2013, p. 586, G. Colangelo, La tutela delle invenzioni biotecnologiche in Europa e negli Stati Uniti alla luce dei casi Brustle e Myriad Genetics, in Giur. Comm., 2012, p. 35. 235 ) In una sentenza relativa a colture di cellule staminali, il Eboa, nel novembre del 2008, caso Warf / Thomson (G 2/06), aveva deciso che sotto l’EPC non era possibile concedere un brevetto per un’invenzione che implicava necessariamente l’uso e la distruzione di embrioni umani. Il Eboa sottolineava, tuttavia, che la sua decisione non riguardava la questione generale della brevettabilità delle cellule staminali umane. 236 ) Da alcune cellule si possono ottenere alcuni tessuti come dal sangue, dal cordone ombelicale e dai tessuti che mantengono capacità rigenerative. 104 5. L’applicazione industriale dell’invenzione biotecnologica Tra i requisiti necessari affinché l’invenzione acceda alla tutela brevettuale, l’industrialità è, probabilmente, quello che, risultando piuttosto sfumato nella forma e nella sostanza, appare di più difficile connotazione237. Facendo riferimento al dato normativo nazionale, il requisito risulta integrato allorché l’oggetto di un’invenzione possa “essere fabbricato o utilizzato in qualsiasi genere di industria, compresa quella agricola”238; è, a tal proposito, acutamente chiarito che esso consiste nella “ripetibilità del processo di fabbricazione per un numero non finito di volte con risultati costanti”239. La presenza di questo requisito, che garantisce la possibilità di distinguere tra invenzione e scoperta240, è richiesta in via meramente potenziale così come si 237 ) Emblematico al proposito, pur se tra il serio ed il faceto, V. Di Cataldo, La brevettabilità delle biotecnologie. Novità, attività inventiva, industrialità, in Riv. dir. ind., 1999, p. 188 “(…) avendo detto più volte, in pubblico ed in privato, che non ho mai capito bene cosa sia l’industrialità (…)”. A. Vanzetti, V. Di Cataldo, op. cit., p. 384 osservano che il requisito della industrialità si confonde, invero, con la stessa definizione di invenzione brevettabile. Sul piano storico, potrebbe avanzarsi l’ipotesi che tale requisito non abbia avuto per secoli effettiva consistenza e che l’espressione “invenzione industriale” sia stata adoperata in origine come un concetto unitario, il cui contenuto era tutto e solo riferito al sostantivo “invenzione” e l’aggettivo “industriale” si aggiungeva in termini quasi solo pleonastici, senza alcun valore proprio. Sotto altra prospettiva, potrebbe ipotizzarsi che nel corso dell’ottocento l’aggettivo “industriale” sia stato adoperato per distinguere le invenzioni, appunto, “industriali”, ritenute brevettabili, dalle invenzioni “non industriali”, ritenute non brevettabili. Invenzioni “non industriali” venivano considerate quelle agricole, riguardanti sementi, innesti ed ibridi cioè quelle parti che oggi si definirebbero nuove “varietà vegetali”. Se l’una o l’altra delle due ipotesi storiche appena indicate risultasse confermata, si avrebbe la ragione della difficoltà, ovunque avvertita, di trovare un contenuto accettabile per il requisito della industrialità. G. Oppo, Per una definizione dell’industrialità dell’invenzione, in Riv. dir. civ., 1973, p. 4, ritiene che al requisito di industrialità si è talvolta assegnato il significato di indicare che l’invenzione è completa solo quando il suo oggetto è idoneo a essere riprodotto con caratteri ed effetti costanti, requisito pure questo che peraltro è già desumibile dal concetto stesso di invenzione tecnica, il quale implica padronanza dei meccanismi causali utilizzati. 238 ) Cfr. art. 49 c.p.i. La norma definisce l’industrialità come fabbricabilità industriale o utilizzabilità industriale dell’invenzione; le due note sono chiaramente alternative e si riferiscono, rispettivamente, all’invenzione di prodotto ed a quella di procedimento. 239 ) A. Vanzetti, V. Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, cit., p. 336 scrivono che l’industrialità “non implica fabbricabilità in serie” bensì “la ripetibilità del processo di fabbricazione per un numero non finito di volte con risultati costanti". Questo requisito, osservano gli Autori, appare di grande portata nei settori della chimica e della biologia nei quali non è sempre facile comprendere il significato di ciascuna delle componenti di una certa operazione, perché per garantire la ripetibilità dell’operazione occorre avere raggiunto un quadro chiaro delle diverse influenze di ogni settore. 240 ) Si veda, a tal proposito, il Capitolo II, par. 6. 105 desume dalla formulazione dell’art. 49 c.p.i. dove si parla di invenzioni “atte ad avere un’applicazione industriale”241. Di tenore analogo sono le disposizioni di cui agli artt. 3 e 5 della direttiva 98/44/CE. L’art. 3 fa riferimento al dato meramente potenziale della suscettibilità di applicazione industriale del materiale biologico242. Il requisito sembra invero assumere un’altra identità quando si considerano le invenzioni aventi ad oggetto materiale biologico di origine umana; la brevettabilità di sequenze di geni o di sequenze parziali di geni è infatti subordinata dall’art. 5, comma 3, della citata direttiva alla concreta indicazione, nella domanda di brevetto, dell’applicazione industriale delle sequenze geniche. Il dato testuale sembrerebbe pertanto suggerire che in relazione ad un particolare tipo di invenzioni, quelle appunto aventi ad oggetto sequenze di geni o sequenze parziali di geni, il legislatore non si sia accontentato di un requisito solo potenziale ma abbia invece avvertito la necessità di richiederne una sua manifestazione concreta ed immediata243. 241 ) Nella medesima direzione conduce l’analisi dell’art. 57 CBE, il quale fa riferimento ad una “invention (…) susceptible of industrial application”, e quella dell’art. 27 dell’Accordo TRIPS dove il richiamo è alle “inventions (...) capable of industrial application”. 242 ) La norma riguarda il materiale biologico attinente ad un essere vivente; l’art. 5 si riferisce invece, specificatamente, al materiale biologico di origine umana. 243 ) V. Di Cataldo, La brevettabilità, cit., p. 188. Si rimanda sull’argomento anche alle considerazioni già espresse nel Cap. II, par. 9. 106 6. Principio di proporzionalità fra esclusiva ed apporto inventivo: ratio della norma La legge italiana ed europea dispongono, in modo espresso, la nullità del brevetto qualora nella relativa domanda manchi o sia insufficiente la descrizione244. Il precetto ha un ruolo strategico245; il brevetto attribuisce all’inventore un monopolio temporaneo commisurato all’effettivo apporto fornito dall’insegnamento stesso246. 244 ) In tal senso artt. 76 c.p.i. e 138 CBE. Per G. Floridia, Le creazioni intellettuali a contenuto tecnologico, in Aa.V.v, Diritto industriale Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2012, p. 262, il requisito della descrizione sarebbe un vero è proprio requisito di validità del brevetto seppur non attinente alla struttura dell’invenzione bensì alla redazione del brevetto come documento e come titolo avente efficacia costitutiva della protezione. Per A. Vanzetti, V. Di Cataldo, op, cit., p. 340 sarebbe invece un elemento “necessario” del brevetto stesso. G. Guglielmetti, La brevettazione, cit., p. 99 osserva che un’invenzione è compiuta, ai fini della brevettazione, quando può essere descritta in maniera sufficientemente chiara da consentire a ogni persona esperta del ramo di attuarla con caratteri costanti. Per assicurarne la riproducibilità, è sufficiente che sia compresa, almeno a livello empirico, l’esistenza del rapporto causale tra i mezzi impiegati per la soluzione del problema ed il risultato ottenuto. 245 ) Non solo ai fini della validità del brevetto ma anche dell’interpretazione delle rivendicazioni (che vanno intese alla luce della descrizione) e dell’individuazione della data di priorità (che assiste l’estensione in altro paese nei limiti in cui il brevetto successivo già fosse adeguatamente descritto nella prima domanda): M. Ricolfi, op. cit., p. 5. 246 ) Il diritto esclusivo di utilizzare l’invenzione sorge con il rilascio del brevetto da parte dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi; dalla data del deposito della domanda, che funge anche da criterio di soluzione del conflitto tra più inventori, decorre il termine ventennale di efficace del brevetto (art. 60 c.p.i.). Ciascuna domanda deve avere ad oggetto una sola invenzione (principio dell’unità dell’invenzione), deve individuare l’invenzione, proporre per essa un titolo (che ha funzione prevalentemente classificatoria), articolare le rivendicazioni e fornire una descrizione dell’invenzione. Nell’invenzione di procedimento, l’invenzione si realizza tramite l’indicazione dell’obbiettivo del procedimento e delle sue caratteristiche fondamentali. Nell’invenzione di prodotto, l’individuazione dell’invenzione si realizza tenendo conto che l’invenzione non è il prodotto in sé bensì il prodotto rivolto ad un certo uso. Nel settore delle biotecnologie, la domanda volta a brevettare una sequenza genica deve indicare concretamente e rivendicare specificatamente le applicazioni industriale dell’invenzione stessa. Nell’invenzioni d’uso, tale requisito limiterà l’ambito di estensione del brevetto. Le rivendicazioni, segnalano invece i punti per i quali il richiedente intende acquisire il diritto di esclusiva e svolgono un ruolo essenziale in sede di interpretazione del brevetto poiché, appunto, permettono di conoscere la finalità dell’invenzione; esse sono strumento imprescindibile per il trattamento elettronico dei dati brevettuali, consentendo all’Ufficio (ove sia previsto un esame sostanziale delle domande) ed a qualunque interessato di acquisire una rapida informazione sul contenuto dei diritti di brevetto esistenti. La descrizione deve essere tale da permettere, ad una persona esperta del ramo, l’attuazione dell’invenzione (art. 51, comma 2, c.p.i.). Quando l’invenzione ha ad oggetto o utilizza materiale biologico contenente microrganismi o OGM la domanda necessita di una dichiarazione che garantisca l’avvenuto rispetto degli obblighi riguardanti tali modificazioni derivanti dalle normative nazionali o UE. Quando invece la domanda ha per oggetto o utilizza materiale biologico di origine umana deve essere obbligatoriamente corredata dalla dichiarazione di consenso espresso, libero ed informato della persona cui è stato estratto il materiale biologico. 107 L’inventore, in cambio della protezione temporanea attribuitagli dall’ordinamento, è tenuto a mettere a disposizione della collettività tutte le informazioni tecnologiche corrispondenti al nuovo insegnamento. A tanto egli è tenuto in vista di un duplice fine: arricchire, con la descrizione dell’invenzione, lo stato dell’arte già nell’immediato, a partire cioè dalla pubblicazione della domanda, e consentire, al successivo momento della scadenza della tutela, la libera riproduzione dell’invenzione nel frattempo caduta in pubblico dominio. In ordinamenti dove la libertà concorrenziale è la regola e l’esclusiva monopolistica è l’eccezione, il principio di proporzionalità mira ad evitare che i costi del monopolio possano eccedere quanto è strettamente indispensabile per conseguire i benefici connessi al brevetto stesso247; la normativa sulla sufficienza della descrizione mira, a sua volta, ad assicurare che la regola di proporzionalità sia rispettata248. Nel settore delle biotecnologie la descrizione può essere integrata da un deposito del materiale biologico cui l’invenzione si riferisce249. Quando l’intervento umano riguarda il vivente, la descrizione, seppur minuziosa, non garantisce che 247 ) I costi sono relativi sia ai beni protetti dal monopolio che a quelli della produzione dell’innovazione successiva. 248 ) Nella materia trattata, esistono delle differenze fra il diritto brevettuale statunitense e quello europeo; il primo impone che la descrizione sia tale da mettere una persona esperta del ramo nelle condizioni di attuare l’invenzione ed illustri il best mode di realizzazione e, quindi, la modalità più agevole ed efficiente. In Europa si richiede che l’invenzione sia “esposta nella domanda di brevetto europeo in modo sufficientemente chiaro e completo affinché un esperto del ramo possa attuarla” (art. 83 CBE; il lessico dell’art. 51 c.p.i. è quasi identico). L’art. 29(1) TRIPs ammette entrambi gli standards. Le disposizioni nordamericane, sono imperniate sul raccordo fra un precetto che mette l’accento sul risultato che deve essere conseguito, la messa a disposizione della nuova tecnologia all’esperto del ramo, ed un precetto di written description, che si appunta sul modo in cui i caratteri dell’invenzione sono comunicati ed è preordinato a mostrare tanto che il depositante abbia davvero conseguito l’invenzione (c.d. possession), quanto che ciascuna rivendicazione sia basata su di un apporto conoscitivo effettivamente fornito dal depositante. In Europa, la previsione dell’art. 83 CBE è omologabile al precetto americano della descrizione scritta; quella dell’art. 84 CBE, sancendo che le rivendicazioni devono “essere chiare e concise e fondarsi sulla descrizione” pare creare un assetto più smilzo di quello americano. 249 ) In Europa v. le Regole 28 e 28a del Regolamento di attuazione della CBE e per l’Italia l’art. 162 c.p.i. Il riconoscimento internazionale del deposito di microrganismi a fini brevettuali è previsto dal Trattato di Budapest firmato il 28 aprile 1977, ratificato dall’Italia con l. 14 ottobre 1985, n. 610, cui nel 2001 aderivano 44 Stati. Per approfondire la tematica sul consenso necessario alla raccolta ed alla conservazione di materiale biologico umano si rimanda a G. Resta, Do we own our bodies ? Il problema dell’utilizzazione del materiale biologico umano a scopi di ricerca e brevettazione, in Pòlemos, 2008, p. 115. 108 ripercorrendo le tappe dell’insegnamento brevettuale si produca il risultato desiderato; appare quindi logico prevedere che l’apporto innovativo dell’inventore possa, da questi, essere messo a disposizione della collettività. Al fine di prevenire il rischio che tale normativa incrini la regola della proporzionalità dell’apporto all’esclusiva250, la direttiva 98/44/CE prevede che in caso di deposito la descrizione sia ritenuta sufficiente solo se, sulle caratteristiche del materiale biologico depositato, la domanda fornisca tutte le informazioni rilevanti di cui dispone il depositante251. Quando la brevettazione riguarda materiale vivente, il compito di evitare un’eccedenza dell’ampiezza della protezione rispetto all’apporto effettivo dell’inventore è affidato ad un governo attento alle regole sulla descrizione. È necessario tener fermo, date le coordinate normative prescelte dai sistemi europei nella definizione del requisito di industrialità, il principio per cui l’oggetto su cui cade la descrizione non può essere solo il materiale biologico rivendicato ma anche la sua funzione. Poiché la protezione ha un’estensione assai diversa a seconda dell’ampiezza della classe di prodotti che essa abbraccia e, così, è assai più larga se si riferisca ad un 250 ) Ciò, in particolare, potrebbe avvenire se l’inventore approfittasse della possibilità offertagli di integrare la descrizione con un deposito per ridurre al minimo le informazioni scritte fornite con la descrizione vera e propria. 251 ) In tal senso l’art. 13 direttiva 98/44/CE. M. Ricolfi, op. cit., p. 5 osserva che si tratta di una soluzione timida ed insufficiente in quanto si sarebbe dovuto chiarire che la descrizione deve contenere tutte le informazioni relative, oltre che alle caratteristiche del materiale biologico, all’invenzione che ad esso si riferisce, che siano disponibili al depositante o, in altri termini, che il deposito può solo integrare ma non sostituire la descrizione. In questa direzione si muoveva l’Emendamento presentato dall’On. Bontempi con il n. 56 (in PE 150.463/Em. 56 Or. PAN) approvato come Emendamento 35 dal Parlamento europeo nelle sedute dell’8 aprile 1992 e 29 ottobre 1992 ma lasciato cadere nella successiva legislatura V. Relativamente alla sufficiente descrizione ed all’esatta individuazione della provenienza del materiale biologico C. Signorini, I diritti di proprietà industriale in materia di biotecnologie e la tutela della biodiversità, in G. Ghidini, G. Cavani (a cura di), Brevetti e Biotecnologie, Roma, 2008, p. 206, osserva che l’art. 13 della citata Direttiva non consente di collegare direttamente la mancata indicazione della provenienza del materiale genetico all’insufficienza della descrizione. Il considerando 27 prevede infatti che la domanda di brevetto deve contenere indicazioni sul luogo geografico di origine del materiale genetico e che la mancanza di tale indicazione non pregiudica il rilascio del brevetto in quanto non incide sull’esame delle domande e sulla validità dei diritti. Nonostante ciò, conclude l’Autrice, si deve evitare una interpretazione della disciplina della proprietà industriale che risulti di ostacolo alla diffusione di tecnologie idonee ad uno sviluppo sostenibile. Una completa spiegazione delle modalità poste in essere dal tecnico per attuare l’innovazione dovrebbe, quindi, anche prevedere un’adeguata informazione sulle caratteristiche del materiale e sulla sua provenienza. 109 genus di beni anziché ad una species, si tratta di sottoporre a riesame la regola, che può aver giustificazione nel campo meccanico ma necessita una verifica più attenta quando sia trasposta nel campo della materia vivente, in forza della quale può bastare la descrizione di un solo esempio di realizzazione per ottenere una tutela estesa a tutta la classe rivendicata252. 252 ) Sul punto esiste una previsione specifica del Regolamento di attuazione della CBE, la Regola 27(1)(e), su cui la Direttiva europea 98/44/CE non pare aver influito direttamente. Effettivamente la prassi europea tende talora ad accontentarsi di un solo esempio di realizzazione per concedere poi rivendicazioni estese a tutta la classe (così ad es. la decisione della Commissione tecnica di ricorso dell’UEB del 3 ottobre 1990, caso "Onco-mouse/Harvard", secondo cui potrebbe, salvo prova contraria, essere sufficiente la descrizione di un solo esempio di realizzazione, riferito ai topi, anche se la rivendicazione sia più ampia e riferita a tutti i mammiferi non umani). Tra le sentenze nazionali, si segnala quella resa dalla House of Lords nel caso del 1996 Biogen Inc. v. Medeva PLC.; ivi si distingue fra il caso in cui l’invenzione abbia per oggetto un principio generale e quello in cui essa concerna realizzazioni specifiche prima di valutare quante esemplificazioni siano necessarie per soddisfare il precetto che impone che le rivendicazioni siano supportate dalla descrizione. M. Ricolfi, op. cit., p. 5 osserva che l’approccio seguito in Biogen Inc. v. Medeva PLC, è preferibile perché presenta un duplice vantaggio. Esso infatti consente di evitare tanto il rischio di concedere un monopolio brevettuale esteso ad intere classi quando l’apporto dell’inventore sia invece limitato ad una singola realizzazione (in cui incorre la prassi dell’UEB, che troppo spesso trascura che la biotecnologia, diversamente dalla meccanica, è “arte imprevedibile” in senso brevettuale), quanto il rischio, opposto e simmetrico, di imporre all’inventore l’onere di investire risorse ingenti per attività di routine di verifica di laboratorio concernenti l’eseguibilità dell’invenzione anche per modalità di realizzazione non molto diverse da quelle da cui sia nato il principio generale inventivo. 110 Capitolo IV Il fenomeno della privatizzazione della conoscenza nel settore della ricerca e dello sviluppo: criticità e rimedi posti a tutela delle istanze sociali e del mercato 111 1. Il ruolo della conoscenza nell’attuale sistema economico. Il capitalismo c.d. cognitivo Ai profondi mutamenti verificatesi nell’ambito della tutela brevettuale corrispondono altrettanti, importanti, cambiamenti del sistema economico; i mezzi di produzione tradizionali (beni fisici, mobili ed immobili) hanno perso la funzione cruciale che svolgevano fino a pochi lustri fa ed, in un’economia knowledge-based come l’attuale, l’informazione è divenuta il bene di maggior valore253. Il lavoro, la proprietà e le forze produttive tradizionali, tipiche di una società industriale figlia delle macchine e del capitale fisico, non sono più considerate fattore di crescita dell’economia e della ricchezza; ad esse si è sostituita la conoscenza che, attualmente, rappresenta il principale fattore di competitività delle imprese254. Gli studi economici e le rilevazioni statistiche confermano come i dati di crescita e di produttività dei diversi sistemi nazionali dipendano non tanto dalla 253 ) M. Granieri, Evoluzione del diritto statunitense sulla tutela brevettuale e profili di contrasto con le dinamiche concorrenziali, in Giur. Comm., 2003, p. 29. 254 ) M. Vona, Management delle biotecnologie. Competizione, innovazione e sviluppo imprenditoriale, Milano, 2008, p. 80. G. Sena, Beni materiali, beni immateriali e prodotti industriali: il complesso intreccio delle diverse proprietà, in Riv. dir. ind., 2004, p. 55 scrive: “… tutti gli oggetti prodotti dall’uomo sono composti da elementi immateriali e da elementi materiali. Tutti i manufatti, ed in particolare i prodotti industriali ai quali più specificamente mi riferisco, consistono nella realizzazione, con mezzi materiali ed in oggetti materiali, di conoscenze, esperienze, tecniche acquisite nel tempo, o di nuove invenzioni, modelli, know how, opere dell’ingegno insomma, frutti di ricerche attuali. La disciplina della produzione industriale e la attribuzione dei suoi prodotti all’imprenditore, presuppone dunque regole giuridiche circa la disponibilità, tanto dei fattori materiali (strumenti e materia), quanto delle conoscenze immateriali; la proprietà dell’oggetto prodotto, sintesi delle due componenti, richiede insomma la proprietà-disponibilità dei fattori materiali della produzione e la proprietà-disponibilità dei beni immateriali che sono alla base della sua realizzazione; beni diversi, che sono attribuiti e circolano autonomamente secondo regole proprie. Avviene tuttavia che la rilevanza delle due componenti sia assai diversa nella produzione dei diversi manufatti. Quando le tecniche ed i modelli utilizzati sono tradizionali, largamente diffusi, non più rivendicati o rivendicabili da alcuno, caduti, come si dice, in pubblico dominio, l’aspetto immateriale è trascurato e si ha l’impressione che l’oggetto della produzione sia un bene esclusivamente materiale; il che non è, né da un punto di vista per così dire di fatto, poiché anche le conoscenze diffuse sono pur sempre elementi essenziali e spesso preziosissimi della produzione, né da un punto di vista giuridico, poiché anche la regola del dominio pubblico è pur sempre una regola giuridica che disciplina la disponibilità dei beni immateriali, ancorché negativa di un diritto esclusivo. Quando invece il carattere innovativo del prodotto è preminente ed i costi affrontati nella ricerca e sviluppo sono di gran lunga superiori al valore della materia impiegata nella produzione, come avviene nei settori tecnologicamente più avanzati, l’aspetto immateriale diviene del tutto prevalente e si pone al centro della problematica giuridica. L’evoluzione economica è certamente in questo senso e negli ultimi decenni il prodotto delle società industrializzate è diventato sempre più immateriale”. 112 disponibilità di capitali e materie prime quanto dagli investimenti effettuati in risorse intangibili (istruzione, formazione, management, software, R&S, ecc.)255. La conoscenza è una risorsa fondamentale per il sistema economico sia in veste di output destinato al consumo (es. istruzione, intrattenimento, ecc.) sia come input strumentale alla produzione di ulteriore, nuova, conoscenza (c.d. cumulatività della risorsa); proprio per la centralità che quest’ultima ha assunto nell’attuale processo produttivo, si parla, non a caso, di “economia della conoscenza”256. Il capitalismo industriale è stato, a sua volta, progressivamente rielaborato come capitalismo cognitivo nel quale la capacità di produrre informazioni è condizione 255 ) Si veda, in tal senso, OCSE, Scienza, Tecnologia, Industria nella zona OCSE: Quadro di valutazione, Edizione 2007, disponibile sul sito http://www.oecd.org/dataoecd/63/13/39527059.pdf; ivi si legge che gli investimenti in conoscenza, base dell’innovazione e del progresso tecnologico, continuano a crescere nella maggior parte dei paesi oggetto dell’indagine. 256 ) Già in passato, oramai quasi due secoli fa, Adam Smith, nella sua opera “La ricchezza delle nazioni” spiegava l’aumento del reddito con l’apprendimento di nuove conoscenze che si accompagnava alla crescente divisione del lavoro; quasi un secolo dopo, un altro illustre economista, Marshall, nei suoi “Principi di economia” attribuiva alla conoscenza il ruolo di motore della produzione. Soltanto a partire dai primi anni sessanta si è però cominciato a parlare di vera e propria “economia della conoscenza”. Sebbene venga odiernamente impiegata per comprendere certi comportamenti, certi vantaggi competitivi, certe gerarchie, la dottrina economica non sembra disporre di una teoria della conoscenza vera e propria che spieghi come, quando e perché essa viene prodotta, scambiata ed utilizzata nel circuito economico. Si rimanda ad una variabile esplicativa, la conoscenza appunto, che non viene però definita, ma solo assunta in base ad ipotesi arbitrarie più o meno credibili. La mancanza di una teoria della conoscenza trova la sua giustificazione anche nella mancanza di accordo sul significato da attribuirgli all’interno del mondo accademico: da molti anni, infatti, gli studiosi tentano di definire dei criteri che permettano di distinguere in maniera univoca i concetti di informazione, apprendimento, conoscenza, senza essere riusciti, però, a raggiungere risultati unanimamente apprezzati: V. Zeno Zencovich, G. Battista Sandicchi, L’Economia della conoscenza ed i suoi riflessi giuridici, in Dir. dell’Informazione e dell’Informatica, 2002, p. 971. Gli Autori illustrano il dibattito tenutosi sul tema e, tra le tanti tesi sostenute, riportano quella c.d. endogena. Questa interpreta la conoscenza come network ovvero come il prodotto della correlazione di soggetti economici che si trasmettono le proprie competenze. Tale teoria, in sostanza, porta avanti un approccio di tipo sistemico: la conoscenza è, cioè, il risultato dei processi d’interazione nel sistema economico. La designazione come teoria endogena discende dall’integrazione della conoscenza nella funzione aggregata della produzione: essa diventa un terzo fattore produttivo, accanto a capitale e lavoro. Viene, in sostanza, integrata nella teoria endogena come un fattore indispensabile per garantire la crescita nel lungo termine. I processi cognitivi e organizzativi che promuovono la formazione della conoscenza tecnologica vengono descritti come un fenomeno essenzialmente economico. La conoscenza, non soltanto modifica il tasso di sostituzione marginale tra lavoro e capitale, ma introduce un elemento di entropia persistente nel sistema economico, a causa della difficoltà che il ripristino di condizioni di equilibrio nell’allocazione delle risorse comporta. Addirittura, secondo tale teoria, nel lungo termine i rendimenti crescenti indotti dalla conoscenza consentono al sistema economico di crescere in modo indefinito. Un simile contesto economico viene indicato con il nome di economia della conoscenza. 