UNIVERSITÀ POLITECNICA DELLE MARCHE
SCUOLA DI DOTTORATO
DELLA FACOLTÀ DI ECONOMIA “G. FUÀ”
CURRICULUM “DIRITTO DELL’ECONOMIA”
XI CICLO
La tutela brevettuale dell’innovazione biotecnologica.
Privatizzazione della conoscenza nel settore della ricerca e dello
sviluppo
Tutor
Dottoranda
Chiar.mo Prof.
Franceschina Pisciarelli
Gerardo Villanacci
Anno Accademico 2012-2013
1
Indice
Introduzione
p. 6
Capitolo I
La disciplina dell’innovazione nel regime delle fonti nazionali,
comunitarie ed internazionali
1.
Le invenzioni come beni immateriali
2.
Tutela dell’innovazione nell’attività d’impresa. La disciplina del brevetto nel
sistema delle fonti nazionali
p.11
p. 13
3.
Le fonti internazioni del diritto sui brevetti
4.
Il Brevetto europeo con effetto unitario. Ulteriori riferimenti normativi
comunitari in materia di brevetto
p. 20
p. 25
Capitolo II
Le invenzioni biotecnologiche: evoluzione del diritto dei brevetti ed
estensione della privativa
1.
Rivoluzione nel diritto dei brevetti: dalla tutela dell’innovazione tecnica a
quella della “materia vivente”
2.
p. 32
Esatta individuazione del significato di biotecnologie ed ambito di
applicazione delle stesse. Primi brevetti concessi a protezione dell’innovazione
biotecnologica
p. 34
2
3.
Armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di libera circolazione
dei prodotti biotecnologici: la Direttiva 98/44/CE. Recepimento della direttiva da
parte dell’Italia alla luce della sentenza della Corte di Giustizia UE del 9 ottobre
2001
p. 38
4.
Il materiale biologico come oggetto di privativa in luogo dell’innovazione
meccanica. Suoi significati e problematiche connesse
5.
p. 43
Il brevetto biotecnologico tra brevetto di prodotto e di procedimento.
Estensione dell’esclusiva e superamento della formula “comunque ottenuto” ed in
“in tutti i suoi possibili usi”
6.
p. 47
Dicotomia scoperta-invenzione: superamento del divieto di brevettare le
scoperte nel settore delle biotecnologie
7.
p. 55
Ricerca pura e ricerca applicata: individuazione delle differenze e delle ratio
di natura economica e concorrenziale
8.
p. 58
Area di confine tra ricerca pura e ricerca applicata nelle biotecnologie: la c.d.
ricerca finalizzata. Il problema della brevettabilità dei risultati della ricerca
di base
9.
p. 61
La tutela brevettuale del materiale biologico di origine umana ed, in
particolare, delle sequenze di DNA
p. 66
10. La brevettabilità degli strumenti di ricerca: il caso delle sequenze ESTs p. 76
11. La brevettabilità del DNA umano alla luce del caso Myriad Genetics
p. 81
Capitolo III
Rilettura dei requisiti di brevettabilità alla luce delle caratteristiche
proprie delle invenzioni biotecnologiche. Abbassamento della soglia per
accedere alla tutela brevettuale
1.
L’originalità nelle attività svolte dai gruppi di ricerca. Spersonalizzazione
dell’innovazione
p. 88
3
2.
La presenza del requisito della novità nel materiale biologico preesistente in
natura. I nuovi usi di sostanze già note
p. 92
3.
La liceità dell’invenzione biotecnologica
4.
Limiti alla brevettabilità del materiale biologico. La sentenza della Corte di
Giustizia nel caso Brüstle
p. 97
p. 100
5.
L’applicazione industriale dell’invenzione biotecnologica
6.
Principio di proporzionalità fra esclusiva ed apporto inventivo: ratio della
norma
p. 105
p. 107
Capitolo IV
Il fenomeno della privatizzazione della conoscenza nel settore della
ricerca e dello sviluppo: criticità e rimedi posti a tutela delle istanze
sociali e del mercato
1.
Il ruolo della conoscenza nell’attuale sistema economico. Il capitalismo c.d.
cognitivo
2.
p. 112
Riflessioni sulla conoscenza come merce: criticità del processo di
privatizzazione del sapere
3.
p. 115
La tutela delle istanze sociali nell’innovazione brevettuale: la teoria dei beni
comuni ed il sistema delle corti
4.
p. 122
Derive protezioniste della proprietà intellettuale e tutela della concorrenza.
Anticorpi pro concorrenziali contenuti nella disciplina brevettuale
5.
Dinamiche competitive della licenza obbligatoria
4
p. 127
p. 132
Capitolo V
Nuovi modelli organizzativi deputati alla produzione ed allo
sfruttamento dell’innovazione
1.
Nuovi saperi ed imprenditorialità. Rimodulazione degli equilibri esistenti sul
mercato tramite nuove strategie organizzative
2.
Il ruolo delle Università e dei centri di ricerca nel sistema imprenditoriale
biotecnologico. Individuazione dei titolari dei diritti di privativa
3.
p. 144
La cooperazione tecnologica come nuovo modello di sviluppo nel settore
della ricerca e sviluppo. I contratti di rete
4.
p. 140
p. 153
I patent pools
p. 166
Bibliografia
p. 170
5
Introduzione
6
Il legame appropriazione-innovazione che ha, da sempre, rappresentato la
giustificazione economica della privativa brevettuale è entrato in crisi con la tutela
delle invenzioni biotecnologie. L’inventore realizza un prodotto nuovo o un
procedimento originale impiegando materiale biologico di origine umana, animale e
vegetale; detto materiale contiene informazioni genetiche, è autoriproducibile o
capace di riprodursi in un sistema biologico.
Attraverso tecniche proprie di questo settore, applicate da gruppi di ricerca
piuttosto che da singoli operatori, si manipola la materia vivente arrivando a
produrre farmaci, vaccini, batteri transgenici, tessuti e organi per xenotrapianti,
animali e piante transgenici, alimenti privi di allergeni, colture difese dai parassiti
senza l’impiego di pesticidi, tecniche di biorisanamento ambientale grazie a
microrganismi ed enzimi “ingegnerizzati”; i risultati della ricerca sono impiegati
nell’ambito della diagnosi di malattie gravissime, nella fecondazione assistita, nello
screening delle alterazioni genetiche.
Le peculiarità delle biotecnologie hanno sollevato questioni di carattere etico,
ambientale, economico, politico, sociale e, non da ultimo, di compatibilità con il
regime dei brevetti, la cui disciplina è profondamente cambiata per il susseguirsi di
molteplici eventi di cui la scoperta del DNA, risalente al 1953, rappresenta quello
principale.
Con il presente lavoro si vuole esaminare, senza alcuna pretesa di completezza, i
cambiamenti che, nel sistema brevettuale, ha comportato l’estensione della privativa
a prodotti geneticamente modificati (es. topo transgenico) oppure già esistenti in
natura (es. sequenze DNA), fattispecie nelle quali sembra, invero, mancare il
requisito della novità. Ammetterne la brevettabilità, ha sostanzialmente significato
superare l’antica dicotomia tra scoperta ed invenzioni per arrivare a sostenere che
possono essere tutelati i risultati della ricerca di base prima, ancora, che di quella
applicata.
In questo contesto si colloca, e trova giustificazione, la generalizzata tendenza ad
abbassare la soglia richiesta per accedere alla tutela brevettuale con riferimento, in
particolare, ai requisiti dell’attività inventiva e dell’applicabilità industriale. Il
7
brevetto biotecnologico non mira a premiare un flash of genius, un’intuizione felice,
ma la ricerca, la grande ricerca, intesa come costoso e paziente lavoro di
sperimentazione di grandi èquipe di ricercatori. Circa l’applicazione industriale è
sufficiente, in alcuni casi, che l’utilità dei risultati pratici legati all’innovazione sia
“credibile”.
L’estensione delle privative garantisce, per un verso, il progredire della ricerca,
da cui nascono importanti risorse (si pensi, in particolare, a quelle farmacologiche),
ma dall’altro rischia di ridurre eccessivamente gli spazi di libero accesso ai beni
immateriali con conseguenti, possibili, costi in termini sociali. Il ricorso
all’esclusiva potrebbe compromettere, se non adeguatamente controllato, lo sviluppo
di innovazioni future.
In un’economia dove si assiste ad una crescente privatizzazione della conoscenza,
ottenuta nel settore della ricerca e dello sviluppo con l’impiego di costosi
finanziamenti sempre più spesso privati, si riflette sull’esigenza di rivedere i regimi
di stimolo all’innovazione impiegando, a tal fine, la categoria dei beni comuni
ovvero un regime normativo connotato dalla sottrazione di alcuni beni (es. sequenze
di DNA) ai processi di appropriazione esclusiva. Le istituzioni deputate alla tutela
degli interessi collettivi dovrebbero essere quelle politiche; tuttavia, poiché tale
strategia incontra, nell’attuale assetto, i limiti della decentralizzazione del sistema
delle fonti, la costante pressione della regulatory competition, l’estrema rapidità del
mutamento tecnologico e la profonda asimmetria nelle capacità d’incidenza politica
(ai pochi repeat players, dotati di un ampio potere economico ed interessi omogenei,
si oppone una massa diffusa e piuttosto disorganica di potenziali controinteressati),
si pone come idonea alternativa il sistema delle corti. Là dove il concreto assetto
istituzionale di un sistema favorisca l’accesso alla giustizia e permetta di configurare
gli interessi sociali in termini di pretese costituzionalmente garantire, valorizzando
quindi i diritti fondamentali nella loro funzione di apertura delle sfere d’esclusiva, il
circuito giurisdizionale può offrire un valido canale di emersione del retroterra non
proprietario, congiunturalmente al (o in supplenza del) tradizionale processo
politico.
8
Al fine poi di garantire un’effettiva circolazione di quella parte di conoscenza
che, diversamente dall’informazione codificata, può essere scambiata unicamente
attraverso processi di condivisione, sono fondamentali le relazioni di natura
cooperativa tra imprese. A prescindere dal livello (ricerca o commercio) in cui
un’impresa decida di operare nel settore biotecnologico, la stessa dovrà comunque
far fronte a cambiamenti che si presentano straordinariamente veloci e che
richiedono un controllo assoluto e professionale delle fonti delle conoscenze più
qualificate, con le quali è essenziale stabilire relazioni e paternariati senza
limitazioni di natura organizzativa e territoriale se si vogliono massimizzare i
risultati degli sforzi creativi.
Ricercatori, istituzioni pubbliche ed imprese private dovrebbero sempre
cooperare in modo costruttivo, superando steccati e confini aziendali per aumentare
la qualità e la quantità del progresso scientifico, economico e sociale al fine di creare
uno sviluppo sostenibile.
9
Capitolo I
La disciplina dell’innovazione nel regime delle fonti nazionali,
comunitarie ed internazionali
10
1. Le invenzioni come beni immateriali
L’invenzione, intesa come idea che consente la soluzione di un problema tecnico
per la soddisfazione dei bisogni dell’uomo, costituisce un bene1; trattandosi di una
entità ideologica, è un bene immateriale separabile dalla persona del suo autore e
dalle cose nelle quali s’incorpora nel momento della comunicazione, della
circolazione (documento o brevetto che lo descrive), dell’attuazione (macchina o
dispositivo che lo realizza).
Non essendo suscettibili di possesso materiale, le invenzioni sono in grado di
soddisfare l’interesse di una pluralità indefinita di soggetti senza che il godimento
dell’uno interferisca con quello degli altri (c.d. godimento per moltiplicazione)2;
l’assenza di finitezza elimina, almeno apparentemente, il conflitto e l’esclusività nel
godimento3.