113 indispensabile per l’agente economico257; quest’ultimo è chiamato a generare valore non tanto attraverso una trasformazione delle condizioni materiali dell’esistenza quanto, piuttosto, attraverso il trasferimento di informazioni, pensieri, emozioni, identità nelle dinamiche produttive ed innovative258. 257 ) D. Lebert-C. Vercellone, Il ruolo della conoscenza nella dinamica capitalistica di lungo periodo: l’ipotesi del capitalismo cognitivo, in C. Vercellone (a cura di), Capitalismo cognitivo, Roma, 2006, p. 22, ove si sottolinea come l’espressione “capitalismo cognitivo” consenta di “focalizzare l’attenzione sul rapporto dialettico tra i due termini che lo compongono: il termine capitalismo designa la permanenza, pur nella loro metamorfosi, delle variabili fondamentali del sistema capitalistico: in particolare, il ruolo guida del profitto e del rapporto salariale o più precisamente le differenti forme di lavoro dipendente dalle quali viene estratto il plusvalore; l’attributo cognitivo mette in evidenzia la nuova natura del lavoro, delle fonti di valorizzazione e della struttura di proprietà sulle quali si fonda il processo di accumulazione e le contraddizioni che questa mutazione genera”. 258 ) Cfr. V. Zeno Zencovich, F. Mezzanotte, Le reti della conoscenza: dall’economia al diritto, in Dir. dell’Informazione e dell’Informatica, 2008, p. 141, i quali osservano che si potrebbe essere tentati di circoscrivere il campo applicativo dell’economia della conoscenza a quei settori imprenditoriali che, in termini generici, vengono ricompresi nella nozione di new economy, la quale, a sua volta, rimanda alle attività ed agli investimenti basati sulle nuove tecnologie informatiche e telematiche gestibili, in particolar modo, sulla rete Internet. Così facendo, si corre il rischio, affermano gli Autori, di non tenere nella dovuta considerazione tutti quei settori produttivi che, seppur non caratterizzati da una spiccata legittimazione scientifica e dalla codificazione disciplinare del sapere (aree c.d. high-tech e knowledge intensive), si fondano comunque sul capitale cognitivo, sulla capacità, cioè, di sfruttare e di rielaborare le conoscenze proprie della realtà in cui ciascun agente economico si trova ad operare. In altri termini, quando si parla di economia della conoscenza non ci si può limitare ad esaminare quei settori ad alta densità cognitiva che, attraverso la ricerca di nuove nozioni codificabili (formule, processi, fattori tecnologici, ecc.), guidano l’avanzamento della frontiera tecnologica; il carattere cognitivo del sistema economico emerge, infatti, anche in tutte quelle attività che si alimentano dei saperi, prevalentemente di natura implicita, propri dell’ambiente in cui sono svolte, e che, seppur già a disposizione degli agenti, richiedono una costante attività di rielaborazione all’interno dei diversi contesti organizzativi e produttivi al fine di un sempre più efficiente sfruttamento. Se si ammette, infatti, che il tratto caratterizzante della knowledge-based economy risiede nella possibilità di generare valore economico attraverso l’uso della conoscenza, si perviene al riconoscimento dell’insussistenza di una netta discontinuità tra le attività fondate sulla ricerca di nuove forme di conoscenza e quelle che trovano i propri vantaggi competitivi nella capacità imprenditoriale di sfruttare forme di sapere già diffuse nell’ambiente economico e produttivo. 114 In questo contesto, si colloca, e trova giustificazione, la generalizzata tendenza ad abbassare la soglia della brevettabilità259; il diritto di esclusiva conferito all’innovatore permette la moltiplicazione degli investimenti e delle relazioni giuridiche aventi ad oggetto la conoscenza e ne assicura lo scambio al prezzo determinato ex ante dal detentore. Quest’ultimo ha la possibilità di internalizzare i benefici derivanti dalla propria attività innovativa. Agli indubbi benefici connessi al sistema dei c.d. intellectual property rights si affiancano tuttavia rilevanti svantaggi che sembrano precludere il raggiungimento di soluzioni pienamente efficienti260. 2. Riflessioni sulla conoscenza come merce: criticità del processo di privatizzazione del sapere. L’ampliamento dei diritti di privativa ha notevolmente assottigliato i confini tra il pubblico ed il privato nella circolazione e nella produzione della conoscenza, con una chiara tendenza al rafforzamento del privato a danno del pubblico261. 259 ) G. Ghidini, Prospettive “protezionistiche” nel diritto industriale, in Riv.. dir. ind., 1995, p. 73, osserva che questa tendenza si manifesta sul piano dell’accesso ai, e della portata stessa dei, diritti esclusivi. In riferimento alle condizioni di brevettabilità, e più specificamente a quelle che esprimono (seppur in misura articolata da settore a settore) il grado di selettività dell’accesso all’esclusiva, si è assistito, quanto al “carattere inventivo”, alla decisa svalutazione del criterio del c.d. progresso tecnico (ridotto, al più, a indizio di novità) a favore di quello, assai meno oggettivo, della “non ovvietà per un tecnico medio”. Un criterio che, più del primo, si presta tendenzialmente (specie se la figura professionale di riferimento sia quella di un tecnico “meramente esecutivo”) ad attenuare il rigore dell’indagine sino, forse, a prefigurare il sostanziale assorbimento del requisito in parola in quello della novità in senso estrinseco. Una considerazione, quest’ultima, che appare avvalorata dalla genesi della norma-madre della CBE (art. 10), dalla quale, osserva l’Autore, si volle espressamente espungere ogni riferimento al “valore” dell’invenzione. Si aggiunga, sul distinto piano della verifica della c.d. novità estrinseca, che tale tradizionale, ulteriore ed autonomo, presupposto di brevettabilità sembra ormai pressoché assorbito dalla valutazione circa la (mera) predivulgazione del trovato. Si rimanda sul punto anche alle considerazioni espresse nel Capitolo III, par. 1 e 2. 260 ) In tal senso Z. Zeno Zencovich, F. Mezzanotte, Le reti della conoscenza, cit., p. 141. In termini di analisi economica, il sistema dei diritti di proprietà intellettuale rappresenta il modo di introdurre nel sistema economico una scarsità “artificiale” di un bene non rivale e non escludibile, qual è, appunto, la conoscenza. 115 Il fenomeno della continua espansione dei diritti esclusivi a fronte della riduzione degli spazi di libero accesso alle risorse immateriali262, denominato dai giuristi 261 ) Un bene è pubblico quando presenta due caratteristiche strettamente correlate: a) non rivalità: il consumo di un bene pubblico da parte di una persona non ne impedisce il consumo da parte di un’altra (non ne diminuisce l’ammontare disponibile per ogni altro consumatore); b) non escludibilità: i costi di esclusione dei beneficiari non paganti che consumano un bene pubblico sono talmente alti che nessuna impresa privata, che massimizzi i profitti, desidera offrirlo. Se si rivolge l’attenzione al bene conoscenza, si può osservare come da tempo ne siano state evidenziate con chiarezza alcune particolarità che la rendono, in sostanza, un bene “pubblico” nel senso precedentemente chiarito. Gli aspetti essenziali che caratterizzano la conoscenza sono tre: incontrollabilità, non-rivalità e cumulatività. La conoscenza è un bene che può essere utilizzato anche da chi non abbia partecipato alla sua creazione; in altre parole, si tratta di un bene “fluido e trasportabile”, che è difficile rendere esclusivo e controllare privatamente. La conoscenza è tipicamente un bene non esauribile e che, per di più, aumenta al crescere della sua utilizzazione. Nel campo scientifico e tecnologico, la conoscenza rappresenta un processo cumulativo e progressivo. In un certo senso, infatti, la conoscenza non è soltanto il risultato dell’attività di ricerca e sviluppo (R&S), ed in genere di ogni attività rivolta all’innovazione, ma ne è anche fattore produttivo essenziale. In sostanza, la conoscenza acquisita svolge un ruolo essenziale per la creazione di ulteriore nuova conoscenza. La conoscenza come “bene” si colloca facilmente nel contesto di strategie di intervento pubblico sotto un duplice profilo: lo Stato dispone di vastissime quantità di informazioni e di conoscenze (si pensi ai dati statistici, agli archivi storici, ai registri pubblici) e dunque deve individuare le regole in base alle quali utilizzare, comunicare, cedere questi dati e queste conoscenze. In secondo luogo, lo Stato moderno ha come tipica missione quella di assicurare la conoscenza e l’informazione ai propri cittadini partendo dalle scuole per arrivare all’università: V. Zeno Zencovich, G. Battista Sandicchi, L’Economia, cit., p. 971, cui si rimanda per approfondire la tematica ed, in generale, le linee politiche in materia di conoscenza come bene. 262 ) Molti degli interventi comunitari promossi negli anni Novanta sono ispirati a garantire un “elevato livello di protezione” della proprietà intellettuale all’interno di un quadro giuridico armonizzato. Nel Considerando n. 10 della direttiva 2004/48/CE sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale si legge: “L’obiettivo della presente direttiva è di ravvicinare queste legislazioni al fine di assicurare un livello elevato, equivalente ed omogeneo di protezione della proprietà intellettuale nel mercato interno”. Il Considerando n. 4 della direttiva 2001/29/CE sull’armonizzazione del diritto d’autore nella società dell’informazione recita: “Un quadro giuridico armonizzato in materia di diritto d’autore e di diritti connessi, creando una maggiore certezza del diritto e prevedendo un elevato livello di protezione della proprietà intellettuale, promuoverà notevoli investimenti in attività creatrici ed innovatrici, segnatamente nelle infrastrutture delle reti, e di conseguenza una crescita e una maggiore competitività dell’industria europea per quanto riguarda sia la fornitura di contenuti che le tecnologie dell’informazione nonché, più in generale, numerosi settori industriali e culturali. Ciò salvaguarderà l’occupazione e favorirà la creazione di nuovi posti di lavoro”. Nel Considerando 9 della direttiva 2001/29/CE appena citata si legge ancora:“Ogni armonizzazione del diritto d’autore e dei diritti connessi dovrebbe prendere le mosse da un alto livello di protezione, dal momento che tali diritti sono essenziali per la creazione intellettuale. La loro protezione contribuisce alla salvaguardia e allo sviluppo della creatività nell’interesse di autori, interpreti o esecutori, produttori e consumatori, nonché della cultura, dell’industria e del pubblico in generale. Si è pertanto riconosciuto che la proprietà intellettuale costituisce parte integrante del diritto di proprietà”. Il Libro Verde del 2008 sul diritto d’autore nell’economia della conoscenza e la Comunicazione al Consiglio, al Parlamento ed al Comitato Economico e Sociale del Settembre del 2009 recano il titolo “Migliorare la tutela dei diritti di proprietà intellettuale nel mercato interno”. Tale politica è stata giustificata sulla base del paradigma utilitaristico secondo cui il rafforzamento delle esclusive è uno strumento di crescita economica ed occupazionale. L’art. 17, 2° comma, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea dispone infine che “la proprietà intellettuale è protetta”. 116 enclosure263, si manifesta, in particolare, nell’ambito della conoscenza pura, piuttosto che applicata, tradizionalmente prodotta per la fruizione collettiva ed oggi investita da un processo di commodification crescente, emblematicamente inaugurato dal Bay Dohle Act e da altri atti normativi volti ad incrementare l’accesso al brevetto da parte delle istituzioni universitarie pubbliche ed il trasferimento di tecnologie ai privati264. Per effetto di delibate scelte istituzionali si introducono nuovi property rights anche in relazione a beni in precedenza soggetti ad un regime di libero accesso o sottratti alla circolazione onerosa. Tutto ciò è riconducibile ad un processo di legittimazione culturale incentrato sull’idea della conoscenza come merce265. 263 ) G. Resta, La privatizzazione della conoscenza e la promessa dei beni comuni: riflessioni sul caso Myriad Genetics, in Riv. crit. dir. priv., 2011, p. 282. 264 ) R. Caso (a cura di), Ricerca scientifica pubblica, trasferimento tecnologico e proprietà intellettuale, Bologna, 2005. Per approfondimenti sul Bay Dohle Act vedi infra Capitolo V, par. 2. 265 ) G. Resta, La privatizzazione della conoscenza, cit., p. 282, osserva che, odiernamente, la conoscenza non rappresenta soltanto uno dei principali fattori della produzione, ma tende ad essere attratta, in maniera sempre più irreversibile, nella sfera delle merci; vi sono casi in cui la conoscenza non viene prodotta per la vendita, o non viene prodotta affatto, in quanto essa già esiste in natura prima di acquisire uno specifico valore di scambio. In queste ipotesi, l’applicazione di un regime giuridico proprietario, preordinato alla commercializzazione ed allo scambio mercantile, legittima la riconduzione di tali entità al novero delle merci fittizie. Se si analizzano con attenzione i processi istituzionali in atto, si vedrà come il loro effetto principale è quello di ritagliare porzioni sempre più ampie del parco collettivo di conoscenza ed assoggettarle alla logica dell’appropriazione esclusiva e dello sfruttamento di mercato. L’Autore si chiede se tale mutamento istituzionale costituisca una risposta razionale all’evoluzione del contesto sociale o tecnologico oppure rappresenti uno dei tanti esempi di cattura del regolatore da parte dei pochi, ed influenti, attori economici in grado di imporsi sul mercato della legislazione nazionale, comunitaria ed internazionale. M. Granieri, op. cit., p. 29 ritiene che si cerca di far somigliare l’informazione ad un bene in senso tradizionale, mentre i diritti di proprietà intellettuale vengono associati al diritto di proprietà nella sua formulazione più assoluta e piena. Il tentativo di far coincidere il diritto di proprietà con gli effetti esterni dell’informazione avviene, a sua volta, in due sensi: verticale ed orizzontale. Espansione in senso verticale dei diritti di proprietà intellettuale, significa che la volontà di catturare le esternalità positive dell’informazione si traduce nella dilatazione delle maglie e dei presupposti di proteggibilità delle opere dell’ingegno e dell’intelletto. Espressione di questa tendenza è, per esempio, la progressiva dilatazione dell’area di brevettabilità, che determina una spinta verso il basso ed un progressivo assoggettamento alla logica proprietaria di aree di conoscenza pura, piuttosto che alla sua dimensione applicativa. La brevettazione dell’idea, più che dell’invenzione, è in parte effetto voluto di questa tendenza, in parte causa indesiderata, poiché il crescente numero di richieste di brevetto, in ciò accresciuto dalla tendenza in parola, rende la qualità del lavoro degli esaminatori piuttosto bassa; molti junk patents sono il frutto di superficiali controlli circa lo stato dell’arte e il concreto ricorrere dei presupposti di brevettabilità. Espansione in senso orizzontale significa invece che le forme esistenti di protezione vengono dilatate, fino allo snaturamento, con l’obiettivo di ricomprendere informazioni per l’innanzi trascurate o che abbiano assunto, successivamente, importanza ai fini dello sfruttamento industriale o commerciale. 117 Discutendo delle fondamenta concettuali di tali politiche, è stata sottolineata la centralità dell’idea relativa alla naturale inefficienza dei regimi di libero accesso all’informazione e del conseguente ricorso al sistema dei diritti esclusivi, limitati nel tempo, come imprescindibile meccanismo di stimolo all’innovazione266. Detta teoria poggia, da un lato, sui postulati dell’analisi economica dell’informazione e, dall’altro, sulle tesi di stampo hayekiano circa la superiorità dei regimi di proprietà privata rispetto alle varie forme di regolamentazione pubblica267. Il punto di intersezione tra i due modelli teorici è rappresentato dal paradigma della tragedia dei commons268; mentre nel campo dei beni materiali tale tragedia s’identificherebbe con l’eccessivo sfruttamento delle riserve da cui scaturirebbe la loro completa consumazione, nell’area dell’immateriale, dati i caratteri di non escludibilità e non rivalità nel consumo dell’informazione, da essa deriverebbe un’insufficiente produzione di beni269. E’ stato obiettato che al problema della produzione di un livello sub-ottimale d’informazione potrebbe porsi rimedio impiegando strategie istituzionali diverse da quelle della costituzione di diritti di monopolio (attraverso, ad esempio, il sistema dei premi, dei sussidi, della ricerca finanziata tramite fondi pubblici, ecc.)270; di contro, è stato osservato che, proprio per contrastare tali obiezioni, si attinge alla 266 ) Per una descrizione dei modelli teorici di riferimento P. Mennell – S. Scotchmer, Intellectual Property, in A. Mitchell Polinksy – S. Shavell, Handbook of Law & Economics, II, Amsterdam, 2007, p. 1475. 267 ) Per ulteriori approfondimenti delle tesi citate nel testo si rimanda a G. Resta, La privatizzazione della conoscenza, cit., p. 285. 268 ) Il termine è stato coniato G. Hardin nel suo saggio The Tragedy of the Commons, in Science, 1968, p. 1243, nel quale il biologo americano dimostra l’ineluttabile depauperamento delle risorse comuni derivante dal loro sovra-utilizzo attraverso un esperimento mentale in cui alcuni allevatori hanno libero accesso ad un pascolo pubblico. 269 ) La possibilità di accedere liberamente all’attività di ricerca può determinare un inefficiente sovrautilizzo della stessa. Questo rilievo, applicato alla ricerca cognitiva, può tradursi in eccessivi investimenti in alcuni, particolari, settori da parte di operatori desiderosi di prevalere nella gara per il brevetto, o può dar vita a duplicazioni di attività sperimentali precludendo lo sviluppo di piani di indagine coordinati e complementari. 270 ) In tal senso G. Resta, op. cit., p. 285 il quale osserva che la letteratura gius-economica ha esaminato altre diverse possibili soluzioni attraverso le quali risolvere la “tragedia” della ricerca in campi comuni. Tra queste, quella fondata su una preliminare gara d’asta attraverso la quale allocare il diritto esclusivo allo svolgimento delle ricerche in particolari settori; la regolazione e l’intervento statale nella ricerca; la creazione ed il sostegno assicurato a joint ventures di ricerca tra i soggetti coinvolti. 118 teoria classica dei property rights la quale, decantando le virtù della decentralizzazione, conclude nel senso della superiorità di un regime di stimolo all’innovazione incentrato sull’iniziativa privata rispetto ai meccanismi di programmazione centralizzata e di regolamentazione pubblica271. 271 ) P. Mennell – S. Scotchmer, Intellectual Property, cit. p. 1475, G. Ghidini, Prospettive protezionistiche, cit., p. 74, osserva, sull’argomento, che: “Solo in piccola parte, anzi minore, la descritta multiforme tendenza “espansiva” può essere semplicemente ricondotta ad una generica istanza di tutela di produttori e investitori rispetto al fisiologico ampliarsi degli orizzonti tecnologici e finanziari e concorrenziali - connessi all’attività di ricerca e innovazione …… Più specificamente, invero, quella tendenza si è molto probabilmente determinata anche per ragioni di concorrenza internazionale, e segnatamente fra Paesi industriali e PVS. Come è stato ben osservato, l’accresciuta capacità competitiva di questi ultimi nelle produzioni c.d. mature ha accresciuto l’interesse dei paesi industrialmente avanzati a competere con prodotti incorporanti tecnologie innovative. Non a caso, quella tendenza (il cui consolidamento «could disproportionately harm the developing countries who are struggling to overcome technological lag») è stata duramente propugnata dai primi e duramente osteggiata dai secondi - con un «clamore diplomatico» affatto inusitato per le controversie in tema di proprietà intellettuale - nelle sedi negoziali internazionali, in particolare in ambito GATT (Uruguay Round): le previsioni del quale in materia, contenute nel ricordato TRIPS Agreement, accolgono ed anzi talora estendono, di detta tendenza, i profili qualificanti. Ma neppure una spiegazione di questo tipo può essere esauriente. Anche a mio avviso, ci si avvicina alla ragione più profonda della tendenza protezionistica descritta, se si pone mente al fatto, già più volte richiamato, che detta tendenza si è manifestata e si manifesta con particolare intensità (non in modo indifferenziato, bensì) nei - e «partendo» dai - settori di punta dell’industria contemporanea: quelli, in particolare legati all’informatica - c.d. information technologies - come pure alla biotecnologia (in un prossimo futuro, è dato facilmente di prevedere, nel novero delle nuove «industrie protette», sotto il profilo - anche delle regole di proprietà industriale, entrerà quello della ricerca spaziale). E se si pone mente, altresì - quanto al piano del commercio - al fatto che detta tendenza si è manifestata con particolare evidenza in riferimento al valore pubblicitario dei marchi d’impresa. Orbene - quanto ai profili dell’innovazione tecnologica - ci si può chiedere: perché proprio in (anzi: partendo da) quei settori? Cominciamo con l’osservare che si tratta di quelli a più alta intensità insieme di investimenti e (processi di) concentrazione, addirittura su scala planetaria. Ed è intuitivo - e specificamente comprovato dalla netta differenza di «tasso protezionistico» rilevabile, rispettivamente, nella normativa sui programmi per elaboratori e in quella sulle topografie dei semiconduttori - che quanto più la struttura tipica di un settore industriale sia fortemente concentrata, tanto più protezionistica è la richiesta che questo settore esprime - ed eventualmente «impone» al legislatore - (anche) rispetto ai risultati della ricerca-innovazione che esso produce. Laddove un ambiente industriale più diffusamente concorrenziale esprime una maggior preoccupazione di salvaguardia, appunto, di tale sua fisionomia, e manifesta quindi maggiori resistenze rispetto a una protezione che favorisca eccessivamente i first comers. Ma anche siffatto ordine di ragioni, pur rilevante, non coglie il cuore del problema. La ragione più profonda della tendenza protezionistica in atto - e del suo legame genetico con le «nuove» tecnologie - va ricercata nel fatto che particolarmente in quei settori, a fronte della crescente e spesso smisurata grandezza degli investimenti richiesti, il modo caratteristico di sviluppo dell’innovazione - e il tipo stesso dei risultati da proteggere - si discostano più nettamente da quelli di riferimento del modello classico. Proprio in quei settori, invero, l’innovazione oggi prodotta, ad altissimi costi, è tipicamente il frutto del lavoro di complesse, superspecializzate équipes che, con piccoli passi progressivi di un continuo processo di sperimentazione, producono per lo più un tipo di innovazione «marginale» - o meglio incrementale, come la definisce Reichman - piuttosto che uno propriamente «differenziale», espressione di un vero e proprio stacco rispetto alle tecniche note. Producono dunque, molto spesso, piuttosto che quel tipo di innovazione che il modello classico, 119 in funzione di stimolo del progresso tecnico, destinava alla protezione brevettuale, quell’altro tipo di innovazione, per l’appunto incrementale, cui quel medesimo modello assegna(va) un posto per così dire di seconda fila, quale «conoscenza nuova ma non di carattere inventivo ... suscettibile di utilizzazione industriale», di conseguenza qualificandolo come (un tipo di) know-how: (qui) inteso appunto come innovazione «secondaria» non proteggibile in assoluto, bensì solo contro metodi scorretti di appropriazione, come l’abuso di segreti. Ebbene, come si diceva, è tipicamente in questa innovazione incrementale che si esprimono oggi i (costosissimi) frutti della ricerca-innovazione nei settori avanzati: frutti, molto spesso, di serie B secondo il modello classico, ma di serie A quanto a potenziale rilievo commerciale ed (attuale) intensità di investimenti richiesti. (Analogo problema, accennavo poc’anzi, si porrà a breve per la ricerca-innovazione condotta nello spazio, dove la considerazione dell’enorme rilievo commerciale di prodotti e materiali realizzati in assenza di gravità, e dell’altrettanto enorme mole degli investimenti richiesti, si scontrerà, quanto ai profili brevettuali, con la frequente se non immanente difficoltà di ammettere - secondo i canoni classici - il carattere inventivo di risultati nuovi in senso estrinseco ma frutto, essenzialmente, delle condizioni ambientali di sperimentazione e produzione). Ora, ben si comprende come finanziatori e imprenditori non possano accontentarsi, a fronte di ingenti investimenti (e dei gravi rischi connessi: specie in una situazione, ricordiamo, di aspra concorrenza oligopolistica su scala mondiale, tipica dei mercati delle tecnologie di punta cui ci riferiamo) di una protezione di serie B, che per carenza di assolutezza non garantisca agli innovatori, rispetto ai potenziali imitatori, un vantaggio competitivo idoneo a remunerare gli investimenti. Da queste ragioni, e proprio rispetto a questo tipo di ricercainnovazione si manifesta (con un inevitabile, e storicamente risaputo, effetto trainante di portata generale) lo specifico bisogno di protezione non soddisfatto (donde, soprattutto, la multiforme tendenza «protezionista» che abbiamo delineato) dagli strumenti tradizionali, e tradizionalmente «usati», della c.d. proprietà industriale. Di più. Quello specifico bisogno di protezione si fa tanto più stringente in relazione a quelle information technologies, che caratterizzano la società industriale contemporanea, e rispetto alle quali il tempo tecnico di riproducibilità dell’innovazione da parte dei terzi è particolarmente breve, tale innovazione essendo «scritta sulla superficie» dei prodotti (analogamente a quanto avviene, mutatis mutandis, per le innovazioni funzionali incorporate nei prodotti del design). Acquistati questi ultimi, i concorrenti possono con facilità e quasi immediatamente impadronirsi degli insegnamenti elaborati dall’ìnnovatore. Un programma per computers, ad esempio, è facilmente analizzabile da un esperto di settore che, con un procedimento di decompilazione (reverse engineering), potrà ricostruire le idee, l’impostazione, le sentenze ecc., racchiuse nel programma, e così mettersi in grado di riprodurre in brevissimo tempo, e a costi bassissimi, per un prodotto concorrente, gli insegnamenti e le funzioni del programma stesso. Viene quindi a ridursi pressoché a zero l’einaudiano «profitto della novità», ossia quel tempo tecnico di vantaggio (lead time) di cui può godere l’innovatore rispetto alla comparsa degli imitatori. Da (l’insieme di) questi motivi, dunque, scaturisce pressoché inevitabilmente la specifica pressione degli ambienti professionali (comprovata «autenticamente» dalla ricordata tipica impronta protezionistica di significative espressioni dell’autodisciplina, nonché della prassi contrattuale) vuoi ad adattare, nella direzione e nei modi descritti, gli istituti classici della proprietà industriale, vuoi a surrogare il copyright al brevetto per la protezione dell’innovazione industriale; vuoi, pure, a generare forme «ibride» di protezione che combinino i vantaggi del sistema brevettuale con quelli del diritto d’autore, per realizzare appunto il massimo effetto protettivo, e così la massima garanzia di «ritorno» sugli investimenti”. 120 Il modello privatistico non è andato esente da ulteriori critiche che riguardano, principalmente, le gravi implicazioni sociali272 e redistributive che lo stesso potrebbe avere273. 272 ) G Colangelo, Mercato e cooperazione tecnologica. Gli accordi di patent pooling, in Quaderni AIDA, 2008, p. 1, osserva che nel conferire agli inventori il diritto di escludere gli altri dall’opera realizzata, il legislatore consente loro di creare una scarsità artificiale per i beni intellettuali cosicché il loro prezzo aumenti e gli investimenti siano recuperati. Il proverbiale rovescio della medaglia ci rammenta, precisa l’Autore, come l’operazione comporti costi sociali. Una volta realizzata l’invenzione, lo ius excludendi genera una perdita secca, limitando l’accesso per coloro che, al fine di utilizzare i beni in questione, sono disposti a pagare un prezzo sopracompetitivo ma inferiore al corrispettivo fissato dal titolare per la massimizzazione del profitto. Per di più, dal momento che l’innovazione ha sovente carattere cumulativo, la protezione insita nella privative può rappresentare un freno ai processi innovativi, inibendo l’accesso a determinati input. 273 ) Le tematiche dell’accesso ai farmaci antiretrovirali coperti da brevetto non possono essere né sottovalutate né sottaciute: Resta, op.cit., p. 287. A tal proposito, V. Di Cataldo, Biotecnologie e diritto. Verso un nuovo diritto, e verso un nuovo diritto dei brevetti, in Contratto e impresa, 2003, p. 382, riporta la vicenda verificatasi in Sud Africa, paese dove l’epidemia di AIDS ha assunto dimensioni particolarmente allarmanti per la sottovalutazione del problema da parte delle autorità governative. Nella terapia contro l’AIDS vengono impiegati farmaci sviluppatisi in industrie farmaceutiche occidentali, la cui preparazione ha chiesto tempi lunghissimi e sforzi finanziari enormi. Il loro prezzo è assai elevato. In alcuni paesi (come l’India) questi farmaci non hanno protezione brevettuale e sono liberamente venduti come generici ad un prezzo relativamente basso (perché misurati solo sui costi vivi di produzione). È accaduto che questi farmaci sono stati esportati, allo stesso prezzo, in paesi terzi in cui esisteva una protezione brevettuale. Si è così prodotto un conflitto tra il titolare del brevetto ed il terzo produttore, che la disciplina brevettuale impone di considerare un contraffattore, il quale, tuttavia, risolve un gravissimo problema ovvero rende disponibile, a costi per quel paese tollerabili, un farmaco essenziale che il titolare del brevetto vende a costi più elevati ed insostenibili. Le industrie titolari del brevetto sono state considerate delle “predatrici” e quelle “pirata” delle benefattrici. Ci si dovrebbe però chiedere, osserva l’Autore, come le industrie “benefattrici” potrebbero produrre detti farmaci se qualcun altro non li avesse inventati con spese ingenti, consentite proprio dalla prospettiva del brevetto. Le industrie “benefattrici” non producono peraltro a costo zero: i loro prezzi sono relativamente bassi perché non devono remunerare alcuna ricerca ma sono comunque lautamente remunerativi rispetto al basso livello dei costi sostenuti. Sull’argomento si veda anche M. Dragoni, Accordo TRIPS, brevetti e resistenze interne in India, in Riv. inter. Studi afroasiatici, 2011, p. 147. Z. Zeno-Zencovich, F. Mezzanotte, Le reti della conoscenza, cit., p. 141 osservano che è necessario bilanciare i benefici privati derivanti dalla tutela degli investimenti produttivi dei singoli operatori con i costi sociali legati all’indisponibilità di determinate conoscenze, rilevanti soprattutto in assenza di valide opzioni sostitutive. La soluzione offerta dal sistema della proprietà intellettuale dà origine a quella che gli economisti definiscono una situazione di second best (ottimo di secondo ordine) in quanto offre un rimedio ad un’imperfezione del mercato, il sottoinvestimento in conoscenza, creandone un’altra, l’effetto monopolistico di limitazione della libera circolazione delle idee. Il “dilemma della conoscenza” risiede proprio in questo delicatissimo equilibrio tra incentivi funzionali ad una corretta allocazione delle risorse nel processo produttivo e la necessità di garantire la diffusione pubblica delle informazioni, in modo da stimolarne la rielaborazione e il perfezionamento. A. Ottolia, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni EST, in Riv. dir. ind., 2005, p. 457, osserva che una progressiva estensione delle privative si risolverebbe in una minore disponibilità della materia prima intellettuale ed in un conseguente rallentamento del progresso e della innovazione. 121 È stato anche osservato che un regime di libero accesso alle risorse immateriali non conduce necessariamente ad esiti tragici274 mentre il ricorso alla tecnica dell’esclusiva rischia, se non adeguatamente controllata, di ipotecare le possibilità di sviluppo e di innovazione futura, neutralizzando i vantaggi derivanti dal progresso tecnologico e dall’accresciuta possibilità di condivisione delle informazioni275. 3. La tutela delle istanze sociali nell’innovazione brevettuale: la teoria dei beni comuni ed il sistema delle corti Movimenti di opinione organizzati rivendicano l’esigenza di rivedere i regimi di stimolo all’innovazione intorno alla categoria dei beni comuni276. Il progetto, orientato alla tutela della conoscenza come “bene comune”, assumendo tale formula come riassuntiva di un regime di disciplina connotato dalla sottrazione a processi di appropriazione esclusiva277, non si è soltanto imposto a 274 ) Il problema della produzione di un ammontare sub-ottimale di informazioni appare, in particolare, alquanto sopravvalutato dal momento che in molti settori i fattori reputazionali e le regole sociali informali costituiscono spesso incentivi all’innovazione non meno efficaci della promessa di un monopolio allo sfruttamento: J. Boyle, Public Domain. Enclosing the Commons of the Mind, New Haven, 2008, p. 42. 275 ) J. Boyle, op. cit., p. 48. 276 ) Uno dei movimenti più noti è l’A2K, acronimo che sta per access to knowledge; il movimento è basato sull’idea che l’accesso al sapere deve essere legato a principi fondamentali di giustizia, libertà e sviluppo economico. Ne fanno parte giuristi, rappresentanti di organizzazioni non governative, attivisti e leaders politici provenienti da varie parti del mondo ed, in particolare, dai paesi in via di sviluppo, impegnati nel contrasto alle derive neo-protezionistiche e nell’affermazione di una diversa “ecologia” dell’informazione. Per tutti i riferimenti del caso si rimanda a G. Resta, op. cit., p. 292. 277 ) Sul punto cfr. M.R. Marella, Il diritto dei beni comuni. Un invito alla discussione, in Riv. crit. dir. priv., 2011, p. 103, L. Nivarra, Alcune riflessioni in tema di beni comuni, disponibile sul sitohppt://giurisprudenza.unipg.it/index.php?option=com_content&view=article&id=500:seminaribeni-omuni&catid=34. L’Autore, evidenzia che il bene comune, di cui possono essere date diverse definizioni, è sostanzialmente un bene sottratto al mercato ovvero un bene indisponibile a trasformarsi in merce o, se si preferisce, il cui valore d’uso prevale su quello di scambio. Il “comune” del bene comune non è affatto sinonimo di “pubblico” per la semplice ragione che esso non sta a designare un regime di appartenenza quanto, piuttosto, una modalità di fruizione o, per meglio dire, lo specifico, peculiare, prestarsi del bene ad una fruizione collettiva ad opera di comunità variamente individuate. In altri termini, “comune” esprime una qualità essenziale del bene, non un suo attributo estrinseco, quale, appunto, è l’appartenenza ad un soggetto, pubblico o privato che sia. 122 livello di dibattito pubblico, ma ha trovato i primi riscontri in alcuni importanti atti normativi e programmatici278. Le istituzioni attraverso le quali le suddette istanze collettive potrebbero trovare un’effettiva rappresentanza dovrebbero essere quelle politiche; nella specie, l’iniziativa parlamentare propria degli ordinamenti democratici279. Tale strategia incontra, nell’attuale assetto istituzionale, i limiti della decentralizzazione del 278 ) Tra questi, la Dichiarazione di Doha del 2001 su Trips e salute pubblica nata nel corso della quarta Conferenza ministeriale della World Trade Organization (WTO); la Dichiarazione di Doha vincola i membri della WTO ad un’interpretazione flessibile e più umana dell’accordo sui brevetti, in grado di tenere conto delle insostenibili realtà di molti paesi a basso reddito. La Dichiarazione, oltre ad esplicitare la protezione della salute pubblica, enfatizza il fattore della promozione dell’accesso alle cure per tutti. In particolare, il paragrafo 6 della Dichiarazione chiede che la WTO trovi una soluzione alla questione dei vincoli all’esportazione: quando un paese decide di imporre una licenza obbligatoria su un brevetto, è sottinteso che la copia del medicinale realizzata dai produttori locali a regime di eccezione debba essere destinata essenzialmente al mercato interno. Altri atti sono la Decisione del General Council (WTO) del 2003 nella quale si esprime una netta apertura alle non- voluntary licenses che possono ridurre i gravi rischi per lo sviluppo economico-industriale dei PVS derivanti dall’applicazione della regola (art. 27.1 TRIPs) secondo la quale il brevetto può essere attuato anche attraverso semplice importazione, con ciò abrogando lo storico principio dell’onere di attuazione in situ. Sull’argomento G. Ghidini, Profili evolutivi del diritto industriale, Milano, 2008, p. 129, ritiene che per affrontare detto rischio, e quello, ancora più drammatico, dell’impossibilità delle popolazioni più povere del pianeta di accedere ai farmaci brevettati per la cura di gravi malattie, è possibile esplorare una via suggerita parzialmente dal Regolamento 953/2003. Nell’ambito di un assetto convenzionale multilaterale, e sotto egida istituzionale (WTO in particolare), i titolari del brevetto dovrebbero accettare di produrre in Developing countries e far circolare liberamente, all’interno del relativo circuito, adeguate quantità di medicinali a prezzo misurato sul potere di acquisto locale, ragguagliato al reddito pro-capite. I vantaggi per i titolati del brevetto sarebbero quelli di mantenere il controllo sulla circolazione dei prodotti immessi a prezzi politici, mentre le industrie locali potrebbero acquisire conoscenze in termini di know-how tecnico e produttivo. Sulla scia delle citate decisioni, l’Unione Europa ha adottato il Regolamento n. 816/2006 con il quale ha stabilito una procedura di licenze obbligatorie su brevetti e certificati complementari di protezione per la fabbricazione e la vendita di farmaci unicamente destinati all’esportazione verso i paesi con gravi problemi di salute pubblica. Questa linea politica sembra avere ispirato anche le posizioni assunte dal Parlamento europeo al momento della discussione della proposta di direttiva (poi respinta) sulla brevettazione del softwar. 279 ) Di fronte alla questione delle nuove materie brevettabili è il legislatore che deve definire chiaramente che cosa è escluso, e cosa no, dalla protezione: M. Granieri, op. cit., p. 29. 123 sistema delle fonti280, della costante pressione della regulatory competition281, dell’estrema rapidità del mutamento tecnologico282. A ciò si aggiunge la profonda asimmetria nelle capacità d’incidenza politica; ai pochi repeat players, dotati di un ampio potere economico ed interessi omogenei, si oppone una massa diffusa e piuttosto disorganica di potenziali controinteressati283. Preso atto di ciò, è stata proposta, come idonea alternativa, il sistema delle corti che, seppur non sufficientemente considerato, può assumere un rilievo crescente284. Là dove il concreto assetto istituzionale di un sistema favorisca l’accesso alla giustizia e permetta di configurare i suddetti interessi oppositivi in termini di pretese costituzionalmente garantire, valorizzando quindi i diritti fondamentali nella loro 280 ) U. Breccia, Immagini della giuridicità contemporanea tra disordine delle fonti e ritorno al diritto, in Riv. crit. dir. priv., 2006 p. 361; N. Lipari, Le fonti del diritto, Milano 2008. 281 ) A. Zoppini (a cura di), La concorrenza tra gli ordinamento giuridici, Roma-Bari, 2004. 282 ) Nell’area immateriale emerge sempre più spesso il divario, profondo e strutturalmente incolmabile, tra la rapidità del progresso tecnologico e la lentezza della risposta parlamentare. Lo sviluppo delle tecnologie, da un lato, e l’evoluzione dei modelli culturali ed economici, dall’altro, producono incessantemente nuove utilità, spesso dal notevole valore patrimoniale; esse si collegano all’impiego di risorse del mondo esterno come, ad esempio, le reti telematiche, l’immagine e le informazioni genetiche. L’appropriazione di tali utilità fa sorgere molteplici conflitti di interessi che il diritto, prima di altri sistemi di regolazione sociale, è chiamato a comporre; tutto ciò solleva una serie di questioni, tra le quali quella di capire quali siano le istituzioni deputate ad operare l’inclusione delle nuove risorse nella categoria dei beni rilevanti per il sistema giuridico (art. 810 c.c.) ed in base a quali principi stabilire l’allocazione dei suddetti beni a favore di uno o più gruppi di individui ed a detrimento di altri. Nel campo della proprietà intellettuale tale questione è stata tradizionalmente risolta in base all’assunto della tipicità e del numero chiuso dei diritti sui beni immateriali. Tale principio, pur non essendo espressamente sancito da alcuna norma di diritto positivo, viene generalmente desunto dal sistema dal suo insieme e considerato uno degli assi portanti della teoria classica dei beni: cfr. Z. Zeno Zencovich, Cosa, in Digesto civ., IV, Torino, 1989, p. 438 ss. G. Ghidini, Profili evolutivi del diritto industriale, Milano, 2008, p. 73, considera come prima direttrice dell’interpretazione e dell’applicazione della disciplina in materia di DPI il principio del numero chiuso ossia della tassatività dei diritti esclusivi in quanto attributivi di poteri restrittivi della concorrenza (in questo senso monopolistici) e, come tali, anche formalmente eccezionali rispetto al principio, di rango costituzionale, di libertà di iniziativa economica. 283 ) Numerosi sono gli studi che, adottando gli strumenti analitici della teoria delle scelte pubbliche, hanno dimostrato quanto forte sia la capacità di incidenza dei gruppi di pressione nel settore della proprietà intellettuale stante il numero relativamente ristretto di giocatori professionali in confronto con la schiera diffusa ed altamente disomogenea dei controinteressati. Profonde, sono le forme di condizionamento che essi riescono ad esercitare sulle dinamiche regolatorie a livello interno ed internazionale. Questo elemento, assieme all’indubbia presa politica e culturale del modello giuseconomico della proprietà quale strumento efficiente di stimolo all’innovazione e di lubrificazione degli scambi, sta progressivamente mettendo in crisi il ruolo di garanzia che un tempo si attribuiva alla legge rispetto alla definizione di equilibri tra sfere di proprietà e sfere di libertà nell’utilizzazione dei beni immateriali. 284 ) G. Resta, Nuovi beni immateriali e numerus clausus dei diritti esclusivi, in G. Resta (a cura di), Diritti esclusivi e nuovi beni immateriali, Milano, 2011, p. 61. 124 funzione di apertura delle sfere d’esclusiva, il circuito giurisdizionale può offrire un valido canale di emersione del retroterra non proprietario, congiunturalmente al (o in supplenza del) tradizionale processo politico285. All’obiezione che questo tipo di scelte spetti al potere legislativo piuttosto che a quello giudiziario, è stato replicato che non si può sottovalutare il ruolo che in un sistema costituzionale spetta alle corti, trattandosi dei garanti dei diritti fondamentali 285 ) G. Resta, La privatizzazione della conoscenza, cit., p. 288, il quale osserva che il rilievo delle corti rispetto al tema della salvaguardia dei beni comuni quali la conoscenza, emerge nel caso Myriad; al di là dei caratteri eccezionali che connotano il diritto brevettuale statunitense (nella specie la ristrettezza dell’eccezione d’uso sperimentale, il mancato utilizzo dello strumento della licenza obbligatoria, l’ampiezza con la quale è stata ammessa la tutela brevettuale indipendentemente dalla specifica indicazione della funzione concretamente svolta dalla molecola di DNA nella domanda di brevetto, la sostanziale assenza di un sistema sanitario universale, l’impatto altamente distorsivo del Bay Dohle Act sul comportamento delle istituzioni universitarie, incentivate a competere in maniera aggressiva sul mercato dell’innovazione e a ricercare, attraverso la corsa ai brevetti, quei canali di finanziamento resi necessari dalla riduzione del supporto pubblico) i giudici americani hanno sostanzialmente contestato uno dei principali cardini della teologia proprietaria contemporanea. Nella specie, la brevettabilità delle sequenze di DNA. La decisione riflette l’esigenza che, in una moderna democrazia costituzionale, venga riconosciuto uno statuto rafforzato ad alcuni beni ed alcune aree dei rapporti sociali; tale esigenza trova oramai una cristallizzazione giuridica, gradualmente sempre più precisa, nella formula dei “beni comuni”. Tra questi, il genoma umano come patrimonio comune dell’umanità, formula contenuta nella Dichiarazione sul genoma e i diritti umani. L’Autore osserva come taluni abbiano considerato l’esclusione dalla brevettabilità delle sequenze di DNA una soluzione troppo radicale e dettata da un atteggiamento ostile al regime di stimolo all’innovazione incentrato sullo strumento dei diritti esclusivi, con il conseguente rischio di porre nel nulla i copiosissimi investimenti destinati alle imprese biotech ed alla promozione della ricerca biomedica. Non v’è dubbio, avverte l’Autore, che è necessario guardarsi da letture ideologiche e considerare in maniera pragmatica le concrete implicazioni sociali di ciascuna scelta regolativa. Un’impostazione ideologica del problema, tuttavia, è quella adottata dai fautori del modello dell’enclosure, i quali tendono ad assumere come verità assiomatiche alcune semplici ipotesi operative – prima fra tutte l’effetto di stimolo alla ricerca e all’innovazione connesso al sistema brevettuale – le quali, in realtà, sono prive di univoci riscontri empirici e meriterebbero di essere, volta per volta, sottoposte ad attenta verifica. Il conferimento di diritti esclusivi è uno strumento che va maneggiato con grande cautela in quanto esso rischia di comprimere (piuttosto che di stimolare) la ricerca e l’innovazione, imponendo costi sociali spesso sproporzionati. 125 degli individui anche, e soprattutto, contro le scelte della maggioranza286; spesso, i tribunali sono stati chiamati a svolgere una funzione di salvaguardia dei beni comuni non appropriabili, funzione dimostratasi tanto più preziosa quanto più legata all’insuccesso dell’ordinario circuito parlamentare, paralizzato, in svariate occasioni, dalle pressioni dei gruppi di interesse287. Evidente è la convergenza tra il settore della proprietà intellettuale e quello dei diritti fondamentali. Materie considerate mutualmente indipendenti mostrano zone 286 ) S. Rodotà, Magistratura e politica in Italia, in E. Bruti, Liberati, A. Ceretti, A. Giansanti, Governo dei Giudici. La magistratura tra diritto e politica, Milano, 1996, p. 17. A. Ottolia, Riflessi sulla brevettabilità, cit., p. 457, osserva: “All’evoluzione tecnologica si accompagna un’evoluzione giuridica che non risiede in una maggior rilevanza della morale nel diritto, ma nella crescente esigenza di incorporare nel dibattito relativo all’individuazione dei modelli regolativi più efficienti, anche una verifica della democraticità (intesa come pluralismo) dei modelli decisionali preordinati alle politiche dell’innovazione …. In particolare …., non si può non registrare l’esistenza di una biforcazione delle possibili soluzioni, fra modelli di pianificazione e modelli incentrati su soluzioni di tipo rivalistico. Riferendomi a questa alternativa, intendo indicare la differenza fra soluzioni determinate ex ante, attraverso una sorta di “pianificazione della libertà”, e soluzioni, al contrario, in cui la legittimazione a decidere sull’innovazione viene frammentata e affidata a una pluralità di soggetti, posti in posizione rivalistica fra loro ed operanti scelte ex post. Questa dualità si esprime, nella sua forma più semplice, nell’alternativa fra soluzioni legislative e soluzioni interpretative, ma può presentarsi secondo gradi diversi di complessità. Del primo tipo sono i modelli di pianificazione basati su scelte a priori, quali quelli tendenti ad escludere la tutelabilità di determinate entità, o a realizzare sistemi di sovvenzioni pubbliche che consentano l’individuazione ex ante della tipologia di innovazioni da incentivare e da cedere al pubblico dominio, o ancora gran parte dei modelli basati su liability rules. Del secondo tipo sono, invece, i modelli che si realizzano attraverso decisioni, per così dire, “dal basso” ed ex post. A questa categoria pare si possano ricondurre, oltre alle soluzioni che demandano, a vari gradi, la decisione della innovazione tutelabile al giudice, anche quelle che demandano alla negoziazione fra privati la possibilità di uscire dai vincoli derivanti dai forti diritti di esclusiva sulla conoscenza”. 287 ) Il tal senso la decisione del Conseil Costitutionnel francese (Conseil const. 10.6.2009 n. 2009-580 DC, in Foro it. 2009, IV, c. 472) il quale ha sancito la parziale illegittimità costituzionale della legge n. 669 del 2009 favorisant la diffusion et la protection de la creation sur internet per contrasto con l’art. 11 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 ove è garantita la libertà di manifestazione del pensiero ed opinioni. G. Resta, La privatizzazione della conoscenza, cit., p. 310, descrive invece come caso di insuccesso la decisione della Corte di Giustizia nel caso Regno dei Paesi Bassi c. Parlamento e Consiglio europeo del 9.10.2001; l’Autore si chiede se gli esiti della decisione sarebbe stati gli stessi qualora la controversia fosse stata decisa nel quadro di un diverso assetto istituzionale, con una Carta dei diritti fondamentali dotata di immediata efficacia precettiva ed una Corte di giustizia operante come una vera e propria Corte Costituzionale. Decisioni come quella da ultima citate, non devono essere necessariamente intese, commenta l’Autore, come una dimostrazione dei limiti intrinseci dell’approccio giurisdizionale, quanto piuttosto come un’ulteriore prova dell’esigenza di una più radicata e diffusa cultura dei diritti, rispetto alla quale si rivela essenziale l’interazione tra una dottrina che non aspiri soltanto ad una formalistica esegesi dell’esistente ed una giurisprudenza che non si ritragga di fronte al peso del proprio ruolo. Presenti tali condizioni, è possibile ipotizzare che il sistema delle corti possa svolgere una funzione preziosa nel contrasto ai processi di privatizzazione e nella salvaguardia del retroterra non proprietario. Se poi questa, come altre forme di auto-protezione della società, abbiano un’effettiva capacità d’intaccare i capisaldi del capitalismo cognitivo contemporaneo è tutt’altra, e ben più complicata, questione. 126 di sovrapposizione e punti di contatto sempre più frequenti; i diritti fondamentali (all’informazione, all’istruzione, alla salute, alla dignità umana) sono insistentemente invocati al fine di neutralizzare i conflitti provocati dalla continua espansione dei regimi di esclusiva su beni e servizi rilevanti per lo sviluppo umano288. 4. Derive protezioniste della proprietà intellettuale e tutela della concorrenza. Anticorpi pro concorrenziali contenuti nella disciplina brevettuale La tendenza a garantire una sempre maggiore protezione alla proprietà intellettuale rischia anche di compromettere le dinamiche concorrenziali dei mercati. Aumentare le tutele significa, infatti, disseminare sul cammino dei concorrenti lacci e divieti tanto più efficaci quanto più sinergicamente accentrati nelle mani dei più forti first comers; qualora il rapporto fra protezione dell’esclusiva e tutela della concorrenza sia eccessivamente squilibrato in favore della privativa si moltiplicheranno, nel sistema, i motivi di litigiosità (offensiva e difensiva: la prima spesso ulteriore e deteriore strumento di dissuasione concorrenziale) e gli stessi innovatori propenderanno ad attribuire maggior interesse per i risultati già realizzati piuttosto che per quelli che potranno ottenere in futuro289. Esiti di siffatto tipo priverebbero le attività di ricerca e di innovazione della vivacità e della competitività che dovrebbe invece contraddistinguerle290. 