Le invenzioni possono comunicarsi con la massima facilità e circolare da
individuo ad individuo, sfuggendo al dominio del loro autore; possono essere
apprese con l’esame di un prototipo, la semplice lettura di una descrizione, lo studio
di una fotografia, la confidenza di un dipendente. Trovano normalmente
applicazione a prescindere dalla presenza fisica, dalla collaborazione o comunque
dalla volontà dell’inventore4, il quale, senza una specifica tutela, potrebbe tuttavia
non trarre dallo sfruttamento dell’innovazione quel profitto che gli consente di
coprire i costi della ricerca; in un regime di libera concorrenza, l’invenzione
potrebbe essere facilmente utilizzata da tutti e, conseguentemente, l’autore si
1
) Il termine invenzione può comprendere qualsiasi soluzione di un problema tecnico; può consistere
in un’idea che, raggiungendo un dato livello creativo e presentando date caratteristiche, può formare
oggetto di quella particolare tutela realizzata attraverso la brevettazione oppure identificarsi con idee
che costituiscono la semplice applicazione di nozioni e principi acquisiti alla tecnica e che, comunque,
non possiedono i requisiti richiesti dalla legge per la loro qualificazione come invenzioni brevettabili
ovvero invenzioni in senso tecnico giuridico: G. Sena, Invenzioni industriali, I) Diritto commerciale,
in Enciclopedia del Diritto, Vol. XVII, p. 1. Cfr. anche G. Sena, I diritti sulle invenzioni e sui modelli
industriali, Milano, 1990, p. 100, nel quale l’Autore definisce l’invenzione come la “creazione
intellettuale consistente nella soluzione di un problema tecnico”.
2
) G. Sena, Invenzioni industriali, cit., p. 2.
3
) Diverso è invece il caso dei beni materiali; gli interessi individuali riguardano tutti lo stesso oggetto
ed ogni persona ha, tendenzialmente, interesse a goderne in modo esclusivo poiché la finitezza della
cosa importa la riduzione o addirittura l’impossibilità del godimento se diviso con altri.
4
) Tutto ciò non è possibile per i beni materiali il cui godimento presuppone la detenzione e il possesso
ovvero il trasferimento della cosa; l’utilizzazione di un servizio presuppone la presenza della persona
che lo eroga.
11
troverebbe nella stessa condizione di chi non ha sopportato alcuna spesa per
realizzarla. Considerati gli oneri della ricerca e della produzione, l’inventore si
porrebbe in una situazione addirittura deteriore di tutti gli altri imprenditori poiché il
prodotto avrebbe per lui un costo di gran lunga superiore rispetto a quello dei
concorrenti, non gravati dai rischi e dalle spese connesse alla produzione
dell’innovazione stessa5.
L’inventore è, dunque, interessato a che nessun altro possa utilizzare la sua idea
senza il suo consenso; tale esigenza è legata alla necessità di avere una posizione
(che è, a volte, definita di monopolio) che gli consenta di ottenere un prezzo, nei
rapporti con i terzi, sufficiente a coprire i costi della ricerca e della produzione. Pur
trattandosi di un bene immateriale, anche l’utilizzazione del bene invenzione genera
dunque un conflitto di interessi che deriva dall’esigenza, propria del titolare, di
ottenere la remunerazione economica dell’attività di ricerca ovvero dall’interesse di
garantirsi una certa probabilità di guadagno connessa con lo sfruttamento esclusivo
o monopolistico, diretto o indiretto.
L’invenzione necessita, quindi, di una normativa volta a regolamentare gli
interessi coinvolti nel suo utilizzo.
5
) In questi ultimi decenni, si è assistito ad una profonda trasformazione dell’impostazione e
dell’organizzazione della ricerca; l’aspetto che più evidenzia questo mutamento si trova nel carattere
sistematico dell’attività di ricerca, sviluppo ed innovazione. La ricerca scientifica e lo sfruttamento
metodico dei suoi risultati costituiscono oggi un processo che richiede ed assorbe investimenti di
entità sempre più crescenti. Tutto ciò ha determinato la creazione di laboratori di ricerca sempre più
imponenti, dove lavorano centinaia ed anche migliaia di scienziati e tecnici, ove si trovano e vengono
realizzati macchinari di ingentissimo valore e dove s’impiegano capitali la cui entità, sempre più
rilevante, varia in funzione del campo della ricerca e delle possibilità economiche della impresa o
addirittura del Paese.
12
2. Tutela dell’innovazione nell’attività d’impresa. La disciplina del brevetto
nel sistema delle fonti nazionali
L’attività inventiva è normalmente disciplinata, in quasi tutti i Paesi, con norme
che prevedono la concessione, al termine di un procedimento più o meno complesso,
di una tutela brevettuale che assicura al titolare, per un certo numero di anni, il
diritto allo sfruttamento dell’innovazione6. Nucleo essenziale di questo diritto è la
facoltà esclusiva di produrre, usare e vendere l’invenzione brevettata7, impedendo
conseguentemente ai terzi di sfruttarla se non in virtù di un contratto stipulato con il
titolare (c.d. licenza)8.
6
) Questa sostanziale uniformità può attribuirsi a svariate circostanze: La disciplina delle invenzioni
industriali costituisce in tutti i paesi una normativa speciale, svincolata dalle tradizioni giuridiche dei
diversi ordinamenti; le invenzioni industriali circolano normalmente da paese a paese cosicché la loro
tutela giuridica non può essere soddisfatta se limitata ad un singolo Stato; la materia della c.d.
proprietà industriale è stata oggetto di una serie di convenzioni internazionali che hanno avuto una
influenza determinante sulla unificazione del diritto delle invenzioni: G. Sena, Invenzioni Industriali,
cit., p. 2.
7
) L’invenzione brevettabile consiste, dal punto di vista qualitativo, in una combinazione di precedenti
idee tecniche, combinazione resa possibile perché da un atto mentale di intuizione (e non di
ragionamento) si scopre la idoneità delle idee ad essere utilmente combinate; dal punto di vista della
sostanza, consiste invece in una scoperta intuitiva, seguita da una combinazione esecutiva: in tal senso
M. Franzosi, Definizione di invenzione brevettabile, in Riv. dir. ind., 2008, p. 18. L’Autore osserva
che il contributo intellettuale sta nella scoperta; ciò che caratterizza l’invenzione è un atto di
intuizione diverso dal ragionamento: il ragionamento deduce una conclusione da certe premesse (è
dunque deduttivo o inferenziale) mentre l’intuizione raggiunge una conclusione pur in assenza di
adeguate premesse (è dunque istantanea: non ha passaggi logici intermedi). G. Floridia, Diritto
industriale, proprietà intellettuale e concorrenza, Aa.Vv., Torino, 2012, p. 198, identifica
l’invenzione brevettabile nella “idea di soluzione di un problema tecnico suscettibile di applicazione
industriale”.
8
) La tutela brevettuale è stata preferita al segreto aziendale sia dal legislatore nazionale che da quello
comunitario ed internazionale. Il segreto aziendale permette all’imprenditore di tenere nascosta ai
concorrenti la struttura della sua invenzione al fine d’impedirne la riproduzione; la messa in
commercio del primo esemplare del nuovo prodotto ne consente, tuttavia, lo smontaggio e quindi la
sua copiatura. Il segreto può invece essere efficace in rapporto a quelle invenzioni che attengono a
nuovi processi produttivi non copiabili, in generale, da chi non abbia accesso all’interno dell’azienda;
l’imprenditore tuttavia non sempre riesce ad evitare fughe di notizie. Il segreto aziendale è stato anche
considerato potenzialmente pericoloso per la collettività; quest’ultima sarà infatti tenuta a sopportare
una prolungata situazione di monopolio laddove l’imprenditore riuscisse a conservare a lungo il
segreto, circostanza che potrebbe anche comportare la perdita dell’innovazione stessa (a causa, ad
esempio, della morte improvvisa dell’unico depositario del segreto). Cfr. sul punto anche infra Cap.
IV, par. 4.
13
In un sistema di libero mercato la presenza del brevetto costituisce un’apparente
contraddizione stante la situazione di monopolio, di per sé contraria alla
concorrenza, creata dal brevetto stesso. Tale contraddizione trova invero una valida
giustificazione nella funzione di favore per il progresso tecnico propria della citata
privativa. Quest’ultima rappresenta uno stimolo per la creazione di nuove invenzioni
perché garantisce a chi le realizza un diritto di esclusiva, rappresenta un incentivo
alla rivelazione delle invenzioni in quanto ne rende poco conveniente la gestione in
regime di segreto, consente una circolazione dietro compenso del diritto sulle
invenzioni, stimola la ricerca9.
Con il brevetto si tutela uno dei principali fattori dell’attività di impresa
consistente, appunto, nell’innovazione; l’imprenditore che riesce a realizzare un’idea
nuova, introducendola nella sua attività, consegue un vantaggio competitivo sugli
altri operatori del settore che può risultare decisivo ai fini della sua fortuna10.
In un’economia come quella attuale, caratterizzata da uno stabile eccesso di
offerta e, quindi, da una situazione di stabile concorrenza, l’innovazione rappresenta
un’importante strategia concorrenziale, diversa da quella del prezzo, essenziale per
la crescita di un’impresa soprattutto in un’economia globale dove la competizione è
orientata verso la conoscenza prima ancora che verso i mezzi di produzione
tradizionali11.
In Italia, risale al secolo scorso una delle prime leggi in materia di brevetto. Si
tratta del r.d. 29 giugno 1939 n. 1127 c.d. legge invenzioni; opera di un legislatore
9
) Il brevetto è stato anche considerato come strumento di stimolo delle spese di ricerca; l’accento si
sposta dalle spese nella ricerca che conduce all’invenzione alle spese nella ricerca che conduce alla
successiva sperimentazione dell’invenzione, necessaria prima dell’immissione effettiva sul mercato di
un prodotto nuovo. Si pensi ad un nuovo farmaco: prima di immetterlo sul mercato è necessaria una
minuziosa sperimentazione che assicuri l’assenza di effetti collaterali negativi, individui precauzione
da imporre nell’uso, scelga il dosaggio ed il modo di somministrazione.
10
) L’innovazione può riguardare la fase della produzione industriale (es. un nuovo tipo di prodotto, un
nuovo tipo di procedimento di fabbricazione che consente di realizzare un certo prodotto a costi più
bassi di quelli consentiti dalle tecniche note), può attenere alla fase dell’organizzazione aziendale (es.
la creazione di un nuovo tipo di organigramma) oppure a quella della commercializzazione (es. le
grandi innovazioni della vendita a rate e la vendita per corrispondenza). Le innovazioni di tipo
organizzativo o commerciale non possono essere tutelate, a differenza di quelle inerenti la fase della
produzione, con lo strumento del brevetto; trovano però tutela, se ed in quanto segrete, negli artt. 98 e
99 c.p.i.
11
) A. Vanzetti, V. Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009, p. 355.
14
attento e lungimirante, la norma ha regolamentato la materia sin quasi ai giorni
nostri grazie, anche, ad alcuni interventi apportati al testo originario al fine di
adeguarlo alle nuove istanze dettate, per lo più, dall’evoluzione della normativa
internazionale. Alla legge, si sono poi aggiunti alcuni articoli del Codice Civile
contenuti nel Capo II del Titolo IX del Libro V; le norme definiscono il concetto di
invenzione industriale12 ed i conseguenti diritti riconosciuti all’inventore13.
Il successivo d.p.r. 22 giugno 1979 n. 338 ha adeguato il nostro sistema
all’introduzione del brevetto europeo14 ed ha recepito le indicazioni della Corte
12
) L’art. 2585 c.c. statuisce che : “Possono costituire oggetto di brevetto le nuove invenzioni atte ad
avere un’applicazione industriale, quali un metodo o un processo di lavorazione industriale, una
macchina, uno strumento, un utensile o un dispositivo meccanico, un prodotto o un risultato
industriale e l’applicazione tecnica di un principio scientifico, purché essa dia immediati risultati
industriali. In quest’ultimo caso il brevetto è limitato ai soli risultati indicati dall’inventore”. G.
Dragotti, Le invenzioni, in Trattato di diritto privato diretto da Pietro Rescigno, Vol. IV, 2009, p. 220,
osserva che la norma non offre una definizione di invenzione; lo stesso vale per il Codice della
Proprietà Industriale che si limita ad indicare quali, tra le invenzioni, non sono brevettabili.
13
) Detti articoli prevedono che le invenzioni industriali sono tutelate tramite un diritto di esclusiva
(art. 2584), definiscono l’oggetto del brevetto (art. 2585), l’ambito di esclusiva per i brevetti di
metodo o procedimento (art. 2586), introducono la nozione di brevetto dipendente da un brevetto
altrui (art. 2587). Le norme prevedono altresì che il diritto di brevetto sia attribuito all’inventore (art.
2588) e che i diritti patrimoniali nascenti dall’invenzione siano liberamente trasferibili (art. 2589),
introducono la necessità di una disciplina ad hoc per le invenzioni effettuate nell’ambito di un
rapporto di lavoro (2590). L’ultima norma (2591) rinvia alle leggi speciali per quel che concerne le
modalità per la concessione del brevetto, l’esercizio dei diritti che ne derivano e la loro durata.
Tradizionalmente, detto rinvio è stato inteso dal legislatore come un invito ad apprestare in sede
extracodicistica la disciplina compiuta della materia, tanto che le norme appena richiamate hanno
svolto, e svolgono in concreto, una funzione residuale: G. Dragotti, Le invenzioni, cit., p. 206, il quale
osserva altresì che la collocazione delle suesposte norme nel codice civile, pur testimoniando il ruolo
cardine rivestito dalla tutela delle invenzioni industriali, non risponde agli impianti sistematici
moderni che tendono a proporre una visione organica e sincretica dei diversi istituti che compongono
il diritto di proprietà industriale ed intellettuale, evidenziando i molteplici punti di contatto tra di essi.
La gran parte delle norme in materia di brevetti per invenzioni industriali deve essere interpretata
all’interno ed alla luce del più ampio sistema di diritti di privativa previsto dal diritto della proprietà
industriale, la cui nozione è oggi codificata proprio dalle leggi speciali.
14
) L’Italia con l. n. 260 del 1978 autorizzava la ratifica della Convenzione sul brevetto Europeo
sottoscritta a Monaco il 5 ottobre 1973. La modifica della legislazione nazionale si rendeva dunque
necessaria al fine di evitare disparità di trattamento fra i titolari del brevetto nazionale ed i titolari di
quello europeo in quanto, a seguito della predetta ratifica, il nostro Paese prevedeva accanto al
brevetto nazionale, disciplinato dalla legge interna, concesso dall’Ufficio centrale brevetti con sede in
Roma, avente efficacia nel territorio dello Stato, anche il brevetto europeo, disciplinato dalla
Convenzione di Monaco (sia pure con rilevanti rinvii alla normativa nazionale), concesso dall’Ufficio
europeo dei brevetti con sede in Monaco, avente efficacia in tutti o in alcuni degli Stati (a scelta del
richiedente) aderenti alla Convenzione. Per approfondimenti sulla Convenzione di Monaco vedi infra
par. 3.
15
Costituzionale sull’abrogato divieto di brevettare farmaci15; sul tema dei
medicamenti, il legislatore è poi intervenuto nuovamente con la legge 19 ottobre
1991 n. 349 che ha introdotto nel nostro ordinamento i Certificati Complementari di
Protezione, normativa successivamente superata dal Regolamento n. 1768/92/CE, in
vigore dal gennaio del 1993, istitutivo del Certificato Protettivo Complementare16.
Con il d.lgs. 19 marzo 1998 n. 196 l’Italia ha adeguato le proprie norme agli
accordi TRIPs17 mentre con la legge 18 ottobre 2001 n. 383 ha introdotto una nuova
disciplina relativa alle invenzioni effettuate in ambito universitario18. Nell’ambito di
un più ampio progetto di codificazione, è stata conferita al governo, con legge 12
dicembre 2002 n. 273, un’ampia delega volta al riassetto delle disposizioni in
materia di proprietà industriale; di qui l’istituzione, con il d.lgs. 27 giugno 2003 n.
15
) In tal senso la sentenza n. 20 del 20 marzo 978 con la quale la Corte Costituzionale dichiarava
illegittimo l’art. 14 della l. n. 1127 nel testo del 1939.
16
) Alcuni prodotti, prima di essere immessi in commercio, sono subordinati a procedure
amministrative lunghe e complesse tanto che difficilmente il titolare riesce ad usufruire dell’intera
durata dell’esclusiva. Si pensi al settore dell’invenzioni farmaceutiche; la commercializzazione di un
farmaco è subordinata all’ottenimento dell’Autorizzazione all’Immissione in Commercio (AIC)
rilasciata dall’amministrazione competente solo al termine di una procedura lunga e costosa. Al fine di
reintegrare la posizione dei titolari di brevetti per invenzione aventi ad oggetto nuovi medicinali, che
si trovano sostanzialmente ad usufruire di una esclusiva insufficiente ad ammortizzare i costi della
ricerca, è stata appunto introdotta, prima a livello nazionale poi europeo, una protezione
complementare tramite il sostanziale prolungamento della durata del brevetto per un tempo in linea di
principio corrispondente al periodo intercorso tra la data del deposito della domanda di brevetto e
l’ottenimento della prima AIC. Attualmente, l’art. 81 c.p.i. così recita: “Ai certificati complementari di
protezione concessi ai sensi della legge 19 ottobre 1991, n. 349, si applica il regime giuridico, con gli
stessi diritti esclusivi ed obblighi, del brevetto. Il certificato complementare di protezione, produce gli
stessi effetti del brevetto al quale si riferisce, limitatamente alla parte o alle parti di esso oggetto
dell’autorizzazione all’immissione in commercio. Gli effetti del certificato complementare di
protezione decorrono dal momento in cui il brevetto perviene al termine della sua durata legale e si
estendono per una durata pari al periodo intercorso tra la data del deposito della domanda di
brevetto e la data del decreto con cui viene concessa la prima autorizzazione all’immissione in
commercio del medicamento. La durata del certificato complementare di protezione non può in ogni
caso essere superiore a diciotto anni a decorrere dalla data in cui il brevetto perviene a termine della
sua durata legale. Al fine di adeguare progressivamente la durata della copertura complementare e
brevettuale a quella prevista dalla normativa comunitaria, le disposizioni di cui alla legge 19 ottobre
1991, n. 939, e da regolamento (CEE) n. 1768/1992 del Consiglio, del 18 giugno 1992, trovano
attuazione attraverso una riduzione della protezione complementare pari a sei mesi per ogni anno
solare, a decorrere dal 1° gennaio 2004, fino al completo allineamento alla normativa europea. E’
consentito a soggetti terzi che intendano produrre per l’esportazione principi attivi coperti da
certificati complementari di protezione concessi ai sensi della legge 19 ottobre 1991, n. 349, di
avviare con i titolari dei certificati suddetti, presso il Ministero dello sviluppo economico, una
procedura per il rilascio di licenze volontarie non esclusive a titolo oneroso nel rispetto della
legislazione vigente in materia”. Cfr. anche art. 61 c.p.i.
17
) Vedi infra par. 3.
18
) Vedi infra Cap. V, par. 2.
16
168, di apposite Sezioni Specializzate in materia di proprietà industriale ed
intellettuale presso i principali Tribunale dello Stato19, organismi successivamente
sostituiti con le Sezioni Specializzate in materia di impresa20.
Altra novità, l’emanazione del Codice della Proprietà Industriale, avvenuto con il
d.lgs. 10 febbraio 2005 n. 30, che ha sostituito integralmente la normativa speciale
previgente, armonizzando la disciplina sostanziale rispetto alle istanze provenienti
dalle norme internazionali e comunitarie21.
19
) Le Sezioni Specializzate hanno una competenza esclusiva sulle controversie aventi ad oggetto
marchi nazionali, internazionali e comunitari, brevetti d’invenzione e per nuove varietà vegetali,
modelli di utilità, disegni e modelli, diritti d’autore, fattispecie di concorrenza sleale interferenti con la
tutela delle proprietà industriale e intellettuale.
20
) Cfr. art. 2 d.l. 24 gennaio 2012 n. 1 (c.d. decreto liberalizzazioni) col quale sono state incorporate
nell’ambito delle istituende Sezioni specializzate in materia di impresa, e quindi soppresse nella loro
specificità, le Sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale. Con una proposta
di emendamento del decreto liberalizzazioni, depositata in Commissione il 25 febbraio 2012 è stato
anche aumentato il numero delle Sezioni specializzate, portandolo da 12 a 21. G. Sena, Sezioni
Specializzate, Riv. dir. ind., 2012, p. 113, commenta l’art. 2 del d.l. 24 gennaio 2012 n. 1
evidenziandone delle criticità. In primo luogo, l’istituzione di Sezioni specializzate competenti in
materia industriale ed in “numero per quanto possibile ridotto” è espressamente richiesta dalla
normativa comunitaria; qualsiasi cambiamento della legge nazionale deve essere quindi comunicato
alla Commissione dagli Stati membri e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee,
pubblicazione che probabilmente ne condiziona l’entrata in vigore. In secondo luogo, la
disomogeneità delle materie attribuite alle nuove Sezioni specializzate comprendendo, da un lato, la
proprietà industriale e intellettuale, dall’altro, il diritto delle società, compromette la specializzazione
dei magistrati che, infatti, non deriva da un loro specifico percorso formativo bensì dal loro impegno e
dal loro interesse per la materia.
21
) Il codice si inserisce in un più ampio quadro di interventi di riordino delle legislazioni volte ad
accorpare organicamente, in settori omogenei, norme anteriormente stratificatesi nel corso del tempo;
il fine è quello di ridare coerenza sistematica ed uniformità di linguaggio alla categoria dei diritti di
proprietà industriale costituendo un’unitaria categoria.
17
Il Codice della Proprietà Industriale si apre con l’enunciazione di una serie di
principi fondamentali relativi a tutti i diritti di proprietà industriali di cui fanno
parte: “marchi ed altri segni distintivi, indicazioni geografiche, denominazioni di
origine, disegni e modelli, invenzioni, modelli di utilità, topografie dei prodotti a
semiconduttori, informazioni aziendali riservate e nuove varietà vegetali”22.
22
) Art. 1 c.p.i. Dalla lettura dell’articolo si evince che le invenzioni, come i marchi e gli altri segni
distintivi, le indicazioni geografiche, le denominazioni di origine, i disegni e modelli industriali, i
modelli di utilità, le topografie dei prodotti a semiconduttori, le informazioni aziendali riservate, le
nuove varietà vegetali sono ricomprese nella nozione di proprietà industriale disciplinata dal relativo
codice che riconduce tutti i diritti di proprietà industriale alla categoria dei beni immateriali. In
passato, questa inclusione è stata contestata sulla base di una pretesa diversità di natura del diritto di
proprietà rispetto all’esclusive industrialistiche. Questi dubbi sembrano oramai superati in quanto,
nell’attuale contesto, la nozione di proprietà industriale è stata estesa ai segni distintivi. L’evoluzione
terminologica appare del resto in linea con le convenzioni ed i trattati internazionali nonché con la
giurisprudenza della Corte di Giustizia (tra le tante cfr. 18 novembre 2003, c-216/01, Budweiser, in
Racc. C. giust. CE, 2003, 13617) che ha, a sua volta, ricondotto alla nozione di proprietà industriale e
commerciale dell’art. 30 TCE i diritti di marchio, brevetto, d’autore e connessi: così D. Sarti,
Proprietà industriale, in Enciclopedia Giuridica, Vol. XXV, 2006, p.1. Riflettendo sull’evoluzione
del concetto di proprietà G. Sena, Beni materiali, beni immateriali e prodotti industriali: il complesso
intreccio delle diverse proprietà, in Riv. dir. ind., 2004, p. 55, osserva che: “La regola che attribuisce
all’imprenditore la proprietà del bene prodotto, consentendogli di offrirlo sul mercato ricavandone
un prezzo più o meno rimunerativo (di costi, ammortamenti, utile, ecc.), non riguarda il godimento del
bene, ma la allocazione delle risorse in funzione delle scelte dei consumatori. Si tratta della
evoluzione storica del concetto stesso di proprietà, legato all’origine al godimento ed allo
sfruttamento di risorse naturali scarse da distribuirsi fra diversi soggetti, e trasformatosi oggi nello
strumento centrale per ripartire la disponibilità delle fonti produttive e soprattutto nel mezzo per
attribuire, attraverso il riconoscimento della proprietà sul bene prodotto, la rimunerazione ed il
rischio dell’attività di impresa. Il problema, insomma, non è quello della relazione fra proprietà e
godimento, ma piuttosto quello della relazione fra proprietà e sistema produttivo. Se consideriamo il
problema della proprietà intellettuale da questo punto di vista, dobbiamo in primo luogo constatare
come la realizzazione di qualsiasi innovazione (invenzioni, modelli, in genere opere dell’ingegno o
beni immateriali) costituisce una vera e propria attività imprenditoriale, con costi e rischi di
insuccesso spesso molto elevati. La costituzione di un diritto di esclusiva sul bene prodotto (il
riconoscimento della proprietà, se si preferisce, su tale bene) ancorché si tratti di un bene
immateriale o infinito, è dunque il mezzo col quale si consente all’impresa innovatrice di recuperare i
costi di ricerca e sviluppo, distribuendoli su coloro che fruiscono del bene così prodotto attraverso la
attribuzione della facoltà di utilizzazione del trovato (cessione del brevetto, licenza ecc.) o la vendita
del prodotto industriale nel quale il bene immateriale è incorporato (il costo marginale del prodotto
include ovviamente i costi di ricerca e sviluppo). Ma ciò che più rileva è che, attraverso il sistema
della proprietà intellettuale, la ridistribuzione dei costi di ricerca e sviluppo, e quindi indirettamente
la allocazione delle risorse destinate ai diversi momenti di tale attività, è determinata dal prodotto
ottenuto e dalle scelte del mercato. La natura immateriale ed infinita dei beni non gioca, in tale
prospettiva, alcun ruolo e la proprietà intellettuale si pone sullo stesso piano di tutte le altre forme di
proprietà. La proprietà intellettuale è dunque l’istituto giuridico che consente la allocazione delle
risorse nella ricerca e sviluppo, secondo la logica della economia di mercato, al di fuori di ogni
discrezionalità amministrativa”.