288 ) G. Resta, Nuovi beni immateriali, cit., p. 63. ) Per queste ed altre considerazioni si rimanda a G. Ghidini, Prospettive protezionistiche, cit., p. 75. L’Autore osserva che la disseminazione di barriere immateriali, fondate su esclusive brevettuali “pesanti” sbarrerebbe la strada ai concorrenti e, al contempo, stimolerebbe gli stessi leaders a riposare sugli allori, cioè a prolungare lo sfruttamento dell’innovazione già sviluppata (massimizzando i profitti a breve) anziché continuare a creare ulteriore e più avanzata innovazione; tali effetti restrittivi della concorrenza si produrrebbero con tanta maggiore intensità quanto più il controllo di detti diritti esclusivi fosse concentrato nelle mani dei concorrenti in posizione dominante. 290 ) La vitalità del sistema brevettuale si misura sulla sua capacità di premiare l’innovazione realizzata in modo che quello stesso premio, attribuito all’inventore attuale, stimoli sia quest’ultimo a continuare sia i terzi a sviluppare una innovazione successiva, competitiva rispetto a quella precedente e, quindi, anche per ciò stesso, “sferzante” il primo inventore: G. Ghidini, Profili evolutivi, cit., p. 81. 289 127 Una serie di anticorpi pro-concorrenziali sono invero già presenti nella legislazione brevettuale. Può essere, innanzitutto, preso in considerazione il termine ventennale dell’esclusiva; l’eventuale prolungamento derivante dal certificato complementare di protezione rappresenta una deroga apparente in quanto finalizzato al recupero dei tempi non utilizzabili per lo sfruttamento della privativa291. Il terzo concorrente che imiti l’altrui invenzione dopo la scadenza della privativa è perfettamente nella legalità; egli è assimilabile ad un licenziatario gratuito di diritto. Anche se imitare non significa innovare è comunque vero che crea concorrenza contribuendo ad abbassare il prezzo; imitare è impossessarsi delle tecniche, mettersi in gioco per poter superare, quanto meno nel senso di realizzare meglio, ciò che altri hanno anticipato al fine di poter competere con loro292. Il titolare della privativa, nonostante il venir meno della tutela, godrà comunque sul mercato, rispetto all’offerta di quella certa soluzione tecnologica, di un avviamento consolidato da vent’anni di presenza esclusiva. 291 ) Sulla vicenda del regime giuridico dei CCP cfr. G. Floridia, Durata dell’esclusiva e garanzia costituzione della proprietà industriale, in Riv. dir. ind., 2008, p. 5; G. Bianchetti, Certificati di Protezione Complementari e preparativi di un dossier di registrazione, in Riv. dir. ind., 2008, p. 1, G. Del Corno, Brevetti e certificati protettivi complementari, in Riv. dir. ind., 1998, p. 47. Cfr. sull’argomento anche Capitolo I, par. 2. 292 ) Cfr. Corte di Cassazione 29 febbraio 2008 n. 5437, Riv. dir. Ind., 2008, p. 151 con nota di Peron, che, nel riaffermare la libera riproducibilità di modelli ed invenzioni non più coperti da esclusiva, osserva che operando diversamente si finirebbe per ingessare il mercato. Spesso, tuttavia, vengono impiegate delle prassi volte ad prolungare, surrettiziamente, la durata della originaria esclusiva. Nel campo chimico-farmaceutico, si depositano ad esempio dei brevetti che tutelano meri “equivalenti” del brevetto principale prossimo alla scadenza. Tra le vicende maggiormente conosciute quella della Novartis e l’Ufficio brevettuale indiano svoltasi davanti alla Higt Court di Chennai (olim Madras), terminata con la sentenza del 1 aprile 2013. La Suprema Corte dell’India ha rigettato il ricorso presentato dalla Novartis contro la decisione dell’Ufficio brevetti indiano di non concedere la privativa ad un particolare farmaco oncologico noto come Glivec. Terminato il periodo di tutela del primo brevetto, l’industria indiana aveva cominciato a produrre il farmaco in proprio vendendolo ad un prezzo di gran lunga inferiore rispetto a quello del farmaco originario. La Novartis aveva, nel frattempo, depositato una nuova domanda di brevetto per una versione migliorata del Glivec che, se accolta, le avrebbe garantito altri venti anni di esclusiva. La Corte indiana, sul presupposto normativo che non è un’invenzione la mera scoperta di una nuova forma di una sostanza nota da cui non risulta alcun miglioramento dell’efficacia, già conosciuta, di quella sostanza, ha rigettato il ricorso ritenendo che la nuova formula del farmaco non riguardava l’efficacia terapeutica, già garantita dal primo brevetto, e che i miglioramenti erano del tutto secondari e non meritevoli di protezione. Per approfondire il tema si rimanda a A. Lollini, Proprietà intellettuale, bilanciamento degli interessi e farmaci low cost: i casi India e Sud Africa, in Riv. trimestrale diritto pubblico, 2009, p. 115. 128 Nella logica pro-concorrenziale si colloca anche la regola secondo la quale il diritto esclusivo attiene strettamente a quanto formalmente rivendicato nonché a quanto effettivamente insegnato dal titolare. La normativa brevettuale impone al richiedente di indicare, con precisione, nella domanda i caratteri e lo scopo del brevetto; la descrizione deve essere sufficientemente chiara e completa affinché ogni persona esperta del ramo possa attuarla; deve comprendere una o più rivendicazioni in cui venga indicato, specificatamente, ciò che deve formare oggetto di brevetto293. L’attribuzione del brevetto comporta infine la pubblicità della domanda294. Queste condizioni di disclosure e di pubblicità realizzano diversi effetti sostanziali, tutti riconducibili alla necessità di commisurare i modi di attribuzione dell’esclusiva all’obiettivo di realizzare un’efficace remunerazione-incentivo dell’innovazione, senza, tuttavia, compromettere la fisionomia concorrenziale del mercato di riferimento; la concorrenza diventa strumento promotore di ulteriore innovazione. Poiché il brevetto copre solo la specifica idea di soluzione precisamente descritta e rivendicata dall’inventore, e tale idea viene integralmente comunicata ai terzi, cioè ai concorrenti, si apre a costoro la possibilità di soddisfare la medesima utilità mediante una soluzione tecnica diversa, mantenendo in tal modo sul mercato una concorrenza sostitutiva, benefica in ordine sia alla varietà 293 ) Artt. 51, 52 c.p.i. ) Art. 53 c.p.i. Dalla pubblicazione della domanda, che normalmente avviene decorsi diciotto mesi dal deposito della stessa, decorrono gli effetti del brevetto. 294 129 dell’offerta sia al livello dei prezzi295. Ai terzi, si schiude anche la possibilità di ottenere una licenza296. Ulteriore principio che attenua la portata monopolistica dell’esclusiva è quello dell’esaurimento. L’art. 5 c.p.i. dispone che la facoltà di trarre beneficio dall’invenzione brevettata “si esaurisce” una volta che il prodotto sia stato messo in commercio dal titolare del brevetto, o con il suo consenso, nel territorio dello Stato, nel territorio di uno Stato membro della Comunità europea o dello Stato economico europeo. Dopo la prima messa in commercio, dunque, il titolare non ha più diritto di condizionare, con il suo consenso, l’ulteriore circolazione del prodotto e, quindi, di influire in qualsiasi modo sulle condizioni della circolazione stessa, rimesse conseguentemente al libero gioco della concorrenza297. La norma, nell’estendere il principio alla prima immissione in commercio a qualsiasi Stato membro dell’Unione o dello SEE fa proprio il suo progenitore ovvero il principio dell’esaurimento comunitario che, per l’appunto, nega al titolare la 295 ) Apprendendo l’iter logico ed i problemi funzionali che l’inventore si è posto, ed il modo in cui egli li ha risolti, i terzi potranno molto più agevolmente percorrere strade alternative in vista della realizzazione, che deve rimanere sempre aperta e libera, del medesimo tipo di utilità. In tal modo, la restrizione della concorrenza diretta provocata dalla concessione dell’esclusiva su quel trovato viene compensata da un allargamento della concorrenza per sostituti. Corollario logico dello scambio tra attribuzione del diritto esclusivo e integrale disclosure dell’invenzione dovrebbe essere il rifiuto di tutelare in modo esclusivo l’invenzione mantenuta, ed eventualmente sfruttata, in regime di segreto. Il codice della proprietà industriale ha invece ricondotto le informazioni riservate nell’ambito dei diritti di proprietà intellettuale facendone oggetto di facoltà esclusive assolute; il segreto è tutelato contro ogni appropriazione o utilizzazione non autorizzata dal detentore/titolare (art. 99 c.p.i.). La tutela è assoluta. La norma appare inficiata da profonde distonie sistematiche; tende a cancellare le differenze circa la portata della tutela fra segreto e brevetto, incoraggiando a privilegiare il regime di segreto rispetto a quello di brevetto. Al titolare del segreto viene infatti consentito di accedere ad una tutela di stampo reale senza limiti temporali predefiniti, senza costi, senza oneri di rivelare ai terzi concorrenti l’innovazione realizzata. Si ostacola dunque il compiersi dei numerosi effetti benefici collegati allo scambio fra l’attribuzione della esclusiva e la durata certa e limitata della stessa. Viene inoltre accordata una protezione erga omnes a dati informativi semplicemente qualificati dalla destinazione al segreto impressa loro dal detentore ed alla loro rilevanza economica. Si tratta in particolare di informazioni che potrebbero non possedere i requisiti di brevettabilità ovvero informazioni meramente commerciali, intrinsecamente non brevettabili; a queste si aggiungono, i risultati della ricerca scientifica che la normativa brevettuale, in armonia con la Convenzione sul Brevetto europeo, tassativamente esclude da appropriazione esclusiva. Per queste ed altre considerazioni si rimanda a G. Ghidini, Profili evolutivi, cit., p. 93. 296 ) Cfr. infra par. 5. 297 ) Ad esempio, il titolare non potrà, in forza della sola esclusiva brevettuale, limitare la quantità e le altre modalità delle successive commercializzazioni del prodotto; in particolare, fissare i prezzi di quest’ultimo. I soli soggetti ai quali, in forza del brevetto, il titolare potrà opporre l’esclusiva dopo la prima immissione in commercio sono i produttori non autorizzati del prodotto brevettato. 130 facoltà, attribuitagli dal diritto nazionale, di opporsi all’importazione del prodotto brevettato se il prodotto stesso sia stato precedentemente posto in commercio col suo consenso, in modi leciti, in altri Stati membri. E ciò, anche se in detti Stati il prodotto non sia brevettato né brevettabile. Il principio dell’esaurimento opera anche per incrinare l’assolutezza della stessa esclusiva nazionale; se il prodotto oggetto di brevetto nazionale è stato venduto su uno dei mercati dello SEE, ma non in Italia, il titolare dell’esclusiva non potrà opporsi all’importazione del prodotto, da parte di terzi, sul mercato italiano. Nel settore delle biotecnologie, il principio dell’esaurimento, pensato in relazione alla materia inanimata, non può essere trasposto meccanicamente. La protezione relativa al materiale autoreplicante si estende, infatti, anche alle generazioni successive della materia biologica, siano esse linee cellulari, sementi o progenie di animali bioingegnerizzati; in questa situazione è necessario determinare se il consenso prestato alla prima messa in commercio esaurisca i diritti del titolare, anche con riferimento alle generazioni successive di materia vivente, e, più specificamente, è opportuno compiere tale determinazione sulla base di un criterio coerente con quello che sta alla base della disciplina generale dell’esaurimento298. A questo fine, l’art. 10 della Direttiva 98/44/CE detta due proposizioni normative raccordate fra di loro. La prima prevede che in linea di principio la protezione conferita dal brevetto non si estenda alle generazioni successive “qualora la riproduzione o moltiplicazione derivi necessariamente dall’utilizzazione per la quale il materiale biologico è stato commercializzato”. La seconda provvede, invece, a restringere l’area di libertà attribuita agli acquirenti al fine di evitare che questi, avendo conseguito la disponibilità di una generazione di materiale auto replicante (ad es. delle sementi ingegnerizzate) possano presentarsi sul mercato come venditori del materiale che incorpora l’invenzione brevettata e far, quindi, concorrenza al titolare. A tal fine, si stabilisce che l’esaurimento ha luogo “purché il materiale ottenuto non venga utilizzato successivamente per altre riproduzioni 298 o ) In tal senso M. Ricolfi, La brevettazione delle invenzioni relative agli organismi geneticamente modificati, in Riv. dir. ind., 2003, p. 13. 131 moltiplicazioni”. Questa regola, pur configurandosi come un’eccezione, subisce, a sua volta, una deroga nel caso in cui l’acquirente sia un agricoltore. In questo caso viene in gioco la tradizionale farmers’ exemption, che sottrae all’esclusiva del titolare del brevetto le generazioni successive di materiale protetto (siano esse le sementi conservate da un raccolto precedente o la progenie degli animali bioingegnerizzati originariamente acquistati) ottenute sul fondo ed a questo destinate. L’esenzione corrispondente viene conservata anche nel diritto brevettuale comunitariamente armonizzato, sia pur in spazi notevolmente più ridotti di quelli consueti alla legislazione speciale sulle varietà vegetali. 5. Dinamiche competitive della licenza obbligatoria Ulteriore istituto pro-concorrenziale è quello della licenza obbligatoria; disciplinato dall’art. 71 c.p.i.299, ricorre nei casi in cui un’invenzione sia dipendente 299 ) L’art. 71 c.p.i. così recita: “Può essere concessa licenza obbligatoria se l’invenzione protetta dal brevetto non possa essere utilizzata senza pregiudizio dei diritti relativi ad un brevetto concesso in base a domanda precedente. In tale caso, la licenza può essere concessa al titolare del brevetto posteriore nella misura necessaria a sfruttare l’invenzione, purché questa rappresenti, rispetto all’oggetto del precedente brevetto, un importante progresso tecnico di considerevole rilevanza economica. La licenza così ottenuta non è cedibile se non unitamente al brevetto sull’invenzione dipendente. Il titolare del brevetto sull’invenzione principale ha diritto, a sua volta, alla concessione di una licenza obbligatoria a condizioni ragionevoli sul brevetto dell’invenzione dipendente”. Altre norme di riferimento sono gli artt. 72 e 81 octies c.p.i., 31 TRIPs. 132 da un’altra ovvero sia basata sull’utilizzazione, totale o parziale, di soluzioni da altri anteriormente elaborate o brevettate300. L’innovatore, in questi casi, avrà il diritto di chiedere ed ottenere, dal titolare del primo brevetto, una licenza (detta quindi obbligatoria) qualora la sua invenzione corrisponda ad un “importante avanzamento tecnico di considerevole rilevanza 300 ) Può ravvisarsi il rapporto di dipendenza qualora il secondo trovato adotti, in tutto o in parte, la stessa idea di soluzione (eventualmente anche procedimentale) dell’innovazione brevettata in relazione allo stesso tipo di risultato utile, cioè alla stessa destinazione d’uso. Ad esempio, l’invenzione che migliora (nel senso di accrescere, rendere più economico, ecc.) il conseguimento dello stesso tipo di utilità con una idea di soluzione che comunque utilizza, pur perfezionandola, quella propria dell’esclusiva anteriore o che (impiegando le parole dei TRIPs, art. 31, comma 1) non si possa sfruttare senza contraffazione di un altro brevetto, è dipendente da questa. Viceversa, l’invenzione che, pur utilizzando elementi oggetto di altrui precedente esclusiva, li combini in modo originale dando luogo ad un nuovo risultato utile che i singoli elementi considerati in sé e nella loro semplice sommatoria non consentivano di conseguire (alla stregua della tecnica nota), va considerata come non dipendente dalla prima. Così pure va ritenuta non dipendente l’invenzione che trasferisca l’ideazione precedente di un diverso, lontano (e non equivalente) settore d’uso, conseguendo un nuovo risultato utile (art. 46, comma 4, c.p.i.): G. Ghidini, Profili evolutivi, cit., p. 111. Scarse sono le riflessioni della dottrina nazionale sulla licenza obbligatoria; pressoché inesistenti sono i precedenti giurisprudenziali in quanto rari sono i casi concreti in cui ne è stata fatta applicazione. Il repertorio della più completa rassegna italiana delle decisioni in materia di proprietà industriale (cioè la Giurisprudenza annotata di diritto industriale) alla voce “licenza obbligatoria”, contempla il solo caso della mancata attuazione, a significare che la casistica riguardante la concessione di licenze obbligatorie per invenzioni dipendenti è nulla. Sparuti, del resto, sono anche i casi di licenza obbligatoria concessi a causa della mancata attuazione dell’invenzione, l’altra ipotesi prevista dalla legislazione brevettuale. Due soli casi negli anni ottanta sono giunti all’attenzione della giurisdizione amministrativa. Le ragioni che spiegato lo scarso impiego dell’istituto sono state individuate nelle condizioni richieste per il rilascio della licenza obbligatoria e nella farraginosità del procedimento di concessione della medesima. 133 economica”301. La licenza deve essere concessa a “ragionevoli condizioni” che, in assenza di disaccordo tra le parti, potranno essere determinate in via giudiziale302. 301 ) G. Ghidini, Profili evolutivi, cit., p. 115 evidenzia che, in generale, l’imposizione di regole maggiormente severe all’ingresso sul mercato per gli inventori dipendenti rispetto agli inventori che hanno brevettato la loro idea, rappresenta un saggio compromesso fra l’esigenza di incentivare l’innovazione derivata, di miglioramento, e quella di non incoraggiare propensioni generali di dipendenza tecnologica; gli inventori derivati non devono limitarsi ad una mera riproposizione di soluzioni da altri escogitate in quanto un siffatto sistema rallenterebbe le innovazioni successive sostitutive ovvero la ricerca di nuove vie di progresso tecnico. Relativamente alle biotecnologie, l’Autore è però dell’idea che il meccanismo della licenza obbligatoria dovrebbe operare a prescindere dalla verifica dell’important tecnica advance of considerable economic significance; tale verifica potrebbe comportare inopportuni rallentamenti nella realizzazione e commercializzazione di progressi tecnologici in settori nei quali l’ordinamento intenda particolarmente incentivare la ricerca ed il dinamismo innovativo. Esistono delle ipotesi di rapida sequenzialità incrociata di prodotti e sostanza per uso terapeutico come i farmaci anti-rigetto che esigono l’impiego (e quindi il più rapido sviluppo) di altri farmaci capaci di neutralizzare o attenuare certi effetti tossici dei primi. Farmaci che, a loro volta, possono indurre ulteriori diversi effetti avversi e chiedono dunque lo sviluppo e l’impiego di altri anti-anti preparati. Rispetto a una siffatta spirale terapeutica, l’urgenza e la necessità dovrebbero far scattare la luce verde all’innovazione dipendente da subito, anche a prescindere appunto dalla verifica dall’alto profilo tecnologico ed economico della stessa. Ulteriore ipotesi in cui la licenza dovrebbe operare a prescindere dalla verifica dell’important tecnica advance of considerable economic significance è quella che riguarda la realizzazione di avanzati prodotti o procedimenti la cui più diffusa fruizione risponda a preminenti ragioni di pubblica utilità. Si pensi ai farmaci essenziali brevettati, per i quali l’Unione Europea adottando il Regolamento n. 816/2006, ha stabilito una procedura di concessione di licenze obbligatorie su brevetti e certificati complementari di protezione per la fabbricazione e la vendita di farmaci, unicamente destinati all’esportazione verso paesi con gravi problemi di salute pubblica. Per distribuire gli effetti pro concorrenziali della licenza in modo equilibrato, in siffatte ipotesi dovrebbe conservarsi il diritto alla licenza incrociata a favore dell’innovatore antecedente secondo il noto schema del modello normativo di invenzioni dipendenti di cui all’art. 31 TRIPs. Critica sull’istituto in esame è P. A. E. Frassi, Innovazione derivata, brevetto dipendente e licenza obbligatoria, in Riv. dir. ind., 2006, p. 212, la quale evidenzia che le stringenti condizioni per accedere alla licenza, nonché la farraginosità del procedimento del rilascio, sarebbero le cause dell’insuccesso dell’istituto. Tali condizioni, dettate inizialmente dagli accordi TRIPs e riproposte dall’art. 71 c.p.i., volevano scoraggiare l’appropriazione dell’innovazione principale, a costi contenuti, da parte degli utilizzatori localizzati in aree del mondo a rischio di (sotto)sviluppo. “ Non vi è chi non colga” osserva l’Autrice “la ingiustificata severità di un requisito, quello del notevole progresso tecnico, che rischia di essere eccessivamente selettivo in particolare se rapportato alle dinamiche innovative tipiche dei settori … caratterizzati dalla presenza di un’innovazione di tipo incrementale, e che sono potenzialmente i più interessati alla possibilità di una ampia condivisione dei risultati dell’innovazione principale. È chiaro che, così inteso, l’istituto rischia di fallire proprio nei settori nei quali la dipendenza sembra essere la regola del processo innovativo. Il titolare del brevetto precedente, laddove non contratti spontaneamente con il secondo arrivato, può dunque contare, nell’ipotesi di dover concedere un accesso forzato, su di una barriera protettiva più alta di quella posta dal requisito ordinario dell’attività inventiva. Quanto all’altro parametro, quello della notevole rilevanza economica, appare veramente difficile, ex ante, e cioè nel momento dello svolgimento di un procedimento che per definizione precede la fase dell’attuazione dell’invenzione e dunque il riscontro del mercato, formulare giudizi di prognosi sulla rilevanza economica dell’invenzione dipendente. Ambedue le valutazioni, non lo si dimentichi, sarebbero poi devolute al (secondo alcuni discrezionale) giudizio dell’autorità amministrativa, l’UIBM, con una latitudine di poteri sconosciuta all’autorità giudiziaria ordinaria, quando decide della validità del brevetto. Detto questo, deve sicuramente sottoscriversi la proposta avanzata in dottrina di cancellare tali requisiti 134 dall’istituto della licenza obbligatoria per invenzione dipendente. Sempre in una prospettiva de iure condendo, ma forse in controtempo data la ancor giovane età del Codice della proprietà industriale, credo che si debba riflettere sulle modalità di concessione della licenza obbligatoria, cioè sul secondo degli aspetti che, come indicavo più sopra, ne hanno decretato fino ad oggi l’insuccesso, cioè il procedimento della sua concessione. Tale procedimento, risistemato nel 1994 ed ora incorporato negli artt. 71, 73 e 199 CPI, è un procedimento amministrativo gestito dall’UIBM, che si svolge nel contraddittorio fra le parti, e che termina con un decreto di concessione del Ministero dell’Industria, il quale determina l’ambito, la durata, e tutte le altre garanzie e condizioni alle quali è subordinata la concessione della licenza obbligatoria, ed in particolare la misura e la modalità di pagamento del compenso. Tale licenza, come è noto, è infatti sempre concessa a titolo oneroso (cfr. art. 72.2 c.p.i.). Le condizioni della licenza possono essere variate con successivo decreto del Ministero e ad istanza di parte, qualora sussistano validi motivi al riguardo (cfr. art. 72.8 c.p.i.). Alla modificazione del compenso, o in caso di opposizione del titolare alla sua iniziale determinazione amministrativa, provvede un collegio di arbitratori con equo apprezzamento; questa decisione soggiace poi al vaglio della autorità giudiziaria ordinaria. Come i provvedimenti amministrativi in generale, il decreto di concessione può essere impugnato avanti alla giurisdizione amministrativa (nella specie, il Tar del Lazio). Secondo questo schema, dunque, che peraltro non risulta essere mai stato applicato nell’esperienza pratica, in un caso di licenza obbligatoria per invenzione dipendente, l’UIBM, che come noto non compie un esame preventivo dei requisiti di brevettabilità né dei requisiti di alcun altro dei titoli di proprietà industriale che concede, e che resiste, forse motivatamente date le strutturali carenze di organico, all’introduzione del giudizio di opposizione in materia di marchi, dovrebbe nell’ordine e nel vagliare la domanda: a) esaminare la sussistenza dei requisiti oggettivi nell’invenzione successiva, cioè l’importante progresso tecnico e la notevole rilevanza economica; b) esaminare la sussistenza di quelli soggettivi, cioè la eventuale buona fede del contraffattore richiedente; c) gestire il procedimento in contraddittorio fra le parti, cioè notificare l’istanza al titolare del brevetto precedente, riceverne l’eventuale opposizione, e le conseguenti controdeduzioni del richiedente, convocare le parti per un tentativo obbligatorio di conciliazione, ed infine concedere o negare la licenza con decreto, il tutto nel termine di 180 giorni dalla data di presentazione della domanda (art. 199 c.p.i.). Anche considerando questo termine come meramente ordinatorio, per chi abbia una qualche pratica della materia, appare evidente come tutto ciò sia innanzitutto difficilmente praticabile, quanto meno dal punto di vista pratico-organizzativo, nel contesto attuale dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi. Ma questa è un’osservazione in linea di mero fatto. Il punto critico è, infatti, quello di diritto e cioè se sia opportuno che le valutazioni in diritto, che la procedura di concessione della licenza obbligatoria involge, siano affidate all’autorità amministrativa. Questa, infatti, procede con la discrezionalità sua propria, su di un terreno che tipicamente riguarda diritti soggettivi e richiede valutazioni puramente in diritto da assumere sulla base della legislazione brevettuale, con un percorso che in nulla differisce, nella sostanza, da quello che segue il giudice ordinario nel decidere della brevettabilità dell’invenzione, della validità e violazione del brevetto, e della determinazione di eventuali compensi, quando ciò sia previsto dalla norma. Questo aspetto avrebbe dovuto essere forse approfondito in occasione del riassetto normativo avviato dal Codice di diritto industriale; la legge di delega non costituiva un ostacolo insuperabile ad un intervento di razionalizzazione anche in questo specifico campo. Così non è stato, ma proprio in una prospettiva de iure condendo, si provi a riflettere sulle possibilità alternative. Queste mi paiono essere essenzialmente due, l’una che manterrebbe la competenza nell’ambito