18
I diritti di proprietà industriale sono divisi nelle due grandi categorie di titolati e
non titolati; la fattispecie costitutiva dei primi si perfeziona attraverso un
provvedimento amministrativo di brevettazione o registrazione che determina la
nascita del titolo di proprietà industriale23; la natura giuridica del procedimento è
definita dal Codice accertamento costitutivo24.
La fattispecie costitutiva dei diritti di proprietà industriale non titolati prescinde
invece da un procedimento amministrativo di brevettazione o registrazione;
necessita, al fine del suo perfezionamento, solo dei requisiti previsti per ciascuna
tipologia di diritti25.
Le norme contenute nel Codice trovano applicazione secondo il principio di
assimilazione dei cittadini stranieri nei termini previsti dalla Convenzione istitutiva
dell’Unione internazionale per la protezione dei diritti di proprietà intellettuale
(CUP) e dall’Accordo TRIPs; detto principio impone l’estensione del trattamento
nazionale agli stranieri cittadini di paesi aderenti alla citata Convenzione e all’OMC
ovvero a coloro che siano domiciliati nel nostro Paese o che abbiano in esso uno
stabilimento serio ed effettivo26. Al di fuori di queste ipotesi, gli stranieri possono
23
) Il termine brevettazione viene impiegato dal codice per le invenzioni, i modelli di utilità, le nuove
varietà vegetali; sono invece oggetto di registrazione i marchi, i disegni ed i modelli, le topografie dei
prodotti a semiconduttori
24
) Cfr. art. 2, comma 5, c.p.i. Il termine accertamento sottintende che la fattispecie costituiva della
tutela non si perfeziona semplicemente con il procedimento di brevettazione e registrazione ma
richiede la presenza dei requisiti previsti dalle norme del codice con riferimento a ciascuna tipologia
di protezione. Il medesimo termine chiarisce, inoltre, che l’autorità amministrativa competente per la
registrazione o la brevettazione (Ufficio italiano brevetti e marchi) non ha alcun potere discrezionale
di negare o concedere il relativo provvedimento; quest’ultimo costituisce un atto dovuto della
pubblica amministrazione, mentre la meritevolezza di protezione è valutata in via generale ed astratta
dal legislatore in presenza dei requisiti di tutela. Il termine accertamento non implica altresì alcuna
opzione in ordine all’attribuzione all’Ufficio italiano brevetti e marchi del potere di verifica dei
requisiti di protezione del titolo di proprietà industriale (cosidetto esame preventivo).
25
) Il codice disciplina il marchio non registrato, le informazioni segrete (art. 2, comma 4, c.p.i.), le
informazioni aziendali (artt. 98-99 c.p.i.), le indicazioni geografiche (artt. 29-30 c.p.i.). La protezione
riconosciuta dal codice ai diritti non titolati ha attratto nell’ambito della proprietà industriale forme di
tutela che precedentemente erano fondate sulla disciplina della concorrenza sleale, come la tutela dei
segni distintivi diversi dal marchio. La protezione dei segni distintivi non registrati era infatti
tradizionalmente ricondotta al divieto di atti confusori dell’art. 2598 n. 1 c.c., norma rimasta inalterata
ed impiegata per ricostruire presupposti e limiti di tutela di alcune tipologie di diritti.
26
) In materia di varietà vegetali l’assimilazione riguarda i cittadini, residenti o titolari di stabilimento
in uno dei paesi membri della Convenzione UPOV. Cfr. infra par. 3.
19
beneficiare del trattamento riservato ai cittadini nazionali solo a condizione di
reciprocità27.
Altre norme del Codice, riprendono poi principi elaborati tradizionalmente a
livello internazionale e comunitario28.
Il Codice della Proprietà Industriale ha subito un importante intervento ad opera
del d.lgs. 16 marzo 2006 n. 140 che ha dato attuazione in Italia alla Direttiva
2004/48/CE sul rispetto dei diritti della proprietà intellettuale; successivamente, il
d.lgs. n. 131 del 13 agosto 2010 ha ulteriormente modificato il Codice
introducendovi la Sezione IV bis contenente la disciplina delle invenzioni
biotecnologiche29.
Da ultimo, è intervenuto il d.lgs. 29 dicembre 2011 n. 216 convertito con l. 24
febbraio 2012 n. 14.
3. Le fonti internazioni del diritto sui brevetti
Tenuto conto che i mercati hanno odiernamente assunto dimensioni
sovranazionali e che gli scambi avvengono a livello globale, colui che realizza
un’invenzione sarà interessato a conseguire un diritto esclusivo esercitabile in
diversi Stati.
27
) La soluzione non è peraltro in linea con l’art. 58 della Convenzione sul brevetto europeo e con la
formulazione dell’art. 5 del Regolamento sul marchio comunitario che estendono la legittimazione a
brevettare, o alla registrazione, ad ogni persona fisica o giuridica indipendentemente dalla reciprocità.
28
) L’art. 4 c.p.i. disciplina il diritto di priorità inteso come la possibilità di considerare rilevanti le
sole anteriorità esistenti al momento del primo deposito estero, secondo i principi della Convenzione
istitutiva dell’Unione internazionale per la protezione dei diritti di proprietà intellettuale (CUP); l’art.
5 c.p.i. codifica il principio dell’esaurimento in base al quale i diritti di proprietà industriale non
possono restringere la circolazione dei prodotti messi lecitamente in commercio con il consenso del
titolare nella Comunità o nello SEE. Cfr. sull’argomento Capitolo IV, par. 4.
29
) Nel Codice non aveva inizialmente trovato spazio la normativa volta a dare attuazione in Italia alla
Direttiva 98/44/CE sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologie avvenuta con il d.l. 10
gennaio 2006 n. 3, convertito con l. 22 febbraio 2006 n. 78. Il mancato coordinamento era stato
ricondotto al farraginoso susseguirsi di leggi delega nonché a retaggi storici. L’incompletezza della
codificazione aveva così fatto sorgere problemi di carattere culturale e, prima ancora, interpretativo
trattandosi di materie attinenti alla proprietà intellettuale: in tal senso D. Sarti, Proprietà industriale,
cit., p. 2.
20
Di qui la natura intrinsecamente internazionale del diritto industriale che rende
necessaria l’armonizzazione delle normative vigenti nei diversi Paesi così come
l’introduzione di strumenti di tutela sovranazionali.
Punto di partenza dell’opera di armonizzazione può essere considerata la
Convenzione istitutiva dell’Unione internazionale per la protezione della proprietà
industriale (d’ora in poi CUP) stipulata a Parigi il 20 marzo 1883, più volte
riveduta30. Il principio di assimilazione, disciplinato dall’art. 2 CUP, è la principale
innovazione introdotta dalla Convenzione; esso impone a ciascun Stato membro di
applicare ai cittadini degli altri Stati membri lo stesso trattamento previsto per i suoi
cittadini31. Altrettanto importante è il diritto di priorità introdotto dall’art. 4 allo
scopo di facilitare l’estensione all’estero dei diritti di proprietà industriale; esso
prevede che colui che ha depositato una domanda di brevetto in un Paese membro
della CUP possa depositare una domanda per un brevetto corrispondente negli altri
Paesi invocando la priorità del deposito nazionale di base. La domanda verrà
valutata, quanto alla sussistenza dei requisiti della novità e dell’altezza inventiva,
facendo riferimento alla data di priorità e non alla data dell’effettivo deposito. Si
deve poi alla Convenzione anche l’abolizione della decadenza per mancata
attuazione del brevetto, sostituita dalla licenza di una previsione obbligatoria32.
Il tema della proprietà industriale ed intellettuale è stato oggetto anche di una
convenzione conclusa nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel
quadro dei negoziati GATT; si tratta dell’accordo TRIPs sugli aspetti dei diritti della
proprietà intellettuali attinenti al commercio, firmato a Marrakech il 15 aprile
199433. L’accordo, cogente per tutti i membri dell’Organizzazione Mondiale del
30
) L’ultima revisione della Convenzione è stata fatta a Stoccolma il 14 luglio 1967. L’Italia figura tra
gli Stati firmatari del testo originario; il testo di Stoccolma è stato ratificato con l. 28 aprile 1976 n.
424.
31
) La norma si applica anche a chi abbia nello Stato un domicilio, uno stabilimento industriale ed una
sede commerciale.
32
) Per ulteriori approfondimenti si rimanda a G. Sena, Invenzioni industriali, cit., p. 1.
33
) L’Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio internazionale
(TRIPS) è annesso all’Accordo istitutivo dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC); detto
accordo è stato ratificato dall’Italia con la l. 29 dicembre 1994 n. 848. Per una disamina approfondita
dell’accordo e dei suoi effetti per l’ordinamento italiano, si veda S. Sandri, La nuova disciplina della
proprietà industriale dopo i Gatt-Trips, Padova, 1999.
21
Commercio, prevede diversi principi generali, che in parte ricalcano quelli già
introdotti dalla CUP, nonché requisiti minimi di tutela per i diversi diritti di
proprietà intellettuale. L’innovazione qualificante dell’accordo è costituita dalle
norme che impongono agli Stati membri l’adozione di strumenti processuali che
sino concretamente idonei a proteggere i diritti di proprietà industriale; altrettanto
degna di nota è la previsione di un sistema per la risoluzione delle controversie tra
gli Stati membri sempre nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
La materia dei brevetti per invenzione industriale è specificatamente
regolamentata in trattati come la Convenzione sull’unificazione di alcuni principi
della legislazione sui brevetti per invenzione fatta a Strasburgo il 27 novembre 1963
che disciplina, armonizzandoli, i requisiti di validità di tali privative. La
Convenzione, aperta alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa, ha posto
le basi per la costruzione del sistema del brevetto europeo, istituito con la
Convenzione di Monaco del 5 ottobre 197334. Detta Convenzione ha dato vita
all’ufficio Brevetto Europeo, noto anche con l’acronimo anglosassone EPO,
European Patent Office, cui è affidato il compito di rilasciare un titolo di proprietà
industriale unitario, il brevetto europeo appunto, destinato ad avere efficacia in tutti
o alcuni degli Stati membri della Convenzione35.
34
) La Convenzione è entrata in vigore nei primi Stati firmatari nel 1977; l’Italia l’ha ratificata con l.
26 maggio 1978 n. 260.
35
) L’Organizzazione europea dei brevetti istituita dalla Convenzione è articolata in due organi: il
Consiglio di Amministrazione e l’Ufficio europeo dei brevetti. Quest’ultimo, a sua volta, ha un
presidente ed è composta da diversi settori: una sezione per i depositi, la divisione per la ricerca, la
divisione per l’esame, la divisione per le opposizioni, una divisione giuridica, le camere dei ricorsi,
una gran camera dei ricorsi.
22
Gli effetti del brevetto sono, in linea di principio, determinati dall’ordinamento
interno dello Stato per il quale è rilasciato il brevetto stesso36. Contestualmente,
però, la Convenzione disciplina un complesso di norme comuni che regolamentano,
in modo uniforme, alcuni aspetti ed alcuni effetti della concessione del brevetto;
indica, innanzitutto, i soggetti che hanno diritto ad ottenerlo ed introduce alcune
norme relative al conflitto tra più inventori indipendenti e tra inventore ed
usurpatore. A queste, si aggiungono le norme relative ai rapporti tra datore e
prestatore di lavoro in merito alle invenzione dei dipendenti37.
La Convenzione detta inoltre un’estesa disciplina dei requisiti che l’innovazione
deve avere per formare oggetto di brevetto, delimitando, di conseguenza, il campo
dei trovati brevettabili38.
Nel 2000 gli Stati membri hanno deciso di rinnovare il testo della Convenzione
sottoscrivendo a Monaco il 9 novembre 2000 la c.d. CBE, entrata in vigore il 13
dicembre 2007; il 5 agosto 2008 è poi entrato in vigore il c.d. London Agreement,
un protocollo addizionale della Convenzione sul Brevetto Europeo in base al quale
alcuni Stati membri rinunciano a subordinare l’efficacia del brevetto europeo sul
36
) Il brevetto europeo sfocia in un insieme di privative nazionali, formalmente indipendenti (pur
essendo frutto della medesima procedura di concessione) ciascuna delle quali è sottoposta, quanto agli
effetti, alla disciplina vigente in ciascun Stato membro (sia pure armonizzata dalla Convenzione di
Strasburgo). Tale frammentazione si riverbera anche sul regime delle lingue; l’efficacia del brevetto
europeo in ciascuno Stato designato può infatti essere subordinata al deposito, nel Paese dove si
richiede la protezione, della traduzione del testo del brevetto così come concesso. La circostanza
contribuisce ad incrementare in maniera significativa i costi del brevetto, ponendo in tal modo le
imprese che operano nell’Unione Europea in una posizione deteriore rispetto alle concorrenti
extracomunitarie. A ciò si aggiungono gli effetti derivanti dalla formale indipendenza di ciascun titolo
nazionale, sia sotto il profilo della legge applicabile che sotto il profilo della giurisdizione, circostanza
quest’ultima che si ripercuote negativamente sulla uniformità delle decisioni e sul costo delle
controversie: G. Dragotti, Le invenzioni, cit., p. 208.
37
) La Convenzione assicura altresì al titolare della domanda un minimo di tutela provvisoria
disponendo che, successivamente alla pubblicazione della domanda, il titolare ha comunque diritto a
ricevere un’indennità ragionevole da chiunque attui l’invenzione.
38
) Non consente infatti la brevettazione dei programmi di calcolatori, delle novità vegetali e delle
razze di animali; enuncia, inoltre, una propria nozione di novità, di originalità, di industrialità e di
liceità dell’invenzione. All’art. 138 disciplina le uniche causa di nullità del brevetto sottraendo agli
Stati contraenti la competenza ad introdurne altre.
23
loro territorio al deposito della traduzione del brevetto nella lingua nazionale39. Lo
scopo, è quello di ridurre i costi del brevetto40.
Un ulteriore, importante, strumento predisposto dal diritto internazionale in
materia di brevetti è rappresentato dal Trattato di Cooperazione in materia di
Brevetti (PCT) firmato a Washington il 19 giugno 197041. Il Trattato PCT ha
istituito una procedura di deposito centralizzata per le domande di brevetto (c.d.
brevetto internazionale); centralizzata è anche la fase della ricerca (per le domande
di brevetto provenienti dall’Italia detta fase è affidata all’Ufficio Brevetto Europeo)
39
) Uno Stato che ha una lingua ufficiale in comune con una delle lingue ufficiali dell’UEB (inglese,
francese, tedesco) deve rinunciare completamente ai requisiti di traduzione di cui all'articolo 65,
comma 1, EPC; Gli Stati che non hanno invece una lingua ufficiale in comune con l’UEB devono
scegliere una delle lingue ufficiali di quest’ultimo in modo che il brevetto verrà tradotto in quella
lingua prima di entrare in vigore nel loro Paese. Tali Stati possono tuttavia esigere, qualora il titolare
intenda azionare il brevetto nel loro paese, una traduzione delle rivendicazioni in una delle sue lingue
ufficiali.
40
) Il brevetto europeo presenta la criticità dei costi eccessivi; mediamente, il costo per ottenere un
brevetto EPO è di 30.000,00 euro spesi nelle procedure amministrative e nei costi legali. Possibili
rimedi alle difficoltà espresse da chi intende brevettare un’invenzione sono: a) London Agreement:
riduzione dei costi di traduzione (che rappresenta circa il 10% del costo totale di un brevetto europeo).
L’Italia non ha aderito; b) European Patent Litigation Agreement: un’unica giurisdizione europea che
si occupi delle controversie legali. L’Italia non risulta tra i partecipanti; c) Un sistema di assicurazione
per le PMI contro il rischio di azioni legali sui diritti di proprietà intellettuale; d) Apertura ai
contingency lawyers (compensati in % solo se la causa è vinta); e) Discriminazione positiva a favore
delle PMI (maggiore durata del periodo di priorità, brevetto non contestabile per un certo periodo); f)
Sostegni alle PMI per ridurre i costi complessivi delle brevettazioni (inclusi quelli di natura legale); g)
Accordo UIB-EPO: ricerca di anteriorità (a spese del governo italiano) corredata da un’opinione
scritta sui brevetti depositati in Italia; h) Regolamento CE 364/2004 e Direttiva del 2006 in materia di
aiuti di Stato a favore di R&S e innovazione: “Gli aiuti concessi alle PMI per coprire i costi relativi
alla concessione ed al riconoscimento dei brevetti (…) sono compatibili con il mercato comune”.
Sono ammissibili anche “i costi sostenuti per difendere validità del diritto (…) anche (...) dopo la
concessione del diritto”. Una piccola impresa può ricevere sostegni fino al 45% di tali costi. In Italia
sono state adottate utili iniziative a sostegno dei brevetti: la Provincia di Milano ha indetto un bando
negli anni 2002-04 a sostegno dei brevetti internazionali; università, PMI, centri pubblici di ricerca e
centri privati hanno finanziato numerose domande di brevetto; nel 2007 l’EPO ha premiato come PMI
europea dell’anno la Novamont (provincia di Terni) fondata e diretta da una biologa titolare di un
brevetto su un nuovo sistema per produrre plastica biodegradabile. Sul tema della riallocazione del
rischio in uno specifico mercato assicurativo che risarcisca le spese legali di un inventore coinvolto in
una causa per la violazione di un diritto brevettuale si rimanda a L. Buzzacchi, G. Scellato,
Assicurazione di tutela legale e diritti di proprietà intellettuale: natura economica ed effetti
incentivanti, in Diritto ed economia dell’assicurazione, 2009, p. 873. L’Autore rileva che l’idea di
creare un mercato assicurativo non ha trovato sviluppo né negli Stati Uniti né in Europa. Dal punto di
vista dell’assicuratore, vengono evidenziate le difficoltà di valutare il costo del rischio, la durata delle
cause ed i relativi costi, i possibili comportamenti opportunistici da parte degli assicurati (il cosiddetto
fenomeno di over-litigation).
41
) L’Italia ha autorizzato la ratifica del PCT con la l. 26 maggio 1978 n. 260. Le norme di attuazione
sono state emanate con la successiva l. 21 dicembre 1984 n. 890.
24
che sfocia in un rapporto di ricerca internazionale il quale viene poi pubblicato
unitamente alla domanda. Le fasi successive restano affidate ai singoli uffici
nazionali o regionali.
4. Il Brevetto europeo con effetto unitario. Ulteriori riferimenti normativi
comunitari in materia di brevetto
Sin dagli anni’70 il legislatore comunitario ha messo mano ad una convenzione
volta ad istituire un Brevetto Comunitario. La prima proposta risale al 1975;
modificata nel 1989, non entrava in vigore a causa di una serie di obiezioni sollevate
da alcuni Stati membri42.
Nel 2000, il Consiglio UE metteva a punto una proposta di regolamento alla luce
delle risultanze delle indagini sfociate nel Libro verde sul brevetto comunitario e sul
sistema dei brevetti in Europa43. La proposta prevedeva che il Brevetto
Comunitario, valido in tutti i Paesi dell’Unione, venisse concesso dall’Ufficio
Brevetti Europeo le cui lingue di lavoro erano, e sono, l’inglese, il francese ed il
tedesco44; prevedeva inoltre l’istituzione di una giurisdizione centralizzata, questione
sulla quale sorgevano una serie di difficoltà che procrastinavano l’approvazione
della proposta di regolamento.
Successivamente, nel 2003, la Commissione presentava tre nuove proposte45.
42
) All’epoca, era stato creato il brevetto comunitario, titolo brevettuale unitario valevole per l’intero
territorio comunitario. Esso era stato istituito con la Convenzione di Lussemburgo del 1975. La
Convenzione non è mai entrata in vigore per le problematiche sollevate dagli Stati membri
relativamente alla lingua ed alla giurisdizione. Circa la lingua, gli Stati membri erano restii a
rinunciare alla traduzione del titolo in ciascuna lingua nazionale; circa la giurisdizione, erano contrari
ad affidare alle autorità sovranazionali i giudizi di validità e di contraffazione dei brevetti.
43
) Il testo del Libro Verde è pubblicato in italiano in Riv. dir. ind., 1997, p. 832, con un commento di
De Benedetti.
44
) Attualmente, quando l’EPO rilascia un brevetto europeo, il testo integrale del brevetto (fascicolo) è
pubblicato nella lingua ufficiale scelta dal richiedente il quale è tenuto anche a fornire una traduzione
degli elementi del brevetto che definiscono la portata della tutela (la rivendicazione) nelle altre due
lingue ufficiali dell’EPO.
45
) Per approfondire il contenuto della proposte del 2003 si rimanda a M. Moglia, G. Foglia, Il
brevetto comunitario: dalla convenzione del 1975 al regolamento del 2003, in Riv. dir. ind., 2003, p.
497. M. Scuffi, Un brevetto comune per l’Europa, dall’accordo di Lussemburgo al progetto Epla, in
Riv. dir. ind., 2007, p. 211.
25
Dopo un lungo periodo di sospensione dei lavori, veniva ripresa la proposta
risalente al 2000 e veniva redatto il Progetto di accordo sul Tribunale dei brevetti
europeo e comunitario46. Sul regime delle traduzioni, la Commissione presentava
una proposta di regolamento del Consiglio47, il quale, nell’impossibilità di giungere
ad un accordo tra tutti gli Stati membri, autorizzava la cooperazione rafforzata48.
Il 17 dicembre 2012 venivano adottati i regolamenti (UE) n. 1257/2012 e n.
1260/2012 riguardanti l’attuazione di una cooperazione rafforzata per la creazione,
rispettivamente, di una tutela brevettuale unitaria (cosiddetto “brevetto unico
europeo”) e per il relativo regime linguistico49; successivamente il 19 febbraio 2013,
a margine della riunione del Consiglio dell’UE, ventiquattro Stati membri, compresa
l’Italia, ai quali il 5 marzo si aggiungeva la Bulgaria, firmavano l’Accordo sul
Tribunale unitario completando così il “Pacchetto Brevetti”50.
46
) L’obiettivo dell’accordo per la costituzione di un Tribunale è quello di istituire un sistema unico
per la risoluzione delle controverse in materia di brevetti al fine di ridurre i costi e la complessità della
soluzione delle controversie: in tal senso G. Caggiano, Il pacchetto normativo sul “brevetto europeo
unitario” tra esigenze di un nuovo sistema di tutela, profili di illegittimità delle proposte in
discussione e impasse istituzionale, in Riv. dir. ind., 2012, p. 683.
47
) COM(2010) 350 def., 30 giugno 2010, Proposta di regolamento (UE) del Consiglio sul regime di
traduzione del brevetto dell’Unione europea.
48
) Decisione 2011/167/UE. La cooperazione rafforzata è una procedura prevista dal Trattato di
Lisbona che consente ad almeno 9 Stati membri di raggiungere determinati obiettivi qualora questi
non possano essere conseguiti entro un termine ragionevole dall’UE nel suo insieme. Nel caso che ci
occupa, era accaduto che all’interno del Consiglio non si era riusciti a raggiungere l’unanimità
richiesta per l’adozione del regolamento relativo al brevetto unico europeo a causa di forti divergenze
tra gli Stati membri in relazione al regime di traduzione proposto. L’Italia e la Spagna, infatti, avevano
posto il veto sulla proposta della Commissione, ritenendola lesiva del principio di parità linguistica, di
utilizzare per le traduzioni del futuro brevetto unico europeo una delle lingue ufficiali dell’Ufficio
europeo dei brevetti (UEB), vale a dire inglese, francese o tedesco.
49
) Il 22 marzo 2013 la Spagna ha proposto ricorso contro entrambi i regolamenti.