amministrativo, l’altra che la sposterebbe sull’autorità giudiziaria ordinaria. Quanto alla prima, valorizzata la vocazione proconcorrenziale dell’istituto della licenza obbligatoria nel caso dell’invenzione dipendente, la competenza sul relativo provvedimento di concessione potrebbe essere attratta naturalmente in quella dell’organo che l’ordinamento ha preposto alla tutela della concorrenza, cioè dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, la quale, peraltro, già interviene nel caso di licenza «volontaria» sui principi attivi (art. 200 c.p.i.). Il meccanismo del controllo delle decisioni dell’Autorità Garante seguirebbe poi la via delle ordinarie impugnazioni degli atti amministrativi. Quanto alla seconda, e a mio modo di vedere largamente preferibile, soluzione, della questione dovrebbe naturalmente essere investita l’autorità giudiziaria ordinaria, che già provvede al controllo della validità e 135 Molteplici sono gli interessi coinvolti nell’istituto in esame: a quelli del primo inventore a non vedere ridotto il valore del suo brevetto, a causa dello scavalcamento da parte di una soluzione tecnologica più avanzata, si contrappongono quelli del secondo inventore a vedere premiati gli sforzi e gli investimenti da lui compiuti per migliorare la tecnologia esistente. Si tratta di interessi individuali e, al tempo stesso, afferenti all’esigenza collettiva di fruire, quanto prima, della tecnologia più progredita (es. un farmaco depurato da effetti collaterali nocivi). Il problema del conflitto fra inventore “dipendente” e titolare del brevetto originario, inerente sostanzialmente il consenso di quest’ultimo all’entrata nel mercato del primo, riguarda, invero, solo la fase di attuazione del trovato ovvero la produzione e l’immissione nel mercato. L’inventore “dipendente” è infatti perfettamente libero di brevettare senza dover chiedere alcun permesso. Tale libertà, pur non congiunta a quella di attuare, consentirà comunque a costui di difendere la all’accertamento della contraffazione del brevetto per invenzione. La proposta mi è apparsa particolarmente convincente, soprattutto immaginando come potrebbe presentarsi la situazione in concreto oggi, alla luce delle modifiche introdotte dal CPI. Data la possibilità che la licenza obbligatoria venga concessa anche al contraffattore in buona fede, è ipotizzabile che il titolare del brevetto successivo attui inizialmente l’invenzione senza chiedere alcuna autorizzazione e che esso venga poi convenuto avanti al giudice ordinario in una causa di contraffazione instaurata dal titolare del brevetto principale precedente. Ed è proprio questo il momento e la sede in cui nasce l’interesse del contraffattore a richiedere la licenza obbligatoria. Succede allora che il giudizio ordinario deve sospendersi nel momento in cui il contraffattore fa istanza all’UIBM per ottenere tale licenza? Parrebbe che la risposta debba essere affermativa, ma il giudizio dovrebbe però anche essere (forse inutilmente) riassunto, per concludersi con il rigetto dell’azione di contraffazione, che sarebbe divenuta a questo punto logicamente incompatibile con la avvenuta concessione della licenza. Non sarebbe, invece, più lineare, semplice e sistematicamente coerente, anche nell’ottica della specializzazione del giudice ordinario della materia industrialistica, che la domanda di licenza obbligatoria potesse essere formulata in via subordinata dal contraffattore nel quadro della sua difesa nell’azione ordinaria contro di lui proposta, e potesse essere formulata in ogni stato e grado del giudizio, esattamente al pari della domanda di conversione del brevetto (art. 76.3 c.p.i.), che pure affida al giudice il compito di valutare la sussistenza nel trovato dei requisiti per la concessione di un diverso brevetto? Si darebbe luogo, così ragionando, ad una sentenza di accertamento costitutivo, che terrebbe luogo del contratto non concluso volontariamente dalle parti (art. 2932 c.c.), e che dovrebbe essere poi trasmessa entro un termine dato (i sei mesi previsti dall’art. 76 c.p.i. per la sentenza che dispone la conversione del brevetto) all’UIBM per la dovuta trascrizione. A me pare questo un sistema astrattamente praticabile e soprattutto coerente con il meccanismo di controllo sulla validità del brevetto per invenzione accolto dall’ordinamento. Così riformato, l’istituto avrebbe forse delle chances di applicazione maggiori di quelle, nulle, dimostrate dal 1968 ad oggi”. 302 ) Art. 71, comma 1, c.p.i., art. 31, comma 1, TRIPs; l’art. 72, comma 2, c.p.i. ha esteso detto beneficio al contraffattore dipendente che dimostri la propria buona fede. 136 sua invenzione contro i terzi contraffattori compreso il titolare del brevetto precedente. Inoltre, anche in assenza (temporanea o meno) di attuazione, la brevettazione consentirà, attraverso la pubblicità della domanda, il prodursi degli effetti virtuosi derivanti dalla disclosure dell’invenzione. Nella ricerca biotecnologica accade molto spesso che una nuova invenzione sia strettamente collegata alla precedente303; in questo settore l’innovazione procede, infatti, non tanto per salti inventivi eclatanti e stacchi qualitativamente decisivi rispetto allo stato della tecnica nota, quanto per uno stratificarsi di più modeste acquisizioni dovute alla sperimentazione su larga scala304. Gli ultimi trovati sono fortemente tributari rispetto al bagaglio delle informazioni che li ha preceduti. Il patrimonio delle conoscenze collettive è dunque un indispensabile antecedente tecnico dal quale parte lo studio e la possibilità stessa dell’innovazione305. L’ordinamento, al fine di salvaguardare l’interesse competitivo del primo inventore, attribuisce a quest’ultimo, su basi di reciprocità, il diritto ad una licenza sulla nuova tecnologia. In tal modo, egli stesso potrà divenire concorrente diretto del secondo inventore ed, entrambi, potranno portare sul mercato, in reciproca concorrenza, l’innovazione complessivamente più avanzata. Il legislatore tende, in tal modo, ad innescare una spirale virtuosa di licenze incrociate ovvero ad impedire che l’accesso al mercato della innovazione dipendente di alto profilo venga ritardato dalla volontà ostruzionistica dell’innovatore precedente; consente quindi ad entrambi gli inventori di competere al livello più avanzato e soddisfa, 303 ) L’art. 81 octies c.p.i. contiene la disciplina della licenza obbligatoria inerente lo sfruttamento delle privative sulle varietà vegetali. 304 ) Si precisa comunque che l’attività sperimentale è sottratta alla tutela brevettuale ai sensi dell’art. 68 comma 1, lett. a) c.p.i. il quale così recita: “La facoltà esclusiva attribuita dal diritto di brevetto non si estende, quale che sia l’oggetto dell’invenzione: a) agli atti compiuti in ambito privato ed a fini non commerciali, ovvero in via sperimentale; b) agli studi e sperimentazioni diretti all’ottenimento, anche in paesi esteri, di un’autorizzazione all’immissione in commercio di un farmaco ed ai conseguenti adempimenti pratici ivi compresi la preparazione e l’utilizzazione delle materie prime farmacologicamente attive a ciò strettamente necessarie; c) alla preparazione estemporanea, e per unità, di medicinali nelle farmacie su ricetta medica, e ai medicinali così preparati, purché non si utilizzino principi attivi realizzati industrialmente”. 305 ) In tal senso P. A.E. Frassi, Innovazione derivata, cit., p. 212. L’Autrice osserva che la conseguenza della rilevata natura incrementale di una larga parte dell’innovazione nei settori di punta è che il debito dell’innovazione successiva rispetto a quella precedente tende a proporsi come la regola e non già come una condizione eccezionale, come, invece, sembra ancora ritenere il legislatore nazionale nel dettare la disciplina della licenza obbligatoria nel caso di invenzioni dipendenti. 137 contemporaneamente, gli interessi dei consumatori poiché nel sistema duopolio i prezzi sono tipicamente meno alti rispetto a quelli del monopolio. La valorizzazione dei profili pro-concorrenziali del sistema brevettuale rappresenta, dunque, un punto fermo sia per l’interprete che per il legislatore i quali, nei rispettivi ruoli, si propongano di adeguare l’ordinamento all’evoluzione dei contesti tecnologici, economici e finanziari della ricerca applicata e del suo sfruttamento industriale, promuovendo un contesto di concorrenza dinamico nel quale l’innovazione stimoli la competizione sull’innovazione. 138 e la competizione poggi Capitolo V Nuovi modelli organizzativi deputati alla produzione ed allo sfruttamento della conoscenza 139 1. Nuovi saperi ed imprenditorialità. Rimodulazione degli equilibri esistenti sul mercato tramite nuove strategie organizzative Il dibattito teorico sull’efficienza del sistema delle privative ha posto scarsa attenzione agli aspetti maggiormente dinamici ed idiosincratici della conoscenza306. Il trasferimento degli intellectual property rights non è, infatti, di per sé sufficiente a garantire un’effettiva circolazione di quella parte di conoscenza che, diversamente dall’informazione codificata, può essere scambiata unicamente attraverso processi di condivisione che ne valorizzino la portata relazionale e che ne consentano l’assorbimento da parte dei soggetti interessati alla sua acquisizione307. In un’economia della conoscenza il controllo delle fonti, di produzione e di distribuzione, del sapere assume un ruolo cruciale per lo sviluppo della competitività308; le imprese sono costrette a rivedere le proprie strategie arrivando sinanche a valutare opzioni incentrate sui meccanismi di natura contrattuale piuttosto che sulle classiche operazioni di arricchimento delle risorse interne309. Queste ultime rappresentano, tuttavia, ancora oggi, un fattore essenziale di sviluppo. Le imprese, per essere competitive, devono saper combinare la capacità di realizzare innovazione con il talento e le risorse strutturali e manageriali necessarie per attivare e gestire, con adeguata competenza e professionalità, le operazioni 306 ) In tal senso V. Zeno Zencovich, F. Mezzanotte, Le reti della conoscenza: dall’economia al Diritto, in Dir. Informatica, 2008, p. 141. 307 ) F. Cafaggi, Reti di imprese, spazi e silenzi regolativi, in Id. (a cura di), Reti di imprese tra regolazione e norme sociali. Nuove sfide per diritto ed economia, Bologna, 2004, p. 43, scrive “i regimi di accesso alla conoscenza rivelano l’insufficienza delle attuali tecniche pubblicistiche (di regolazione) e di quelle privatistiche (di stampo proprietario) e la necessità di individuare nuovi strumenti di interazione tra diritti di proprietà intellettuale e modelli organizzativi deputati alla produzione e sfruttamento della conoscenza condivisa [...]”. 308 ) In tal senso E. Rullani, Economia della conoscenza, Roma, 2006. 309 ) Si tratta di cambiamenti resi ancora più necessari dai nuovi equilibri verificatisi nel mercato così come modificato dalle nuove tecnologie. Le imprese divenute obsolete a causa dell’innovazioni sono costrette a verificare la loro capacità di resistere al cambiamento; le stesse possono rinnovare tecnologicamente le loro aziende ovvero abbandonare la scienza competitiva. 140 produttive ed i sistemi di collegamento con i mercati di sbocco310. Le risorse e le competenze interne maturano con gli anni di lavoro e con gli investimenti; sono inscindibili rispetto alla realtà che le ha generate, difficilmente acquisibili o replicabili e, pertanto, fonti primarie di vantaggio competitivo311. Sulla base di una qualificata dotazione di competenze interne l’impresa può decidere di instaurare rapporti di collaborazione con soggetti ad essi esterni ovvero seguire lo sviluppo dell’innovazione dalla fase della ricerca a quella commerciale. Le imprese orientate ad intraprendere la strada dello sviluppo esterno implementeranno tipologie di alleanze calibrate in funzione degli obiettivi di crescita cui daranno priorità; potranno decidere di condividere risorse ed investimenti finalizzati a produrre scoperte scientifiche (cooperazione per la ricerca)312 ovvero attività economiche (cooperazione per lo sviluppo industriale e commerciale). La ricerca è trainata dal desiderio irrefrenabile di esplorare e conoscere l’ignoto senza condizionamenti specifici; l’industrializzazione delle scoperte scientifiche è invece guidata da finalità essenzialmente economiche e richiede l’attivazione di risorse di natura tecnico-aziendale, umane, strutturali, conoscenze, competenze e abilità che solo un’impresa esperta ed affermata sul mercato è in grado di gestire. 310 ) R. Vona, Management delle biotecnologie. Competizione, innovazione e sviluppo imprenditoriale, Milano, 2008, p. 84, il quale rileva che la disponibilità “di uno zoccolo duro di intelligenza e abilità di proprietà” costituisce un fattore competitivo cruciale con il quale alimentare il serbatoio di saperi cui attingere per tutelare l’autonomia strategica e di azione dell’impresa nei confronti del rischio di non riuscire a contrastare i comportamenti opportunistici ovvero assistere impotenti al sopravanzare delle inefficienze rispetto ai benefici generati dai sistemi aziendali frammentati. 311 ) A. Gambardella, Competitive advantages from in-house basic research, Research Policy, 2005, p. 391, osserva che la disponibilità di saperi scientifici interni all’impresa rappresenta un asset essenziale sia per alimentare la propensione e la tensione verso la scoperta e la gestione in house delle innovazioni sia per comprendere appieno le traiettorie del cambiamento tecnologico sviluppate da realtà esterne all’impresa. 312 ) Un esempio di alleanza finalizzata al potenziamento del sapere nel campo delle biotecnologie è l’accordo tra la società di ricerca Biogen e l’Università di Zurigo che ha permesso di scoprire la molecola “Intron A”, il primo ritrovato ad essere ammesso alla fase di sperimentazione clinica per il trattamento di certe tipologie di leucemie e di epatite “C”. Una volta che i risultati delle attività di ricerca ebbero creato le condizioni per costruire una sorta di prototipo, le strategie della Biogen si focalizzarono sulle iniziative di sviluppo industriale che sfociarono in un accordo di collaborazione con la compagnia farmaceutica Schering-Plough; la Biogen stipulò, in particolare, un contratto di licensing out in esclusiva che, a fronte di royalty, trasferiva a carico della licenziataria i costi ed i rischi delle attività di sperimentazione e gli oneri derivanti dalla necessità di investimenti conseguenti alla decisione (eventuale) di affrontare anche le problematiche di produzione e di marketin. 141 Normalmente, sono le grandi multinazionali che effettuano gli ingenti investimenti necessari per portare un nuovo ritrovato sul mercato curandone anche il marketing, le vendite e gestendone gli aspetti di natura giuridica, normativa e legale. Nelle piccole imprese si concentrano invece le conoscenze specialistiche e le capacità dinamiche per generare nuovi ritrovati313; una volta raggiunto l’obiettivo scientifico, dette imprese possono decidere di entrare nella fase successiva dello sviluppo industriale dell’innovazione (strategia d’integrazione verticale discendente) piuttosto che mantenere la connotazione iniziale di research firm314. Le imprese di ricerca che decidono di allargare i propri confini organizzativi per svolgere attività inerenti la fase successiva alla ricerca, seppur penalizzate dalla 313 ) Le nuove tecnologie hanno generato, negli ultimi venti anni, un tessuto industriale nel quale si distinguono: grandi multinazionali, e loro filiali, che si concentrano sulla fase a valle del processo biotech a partire dallo sviluppo dei nuovi ritrovati sino all’approvazione ed alla commercializzazione degli stessi; imprese biotech di ricerca che si specializzano sulla fase a monte del processo generando nuovi ritrovati e quindi concentrandosi sulla ricerca vera e propria e, al più, sulle prime fasi dello sviluppo pro competitivo; imprese biotech di servizio e di supporto che offrono, sia alle grandi che alle piccole imprese, gli strumenti, i metodi, le tecniche (come, ad esempio, tecnologie di screening, piattaforme tecnologiche o la gestione informatica dei dati) con le quali realizzare alcune attività del processo di ricerca e sviluppo; centri di ricerca specializzati pubblici e privati; parchi scientifici; imprese, consorzi d’imprese, enti a partecipazione pubblica che fungono da provider di relazioni strategiche, networking e trasferimento tecnologico. 314 ) Le imprese di ricerca possono decidere di continuare a focalizzare la loro attenzione sulle problematiche scientifiche (strategia di sviluppo orizzontale) scegliendo magari di sviluppare un nuovo filone scientifico, più o meno distante dal precedente, promuovendo una strategia di arricchimento del portafogli “prodotti”; in quest’ultimo caso, lasciano alle altre imprese il compito di valutare la convenienza ad investire ed a rischiare in attività di accompagnamento degli avanzamenti delle scienze e delle tecnologie verso il mercato. Si assiste così ad un processo di specializzazione che porta alcune imprese a diventare il punto di riferimento di altre stabilendo, sovente, rapporti di collaborazione talvolta più stringenti, talaltra meno vincolanti così da lasciare la massima libertà di valutare in ogni momento le migliori opportunità sul versante sia della ricerca che del management e del trasferimento tecnologico. 142 complessità tecnica della gestione aziendale315, godranno del vantaggio di conoscere in profondità i punti di forza e di debolezza che caratterizzano, sul piano scientifico, la propria scoperta rispetto al panorama delle tecnologie esistenti, condizione preziosa ai fini di una misurazione più precisa ed affidabile del potenziale economico di mercato associabile ad una nuova scoperta316. A prescindere dal livello (ricerca o commercio) in cui un’impresa decida di operare nel settore biotecnologico, la stessa dovrà comunque far fronte a cambiamenti che si presentano straordinariamente veloci e che richiedono un controllo assoluto e professionale delle fonti delle conoscenze più qualificate, con le quali è essenziale stabilire relazioni e paternariati senza limitazioni di natura organizzativa e territoriale se si vogliono massimizzare i risultati degli sforzi creativi. In teoria, quindi, scienziati, imprese, istituzioni pubbliche e private interessate al progresso scientifico, dovrebbero sempre cooperare in modo 315 ) Gli imprenditori provenienti dal mondo del sapere scientifico devono misurarsi con la complessità tecnica della gestione aziendale, cui si può far fronte reclutando ed integrando un adeguato (per numero e qualità) stock di risorse manageriali, ovvero stipulando speciali accordi con imprese ritenute in grado di apportare competenze nelle aree del marketing, della produzione e del controllo economico-finanziario, accettando di negoziare l’accordo in condizioni di asimmetria informativa data la difficoltà di valutare elementi dell’offerta estranei alla cultura scientifica. Lo scienziato inoltre, salvo eccezioni, potrebbe non possedere il talento e l’attitudine per gestire quotidianamente le preoccupazione e gli oneri dell’operatività associata all’attuazione di un progetto d’impresa, capacità che invece possiedono i professionisti del management. In letteratura, si ritiene tuttavia che la leadership tecnologica di paesi come gli Stati Uniti sia ricollegabile allo straordinario sviluppo delle iniziative imprenditoriali promosse in forma di Spin-Off dai ricercatori delle principali strutture accademiche del paese; tale modello sarebbe anche alla base del successo delle biotecnologie in Inghilterra. Esiste una correlazione positiva tra avanzamento della conoscenza e sviluppo delle nuove imprese promosse in ambito accademico che hanno dato vita al fenomeno (considerato una best practice a livello internazionale) della creazione di aggregazioni territoriali (i c.d. distretti tecnologici) di offerta di servizi ed attività economiche in prossimità delle istituzioni universitarie di maggior prestigio, condizione essenziale per incentivare i c.d. star scientist a “fare impresa”: M. Raffa, L. Iandoli (a cura di), Entrepreneurship competitiveness and local development, Napoli, 2005. 316 ) R. Vona, op. cit., p. 93., osserva che i prodotti della ricerca, inclusi quelli protetti da brevetto, possono presentare aspetti di complessità talmente rilevanti da rendere il know-how accessibile e gestibile solo per coloro che hanno lavorato al processo di scoperta; ciò, rappresenta una barriera naturale (non legale) che rende estremamente delicati e ben più articolati e fallibili i processi “distributivi” della scienza. Sovente, quindi, nelle operazioni di trasferimento tecnologico non possono mancare gli inventori, i soli in grado di progettare e gestire un efficiente sistema di presentazione e riproduzione della conoscenza; la somministrazione (e non la semplice cessione) del sapere necessita del talento e delle abilità scientifiche di coloro che possiedono i segreti profondi delle nuove conoscenze. 143 costruttivo, superando steccati e confini aziendali, per aumentare la qualità e la quantità del progresso scientifico, economico e sociale317. 2. Il ruolo delle Università e dei centri di ricerca nel sistema imprenditoriale biotecnologico. Individuazione dei titolari dei diritti di privativa Il mondo della ricerca scientifica si avvicina sempre più spesso a quello imprenditoriale; all’interno degli atenei si moltiplicano gli uffici addetti al trasferimento tecnologico (TT) e le imprese c.d. spin-off. Si tratta di una tendenza che conferma il venir meno della tradizionale divisione fra ricerca “pura”, affidata alle università e finanziata dalla mano pubblica, e ricerca “applicata”, sovvenzionata e svolta dalle imprese318; non è raro assistere a ricerche scientifiche condotte direttamente, o comunque finanziate, dai privati nel mentre le università, specie nel settore biotecnologico, ricorrono alle potenzialità economiche della brevettazione. Gli Atenei e gli enti di ricerca, facendo leva su elementi di contenuto (capacità d’innovare) e di immagine (prestigio e reputazione), riescono ad attivare circuiti virtuosi favorevoli all’avvio ed al radicamento di iniziative imprenditoriali promosse da scienziati rinomati; ambienti attraenti sul piano delle condizioni generali di lavoro, costituiscono elementi essenziali per incoraggiare gli scienziati di maggior 317 ) In tal senso R. Vona, op. cit. p. 80, riporta, come esempi, quello della società Amgen che, pur rappresentando una delle realtà imprenditoriali di maggiore dimensione specializzata nelle biotecnologie, è cresciuta investendo risorse finanziarie e scientifiche nelle collaborazioni esterne con numerose piccole imprese di ricerca indipendenti (veri e propri satelliti assimilabili a dei subfornitori); a queste imprese è stato attribuito il ruolo strategico di curare in outsourcing il laboratorio aziendale con l’obiettivo di massimizzare la produzione di innovazioni tecnologiche promettenti da sottoporre a validazione scientifica, per poi portarle eventualmente sul mercato mediante specifici accordi di licenza. Diversa è la strategia seguita dalla Chiron, leader mondiale nel campo delle biotecnologie, partecipata dalla multinazionale farmaceutica svizzera Novartis e dal colosso del largo consumo Johnson&Johnson. La Chiron è riuscita a costruire una vasta rete di rapporti di collaborazione scientifica (formale ed informale) che include piccole unità di ricerca indipendenti, strutture universitarie, imprese specializzate piccole e grandi. Il colosso svizzero della farmaceutica, Hoffaman LaRoche, ha invece rafforzato la collaborazione strategica con la partecipata Genentech, sviluppando progetti comuni sul versante della ricerca e del marketing, ed ha altresì attivato relazioni con altre imprese leader nel campo biotecnologico come Amgen e Affymetrix. 318 ) Per approfondire le problematiche connesse alla dicotomia ricerca “pura” e ricerca “applicata” si rimanda al Cap. II, par. 7. 144 prestigio ad intraprendere la sfida, onerosa e rischiosa, del confronto con il mercato e le sue regole. Ciò spiega il successo dei modelli di sviluppo finalizzati alla creazione di veri e propri distretti, guidati dalla leadership strategica del sapere e della produzione di innovazioni all’avanguardia, considerati a livello internazionale una “best practice” da emulare; cresce, in prossimità della grandi accademie, sia il livello di produttività scientifica sia l’incentivo a promuovere l’insediamento, nell’ambito del proprio territorio, di nuove entità di impresa come gli spin-off accademici. Questi nascono, in particolare, da una “costola” di un ente di ricerca (pubblico o privato)319; al fine di avviare con maggiore libertà e flessibilità tutte le iniziative necessarie per meglio valorizzare i prodotti della conoscenza, costituiscono una struttura nuova, autonoma, giuridicamente e finanziariamente, dall’ente di provenienza320. Tali iniziative trovano, notoriamente, le loro radici nell’esperienza degli Stati Uniti dove la ricerca scientifica è sostenuta da un ingente flusso di finanziamenti e dalla ventennale applicazione della normativa del Bayh-Dole Act che, sin dal 1980, 319 ) La definizione è di R. Vona, op. cit., p. 95. ) Accade, in sostanza, che un gruppo di ricercatori, spesso di provenienza accademica, decida di intraprendere un percorso di sviluppo commerciale dei risultati della propria ricerca avviando, autonomamente, nuove strutture private alle quali conferire il proprio sapere e parte del proprio tempo (con il consenso delle strutture di appartenenza), in modo da investire nuove energie e risorse in processi finalizzati, da un lato, a sviluppare ulteriormente la conoscenza e, dall’altro, a trovare mercati interessati ad utilizzarla e a pagarla; si tratta dunque di un circuito virtuoso di risorse e di benefici a vantaggio sia della ricerca sia del mondo dei possibili fruitori della stessa. Altro vantaggio delle società spin-off deriva dalla capacità di creare strutture dotate di migliori condizioni patrimoniali e culturali per poter accedere a fonti di finanziamento private attratte, solitamente, da investimenti in iniziative ad elevata intensità di conoscenza e di innovazione. M. Granieri, Circolazione (mancata) dei modelli e ricerca delle soluzioni migliori. Il trasferimento tecnologico dal mondo universitario all’industria e la nuova disciplina delle invenzioni d’azienda, in Riv. dir. ind., 2002, p. 61, definisce lo spin off universitario come la creazione, da parte dell’università o di un suo dipartimento, di un soggetto societario di piccole dimensioni, licenziatario del diritto di proprietà industriale; la fase del distacco è normalmente preceduta da un periodo di tutoraggio, di sostegno tecnico e finanziario definito, solitamente, come “incubazione”. L’oggetto sociale della piccola società è rappresentato dallo sfruttamento del brevetto. La permanenza dell’università nella compagine sociale della cd. società volano è garantita normalmente fino al superamento della fase di start-up. In quel momento, alla dismissione della partecipazione universitaria corrisponde o la completa “privatizzazione” del soggetto, anche attraverso la quotazione in borsa, oppure l’acquisizione dello stesso da parte di società più grandi interessate a quella particolare attività industriale. In ogni caso, il profitto che viene realizzato dall’università, come corrispettivo della sua uscita, viene reinvestito nella ricerca scientifica. 