50
) Cfr. Acc. 2013/c 175/01. La competenza del Tribunale unificato si estenderà a tutti gli aspetti del
contenzioso in materia brevettuale, ivi inclusa la tutela d’urgenza e risarcitoria. Le lingue ufficiali per
le cause in materia brevettuale saranno l’inglese, il francese e il tedesco. Il Tribunale unificato dei
brevetti sarà costituito da una divisione centrale con sede a Parigi e due sezioni, una a Monaco e
l’altra a Londra. Vi saranno inoltre una o più divisioni locali in ogni Stato membro contraente che ne
faccia richiesta, per un massimo di quattro divisioni locali. La Corte di Appello avrà sede in
Lussemburgo. Affinché il Tribunale Unificato diventi realtà, dovranno essere portate a compimento le
procedure di ratifica in almeno dieci Stati dell’Unione, oltreché necessariamente in Germania, Francia
e Gran Bretagna. Alla data odierna l’Accordo non è stato firmato soltanto da Spagna e Polonia. Si
tratta comunque di un Pacchetto che, così come è stato confezionato, non trova consensi unanimi visto
che, ad esempio, il Max Planck Institute for Intellectual Property and Competition Law ha individuato
dieci punti deboli nella nuova disciplina.
26
Con l’entrata in vigore dei predetti regolamenti51, il brevetto europeo con effetto
unitario sarà concesso dall’Ufficio Europeo Brevetti ed avrà la medesima efficacia
nei 25 Stati membri che hanno partecipato alla cooperazione rafforzata o che vi
aderiranno in seguito52.
Con sentenza del 16 aprile 2013, resa nelle cause riunite C-274/11 e C-295/11, la
Corte di Giustizia dell’UE, Grande Sezione, ha respinto i ricorsi di annullamento
presentati, ai sensi dell’articolo 263 TFUE il 30 e 31 maggio 2011, contro la
51
) I regolamenti sono entrati in vigore il 20 gennaio 2013 e si applicano a decorrere dal 1° gennaio
2014 o dalla data di entrata in vigore dell’Accordo su un Tribunale unificato dei brevetti, se
successivo (art. 18.2 regolamento 1257/2012 e art. 7.2 regolamento 1260/2012). L’Accordo, a sua
volta, entrerà in vigore il 1° gennaio 2014 o il primo giorno del quarto mese successivo al deposito del
tredicesimo strumento di ratifica o adesione (ma devono essere compresi tra questi Germania, Francia
e Regno Unito) o il primo giorno del quarto mese successivo all’entrata in vigore delle modifiche al
Regolamento 1215/2012 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione
delle decisioni in materia civile e commerciale relative ai rapporti tra il Regolamento 1215/2012 e
l’Accordo.
52
) Il brevetto unitario avrà le seguenti caratteristiche: la domanda di brevetto unitario verrà depositata
presso l’Ufficio Europeo dei Brevetti (EPO) con sede a Monaco di Baviera; la domanda di brevetto
dovrà essere tradotta in una delle lingue ufficiali della Convenzione sul Brevetto Europeo (inglese,
francese o tedesco); una volta richiesto, sarà rilasciato in una delle lingue dell’UEB non essendo
previste traduzioni ulteriori. Allo stato, sono previsti rimborsi supplementari per i Paesi dove non si
parla una delle lingue ufficiali; una volta concesso, il brevetto unitario avrà efficacia nei 25 Paesi
aderenti, senza bisogno di procedere alle fasi di convalidazione nei singoli Stati (si tratta quindi di un
brevetto unico, gestito in maniera centrale dall’Ufficio Europeo dei Brevetti, senza ulteriore
coinvolgimento degli Uffici nazionali); il brevetto unitario potrà essere limitato, trasferito o revocato,
o estinguersi unicamente in relazione a tutti gli Stati aderenti; il brevetto unitario potrà essere
concesso in licenza in relazione a tutti gli Stati aderenti o solo per alcuni di essi; è comunque prevista
la possibilità di accedere al Brevetto Unitario sul territorio di uno Stato membro da parte di
imprenditori provenienti da Stati non aderenti. L’Italia sarà per il momento esclusa dal nuovo regime
di brevetti in quanto ha deciso di non aderire alla cooperazione rafforzata, unitamente alla Spagna.
27
decisione 2011/167/UE del Consiglio del 10 marzo 2011 che autorizzava la
cooperazione53.
In dottrina, il brevetto comunitario non incontra unanimi consensi54.
53
) Il 31 maggio 2011 il Governo italiano presentava alla Corte di giustizia dell’UE un ricorso per
chiedere l’annullamento della decisione che autorizzava la cooperazione rafforzata (analogo ricorso
era stato presentato dalla Spagna). Secondo i motivi del ricorso, la decisione violerebbe il Trattato
sull’UE in quanto esso prevede il ricorso alla cooperazione rafforzata solamente nel quadro delle
competenze non esclusive dell’UE, mentre la creazione di “titoli europei” rientrerebbe tra le sue
competenze esclusive. Inoltre, il Governo italiano sostiene che la cooperazione rafforzata oggetto del
ricorso recherebbe pregiudizio al mercato interno, introducendo un ostacolo per gli scambi tra gli Stati
membri, discriminazioni fra imprese e distorsioni della concorrenza. La decisione di autorizzare la
cooperazione rafforzata presenterebbe anche carenze istruttorie e difetto di motivazione. La Corte,
accogliendo la posizione dell’Avvocato Generale, ha escluso che la creazione di un brevetto unitario e
del relativo regime linguistico rientri tra le materie di competenza esclusiva dell’Unione. Tra le varie
ragioni invocate, la Corte ha richiamato espressamente quanto affermato nei punti 56-80 delle
Conclusioni dell’Avvocato Generale. In sintesi, le norme in materia di proprietà intellettuale sono
essenziali per il mantenimento di una concorrenza non falsata nel mercato interno ma non
costituiscono “regole di concorrenza” ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera b), TFUE. Queste
devono essere ricostruite in base alle disposizioni dei trattati relative a ciascun settore (art. 2.6. TFUE)
e quindi, in materia di concorrenza, in base agli artt. da 101 TFUE a 109 TFUE, che riguardano le
regole applicabili alle imprese e quelle sugli aiuti di Stato, ma non riguardano la creazione di un titolo
di proprietà intellettuale. Secondo l’Avvocato Generale, inoltre, “il fatto che un titolo giuridico, come
il brevetto unitario, possa avere un impatto sul mercato interno non è sufficiente per farne un titolo
che rientra nell’ambito delle regole di concorrenza ai sensi del diritto primario e, più in particolare,
ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera b), TFUE” (Conclusioni, punto 60). La Corte non ha
altresì accolto il motivo del ricorso secondo il quale nell’Unione esiste già un certo livello di
uniformità perché la legislazione degli Stati membri è conforme alla Convenzione sul Brevetto
Europeo, mentre il brevetto unitario, applicabile solo ad una parte dell’Unione, pregiudicherebbe tale
uniformità anziché migliorarla (come ha osservato anche il Max Planck Institute; vedi infra nota 54).
La Corte ritiene invece che il brevetto unitario migliori l’uniformità, anche se non si applica a tutti gli
Stati membri. Circa le contestazioni sul regime linguistico prescelto, che secondo le ricorrenti altererà
le dinamiche del mercato interno perché, ad esempio, favorirà gli Stati la cui lingua è una delle tre
lingue ufficiali del nuovo titolo (inglese, francese, tedesco), la Corte respinge le censure ed osserva
che le stesse non potevano essere fatte valere con il ricorso contro la decisione che ha autorizzato la
cooperazione rafforzata.
28
54
) Il brevetto unitario non farà comunque venire meno gli attuali sistemi e, quindi, i brevetti nazionali
ed il brevetto europeo valido negli Stati che sono parte della Convenzione di Monaco sul brevetto
Europeo (cioè i venticinque Stati della cooperazione rafforzata oltre a Italia, Spagna, Svizzera,
Turchia, Norvegia, Islanda, Serbia, Albania, Macedonia, etc.), con il risultato, evidenziato dal Max
Planck Institute, di una frammentazione della protezione brevettuale europea. Il quattordicesimo
considerando del regolamento n. 1257/2012 afferma che “Un brevetto europeo con effetto unitario, in
quanto oggetto di proprietà, dovrebbe essere considerato, nella sua totalità e in tutti gli Stati membri
partecipanti, come un brevetto nazionale dello Stato membro partecipante determinato in conformità
di criteri specifici quali la residenza del richiedente, la sua principale sede di attività o la sua sede di
attività”. Sotto questo aspetto, dunque, i brevetti unitari saranno soggetti a leggi nazionali diverse a
seconda della residenza o sede del richiedente al momento del deposito della domanda. Il paragrafo 3
tuttavia prevede che “Se il richiedente non aveva la residenza, la sede principale di attività o la sede
di attività in uno Stato membro partecipante in cui tale brevetto abbia effetto unitario ai fini del
paragrafo 1 o 2, il brevetto europeo con effetto unitario, in quanto oggetto di proprietà, è considerato
nella sua totalità e in tutti gli Stati membri partecipanti come un brevetto nazionale dello Stato in cui
ha sede l’Organizzazione europea dei brevetti, conformemente all’articolo 6, paragrafo 1, della
CBE”. Contrario al brevetto comunitario perché “nocivo” sia in generale che in particolare, cioè per
l’Italia, A. Vanzetti, Ancona sul brevetto comunitario, in Riv. dir. ind., 2004, p. 81, L’Autore osserva
che, secondo i sostenitori del brevetto comunitario, l’istituto dovrebbe rendere l’Europa l’economia
più competitiva del mondo per effetto dei suoi vantaggi; nella specie, il minor costo rispetto ai brevetti
nazionali ed europeo, la sua automatica validità in tutti i Paesi dell’Unione Europea. “Nessuna di
queste due ragioni” scrive l’Autore “appare fondata, o quanto meno alla portata delle mie capacità di
comprensione. Quanto al minor costo del brevetto comunitario (circostanza sulla cui effettività
possono avanzarsi fondati dubbi), si sostiene in particolare negli ambienti comunitari che esso
determinerà una moltiplicazione dei depositi brevettuali da parte delle industrie europee, che
rafforzeranno in questo modo la propria posizione concorrenziale. Senonché a me sembra che la
possibilità del deposito di brevetti, utile a fini di rafforzamento concorrenziale, non dipenda tanto dal
costo dei brevetti stessi, bensì dal fatto che, a monte, si faccia della seria ricerca, capace di portare a
serie invenzioni brevettabili. In altri termini non riesco a capire come la quantità di validi brevetti
depositati in un sistema economico, e perciò la competitività di quel sistema, possa ritenersi
proporzionale al costo dei depositi dei medesimi, anziché all’entità degli investimenti in ricerca e dei
centri di ricerca presenti in quel sistema. (…) Passando ora a considerare il secondo presunto
vantaggio per le imprese europee del brevetto comunitario, quello derivante dalla sua validità in tutta
l’Unione, si assume che esso determinerebbe l’eliminazione di un ostacolo alla libera circolazione
delle merci nello Spazio Economico Europeo, secondo uno dei principali obiettivi del Trattato
istitutivo. Senonché, a me sembra che la sostituzione con un sistema brevettuale rigido in tutti i Paesi
dell’Unione, degli esistenti sistemi elastici nazionali ed europeo, che consentono alle imprese di
limitare la brevettazione ai Paesi che siano di loro reale interesse, determini esattamente il contrario
dell’eliminazione di un ostacolo alla libera circolazione delle merci. I sistemi elastici di cui ho
appena parlato, infatti, consentono un minimo di concorrenza sui prodotti brevettati quantomeno nei
Paesi per i quali la brevettazione non sia stata richiesta, ed inoltre la circolazione nell’Unione dei
prodotti immessi sul mercato in quei Paesi dal titolare o con il suo consenso. Al contrario il sistema
rigido proposto per il brevetto comunitario determinerebbe un blocco monopolistico totale per il
prodotto brevettato, che in tutta l’Unione potrebbe circolare soltanto a discrezione del titolare. Se
dunque il brevetto comunitario così come vuole essere configurato non gioverebbe né ad
un’automatica trasformazione di quella europea nella «economia più competitiva del mondo» né a
diminuire gli ostacoli alla libera circolazione delle merci nell’ambito dell’Unione Europea,
cooperando in tal guisa al primo fine istituzionale del Trattato; se dunque, ripeto, il brevetto
comunitario non sembra idoneo a conseguire questi scopi nell’interesse pratico ed istituzionale
dell’Unione, pare legittimo chiedersi a quali interessi esso in realtà giovi. Non par dubbio che lo
strumento costituito da questo brevetto comunitario giovi alle imprese che hanno quale propria
strategia (e nel contempo le possibilità economiche per realizzarla) quella di depositare il maggior
numero di brevetti possibile in tutto il mondo, in base al convincimento che «dobbiamo possedere i
29
Oggetto di un accesso dibattito è stata anche la normativa sulla protezione delle
invenzioni biotecnologiche, approvata con la Direttiva 98/44/CE del 6 luglio 199855;
anni dopo, precisamente nel 2004, il legislatore comunitario ha poi emanato la
Direttiva 2004/48/CE del 29 aprile 2004 sul rispetto dei diritti della proprietà
intellettuale, c.d. direttiva enforcement, che si propone di rafforzare la tutela
concreta di tali diritti nei Paesi dell’Unione prevedendo degli standard di protezione
minimi e regolando gli strumenti processuali all’uopo destinati. La Direttiva è stata
attuata in Italia con il d.lgs. 13 giugno 2006 n. 140 che, tra l’altro, ha introdotto nel
nostro sistema l’istituto della discovery o, almeno, una versione compatibile con i
principi degli ordinamenti del civil law.