320 145 promuove l’utilizzazione delle invenzioni realizzate con fondi pubblici federali e favorisce la collaborazione fra atenei e mondo imprenditoriale321. Il Bayh-Dole Act attribuisce la titolarità dell’invenzione alle università ed agli enti di ricerca. A tutela dei finanziatori, la norma riconosce all’agenzia federale che ha sovvenzionato la ricerca la possibilità di rivendicare la titolarità del brevetto qualora l’università non gli comunichi, entro un tempo ragionevole, l’invenzione realizzata; ulteriore facoltà è quella di richiedere all’inventore (concessionario/licenziatario esclusivo) il rilascio di una licenza a condizioni ragionevoli (c.d. march-in right). Quest’ultimo istituto trova invero applicazione solo se il titolare dell’esclusiva non abbia commercializzato l’invenzione oppure la licenza sia necessaria per soddisfare bisogni primari della collettività. Quando le università non dispongono degli apparati necessari per realizzare e vendere, su larga scala, i prodotti incorporanti la tecnologia brevettata, gli atenei 321 ) Il Bayh-Dole Act è codificato nei § 200-212 del 35 U.S.C.; si applica a tutte le invenzioni finanziate dal governo statunitense, indipendentemente dalla natura pubblica o privata del destinatario dei fondi. Al fine di promuovere il trasferimento tecnologico dai centri di ricerca pubblica alle imprese private, è stato approvato anche l’intervento del Congresso statunitense del 1980 noto come Stevenson-Wydler Technology Innovation Act, codificato nel 15 U.S.C. § 3701-3714. Tale normativa ha istituito all’interno del Department of Commerce una Technology Administration con il compito di coordinare a livello federale le politiche per l’innovazione. Ha inoltre incoraggiato le Agenzie federali a realizzare progetti di ricerca congiunta e a negoziare accordi di licenza con altre autorità per le invenzioni da queste sviluppate. 146 accedono al mercato concludendo normalmente contratti di licenza con le imprese private; i relativi canoni diventano una delle loro principali fonti di finanziamento322. 322 ) L’esperienza statunitense sembra indicare che, in linea generale, lo strumento contrattuale preferibile sia quello delle c.d. field-of-use licenses vale a dire licenze multiple in relazione ad utilizzazioni distinte. Il brevetto riguardante un gene potrebbe, per esempio, essere oggetto di più licenze in relazione alle molteplici applicazioni rivendicate (es. realizzare e vendere prodotti diagnostici basati sull’antigene; realizzare e vendere la proteina ad uso terapeutico; vendere la proteina come reagente). Tali contratti possono, da un lato, garantire la massimizzazione dei ricavi e, dall’altro, meglio raggiungere l’obiettivo della più ampia diffusione della tecnologia con un conseguente incremento del benessere collettivo. Tale tipologia di licenze scongiura anche il rischio di underuse: di fronte ad un brevetto con molteplici ricadute applicative, un’impresa potrebbe infatti decidere di destinare investimenti allo sviluppo di un’applicazione e di “tralasciare” altre utilizzazioni ritenute meno remunerative. Il ricorso a clausole di esclusiva potrebbe, d’altra parte, rendere inefficiente (rispetto al conseguimento anche dell’obbiettivo di public policy), la gestione del portafoglio brevettuale da parte di un’università, specie nel caso di brevetti biotecnologici relativi ad upstream patents o research tools. In queste ipotesi, infatti, l’invenzione potrebbe avere molteplici applicazioni e una licenza esclusiva potrebbe rivelarsi la soluzione ottimale per le casse delle università (le licenze esclusive, infatti, sono generalmente accompagnate da canoni più elevati), ma non quella migliore per il benessere sociale (negli anni novanta, ad esempio, la Winsconsin Alumni Rearch Foundation, WARF, aveva concesso in esclusiva tutti i brevetti sulle cellule staminali da essa detenuti ad una impresa privata operante nel mercato farmaceutico). Diverse università ed enti di ricerca pubblica operanti nel settore biomedico hanno anche messo a punto alcune best practices intese ad armonizzare l’obbiettivo economico con quello della promozione e della diffusione non discriminatoria delle conoscenze scientifiche incorporate nei brevetti riguardanti strumenti di ricerca ovvero tecniche di ingegneria genetica. Si segnala, in particolare, il “modello” del California Institute for Regenerative Medicine (CIRM), agenzia pubblica creata con lo scopo di finanziare e pianificare la ricerca genetica; ulteriore scopo è quello di diffondere i risultati ottenuti tramite la commercializzazione dei prodotti in vista dei ritorni economici. Per ottenere il finanziamento, il beneficiario degli stanziamenti è tenuto a rispettare le condizioni poste dal CIRM circa la gestione delle licenze dei diritti di proprietà industriale che saranno generati nell’ambito dell’attività di ricerca. Se il soggetto finanziato è un ente no profit (come le università) quest’ultimo deve impegnarsi a rendere accessibili, a condizioni ragionevoli, i propri diritti di proprietà intellettuale; se invece il soggetto finanziato è un’impresa, questa deve presentare una relazione annuale sulle licenze rilasciate, condividere con l’ente finanziatore i ricavi delle stesse e concedere licenze non esclusive a terzi volte a sviluppare/migliorare l’invenzione. Di particolare interesse è anche un documento promosso dalla Università di Stanford, sottoscritto nel 2007 da vari atenei, in tema di trasferimenti tecnologici; il documento fissa alcuni (nove, per l’esattezza) valori/obiettivi comuni ispirati al primato dell’interesse collettivo ed, in particolare, alla divulgazione scientifica e alla diffusione delle tecnologie avanzate. Non manca inoltre chi promuove l’estensione del modello open source, affermatosi nel mercato dei software, anche alle biotecnologie; tale modello indica, in informatica, un software i cui autori (più precisamente i detentori dei diritti) ne permettono e favoriscono il libero studio e l’apporto di modifiche da parte di altri programmatori indipendenti tramite l’applicazione di apposite licenze d’uso. In tal senso è attivo il progetto Science Commons che propone un accesso più facile alla letteratura, dei dati e dei diritti di proprietà intellettuale in un’ottica di maggiore condivisione della conoscenza. Science Commons ha messo a punto il Biological Materials Transfer Project che intende promuovere l’adozione di contratti standard per i trasferimenti tra istituzioni allo scopo di abbassare i c.d. costi transattivi legati all’utilizzazione dei research tools. Per queste ed altre considerazioni si rimanda a P. Errico, I brevetti sulle biotecnologie fra ricerca pubblica e sviluppo privato. Indicazioni dall’esperienza statunitense, in Riv. dir. ind., 2009, p. 311. L’Autrice precisa che siffatti modelli possono avere successo qualora l’oggetto, cioè i brevetti siano attribuiti direttamente alle università e agli enti di ricerca; in caso contrario, cioè qualora la titolarità della privativa sia disseminata in capo a 147 In controtendenza rispetto al suesposto modello ed a quello adottato dalla maggior parte degli ordinamenti brevettuali europei323, nel 2001 l’Italia ha modificato la disciplina inerente la titolarità delle invenzioni realizzate in ambiente universitario, riconoscendo i relativi diritti in capo ai ricercatori324 piuttosto che agli Atenei325. A quest’ultimi, viene attribuita esclusivamente la possibilità di conseguire, a titolo gratuito, una licenza non esclusiva per lo sfruttamento del trovato nel caso di mancata attuazione da parte dell’inventore; possono inoltre fissare gli importi massimi dei canoni di licenza per la concessione, in uso, dell’invenzione a terzi ciascun inventore individuale, la realizzazione, e soprattutto, l’enforcement di siffatti sistemi risulterebbero pressoché impossibile. 323 ) Per un raffronto con gli ordinamenti brevettuali degli altri Paesi europei si veda A. Bax, Le invenzioni dei ricercatori universitari: la normativa italiana, in Riv. dir. ind., 2008, p. 209, S. Breschi, A. Della Malva, F. Lissoni, F. Montobbio, L’attività brevettuale dei docenti universitari: l’Italia in un confronto internazionale, in Economia e Politica Industriale, 2007, p. 46. 324 ) Ai ricercatori universitari sono equiparati, nella norma, i ricercatori impiegati presso enti pubblici di ricerca e, più in generale, tutti quei casi in cui intercorre un rapporto di lavoro con una pubblica amministrazione avente tra i suoi scopi istituzionali finalità di ricerca. 325 ) Art. 65 c.p.i. E. Arezzo, La tutela e la valorizzazione della ricerca universitaria in tempi di crisi, in Riv. dir. ind., 2013, p. 148, osserva sull’argomento: “L’istituzione del c.d. privilegio accademico – così definito perché introduce un regime eccezionale rispetto a quello applicabile ai dipendenti delle imprese - in un momento storico in cui un Paese come la Germania, da sempre leader nell’innovazione, provvedeva ad espungerlo dal proprio ordinamento brevettuale, pare trovasse fondamento — nel c.d. “ pacchetto Tremonti” — nel convincimento che l’attribuzione della titolarità dei frutti della ricerca ai diretti inventori (anziché agli Atenei) avrebbe comportato una serie di effetti benefici. In primo luogo, un più intenso ricorso al brevetto, nel presupposto vuoi che “l’interesse egoistico del ricercatore” lo avrebbe incentivato maggiormente verso la privativa brevettuale, vuoi che il singolo ricercatore, liberato dalle maglie della burocrazia accademica, avrebbe avuto accesso più facile e veloce alla privativa. In secondo luogo, una migliore valorizzazione della ricerca universitaria: sempre nell’assunto che il singolo ricercatore, potendo disporre autonomamente dei frutti della propria ricerca, avrebbe avuto un maggiore interesse ad attivarsi per trovare le modalità di sfruttamento più adeguate. Le Università, infatti, non essendo realtà imprenditoriali, non dispongono delle infrastrutture necessarie per produrre su scala industriale i frutti dell’invenzione, né di adeguati canali per la distribuzione (….). La riforma del 2001 tradisce una certa sfiducia nei confronti dell’Università come istituzione — interessata a e — capace di valorizzare i propri assets immateriali e preferisce fare affidamento sul singolo ricercatore, nella speranza che facendo leva sull’interesse del singolo possano ottenersi benefici per l’intero sistema”. Come dianzi accennato, la Germania con legge 18 gennaio 2002 ha provveduto ad invertire il regime di titolarità sulle invenzioni accademiche attribuendone i relativi diritti agli Atenei, seppure, pare, a titolo derivativo. All’inventore viene anche riconosciuto il diritto di non rendere pubblica l’invenzione, nel rispetto della propria libertà didattica o scientifica. La legge tedesca riconosce altresì al ricercatore-inventore il diritto ad una licenza non esclusiva relativamente all’utilizzo dell’invenzione nell’ambito della propria attività accademica nonché il diritto a percepire una quota dei proventi (del 30%) derivanti dallo sfruttamento economico del brevetto. 148 nonché ogni ulteriore aspetto dei rapporti reciproci326. La norma non è andata esente da critiche. È stato osservato che attribuendo al ricercatore il diritto al brevetto, lo studioso è gravato dagli esosi costi connessi al deposito della relativa domanda (tra questi le parcelle dei consulenti brevettuali, le spese delle traduzioni, le tasse di deposito, etc.)327. Il ricercatore potrebbe avere interesse ad affrontare le spese della brevettazione allorquando abbia rapporti con il mondo imprenditoriale che gli permetterà di recuperarle; in tali casi, tuttavia, è raro che il privato finanziatore acconsenta a lasciare la titolarità del brevetto al ricercatore, il quale, spesso, accetta di cedere ab initio il diritto al brevetto328 ovvero trasferisce la privativa in pendenza del lungo processo di brevettazione329. Potrebbe anche accadere, come nel caso di privative scaturenti dalla ricerca vincolata, che tali brevetti vadano a situarsi nel gruppo delle privative c.d. di 326 ) V. Di Cataldo, Le invenzioni delle università. Regole di attribuzione dei diritti, regole di distribuzione dei proventi, e strumenti per il trasferimento effettivo delle invenzioni al sistema delle imprese, in Riv. dir. ind., 2002, p. 340, nota, opportunamente, che l’attribuzione della titolarità dell’invenzione dovrebbe comportare “il pieno diritto dell’inventore di negoziare con terzi l’invenzione stessa senza dover sentire l’Università e senza dover nulla ad essa concedere”. 327 ) Non si vede come il ricercatore universitario italiano, il cui stipendio, peraltro, è inferiore rispetto alla media dei colleghi europei, possa essere incentivato ad anticipare somme ingenti per ottenere un brevetto al quale, nella quasi totalità dei casi, non è in grado di dare attuazione in proprio: E. Arezzo, op. cit., p. 36. Nel valutare i costi di brevettazione è necessario anche considerare che l’effettività della tutela è legata in misura direttamente proporzionale alla sua estensione territoriale. Un brevetto depositato solo in Italia, sebbene certamente meno costoso, attribuirà una protezione minima all’inventore che non potrà opporsi allo sfruttamento e alla circolazione del suo trovato all’estero. Sui costi del brevetto si rimanda al Capitolo I, par. 3, e sul principio di territorialità in materia brevettuale a V. Di Cataldo, I brevetti per invenzione e per modello di utilità. I disegni e modelli. Artt. 25842594, in Il Codice Civile, Commentario, fondato da P. Schlesinger, diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2012, p. 243. 328 ) Al ricercatore interessa solitamente, più che mantenere la titolarità dei diritti patrimoniali, essere riconosciuto come autore dell’invenzione con il conseguente prestigio all’interno della comunità accademica e la valutazione positiva ai fini della progressione di carriera. In tal senso L.C. Ubertazzi, Le invenzioni dei ricercatori universitari, in Contratto e impresa/Europa, 2003, p. 1117. L’ipotesi di una cessione del brevetto, con un buon corrispettivo una tantum, potrebbe essere dunque preferibile ad un contratto di licenza i cui canoni potrebbero essere collegati, ad esempio, in misura percentuale, al numero di prodotti venduti o comunque a variabili che il ricercatore non è in grado di monitorare: E. Arezzo, op. cit., p. 148. 329 ) Il ricercatore potrebbe effettuare un primo deposito presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi, che comporta una spesa contenuta, e poi, sfruttando il lasso di tempo consentito per estendere la privativa in Europa e all’estero, iniziare le trattative con l’imprenditore in maniera da cedergli, in corso di procedura, il diritto sull’invenzione e, quindi, consentirgli, se interessato, di proseguire a suo nome, e a sue spese, le successive pratiche di brevettazione. 149 derivazione accademica330; molti regolamenti universitari hanno, a tal proposito, introdotto dei meccanismi volontari di cessione all’Ateneo dei diritti nascenti dall’invenzione spettanti ex lege ai ricercatori331. Altra criticità della norma è relativa alla circostanza che le predette regole non trovano applicazione qualora le ricerche siano finanziate, in tutto o in parte, da soggetti privati ovvero realizzate nell’ambito di specifici progetti di ricerca sovvenzionati da soggetti pubblici diversi dalle università, enti o amministrazioni di appartenenza del ricercatore332. Posto che la norma esclude il ricercatore dal novero dei titolari dell’invenzione333, la dottrina osserva che la privativa spetti all’Ateneo piuttosto che all’ente 330 ) I brevetti accademici sono quelli depositati ed ottenuti dalle istituzioni accademiche e dagli enti pubblici di ricerca. 331 ) Cfr. E. Arezzo, op. cit., p. 158, cui si rimanda per una descrizione di tali regolamenti e delle Università che vi hanno fatto ricorso. 332 ) Cfr. art. 65, comma 5, c.p.i. 333 ) Nel nuovo quadro normativo suggellato all’art. 65 c.p.i. l’inventore-ricercatore verrebbe dunque a godere di una diversa posizione giuridico-economica verso i frutti del suo ingegno a seconda della circostanza che l’invenzione ricada nell’ambito della sua attività di ricerca ‘ordinaria’ o piuttosto all’interno di un progetto finanziato, in tutto o in parte, da un soggetto terzo. In quest’ultima ipotesi, la posizione del ricercatore peggiorerà drasticamente in quanto non solo non sarà più titolare dei diritti sulla propria invenzione, ma non avrà più diritto a percepire il 50% dei proventi derivanti dallo sfruttamento economico dell’invenzione. Nel caso di ricerca c.d. libera — recte ‘non finanziata’ — il ricercatore vede attribuirsi la possibilità di ottenere, a sue spese, un costosissimo diritto esclusivo che, nella maggior parte dei casi, non è in condizione di far fruttare e gli viene altresì riconosciuto il diritto di ricevere un compenso pari a non meno del 50% dei proventi derivanti dallo sfruttamento economico dell’invenzione. Nel diverso caso di un’invenzione accidentalmente concepita all’interno di un progetto finanziato, dove sicure sarebbero le prospettive di sfruttamento economico dell’invenzione essendoci già un soggetto terzo che, con grande probabilità, sarà interessato ad attuarla su scala industriale (e probabilmente anche a coprire perlomeno parte delle spese brevettuali), al ricercatore viene sottratta la titolarità sull’invenzione e gli viene precluso anche il diritto di vantare quella speciale remunerazione economica di cui al terzo comma dell’art. 65 c.p.i. 150 finanziatore334; non pare infatti opportuno che quest’ultimo approfitti dei risultati riconducibili, principalmente, alle risorse strutturali ed intellettuali dell’Università335. Le conclusioni cui giunge la dottrina non risultano invero essere dirimenti perché le Università italiane tendono a trasferire i diritti posseduti sugli assets immateriali; l’odierno contesto economico, caratterizzato da una pesante e perdurante riduzione dei finanziamenti pubblici ad Università e centri di ricerca, ha messo in seria 334 ) In tal senso V. Di Cataldo, I brevetti, le invenzioni ed i modelli di utilità, cit., p. 241 il quale non manca tuttavia di evidenziare i risvolti negativi che l’adozione di tale tesi potrebbe causare nella contrattazione degli Atenei con i partner industriali. E. Arezzo, op. cit., p. 163, osserva come in assenza di un preciso rimando ad uno dei commi dell’art. 64 c.p.i., non è chiaro se la disciplina applicabile alle invenzioni universitarie nel caso di ricerca vincolata sia quella delle invenzioni di servizio, per le quali il codice non contempla nessun ‘bonus’ aggiuntivo, dal momento che l’attività inventiva è prevista nel contratto ed è specificamente remunerata, ovvero quella delle invenzioni di azienda dove si prevede, invece, la corresponsione di un equo premio. Se, a ben vedere, l’applicazione della disciplina delle invenzioni di servizio sembra improbabile, sarebbe certamente auspicabile un preciso rimando al secondo comma dell’art. 64 c.p.i. L’incertezza del quadro normativo, infatti, ha favorito l’instaurarsi di una prassi contrattuale che tende a riconoscere all’inventore-ricercatore, generalmente al momento del deposito o del rilascio del brevetto, un bonus forfettario da corrispondersi una tantum il cui importo, solitamente assai modesto, viene fissato ex ante e non tiene in considerazione in alcun modo i parametri dettati dall’art. 64, 2º comma, c.p.i. quali l’importanza della protezione conferita all’invenzione dal brevetto, le mansioni svolte dall’inventore dipendente, la retribuzione percepita, il contributo che questi ha ricevuto dall’organizzazione predisposta dal datore di lavoro. Si rimanda all’opera da ultima citata per un raffronto tra l’art. 64 e l’art. 65 c.p.i. 335 ) A differenza di quanto accade nel caso dell’invenzione realizzata dal prestatore di lavoro in un rapporto privato di impiego, nel caso che qui ci occupa l’inventore-ricercatore riceve la sua retribuzione principale da un soggetto diverso rispetto a quello che finanzia la ricerca e cioè dall’Università o dall’Ente Pubblico di ricerca. Non solo. Spesso, a fronte di un (esiguo) finanziamento esterno, la ricerca vincolata viene svolta intra moenia, e cioè utilizzando il know-how dell’équipe di ricercatori universitari, ovvero le infrastrutture e le attrezzature universitarie. 151 difficoltà dette istituzioni pubbliche nonostante il ruolo sempre maggiore che stanno assumendo nell’ambito della ricerca336. Il reddito proveniente dalle commesse di ricerca private rappresenta una fonte essenziale di sopravvivenza per le Università, che con tali fondi sovvenzionano la ricerca stessa sotto forma di borse di studio, assegni di ricerca, acquisto di materiali e strumentazioni tecniche337. Le Università sono, dunque, costrette a competere fra loro al fine di ottenere le commesse più remunerative ovvero più durature e stabili nel tempo. A ciò si aggiunge che il sistema universitario italiano non è sufficientemente maturo per consentire una competizione basata sui “cervelli”; la concorrenza in accademia si gioca, quindi, essenzialmente su due variabili: il corrispettivo della commessa e la titolarità dei diritti di proprietà intellettuale sulle invenzioni brevettabili scaturenti dalla ricerca, elemento quest’ultimo assai caro ai committenti. Il conseguente rischio è che la singola Università, pur di ottenere la commessa, finisca non solo per accettare importi esigui e, comunque, non 336 ) La globalizzazione dei mercati ha posto l’industria europea in una posizione di svantaggio rispetto alle realtà dei Paesi emergenti mentre il ruolo dell’Università nella catena di produzione dell’innovazione è destinato ad occupare uno spazio sempre più importante. La letteratura economica europea parla, a tal proposito, del c.d. modello della tripla elica, in cui la produzione dell’innovazione sarebbe determinata dall’interazione di tre soggetti e cioè: l’Università, le imprese private ed il Governo. Sul tema v. L. Poma, L. Ramacciotti, La valorizzazione della ricerca universitaria mediante l’interpolazione dei saperi. Infrastrutture materiali ed immateriali, in L’Industria, 2008, p. 278. R. Vona, op. cit., p. 84 osserva che l’affanno finanziario riduce l’autonomia strategica delle imprese di ricerca favorendo, nei rapporti con il paternariato, i soggetti più dotati in termini di capitale e capacità manageriali; quest’ultimi avranno maggiori probabilità di prevalere nell’imporre le proprie decisioni nel corso della trattativa finalizzata a definire i prezzi di scambio delle singole componenti della catena di valore. Tali asimmetrie potrebbero svantaggiare le imprese titolari del know-how tecnologico nonostante queste possiedano una posizione di vantaggio che deriva dal controllo delle informazioni rilevanti ai fini dello sviluppo della capacità innovativa; si tratta di informazioni essenziali per misurare, con maggiore precisione ed affidabilità, la valenza scientifica dei risultati dell’attività di ricerca da cui discende il potenziale economico delle relative applicazioni industriali. 337 ) Cfr. i dati riportati da A. Gherardini, Andante ma non troppo. L’apertura delle università italiane alle imprese, in Stato e Mercato, 2012, p. 465. Segnatamente, l’autore riporta che nel periodo compreso tra il 2004 ed il 2008, il finanziamento proveniente dal Governo centrale alle Università è diminuito del 13,7% (passando dal 37,5% al 23,8% del budget complessivo), mentre si è rilevato un aumento del peso di altri proventi, tra cui, in particolare, i contratti di ricerca e consulenza finanziati da terzi (dell’ 8,6%) e i finanziamenti di Regioni e altri enti locali (del 7%). 152 commisurati all’effettivo valore della prestazione pattuita, ma, soprattutto, “svenda” la sua proprietà intellettuale, cedendola “a costo zero” al soggetto finanziatore338. Il nostro paese dovrebbe riflettere sulla circostanza che la ricerca scientifica rappresenta l’unica, vera, risorsa distintiva, difficilmente imitabile, di cui ogni paese dispone per costruire una propria strategia di sviluppo finalizzata a fronteggiare, in modo efficace, la concorrenza delle altre economie, in particolare di quelle emergenti. 3. La cooperazione tecnologica come nuovo modello di sviluppo nel settore della ricerca e sviluppo. I contratti di rete Il contratto è, per le imprese che decidono di ricorrere alla cooperazione, uno strumento di sviluppo alternativo ed ulteriore rispetto alla crescita interna339. La cooperazione consiste in un insieme di relazioni contrattuali che tendono a coordinare la governance e l’attività di una pluralità di imprese in modo tendenzialmente stabile; da essa possono nascere reti di contratti collegati, reti organizzative composte da enti giuridici promossi e partecipati dalle imprese nodo, reti complesse ove si combinano strumenti contrattuali ed organizzativi di 338 ) Cfr. il recente studio di N. Baldini, R. Fini, R. Grimaldi, The transition towards entrepreneurial universities: An assessment of academic entrepreneurship in Italy, 2012, consultabile al sito http://ssrn.com/abstract=1979450, dove gli autori sottolineano il minor potere contrattuale delle Università italiane verso i propri partner industriali rispetto a quelle nord-americane. E. Arezzo, op. cit., p. 175 osserva che l’impianto normativo di cui all’art. 65 c.p.i., nell’attribuire la titolarità sui diritti nascenti dalle invenzioni ai ricercatori, compromette il ruolo che le Università debbono necessariamente occupare nel processo di valorizzazione dei risultati della ricerca accademica e, più in particolare, nel trasferimento di tali risultati all’industria. L’indebolimento del potere negoziale degli Atenei nei rapporti con i possibili partner commerciali, oltre a porsi in netta controtendenza con l’obiettivo di rafforzare, in generale, l’autonomia universitaria, rischia di minare il delicato equilibrio ipotizzato nel modello della “ tripla elica” incentrato sulla crescente importanza dell’interazione (paritaria) dei tre principali “ agenti dell’innovazione ”: Università, Industria e Governo e, conseguentemente, (rischia) di relegare le Università nel ruolo di meri “fornitori a basso costo” di tecnologia e di saperi. 