È stata infine profondamente innovata la disciplina del risarcimento del danno
cagionato dalla contraffazione in un’ottica volta ad amplificare la funzione
deterrente della misura, sia pure a prezzo di alcune tensioni sistematiche rispetto
all’impianto generale della responsabilità extracontrattuale56.
brevetti non per proteggere i nostri prodotti, ma perché essi ci danno il potere di escludere gli altri in
settori dove essi possono voler inserirsi» (dichiarazione del dirigente della Hewlett-Packard, Marc
Schuyler, riportata dal Wall Street Journal del 4 ottobre 2002, relativa alle ragioni per cui la sua
impresa desidera aumentare il numero dei brevetti). È evidente che a questo tipo di imprese con il
brevetto comunitario si fa un bel regalo, mettendo a loro disposizione uno strumento semplificato sia
sotto il profilo del deposito sia sotto quello della «manutenzione», ed oltretutto a buon mercato. Ed è
anche evidente che imprese di questo tipo si trovano principalmente negli Stati Uniti e in Giappone,
ed assai meno in Europa. Un regalo viceversa non sembra si faccia alle piccole e medie imprese, le
quali dovranno confrontarsi con un numero di brevetti sempre maggiore ottenuti da imprese
concorrenti assai più grandi e vedranno corrispondentemente ridursi l’area di attività economica e
produttiva liberamente disponibile. Solo poche di esse (pochissime in Italia), effettivamente innovative
nel loro settore, usufruiranno a più basso costo di una copertura brevettuale automatica per i quindici
o i venticinque paesi dell’Unione Europea. Ma la gran parte delle imprese (e tutte le medio-piccole)
non avranno né un interesse né soprattutto la capacità di coprire un mercato così vasto, ed il costo
relativo di registrazione (a prescindere da ciò, si avranno per le piccole e medie imprese degli
ulteriori e gravi inconvenienti, di cui dirò più avanti). Il brevetto comunitario di cui sto parlando,
dunque corrisponde essenzialmente all’interesse delle grandi imprese multinazionali, soprattutto di
origine statunitense o giapponese, per le quali costituisce, come ho appena detto, un bel regalo. Ma
qual è l’interesse del nostro Paese, e della Unione Europea a far questo regalo? Esiste un simile
interesse?”.
55
) Il testo della Direttiva 98/44/CE sarà illustrato nel successivo capitolo.
56
) Cfr. A. Sirotti Gaudenzi, La riforma del diritto processuale “industriale” alla luce del d.lgs. n.
140/2006, consultabile alla pagina http://www.altalex.com/index.php?idnot=35064#sdfootnote4sym.
30
Capitolo II
Le invenzioni biotecnologiche: evoluzione del diritto dei brevetti ed
estensione della privativa
31
1. Rivoluzione nel diritto dei brevetti: dalla tutela dell’innovazione tecnica a
quella della “materia vivente”
Il legame appropriazione-innovazione che storicamente ha rappresentato la
giustificazione economica del sistema delle privative industriali è entrato in crisi con
la tutela del vivente oggetto delle invenzioni biotecnologie. Queste ultime
rappresentano, insieme con il software, una delle tappe di svolta della storia
moderna del sistema brevettuale57; costituiscono la fonte principale del fenomeno
che viene descritto come “inondazione delle privative” (patent flood)58 il cui inizio è
riconducibile alla formula “anything under the sun that is made by mann”
pronunciata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti59.
La rivoluzione brevettuale è frutto del progressivo mutamento dell’obiettivo da
tutelare.
57
) Negli Stati Uniti la Corte Suprema ha ammesso la brevettabilità del software con la sentenza
Diamond v. Diehr 450 US 175 (1981). Per approfondire il tema relativamente alla situazione in
Europa si rimanda a G. Ghidini, E. Arezzo, Il software fra brevetto e diritto d’autore. Primi appunti
sulla proposta di direttiva comunitaria sulla “invenzioni attuate per mezzo di elaboratori elettronici”,
in Riv. dir. ind. 2005, p. 46; E. Arezzo, Nuove prospettive europee in materia di brevettabilità delle
invenzioni del software, in Giur. Commerciale, 2009, p. 1017.
58
) In tal senso G. Colangelo, La tutela delle invenzioni biotecnologiche in Europa e negli Stati Uniti
alla luce dei casi Brustle e Myriad Genetics, in Giur. Comm., 2012, p. 35, il quale, a sua volta, cita
Eisenberg, The Story of Diamond v. Chakrabarty: Technological Change and the Subject Matter
Boundaries of the Patent System, in Intellectual Property Stories, a cura di Ginsburg e Dreyfuss, New
York Foundation Press, 2006, p. 327.
59
) Diamond v. Chakrabarty, 447 US 303 (1980). Vedi infra par. 2. G. Ghidini, Prospettive
“protezionistiche” nel diritto industriale, in Riv. dir. ind., 1995, p. 73, riflette sulla profonda
evoluzione che il diritto industriale ha sperimentato, su larga scala, a partire dal secondo dopoguerra,
con particolare intensità nell’ultimo trentennio. Caratteristica di questa evoluzione, determinata dal
concorso di molteplici fattori oggettivi, è una costante e multiforme tendenza all’ampliamento della
protezione esclusiva sia dei frutti dell’innovazione industriale che dei segni distintivi. Un primo, e più
visibile, profilo di questa tendenza è rappresentato, secondo l’Autore, dall’estensione della durata
temporale dei diritti esclusivi sulle creazioni “immateriali” (dalle invenzioni ai modelli, dalle opere
protette al diritto d’autore), dall’estensione della durata della protezione del brevetto farmaceutico
attraverso il c.d. certificato complementare. Un secondo, ed altrettanto evidente, aspetto di detta
tendenza è rappresentato dall’ingresso, nell’area della brevettabilità, di tipi di invenzione che, per
ragioni diverse, il modello classico tradizionalmente escludeva; tra queste, le invenzioni
farmaceutiche e quelle afferenti alla “materia vivente”, anche del regno animale, rispetto alle quali si è
giunti ad ammettere la brevettabilità sia di procedimenti microbiologici di produzione di “nuove
razze” animali, sia di microrganismi in sé.
32
I diritti di proprietà intellettuale, destinati originariamente a promuovere
l’innovazione tecnica e l’espressione artistica, riguardano, nella loro attuale
configurazione, la tutela della conoscenza in quanto tale; rappresentano efficaci
strumenti di assoggettamento alla logica proprietaria di aree di conoscenza pura
piuttosto che della sua dimensione applicativa60. La tendenza ad estendere i diritti di
proprietà sulla conoscenza, realizzata attraverso il tentativo di commodification
dell’informazione, ha portato ad una progressiva dilatazione dell’area della
brevettabilità; la proliferazione di brevetti, frammentati e sovrapposti, anziché
stimolare la ricerca e l’innovazione, rischia di determinare, in alcuni casi, una
situazione di stallo61.
Nel caso delle biotecnologie, il quadro si arricchisce e, al tempo stesso, si
complica per via delle peculiarità di questo settore, cui sono legate, tra le tante,
questioni di carattere etico, ambientale, economico, politico, sociale e, non da
ultimo, di compatibilità con il diritto dei brevetti62. Le conoscenze tecniche vengono
infatti impiegate per manipolare e modificare la materia vivente arrivando a produrre
farmaci, vaccini, batteri transgenici, tessuti e organi per xenotrapianti, animali e
piante transgenici, alimenti privi di allergeni, colture difese contri i parassiti senza
l’impiego di pesticidi, tecniche di biorisanamento ambientale grazie a microrganismi
ed enzimi “ingegnerizzati”; possono essere utilizzate nell’ambito della diagnosi e
della cura di malattie gravissime, nella fecondazione assistita, nello screening delle
alterazioni genetiche, nella riproduzione clonale degli animali. Ampia e trasversale
è, dunque, la loro applicazione63.
60
) Vedi infra par. 8.
) Per queste ed altre problematiche collegate all’estensione dell’area della brevettabilità si rimanda
alle tematiche trattate nel Capitolo IV.
62
) Cfr. sul punto V. Di Cataldo, Biotecnologie e diritto. Verso un nuovo diritto, e verso un nuovo
diritto dei brevetti, in Contratto e impresa, 2003, p. 319.
63
) V. Di Cataldo, Biotecnologie e diritto, cit., p. 331, è dell’idea che davanti ai grandi problemi del
mondo di oggi e di domani, davanti all’enorme crescita della popolazione umana, alla crescita dei
consumi, alla crescita della povertà, alla crescita delle disuguaglianze, alla crescita della rapidità di
diffusione di patologie di origine epidemica, alla riduzione delle risorse naturali, le biotecnologie (che
pure potrebbero agire non positivamente, se mal gestite) promettono di dare (se ben gestite) un
contributo di enorme sollievo alla creazione di uno sviluppo sostenibile.
61
33
2. Esatta individuazione del significato di biotecnologie ed ambito di
applicazione delle stesse. Primi brevetti concessi a protezione dell’innovazione
biotecnologica
La Convenzione sulla Diversità Biologica ONU risalente al 1992 definisce le
biotecnologie come: “l’applicazione tecnologica che si serve dei sistemi biologici,
degli organismi viventi o di derivati di questi per produrre o modificare prodotti o
processi per un fine specifico”64.
In materia, è stata adottata inizialmente una chiave di lettura finalizzata a
mantenere, in modo chiaro, il collegamento delle scienze biologiche con l’approccio
scientifico confluito in esse; si citano, a tal proposito, gli esempi della bio-fisica,
della bio-chimica, della bio-etica. Successivamente, in virtù della consapevolezza di
aver dato vita ad una nuova radice scientifica da cui derivano saperi multiformi,
ognuno fondamentale per lo sviluppo sano e florido dell’intero sistema vitale che li
ha originati65, si è imposta l’idea di distinguere le biotecnologie non più in base alla
64
) La Convenzione sulla Diversità Biologica è stata firmata dalla Comunità europea e da tutti gli Stati
membri nel corso della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo tenutasi a Rio de
Janeiro il 5 giugno 1992. A. Pizzoferrato, La tutela brevettale delle invenzioni biotecnologiche, in
Contratto e impresa, 2000, p. 1232, elenca, tra le principali biotecnologie, la tecnologia del DNA
ricombinante o ingegneria genetica, la reazione a catena della polimerasi (PCR), le sonde
nucleotidiche, le immunoblotting (Southern blotting, Northern blotting, Western blotting), la tecnica
di produzione di anticorpi monoclinali da colture di cellule eucariote, le reazioni immunometriche
radioisotopiche e non radioisotopiche.
65
) G.M. Golinelli, L’approccio sistemico al governo dell’impresa, Volume I, L’impresa sistema
vitale, Padova, 2005.
34
matrice culturale di provenienza bensì ponendo in primo piano l’ambito di
applicazione delle stesse, cui si associano generalmente differenti colori66.