339 ) In tal senso G. Vettori, Il contratto di rete e sviluppo dell’impresa, in Contratto e Mercato, 2009. 153 coordinamento, reti proprietarie costituite mediante l’intreccio di partecipazioni incrociate340. In paesi, come il nostro, caratterizzati da un livello di investimenti insufficienti per la ricerca e lo sviluppo, l’obbiettivo di produrre beni ad alto contenuto di conoscenza può essere centrato impiegando risorse nell’industria tradizionale oppure valorizzando la struttura distrettuale, con il potenziamento di appropriati modelli evolutivi basati sul meccanismo delle reti341, cui possono partecipare anche i governi, le istituzioni e le università342. In materia, utile strumento predisposto dal legislatore italiano è il contratto di rete; nato con l’art. 3, comma 4 ter, d.l. 10 febbraio 2009 n. 5 così come convertito dalla l. 9 aprile 2009 n. 33, è stato oggetto di successive modifiche nel 2009, 2010 e 340 ) Così C. Triglia, Sviluppo locale. Un progetto per l’Italia, Roma-Bari, 2005. P. Iamiceli, Le reti di imprese: modelli contrattuali di coordinamento, in F. Cafaggi (a cura di), Reti di imprese tra regolazione e norme sociali. Nuove sfide per diritto ed economia, Bologna, 2004, p. 128, definisce le reti quale “insieme di relazioni di tipo cooperativo e tendenzialmente stabili tra due o più imprese formalmente e giuridicamente distinte, anche concorrenti, tra le cui attività esista o si generi una qualche interdipendenza ed emerga dunque un’esigenza di coordinamento, alla quale la rete risponda ricorrendo a strumenti di governo diversi, formali e informali, contrattuali e non”. In termini analoghi, seppur in un diverso contesto disciplinare, G. Soda, Reti di imprese. Modelli e prospettive per una teoria del coordinamento, Roma, 1998, p. 65, definisce l’interdipendenza come necessaria “considerazione reciproca”. 341 ) Il sistema delle reti rappresenta un modello particolarmente funzionale alle esigenze dell’economia italiana nell’attuale momento in cui il Paese soffre di un gap di capacità innovativa rispetto ai principali partner europei, collocandosi, tra gli Stati membri dell’Unione, nel gruppo di coda secondo la valutazione complessiva basata sugli obiettivi degli indicatori strutturali fissati a Lisbona nel 2006: E. Briganti, La nuova legge sui “contrati di rete” tra le imprese: osservazioni e spunti, in Notariato, 2010, p. 191. R. Bernardinis e S. Giovannelli, Innovazione è competitività. Potenziare i circuiti della conoscenza nei distretti italiani, in Quaderni LDE, 2008, p. 24, sostengono che per generare nuova conoscenza e nuovi processi di diffusione della conoscenza è essenziale la creazione di sinergie, cioè il coordinamento di tutti gli attori, la valorizzazione di relazioni formali ed informali, la messa in opera di efficaci canali di circolazione e scambio di informazioni, i rapporti fra università o centri di ricerca con le imprese, i rapporti fra imprese per realizzare processi di diffusione della conoscenza, il ruolo delle istituzioni locali per promuovere, non solo collegamenti fra le prospettive globali e le potenzialità locali, ma anche centri di sviluppo dell’innovazione nazionale. 342 ) Le principali esperienze nazionale ed internazionali nella gestione dei sistemi locali di innovazione suggeriscono come l’efficienza di tali sistemi sia fortemente influenzata dalla presenza locale di enti preposti al coordinamento ed all’indirizzo delle attività da realizzare. Si tratta infatti di enti capaci di favorire la presenza di fondazioni o enti consortili, di attivare processi di animazione dei distretti favorendo fenomeni di collegamento, di apprendimento collettivo o di collaborazione diffusa. 154 2012 fino a pervenire all’attuale assetto che trova il proprio punto di riferimento nella l. 17 dicembre 2012 n. 221343. Si tratta, nello specifico, di un accordo finalizzato a promuovere e consolidare forme stabili di collaborazione tra imprese344, attraverso le quali possono essere costituite, organizzate e gestite strutture volte ad accrescere, individualmente e collettivamente, la capacità innovativa e competitiva sul mercato345. La cooperazione permette anche di raggiungere una dimensione minima ottimale che individualmente è pressoché impossibile a causa delle dimensioni degli investimenti richiesti in settori come quello delle biotecnologie, del necessario carattere sistematico dell’attività ovvero per il fatto che risorse complementari sono in mano a 343 ) Stante l’esiguità della disciplina, è stato osservato che il legislatore, più che intervenire con l’intento di disciplinare una nuova tipologia negoziale, avrebbe solo provveduto ad introdurre una nuova definizione, avrebbe cioè “definito” e non “disciplinato” il contratto di rete: F. Macario, Il contratto e la rete: brevi note sul riduzionismo legislativo, in I Contratti, 2009, p. 951. 344 ) In tal senso F. Cafaggi, Il contratto di rete nella prassi. Prime riflessioni, in I Contratti, 2011, p. 1. Dello stesso Autore F. Cafaggi (a cura di), Il contatto di rete, Commentario, Bologna, 2009. Cfr. anche P. Iamiceli (a cura di), Le reti di imprese ed i contratti di rete, Torino, 2009. 345 ) Il contratto di rete è un contratto di durata plurilaterale d’impresa come la subfornitura ed il franchising; nelle fattispecie da ultime citate, il legislatore s’ispira all’esigenza fondamentale di tutelare la parte debole del rapporto con una disciplina composta, consideratane la ratio, da norme imperative, divieti e sanzioni di nullità. Nel contratto di rete la finalità è invece quella di tipo promozionale ovvero si vuole favorire il rilancio dell’economia e la competitività dell’industria italiana e, soprattutto, della piccola e media impresa che, non disponendo di risorse per l’innovazione, si aggregano per superare questo gap. La norma non pone un limite al numero di imprese che possono entrare a far parte del contratto; non specifica se si tratta di imprese con una finalità lucrativa piuttosto che sociale. Sicuramente, non possono far parte della rete gli enti pubblici, le università o sue articolazioni, centri di ricerca, dipartimenti. Una volta creata, però, la rete potrà stipulare con detti soggetti accordi e convenzioni potendo, a tal fine, anche costituire un organo che curi i suoi rapporti esterni. Secondo alcuni Autori, stante la comunione di scopo del contratto di rete, esso costituirebbe uno schema generale per lo svolgimento di attività compiute con strumenti contrattuali già disponibili. In tal modo si potrebbe avere una rete-subfornitura, una rete-franchising, una rete-joint venture, una rete-associazione temporanee di imprese, una rete-consorzio: E. Briganti, op. cit., p. 194, il quale evidenzia che il legislatore non si è preoccupato di coordinare sistematicamente il contratto di rete con le altre aggregazioni e formazioni (societarie, consortili, associative) che svolgono egualmente funzione organizzativa tra le imprese. A tal proposito, M. Granieri, Contratto di rete, programma comune e gestione della proprietà intellettuale nella collaborazione tra imprese, consultabile sul sito www.law-economics.net, osserva che lo strumento consortile ha, per definizione, la stessa e già nota vocazione che ora si ascrive al contratto di rete, cioè quella di creare un’occasione (temporanea) di cooperazione senza compromettere l’autonomia, caratteristica tipica anche delle associazione temporanee d’impresa notoriamente considerate “cooperazioni temporanee”. F. Cafaggi, P. Iamicelli, G.D. Mosco, Contratti di rete: prime applicazioni pratiche, in I Contratti, 2013, p. 799, osservano invece che il contratto di rete integra il quadro legislativo presente affiancandosi alle a.t.i., ai consorzi, alle joint ventures, agli accordi di filiera, colmando alcune lacune sistematiche e promuovendo nuove forme di collaborazione con l’obiettivo di favorire un incremento della capacità innovativa e competitiva delle imprese che ne fanno parte. 155 soggetti diversi346; a questi vantaggi si aggiungono poi, in un’ottica distrettuale347, gli effetti positivi che la conoscenza generata potrebbe avere sul territorio stesso348, evitando, peraltro, che detta conoscenza vada perduta a beneficio di contesti lontani rispetto al luogo di generazione349. 346 ) Cfr. M. Granieri, Contratto di reti, cit. F. Cafaggi, P. Iamicelli, G.D. Mosco, Contratti di rete, cit., p. 799, osservano che il contratto di rete è concepito come uno degli strumenti in grado di incrementare la competitività delle imprese sul mercato e che a ricercare questa opportunità sono soprattutto le imprese collocate nella fascia a monte della catena del valore; si tratta di imprese che normalmente hanno più difficoltà ad accedere autonomamente al mercato senza l’intervento di operatori che fungano da intermediari per la commercializzazione. La rete rappresenta, quindi, uno strumento che, eventualmente riducendo la necessità di tali operatori, accresce le opportunità commerciali dell’imprese stesse. Le relazioni che il contratto di rete si presta a governare possono svilupparsi sia in senso orizzontale, tra imprese che operano al medesimo livello della catena, che verticale, coordinando fasi diverse, tendenzialmente interdipendenti. 347 ) Il modello primigenio di aggregazione tra imprese è il c.d. distretto industriale ossia quel fenomeno industriale, tipicamente italiano, caratterizzato da una elevata concentrazione, in un territorio ristretto di piccole imprese specializzate nel medesimo settore produttivo, nell’ambito del quale esse tessono profondi legami in termini occupazionali e sociali con la comunità locale. E. Briganti, op. cit., p. 191 osserva che nel contratto di rete il richiamo ai distretti è contenuto solo nella rubrica dell’art. 3 in esame per poi non essere più menzionato. A conferma della circostanza, l’Autore evidenzia altresì che nella logica del legislatore il contratto di rete sembra abbandonare questa dimensione in quanto la prospettiva è quella di superare l’ambito regionale in una visione metadistrettuale (visione tipica delle reti trasnazionali). 348 ) I vantaggi possono consistere nella creazione di nuovi posti di lavoro qualificati. Una prospettiva originale è, a tal proposito, quella assunta da R.J. Gilson, The Legal Infrastructure of High Technology Industrial Districts: Silicon Valley, Route 128, and Covenants not to Compete, 74 N.Y.U.L. Rev. 575 (1999), secondo il quale la competitività di taluni distretti dipenderebbe dalla possibilità di inter-firm spillovers, che garantirebbero il ricircolo della conoscenza ed il relativo accrescimento. Da questo punto di vista, un fattore decisivo – osservato per la Silicon Valley – sarebbe quello della scarsa propensione dei giudici a sanzionare gli accordi di non concorrenza dei dipendenti privati favorendo, in tal modo, la mobilità e l’imprenditorialità e, soprattutto, la circolazione di quella conoscenza tacita che sfugge alla codifica ed alle forme di trasferimento basate sul contratto. 349 ) Il bilancio tra conoscenza generata localmente e perduta e conoscenza generata altrove e importata si chiuderebbe almeno in pareggio. Sul punto, specificamente, F. Cafaggi, P. Iamiceli, Le reti di imprese per la fornitura di servizi alle PMI tra innovazione e crescita imprenditoriale, in A. Lopes, F. Macario, P. Mastroberardino (a cura di), Reti di imprese: scenari economici e giuridici, Torino, 2007, p. 308. 156 Nel contratto di rete si può collaborare in varie forme ed ambiti, compreso quello della ricerca e sviluppo350, scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica; si può esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa351. Per quanto riguarda specificatamente le reti per la ricerca e sviluppo, la configurazione tipica della collaborazione prevede la definizione del problema comune e del programma di lavoro, la condivisione delle conoscenze disponibili tra le imprese, solitamente mediante licenze incrociate (il cd. background), 350 ) Cfr. M. Granieri, Il contratto di rete, cit. In senso conforme F. Cafaggi, P. Iamicelli, G.D. Mosco, Contratti di rete, cit., p. 799 i quali osservano che i programmi di rete possono essere orientati all’attività di ricerca e di sviluppo allo scopo di realizzare nuove soluzioni ovvero prodotti e servizi che siano in grado di raggiungere quell’obiettivo strategico di aumentare la capacità innovativa delle imprese. Discutendo della causa del negozio in esame, gli Autori definiscono il contratto di rete come un contratto con causa di collaborazione. Altra parte della dottrina individua, invece, la causa con la funzione di accrescere la reciproca capacità innovativa e la competitività nel mercato; così sostenendo, però, la causa diventa un obiettivo strategico ovvero il fine di un programma, che pone delicatissimi problemi all’interprete su come verificarne la presenza prima ancora che si sia in effetti realizzato. Probabilmente, si potrà accertare la mancanza della causa nel contratto di rete solo quando il programma risulterà assolutamente irrealizzabile in quanto incompatibile con gli obiettivi strategici perseguiti dalle parti, con le attività che svolgono le imprese per l’inadeguatezza del fondo comune e dei mezzi disponibili; si dovrà comunque sempre dare un certo grado di fiducia ad un programma che a priori non si può qualificare come irrealizzabile, impossibile o non meritevole: C. Scognamiglio, Il contratto di rete: il problema della causa, in I Contratti, 2009, p. 263. L’Autore precisa anche che se fosse accertata, dopo la sua esecuzione, la non idoneità del contratto di rete a raggiungere i risultati programmati, questa circostanza potrà rilevare come causa di sopravvenuta impossibilità dello scopo comune e dare, quindi, luogo alla risoluzione del contratto. 351 ) Nello schema normativo è previsto che le parti, prima, predispongano un c.d. programma di rete, ossia un piano generale d’azione volto ad accrescere la capacità innovativa e la competitività (fase statica dell’atto giuridico), per poi dare esecuzione concreta alle attività ivi previste (fase dinamica del rapporto giuridico). Tre sono sostanzialmente i modelli contrattuali che le imprese possono utilizzare: a) un contratto di rete privo di fondo comune, in cui gli aderenti collaborano per perseguire obiettivi comuni (es. scambiando informazioni relative a fornitori qualificati o condividendo sistemi di conoscenze legati alle tecniche di produzione). In questa forma, il programma impegna individualmente tutti gli aderenti senza benefici di limitazione della responsabilità; b) un contratto di rete con fondo comune ed organo comune destinato a svolgere attività, anche commerciali, con i terzi. Si tratta di un modello caratterizzato da un regime di responsabilità limitata al solo fondo comune per ciò che attiene alle obbligazioni contratte dall’organo stesso in relazione al programma di rete. Le imprese potrebbero impiegare questa tipologie di rete quando intendano condividere investimenti importanti (es. acquisto di nuove tecnologie) o quando vogliano accedere a nuovi mercati, anche esteri, in forma aggregata spendendo un marchio comune e connesso alle singole imprese partecipanti; c) un modello con soggettività giuridica, in cui l’aggregazione degli aderenti diventa essa stessa nuovo operatore economico distinto dagli aderenti; in tal caso, è la rete in quanto tale a proporsi sul mercato senza spendere il nome dei partecipanti che comunque sono chiamati ad attivarsi per la realizzazione del programma comune. Va detto che, nonostante le numerose modifiche succedutesi nel tempo, la legge ha continuato a riconoscere ai contraenti un livello molto alto di autonomia contrattuale, limitandosi a fornire una nozione di contratto di rete e taluni contenuti obbligatori o facoltativi: F. Cafaggi, P. Iamicelli, G.D. Mosco, Contratti di rete, cit., p. 799. 157 l’individuazione della destinazione delle risorse finanziarie, le disposizioni relative all’utilizzo delle conoscenze attese dalla collaborazione (cd. foreground)352. Siffatta configurazione conosce, poi, possibili varianti quante volte nella collaborazione siano coinvolti gruppi di ricerca quali atenei o enti pubblici di ricerca (solitamente a livello di strutture dipartimentali)353 e sia previsto l’accesso a canali esterni di finanziamento a livello regionale, nazionale, europeo354. Nella disciplina sul contratto di rete non si rinvengono norme dirette a regolamentare la titolarità della proprietà intellettuale dei risultati ottenuti dalla ricerca355; l’art. 138, comma 1, lett. a) c.p.i. prevede, a tal proposito, che qualora il contratto costituisca, modifichi o trasferisca diritti personali o reali aventi ad oggetto 352 ) Sui contenuti delle collaborazioni in R&S (inclusi i rapporti di committenza) si veda G. Santini, Commercio e servizi, Bologna, 1988. Un aspetto centrale per la cooperazione orizzontale in R&S è quello della compatibilità degli accordi con le norme antitrust. Come noto, nell’Unione europea vige un’esenzione di blocco ex art. 101, comma 3, del Trattato per gli accordi di ricerca e sviluppo disposta mediante Regolamento UE 1217/2010. 353 ) Si rimanda a M. Granieri, La gestione della proprietà intellettuale nella ricerca pubblica. Invenzioni accademiche e trasferimento tecnologico, Bologna, 2010, per alcune riflessioni sul tema se possa considerarsi ancora un contratto di rete quello cui partecipi una università come in effetti pare emergere sia dalla prassi che da fonti europee. 354 ) Deve essere ricordato che, per effetto della modifica al titolo V della Costituzione ed, in particolare, dell’art. 117, anche le Regioni hanno acquisito competenza in materia di ricerca scientifica e tecnologica; si tratta di competenze che detti organi esercitano prevalentemente nell’ambito dei piani operativi regionali (POR). In dottrina, cfr. G. Fares, Ricerca scientifica ed innovazione tecnologica nel nuovo riparto di competenze fra stato e regioni, in Giur. it., 2005, p. 1795. Molto spesso, le fonti regionali predeterminano le sorti della proprietà intellettuale derivante dal progetto finanziato e incidono, così, sul concreto assetto di interessi al quale le parti intendono dar vita. 355 ) La causa di questa lacuna può essere accidentale oppure potrebbe essere voluta nel senso che il legislatore ha ritenuto troppo complicato scrivere norme dispositive posto che, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, si rinvengono spunti normativi quantomeno per abbozzare una disciplina della proprietà intellettuale nelle reti per la ricerca e sviluppo. È appena il caso di osservare che una lacuna su questi aspetti, se non colmata, si potrebbero risolvere in una seria ragione di sottoutilizzo della proprietà intellettuale e, in ultima analisi, in una frustrazione delle finalità della cooperazione. Se, dunque, non serve un contratto per far sorgere una rete di imprese o un distretto, è indispensabile – almeno nella configurazione normativa attuale – un programma di rete dal contenuto regolamentare per disciplinare i molteplici aspetti della cooperazione in R&S e i ben più complicati aspetti relativi alla gestione della proprietà intellettuale; la ragione è quella che, non essendo chiari gli aspetti su titolarità, utilizzo, gestione dei diritti, anche il sistema degli incentivi individuali risulta indebolito. Basta ragionare sulla durata dei diritti di proprietà intellettuale per rendersi conto della necessità di regolare, ben oltre la collaborazione che li ha generati, tutti gli aspetti relativi alla manutenzione dei relativi titoli (compresa la gestione del contenzioso) e il loro sfruttamento: F. Cafaggi, P. Iamiceli, Le reti di imprese per la fornitura di servizi alle PMI tra innovazione e crescita imprenditoriale, in A. Lopes, F. Macario, P. Mastroberardino (a cura di), Reti di imprese: scenari economici e giuridici, Torino, 2007, p. 308. F. Cafaggi, P. Iamicelli, G.D. Mosco, Contratti di rete: prime applicazioni pratiche, in I Contratti, 2013, p. 799 osservano che solo nell’11% circa dei contratti di rete si regolamenta l’attribuzione della titolarità dei diritti di proprietà intellettuale sulle innovazioni realizzate nell’ambito della rete. 158 diritti di proprietà intellettuale esso deve essere reso pubblico mediante la trascrizione presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi. Il problema dell’appropriabilità della conoscenza all’interno delle reti deve essere gestito dalla governance della rete, cioè dai meccanismi istituzionali che dovrebbero garantire il funzionamento della rete stessa356; è stato tuttavia osservato che la creazione di una rete non è, di per sé, idonea a risolvere il problema357. Per comprendere quanti e quali modelli di appropriazione sono disponibili nella cooperazione in ricerca e sviluppo sono state formulare due distinte ipotesi; la prima è quella relativa ad imprese che, al fine di acquisire conoscenze, si pongono come committenti mentre la seconda riguarda la rete che svolge direttamente, mediante tutti o parte dei soggetti coinvolti, attività di ricerca preordinata alla generazione ed alla appropriazione358. Nella prima ipotesi, il programma di rete prevederà le modalità di acquisizione e regolerà i rapporti con il soggetto incaricato di svolgere l’attività di ricerca e sviluppo. Quanto ai risultati, si possono immaginare tre diverse soluzioni: che appartengano alla rete committente la quale li metterà poi a disposizione, secondo la logica consortile, delle imprese della rete stessa; che appartengano alla controparte la quale procederà a licenziarli, per lo più in esclusiva, alla rete committente; che vi sia una situazione di co-titolarità e licenze incrociate tra titolari affinché ciascuno possa utilizzare i risultati per le proprie finalità. In quest’ultimo caso, chi ha svolto la 356 ) F. Cafaggi e P. Iamiceli, Le reti di imprese, cit., 317, sostengono che la creazione della rete e la sua governante sono una risposta al problema della appropriabilità della conoscenza a livello distrettuale. Se ciò è vero per la conoscenza tacita (vista la tendenziale localizzazione delle fonti: gruppi di ricercatori, imprese consolidate, consulenti, strutture intermedie, ecc.), non lo è necessariamente per quella codificata o codificabile: M. Granieri, Contratto di rete, programma comune, cit. Sul ruolo della rete rispetto alla conoscenza tacita cfr. più diffusamente M.A. Rossi, Innovazione e conoscenza, in F. Cafaggi (a cura di), Reti di imprese tra regolazione e norme sociali. Nuove sfide per diritto ed economia. Bologna, 2004, p. 345. 357 ) In tal senso M. Granieri, Contratto di rete, cit. 358 ) Una terza ipotesi può essere quella della rete che si costituisce per fornire (anche all’esito di una procedura di selezione) prestazioni di ricerca e sviluppo per conto di terzi; in una fattispecie di questo tipo, che può essere trattata in modo appropriato dal punto di vista dell’appalto, le problematiche relative alla proprietà intellettuale sono ridotte poiché, solitamente, il committente rivendicherà a sé stesso la proprietà dei risultati della ricerca o pretenderà, eventualmente, una licenza sugli stessi. 159 ricerca su commissione può avere interesse ad una licenza sui risultati, per campo d’uso sperimentale, al fine di proseguire l’attività investigativa359. Più articolata è invece la situazione in cui il programma del contratto di rete preveda lo svolgimento in comune di un’attività di ricerca e sviluppo in una dimensione autenticamente cooperativa360. Secondo una parte della dottrina, in questi tipi di accordo i risultati della ricerca apparterrebbero, a titolo di co-titolarità, alle imprese della rete361. Il concorso del personale delle imprese coinvolte nel programma di attività condurrebbe a situazioni di appartenenza congiunta, rispetto alle quali sarebbe difficile stabilire, con 359 ) Quando il soggetto incaricato di svolgere la ricerca è un ateneo o altro ente pubblico di ricerca cofinanziato con denaro pubblico, si possono configurare aiuti di stato cd. indiretti a favore della rete committente. In questi casi, infatti, l’immediato beneficiario della sovvenzione alla R&S è l’ente pubblico ma i risultati della ricerca vengono trasferiti ad un committente che paga soltanto per una parte del loro costo. Si tratta di un’eventualità contemplata dalla Comunicazione della Commissione del 2006 in materia di aiuti di stato a favore di ricerca, sviluppo e innovazione (2006/C323/01), a mente della quale, perché non si abbia aiuto di stato, devono essere rispettate le condizioni previste dall’art. 3.2.2. della Comunicazione stessa che così dispone: “In un progetto di collaborazione, almeno due partner partecipano alla concezione del progetto, contribuiscono alla sua attuazione e ne condividono i rischi e i risultati. Nel caso di progetti di collaborazione realizzati congiuntamente da imprese e da organismi di ricerca, la Commissione ritiene che nessun aiuto di Stato indiretto sia concesso al partner industriale attraverso l’organismo di ricerca per effetto delle condizioni favorevoli della collaborazione, se ricorre una delle seguenti condizioni: 1) i costi del progetto sono integralmente a carico delle imprese partecipanti; 2) i risultati che non fanno sorgere diritti di proprietà intellettuale possono avere larga diffusione e l’organismo di ricerca è titolare di tutti i diritti di proprietà intellettuale sui risultati ottenuti dalla sua attività di RSI; 3) l’organismo di ricerca riceve dalle imprese partecipanti un compenso equivalente al prezzo di mercato per i diritti di proprietà intellettuale derivanti dall’attività svolta dall’organismo di ricerca nell’ambito del progetto e che sono trasferiti alle imprese partecipanti. Il contributo delle imprese partecipanti ai costi dell’organismo di ricerca sarà dedotto da tale compenso. Se nessuna delle succitate condizioni è soddisfatta, lo Stato membro può basarsi su un esame individuale del progetto di collaborazione. Può anche non sussistere aiuto quando l’esame dell’accordo contrattuale fra i partner porti a concludere che tutti i diritti di proprietà intellettuale sui risultati delle attività di RSI, così come i diritti di accesso a tali risultati, sono attribuiti ai vari partner della collaborazione e rispecchiano adeguatamente i loro rispettivi interessi, partecipazione ai lavori e contributi finanziari e di altro tipo al progetto. Se le condizioni 1), 2) e 3) non sono soddisfatte e la singola valutazione del progetto di collaborazione non conduce al risultato di escludere la presenza di un aiuto di Stato la Commissione considererà come aiuto alle imprese l’intero valore del contributo dato al progetto dall’organismo pubblico di ricerca”. 360 ) V. Di Cataldo, Contratti di ricerca e diritti di brevetto, in F. Galgano (a cura di), I contratti del commercio, dell’industria e del mercato finanziario, Torino, 1999, p. 1243, ove è riprodotto un modello di accordo. 361 ) M. Granieri, Contratto di rete, programma comune, cit. 160 precisione, la misura del contributo individuale362. Queste circostanze ispirerebbero la soluzione già presente nel codice della proprietà industriale con l’art. 6 che richiama, a sua volta, la norma codicistica sulla comunione in quanto compatibile363. Si tratta peraltro di un rinvio ad altro rinvio poiché anche la prima norma in materia di comunione (art. 1100 c.c.) dichiara applicabile la normativa codicistica se nulla è previsto dal titolo o dalla legge (titolo che, nel caso del contratto di rete, sarebbe il programma comune di rete). In questo gioco di rimbalzi, si giungerebbe all’art. 1101 c.c. che stabilisce una presunzione di parità delle quote tra più titolari. Per effetto dell’art. 6 c.p.i. quindi, là dove nel programma comune di rete nulla le imprese partecipanti abbiano previsto in ordine all’appartenenza dei risultati di ricerca, dovrà 362 ) Bisogna ipotizzare che i ricercatori effettivamente impegnati nella ricerca siano dipendenti delle imprese ovvero abbiano previamente ceduto ad esse i diritti patrimoniali sui risultati dell’attività condotta. Nel caso di dipendente di ente pubblico avente finalità di ricerca o istituzione universitaria il discorso presenta una variante nel caso di titolarità individuale prevista dall’art. 65, comma 1, c.p.i. 363 ) Art. 6 c.p.i. così recita: “Se un diritto di proprietà industriale appartiene a più soggetti, le facoltà relative sono regolate, salvo convenzioni in contrario, dalle disposizioni del codice civile relative alla comunione in quanto compatibili. In caso di diritto appartenente a più soggetti, la presentazione della domanda di brevetto o di registrazione, la prosecuzione del procedimento di brevettazione o registrazione, la presentazione della domanda di rinnovo, ove prevista, il pagamento dei diritti di mantenimento in vita, la presentazione della traduzione in lingua italiana delle rivendicazioni di una domanda di brevetto europeo o del testo del brevetto europeo concesso o mantenuto in forma modificata o limitata e gli altri procedimenti di fronte all’Ufficio italiano brevetti e marchi possono essere effettuati da ciascuno di tali soggetti nell’interesse di tutti”. In tal senso, anche l’art. 65, comma 1, c.p.i. là dove, nel caso di ricercatori, dipendenti di università o enti pubblici di ricerca, stabilisce una presunzione di parità di quote ove non risulti una diversa attribuzione. 161 ammettersi una situazione di co-titolarità al cui interno le quote dei partecipanti si presumono uguali364. Il rinvio alla disciplina codicistica in materia di comunione è stato fortemente criticato stante la situazione non ottimale che verrebbe a crearsi nell’ambito della proprietà intellettuale, con una conseguente, ulteriore, necessaria attività di regolazione e costi di transazione365. Altra parte della dottrina ipotizza che ciascuna impresa sia titolare di ciò che realizza366 oppure che il diritto appartenga, per intero, ad un’impresa della rete che 364 ) La giurisprudenza di legittimità ha interpretato le norme sulla comunione civilistica quando riferite alla proprietà intellettuale (in particolare al brevetto). Il singolo co-titolare può cedere liberamente la propria quota, anche determinando il frazionamento della stessa, mentre non può, senza l’autorizzazione degli altri comunisti, sfruttare unilateralmente l’invenzione di cui è coautore nemmeno sotto forma di concessione di licenze: in tal senso Cass. Civ. 22 aprile 2000, in Foro it., Rep. 2000, voce Brevetti, n. 29 per esteso in Giust. Civ., 2000, 2245, con nota di L. Albertini, La comunione di brevetto tra sfruttamento diretto e indiretto, individuale e collettivo, nonché in Giur. it., 2001, 1894, con nota critica di R. Gandin, Uno per tutti e tutti per uno: comunione di brevetto e istruzioni per l’uso in un precedente della suprema corte (ovvero: il - resistibile - fascino della disciplina codicistica). Anche la giurisprudenza di merito più risalente condivideva questo punto di vista: P. Bergamo 29 giugno 1982, in Foro it ., Rep. 1983, voce Provvedimenti di urgenza , n. 166, per esteso in Riv. dir. ind ., 1983, II, 165. M. Granieri, Contratto di rete, programma comune, cit., osserva che il programma comune di rete, nel dare disciplina ai diritti di proprietà intellettuale nella prospettiva della comunione, deve invertire la regola della co-titolarità per quota e trasformarla in una situazione di co-titolarità per l’intero, situazione nella quale i vari co-titolari possono utilizzare l’invenzione o la creazione senza dover ricorrere ad una manifestazione di consenso da parte degli altri. 365 ) Contrario all’utilizzo plurimo del brevetto da parte di più titolari G. Sena, I diritti sulle invenzioni e sui modelli industriali, Milano, 1990, p. 249, sul presupposto che, essendo il contenuto del diritto di brevetto connotato sostanzialmente come un diritto di escludere (e non di attuare), esso “verrebbe radicalmente negato da uso plurimo”. Contra, M. Granieri, Contratto di rete, programma comune, cit., il quale osserva che, di fatto, la comunione dei diritti (di proprietà intellettuale) è la situazione che, all’esito di attività cooperativa, è più ragionevole attendersi e che, d’altra parte, sarebbe difficile presumere che, nella normalità dei casi, i partecipanti non vogliano risultare titolari di un’attività che hanno concorso a finanziare in tutto o in parte. 366 ) Si tratta invero di un’ipotesi poco credibile in ragione del carattere programmaticamente cooperativo dell’attività stabilita nel contratto di rete. Potrebbe comunque ricorrere nella situazione in cui la rete è finalizzata all’accesso ad un finanziamento che sarebbe individualmente precluso. Si veda per approfondimenti: M.A. Rossi, Innovazione e conoscenza, in F. Cafaggi (a cura di), Reti di impresa tra regolazione e norme sociali, Bologna, 2004, p. 372, nonché F. Cafaggi, P. Iamiceli, Le reti di imprese, cit., 317. 162 agisce, per ipotesi, come mandataria delle altre ovvero al soggetto esterno alla rete creato appositamente per la gestione dei risultati367. Dette soluzioni, possibili in quanto le parti le abbiano positivamente previste nel contratto di rete, presentano il vantaggio di facilitare la gestione dei diritti di proprietà intellettuale posto che tutte le procedure amministrative per l’ottenimento dei titoli sarebbero seguite da un unico interlocutore368; il soggetto titolare avrebbe poi anche il vantaggio di poter attingere al fondo comune o al patrimonio separato per la copertura delle spese. I suesposti modelli non sono andati esenti da critiche. Il programma comune di rete, oltre a prevedere la cessione ex ante dei diritti delle imprese in favore del titolare, dovrebbe obbligare le medesime a far sì che i propri dipendenti, in quanto creatori o inventori, conservino i diritti morali sulle creazioni intellettuali (siano esse a contenuto estetico o tecnologico). In caso di invenzioni di azienda o in presenza di misure di incentivazione aziendale all’attività inventiva, occorrerà altresì disciplinare le modalità di corresponsione dell’equo premio o del pagamento dell’incentivo. In secondo luogo, bisognerà assicurarsi che l’impresa mandataria non passi di mano a soggetti diversi e non graditi. Opzioni o prelazioni convenzionali condizionate potrebbero trovare applicazione in questo caso. Il rischio al quale è, 367 ) L’articolazione funzionale del programma può contemplare la possibile costituzione di società, consorzi, a.t.i., joint ventures, quali strutture deputate a svolgere particolari funzioni o attività (es. quella commerciale o di gestione dei diritti di proprietà intellettuale). Inizia così a profilarsi una possibile vocazione del contratto di rete come rete di reti, come strumento di coordinamento polifunzionale tra entità o organismi monofunzionali: F. Cafaggi, P. Iamicelli, G.D. Mosco, Contratti di rete, cit., p. 799, i quali evidenziano altresì come alle parti venga riconosciuta una grande autonomia nel disegnare la struttura organizzativa della rete. In senso conforme F. Cafaggi, Reti contrattuali e contratti di rete: ripensando il futuro, in F. Cafaggi, P. Iamicelli (a cura di), Reti di imprese tra crescita e innovazione organizzativa, Bologna, 2007, p. 445. La disciplina del contratto di rete prevede la costituzione di un organo comune deputato all’attuazione del contratto stesso. Per approfondire le varie tipologie di organo comune ed i rapporti con le imprese della rete si rimanda alla dottrina citata in nota. 368 ) Cfr. A. Musso, Reti contrattuali tra imprese e trasferimento della conoscenza innovativa , in P. Iamicelli (a cura di), Reti di imprese, cit., p. 220, secondo il quale, in analogia con la disciplina societaria dei gruppi, la forma più efficiente (nonché quella più diffusa nella prassi) è quella dell’accentramento delle conoscenze in capo ad un nodo della rete (che nella prospettiva delle licenze sarebbe il licenziante). 163 invece, difficile far fronte è quello relativo al possibile fallimento dell’impresa mandataria369. Altro compito del programma comune di rete sarà quello di stabilire ex ante a quali condizioni le imprese della rete potranno accedere alla proprietà intellettuale; potrà trattarsi di licenza gratuita o onerosa, certamente non esclusiva, verosimilmente senza facoltà di sublicenziare, eventualmente per campi d’uso specifici e con dettagliate previsioni in ordine all’appartenenza dei miglioramenti370. Si deve, poi, tenere anche presente la possibilità che trovi applicazione l’art. 6, comma 3, della legge 18 giugno 1998, n. 192 (disciplina della subfornitura)371; nelle reti di subfornitura (che sono di natura gerarchica), l’accentramento dei diritti in capo ad una sola impresa, che sia anche responsabile della filiera, dovrebbe prevedere un congruo corrispettivo a favore delle disponenti. L’art. 6 è una norma di ordine pubblico di protezione e, dunque, non derogabile; difficile teorizzare che un contratto per la creazione di una rete che svolge ricerca e sviluppo finalizzata alla produzione in subfornitura, possa non tener conto della sanzione di nullità colà prevista372. 369 ) Per queste ed altre osservazioni critiche cfr. M. Granieri, Contratto di rete, programma comune, cit. 370 ) Sul regime giuridico delle clausole mediante le quali il titolare originario della tecnologia si assicura l’accesso ai miglioramenti posti in essere dalle altre imprese nodo (cd. grant-back), cfr. ancora Musso, Reti contrattuali tra imprese, cit., che se ne occupa nella prospettiva della compatibilità con il Regolamento 772/2004 sull’esenzione di blocco per gli accordi (bilaterali) di trasferimento tecnologico. Sul regolamento stesso cfr. anche A. Frignani, V. Pignata, Il nuovo regolamento (Ce) n. 772/2004 del 7 aprile 2004 sugli accordi di trasferimento di tecnologia, in Dir. comm. internaz., 2004, p. 653. 371 ) L’articolo in esame prevede, al terzo comma, la nullità del patto con cui il subfornitore disponga, a favore del committente e senza congruo corrispettivo, di diritti di privativa industriale o intellettuale. 372 ) L. Prati, La disciplina della subfornitura, la proprietà intellettuale ed il know-how del committente, in Riv. dir. ind, 1999, p. 19. Cfr. anche M.C. Cardarelli, La tutela della proprietà industriale, in V. Cuffaro (a cura di), La subfornitura nelle attività produttive, Napoli, 1998, p. 290. Le difficoltà di gestione della conoscenza e dei conseguenti problemi a livello di filiera sono state segnalate anche da F. Cafaggi, P. Iamiceli, Le reti di imprese, cit., p. 311. Si tratta di un tema complesso, affrontato anche da autori stranieri con riferimento a filiere come quella delle biotecnologie: cfr. R.P. Merges, A. Arora, Specialized Supply Firms, Property Rights, and Firm Boundaries, 13, Ind. & Corp. Change 451 (2004). In generale, sull’abuso di dipendenza economica all’interno delle reti cfr. C. Camardi, Efficienza contrattuale e reti di imprese, in A. Lopes, F. Macario, P. Mastroberardino (a cura di), Reti di imprese: scenari economici e giuridici, Torino, 2007, p. 356, nonché M.R. Maugeri, Reti contrattuali e abuso di dipendenza economica: alla ricerca di nuove discipline ?, in P. Iamiceli (a cura di), Le reti di imprese ed i contratti di rete, cit., p. 295 164 Le problematiche illustrate evidenziano la necessità di predisporre modelli di regolazione da sottoporre alle imprese. Trattandosi di una materia ispirata sostanzialmente al mercato, le soluzioni non necessariamente devono venire dal legislatore. Un ruolo potrebbe essere rivestito dalla lex mercatoria che però, sul punto, ancora non è emersa; le associazioni di categoria e tutti gli enti intermedi potrebbero, dal canto loro, predisporre utili modelli o raccogliere buone pratiche di settore (best practices) a vantaggio delle imprese373. Pur non essendo, tecnicamente, fonti del diritto, le buone pratiche rappresentano soluzioni accessibili alle quali gli operatori si affidano in assenza di altri modelli dispositivi; la rete e le tecnologie dell’informazione ne costituirebbero il canale di diffusione mentre l’accettazione da parte delle imprese produrrebbe una qualche forma di convinzione circa l’obbligatorietà374. Maggiore il prestigio (dato dalla provenienza) e l’efficienza del modello (dato dai contenuti), maggiore sarà la propensione delle imprese a seguirlo. La progressiva, spontanea, adozione di tali modelli favorirebbe un isomorfismo mimetico, prodromico e preparatorio, o addirittura sostitutivo, di quello istituzionale di tipo coercitivo che si verifica in presenza di fonti normative a livello primario o secondario375. 373 ) Degno di nota è il lavoro svolto da Aster, agenzia della Regione Emilia-Romagna, nell’elaborazione di un modello contrattuale per la cooperazione in R&S, che dovrebbe costituire il punto di partenza per tutti i rapporti tra soggetti che accedano a finanziamenti sulla base di misure regionali. Porzioni del modello sono riprodotte all’interno della parte dedicata ai contratti di cooperazione tecnologica in AA.VV. Contratti. Formulario commentato, a cura di F. Macario, Milano, 2011. La Commissione europea, in una Raccomandazione del 2008, ha proposto un codice di buone pratiche per la gestione dei diritti di proprietà intellettuale quando nella cooperazione sono coinvolte istituzioni pubbliche di ricerca (Commission Recommendation on the management of intellectual property in knowledge transfer activities and Code of Practice for universities and other public research organizations, COM(2008), 1329, in particolare gli allegati I e II). La stessa Commissione, nell’ambito dei programmi quadro europei per la ricerca, ha da tempo messo a disposizione dei partecipanti alla ricerca (che nulla esclude poter essere una rete di imprese eventualmente transnazionale) un modello di consortium agreement noto come DESCA (acronimo di Development of a Simplified Consortium Agreement) liberamente disponibile alla seguente URL: http://www.desca-fp7.eu/. 374 ) Da un certo punto di vista, le buone pratiche potrebbero essere la materia prima di usi commerciali che potrebbero dar vita a una nuova lex mercatoria delle reti M. Granieri, Contratto di rete, programma comune, cit. 375 ) M. Granieri, Contratto di rete, programma comune, cit. 165 4. I patent pools La gestione condivisa dell’innovazione potrebbe, anche, incrementare figure, prevalentemente sviluppatesi all’estero, come quella dei patent pools. Si tratta di un’operazione realizzata da alcuni titolari di diritti di proprietà intellettuale per assegnare le loro esclusive ad una struttura centrale (c.d. common lincensing administrator) affinché questa possa offrire sul mercato una licenza comune che copra l’intero portafoglio di brevetti ad essa concesso376; la creazione di piattaforme condivise con contratti individuali di licenza, controllati dalla piattaforma, costituisce uno dei possibili impieghi specializzati dei contratti di rete377. Al di là dell’estrema diversità delle forme organizzative e delle previsioni contrattuali che li regolano, la funzione economica che accomuna i patent pools è quella di fornire ai terzi la possibilità di conseguire la licenza di determinati brevetti attraverso un unico contratto anziché tramite numerosi accordi bilaterali con i singoli 376 ) G. Colangelo, Mercato e cooperazione tecnologica. I contratti di patent pooling, in Quaderni AIDA, 2008, p. 6. 377 ) Rispetto ad una ricerca scientifica divenuta, negli anni, sempre più un’attività essenzialmente collettiva, estremamente complessa e costosa, per la quale occorrono meccanismi di coordinamento tra gli operatori economici, la collaborazione tecnologica rappresenta una novità organizzativa le cui prospettive assumono un significato ancora più rilevante alla luce della congestione di diritti esclusivi che affligge alcuni comparti industriali, impedendo il pieno utilizzo delle risorse e mettendo in serio pericolo i processi innovativi. La condivisione della proprietà intellettuale e il bisogno di soluzioni coordinate sono le ragioni della proliferazione spontanea di strutture ed istituzioni finalizzate a fornire agli operatori un punto di incontro e di comune gestione degli scambi commerciali, scongiurando così i pericoli insiti nella parcellizzazione delle risorse; ragione per cui, nell’ambito del dibattito in corso sulla funzione dei diritti di proprietà intellettuale e sui limiti dell’appropriabile, sulla possibilità di conciliare il contenuto dei diritti di privativa e la tutela dei processi di innovazione, particolare riguardo si deve al crescente ricorso a nuove forme di organizzazione, quali le collective rights organizations (CROs). Diversi sono gli esempi di CROs presenti sul mercato. Vi si possono annoverare le società di gestione collettiva dei diritti d’autore e diritti connessi; le clearinghouses sviluppate nell’agrobiotecnologia al fine o di fornire un meccanismo di scambio di informazioni in materia di biodiversità o di facilitare le transazioni favorendo l’incontro tra titolari di brevetti, offrendo soluzioni alle eventuali controversie, svolgendo funzioni di database, rilevando gli IPRs presenti e verificandone la disponibilità e le modalità per avervi accesso; le standard setting organizations (SSOs), con le quali gruppi industriali definiscono standards comuni; infine, i patent pools, che hanno trovato applicazione in diversi settori, da quello automobilistico a quello aeronautico, dalla tecnologia video alla farmaceutica, ovvero in tutte le situazioni ed in tutti i comparti in cui lo sviluppo di un nuovo prodotto esige il conseguimento di molteplici licenze di brevetti detenuti da soggetti diversi. Si tratta, in buona sostanza, di varie figure di intermediari che proliferano in ragione della difficoltà che le imprese avvertono nel gestire al meglio tutte le potenzialità offerte dalla tecnologia digitale e dell’esigenza di individuare un interlocutore unico che faciliti l’incontro tra gli operatori del mercato. Per queste ed altre riflessioni F. Cafaggi, P. Iamiceli, G. D. Mosco, Contratti di rete: prime applicazioni pratiche, cit., p. 799. 166 detentori (accordi di cross licensing). Qualora per lo sviluppo di una tecnologia o la realizzazione di un prodotto sia necessario avere accesso a numerosi brevetti, in possesso di altrettanti detentori, la funzione del pool sarà quella di riunire tali soggetti e convogliare i brevetti, considerati essenziali, in un portafoglio da offrire sul mercato attraverso un’unica licenza. La previsione di un’amministrazione centralizzata consente, da un lato, di ridurre drasticamente i costi di transazione attraverso un contratto standard di licenza, dall’altro favorisce uno sfruttamento economico efficiente degli IPRs, fornendo ai licenzianti un meccanismo sia di composizione delle controversie, sia di raccolta che di ripartizione delle royalties generate dalle licenze concesse ai terzi. Sotto il profilo strutturale, i pools tecnologici sono realizzati seguendo diversi modelli organizzativi; in ossequio alle molteplici manifestazioni del fenomeno della cooperazione tecnologica, i pools possono assumere la forma di semplici intese tra un numero limitato di parti oppure di accordi organizzativi complessi, mediante i quali il programma di licenze del portafoglio brevettuale viene affidato ad un organismo societario indipendente378. I benefici che possono derivare dal patent pool nella promozione della ricerca e dello sviluppo sono stati espressamente riconosciuti dall’USPTO379. Quale esempio significativo degli effetti positivi scaturenti dall’adozione del pooling, segnatamente ai fini dell’accesso a determinate tecnologie, è stata proprio indicata l’industria biotecnologica380. Si pensi alle invenzioni basate sulle informazioni genetiche ed il 378 ) Al di là delle diverse possibili sembianze, gli accordi di patent pooling condividono il medesimo interesse e perseguono un obiettivo economico unitario: una integrazione produttiva giustificata essenzialmente da ragioni di efficienza rispetto ai meccanismi di contrattazione individuale, la quale offra agli aderenti possibilità di remunerazione superiori a quelle ipotizzabili in un sistema di libere contrattazioni. Dunque, sinteticamente, possiamo indicare, quali aspetti comuni di tali accordi, l’integrazione di economie individuali omogenee e di risorse complementari, l’offerta di un programma comune di licenze, l’accentramento presso un’organizzazione comune della fase di negoziazione dei diritti, la realizzazione di efficienze tramite il risparmio sui costi di transazione: G. Colangelo, Mercato e cooperazione, cit., p. 7. 379 ) USPTO, United States Patent and Trademark Office, Patent Pools: a Solution to the Problem of Access in Biotechnology Patents?, dicembre 2000 in http://www.uspto.gov/web/offices/pac/dapp/opla/patentpool.pdf. 380 ) I. Musu, Diritti di proprietà intellettuale e biotecnologie, in Mercato, concorrenza e regole, 2005, p. 209. 167 conseguente rischio di veder precluso l’accesso a tali conoscenze essenziali; d’altra parte, nessuna impresa ha da sola le risorse sufficienti per sviluppare una frazione significativa dell’informazione genetica presente in un organismo. Il risultato finale è che l’applicazione dei patent pools in ambito biotecnologico si presenta come una “winwin situation”, della quale beneficiano sia il settore pubblico che quello privato381. Di diverso avviso è l’OECD382 che ha messo in discussione l’applicabilità dei patent pools al settore delle invenzioni genetiche; a suo dire, queste ultime tecnologie sarebbero fondamentalmente diverse da quelle del settore elettronico nel quale i pools sono utilizzati più frequentemente per via dell’importanza degli standards e dell’interoperabilità383. Non si possono sicuramente ignorare i potenziali rischi anticompetitivi inerenti, principalmente, le ipotesi che il pool possa trasformarsi in uno strumento di strategie collusive, grazie al quale si concordano condotte, si stabiliscono prezzi, si scambiano informazioni rilevanti; evenienza perfettamente materializzabile ove esso includa brevetti concorrenti. Se questo è vero appare, però, ancora più chiaro che, in un’ottica antitrust, la questione di fondo non è tanto quella di inibire o avallare la formazione di tali accordi, quanto invece di ponderare e discriminare gli elementi 381 ) G. Colangelo, Mercato e cooperazione, cit., p. 9. ) OECD, Organisation for Economic Co-operation and Development, Genetic Inventions, Intellectual Property Rights and Licensing Practices, dicembre 2002 in http://www.oecd.org/dataoecd/42/21/2491084.pdf . 383 ) Scettico sull’utilizzo dei patent pools nel settore biotecnologico, anche, F. Leonini, Il ruolo del brevetto nella ricerca biotecnologica, in AA.VV., Studi di diritto industriale in onore di Adriano Vanzetti, Milano, 2004, p. 825: “quando, come accade di frequente nel campo delle biotecnologie, i vari brevetti hanno ad oggetto prodotti tra loro concorrenti, ipotizzare un libero accordo tra i loro titolari appare illusorio, poiché il titolare del brevetto a monte avrà interesse a far valere il suo diritto di esclusiva per impedire lo sfruttamento dei brevetti dipendenti e non ad accordarsi con i titolari di questi e subire la loro concorrenza”. 382 168 che sono essenziali al loro funzionamento rispetto a quelli che possono rappresentare una minaccia alle logiche concorrenziali384. 384 ) In tal senso G. Colangelo, Mercato e cooperazione, cit., p. 13, cui si rimanda per approfondire le tematiche accennate nel testo. L’Autore evidenzia che in ambito comunitario le Linee guida che accompagnano il Regolamento 772/2004 relativo all’applicazione dell’articolo 81, paragrafo 3, del trattato CE a categorie di accordi di trasferimento di tecnologia , individuano come rilevanti ai fini di una valutazione antitrust: a) la misura in cui esperti indipendenti sono coinvolti nella gestione; b) le modalità previste per lo scambio di informazioni riservate; c) i meccanismi per la composizione delle controversie; d) gli obblighi di retrocessione devono essere non esclusivi e limitati agli sviluppi essenziali per l’utilizzazione delle tecnologie messe in comune; e) licenzianti e licenziatari devono essere liberi di sviluppare prodotti e norme concorrenti e concedere licenze al di fuori del pool; f) qualora il pool detenga una posizione di forza sul mercato, le royalties e le altre condizioni della licenza non devono essere discriminatorie e le licenze non devono essere esclusive. 169 Bibliografia 170 Albertini L., La comunione di brevetto tra sfruttamento diretto e indiretto, individuale e collettivo, in Giustizia civile, 2000, p. 2245 Arezzo E., Nuove prospettive europee in materia di brevettabilità delle invenzioni del software, in Giurisprudenza Commerciale, 2009, p. 1017 Arezzo E., La tutela e la valorizzazione della ricerca universitaria in tempi di crisi, in Rivista di diritto industriale, 2013, p. 148 Auteri P., Floridia G., Mangini V., Olivieri G., Ricolfi M., Spada P., Diritto industriale. 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