Questo modo di classificare il variegato, ma complesso, mondo delle scienze
biotecnologiche è stato, tuttavia, ritenuto insufficiente a fornire informazioni,
finanche sintetiche ed elementari, sulle peculiarità che distinguono una specifica
innovazione dall’altra67. Per questo motivo, è stato suggerito d’impiegare la logica
posta alla base della metodologia multidimensionale, propria della letteratura
specializzata in tema di analisi e strategie d’impresa68, che propone di incrociare tre
variabili esplicative dei comportamenti di mercato per focalizzare, dal versante
offerta, i capisaldi dell’innovazione (tecnologia) e, dal lato della domanda, le
possibili utilità (funzioni d’uso) generate dalle scoperte della scienza ed i potenziali
destinatari delle stesse (tipologie di clienti)69.
66
) Si parla, specificatamente di: Red biotechnology (biotecnologia rossa): è il settore applicato ai
processi biomedici. Alcuni esempi sono l’individuazione di organismi in grado di sintetizzare farmaci
o antibiotici oppure lo sviluppo di tecnologie di ingegneria genetica per la cura di patologie. White
biotechnology: conosciuta anche come grey biotechnology (biotecnologia bianca e grigia). É la branca
che si occupa dei processi biotecnologici di interesse industriale. Le risorse consumate dai processi
industriali di tipo biotecnologico sono notevolmente minori di quelli tradizionali; per questo motivo, il
settore è in notevole espansione. Si tratta, ad esempio, della costituzione di microrganismi in grado di
produrre sostanze chimiche. Green biotechnology (biotecnologia verde): è il settore applicato ai
processi agricoli. Tra le applicazioni, figura la modificazione di organismi per renderli capaci di
crescere in determinate condizioni ambientali o nutrizionali. Lo scopo di questo settore è quello di
produrre soluzioni agricole aventi un impatto ambientale minore rispetto ai processi agricoli classici.
Sono state ad esempio ingegnerizzate alcune piante in grado di produrre autonomamente pesticidi,
eliminandone la necessità di somministrazione esterna, più dispendiosa ed inquinante. Con questo fine
è stato prodotto il mais BT. É in corso un ampio dibattito sulla eco-compatibilità di questi processi
nonché sulla sicurezza degli organismi geneticamente modificati (OGM). Bioinformatica: nota
talvolta come biologia computazionale, si tratta di un settore interdisciplinare che utilizza un
approccio informatico per risolvere problematiche di tipo biologico. Gioca un ruolo determinante
nelle applicazioni di genomica funzionale, genomica strutturale e proteomica. Ha un ruolo
fondamentale anche nello sviluppo di nuovi farmaci (drug discovery). In alcune occasioni si usa anche
il termine blue biotechnology (biotecnologia blu), usata per descrivere le applicazioni marine ed
acquatiche delle biotecnologie.
67
) In tal senso R. Vona, Management delle biotecnologie. Competizione, innovazione e sviluppo
imprenditoriale, Milano, 2008, p. 20.
68
) S. Sciarelli, Fondamenti di economia e gestione dell’impresa, Padova, 2004.
69
) In tal senso R. Vona, op. cit., p. 22 cui si rimanda per approfondire le tematiche trattate.
35
La nascita dell’innovazione biotecnologica viene fatta risalire al 1953
allorquando James Watson, venticinquenne, insieme a Francis Crick individuavano
e
descrivevano
la
struttura
della
doppia
elica
del
DNA,
l’acido
desossiribonucleico70, dandone pubblica notizia al Simposio di Cold Spring Harbor
nel marzo di quell’anno (ottenendo poi nel 1962 il Premio Nobel insieme con
Wilkins)71. La scoperta permetteva di capire che tutta la sostanza vivente si riduce
ad alcune strutture di base, assolutamente identiche, che danno vita a realtà diverse a
seconda del loro modo di combinarsi72; il genotipo (la struttura interna del DNA)
interagendo
con
l’ambiente
condiziona
il
fenotipo
(la
struttura
esterna
dell’organismo vivente); a modifiche delle strutture interne corrispondono modifiche
delle strutture esterne73.
Alla fine degli anni’70 iniziavano a svilupparsi le ricerche fondate sulla scoperta
del DNA.
70
) V. Menesini, Le invenzioni biotecnologiche fra scoperte scientifiche; applicazioni industriali;
preoccupazioni bioetiche, in Riv. dir. ind., 1995, p. 193, definisce il DNA l’unità biologica. R.
Cortese, Il contenuto dell’invenzione biotecnologia, in A. Vanzetti (a cura di), I nuovi brevetti,
Milano, 1995, p. 3, osserva che il DNA costituisce la pietra angolare intorno alla quale ruota, in
qualche modo, il concetto stesso di biotecnologia.
71
) Watson, La doppia elica pubblicato nel 1968, l’edizione italiana è di Garzanti, Milano.
72
) Tutti gli organismi viventi, dai batteri all’uomo, sono formati da cellule. Le cellule contengono al
loro interno il DNA (acido desossiribonucleico). Questa molecola, che ha la caratteristica forma a
doppia elica, contiene le informazioni essenziali per il funzionamento della cellula e, di conseguenza,
dell’intero organismo. Negli organismi eucarioti (dotati di cellule che hanno un nucleo: animali,
piante, funghi e protisti) le molecole di DNA, assieme ad alcune proteine, costituiscono i cromosomi
(nell’uomo sono 46 in ciascuna cellula); i cromosomi si trovano all’interno del nucleo. Parte del DNA
contenuto nei cromosomi costituisce i geni; quest’ultimi, contengono le informazioni che
sovrintendono a tutte le funzioni della cellula. In ogni cellula o tessuto una parte dei geni viene
trascritta in una o più molecole di mRNA (RNA messaggero); la maggior parte delle molecole di
mRNA contengono le istruzioni per sintetizzare proteine, “macchine” cellulari che permettono il
funzionamento delle cellule.
73
) V. Di Cataldo, Biotecnologie e diritto, cit., p. 326, evidenzia come questa grande scoperta,
coniugata con le altrettante grandiose acquisizioni di altri rami delle scienze e delle tecniche, dalla
elettronica alla biochimica, dall’ingegneria alla medicina, abbia rivoluzionato le tecniche di
manipolazione della realtà vivente. Le prospettive più allettanti si collocano nel campo della medicina
e della farmacologia. Le biotecnologie consentono la realizzazione di kit diagnostici e di vaccini dopo
la decodificazione del genoma dell’agente patogeno (virus, batterio o altro microrganismo). Si
possono produrre artificialmente proteine con tecniche di DNA ricombinante; l’insulina, che viene già
prodotta dal 1982, e l’eritropoietina sono le più note. Possono realizzarsi trattamenti per patologie
provocate da “errori” in uno o più geni (es. diabete, emofilia, morbo di Alzheimer). Per la descrizione
di queste ed altre applicazione delle biotecnologie si rimanda all’opera citata.
36
Nel 1972 il biochimico Ananda Chakrabarty chiedeva al Patent Office degli Stati
Uniti un brevetto per un microrganismo che aveva geneticamente prodotto e che
consisteva in un batterio in grado di corrodere le chiazze di petrolio. Il Patent Office
americano respingeva la richiesta sostenendo che un organismo vivente non poteva
essere brevettato e che, comunque, si trattava di un prodotto della natura. Ananda
Chakrabarty adiva nel 1979 la Suprema Corte degli Stati Uniti la quale, nel 1980,
statuiva che, ai fini della brevettabilità, era irrilevante che il prodotto dell’invenzione
fosse vivo o morto in quanto ciò che contava era che l’invenzione fosse stata
realizzata dall’uomo. Nel caso di specie, poiché il batterio era un’invenzione di
Chakrabarty e non della natura, il prodotto poteva essere brevettato74.
Altro caso di rilievo è quello, risalente sempre al 1980, del biologo della marina
americana, Standish K. Allen, il quale chiedeva di poter brevettare una versione di
un’ostrica del Pacifico, la Crassostrea gigas, che aveva modificato dotandola di un
assetto cromosomico triplo. Il Patent Office rifiutava la richiesta mentre il Board of
patent appeals and interferences dell’Ufficio brevetti, dinanzi al quale l’inventore
aveva impugnato la decisione avversa, emanava una sentenza con la quale, pur
negando la concessione del brevetto per una questione di ordine tecnico, decretava la
brevettabilità, in via di principio, di un animale.
Successivamente nel 1985 il Patent Office degli Stati Uniti concedeva, per la
prima volta, basandosi sul caso Chakrabarty, un brevetto per una pianta prodotta
geneticamente e, nel 1988, autorizzava il primo brevetto della storia per un animale
74
) Diamond v. Chakrabarty, 447 US 303 (1980). Secondo la storica formula della Suprema Corte è
invenzione brevettabile “anything under the sun that is made by mann” ed il criterio di distinzione tra
ciò che è e ciò che non è brevettabile è “not betweeen living and hings, but between products of
nature, whether living or not, and human-made inventions”. Il batterio ingegnerizzato dal dr.
Chakrabarty non è mai stato prodotto industrialmente perché problemi di vario genere, evidenziatisi
nella fase di sperimentazione successiva alla realizzazione dell’invenzione, ne hanno impedito un uso
effettivo.
37
(si trattava di un topo geneticamente modificato ad Harvard particolarmente
predisposto al cancro, c.d. Onco-Mouse di Harvard)75.
In Europa, anni dopo, l’Ufficio europeo dei brevetti non sollevava sostanziali
obiezioni alla tutelabilità delle invenzioni biotecnologiche; conformemente la
Commissione dei Ricorsi e la Divisione di opposizione dell’EPO76. Nel frattempo
veniva promosso il dibattito sulla tutela da riconoscere alle biotecnologie,
discussione che si rivelerà lunga ed accesa.
3. Armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di libera
circolazione dei prodotti biotecnologici: la Direttiva 98/44/CE. Recepimento
della direttiva da parte dell’Italia alla luce della sentenza della Corte di
Giustizia UE del 9 ottobre 2001
Il primo progetto di Direttiva sulle invenzioni biotecnologiche redatto dalla
Commissione Europea risale al 198077; la discussione così avviata terminava, molti
75
) Il gene aggiunto provocava un’elevatissima capacità di sviluppare tumori e, quindi, il topo era
utilizzabile per testare farmaci antitumorali. La ricerca era stata finanziata dalla DuPont, divenuta
licenziataria del brevetto. La privativa venne poi concessa anche dall’Ufficio Europeo Brevetti. Cfr.
sull’argomento V. Di Cerbo, Il topo di Harvard ovvero la manipolazione genetica di animali
all’esame dell’Ufficio Europeo di brevetti, in Foro it., 1991, p. 178. Ad oggi, sono stati realizzate oltre
cento varietà di topi transgenici utilizzabili come modelli di studio di varie patologie, tra le quali la
poliomelite, l’ulcera, la sindrome di Parkinson, la sindrome di Alzheimer.
76
) La Divisione d’Esame del 3 aprile 1992 concedeva un brevetto avente ad oggetto un animale
transgenico, seguiva quella della Commissione dei Ricorsi del 28 luglio 1994 che confermava la
validità di un brevetto avente ad oggetto l’antigene dell’epatite B. Sempre la Commissione dei
Ricorso respingeva, in data 21 febbraio 1995, un’opposizione presentata da Green Peace confermando
la validità di un brevetto nella parte in cui quest’ultimo prevedeva la possibilità di intervenire, tramite
tecniche di ingegneria genetica, sul genoma delle cellule di una pianta introducendovi una particolare
sequenza di DNA. Precedentemente, la Divisione di Opposizione, respingendo un’opposizione
presentata dal gruppo dei Verdi del Parlamento europeo, dichiarava brevettabile un’invenzione
consistente in un frammento di DNA capace di codificare una proteina umana (nel caso di specie la
relaxina).
77
) La proposta fallì subissata da una serie di feroci critiche dovute, principalmente, all’assenza nel
testo di riferimenti alla questione etica: S. Sandri, E. Caporuscio, Biotecnologie: l’ultima proposta
dell’Unione Europea, in Riv. dir. ind., 1994, p. 645.
38
anni dopo, con l’approvazione della Direttiva 98/44/CE78.
Nel preambolo della normativa, il legislatore comunitario, richiamato il principio
di armonizzazione espresso dall’art. 100 A del Trattato UE, osserva che la
biotecnologia e l’ingegneria genetica hanno una funzione crescente nella vasta
gamma delle attività industriali e che, di conseguenza, la loro protezione assume
un’importanza fondamentale per lo sviluppo industriale della Comunità79; la ricerca
e lo sviluppo dell’ingegneria genetica esigono una notevole quantità di investimenti
ad alto rischio che soltanto una protezione giuridica adeguata può rendere redditizi80.
78
) La Direttiva 98/44/CE è venuta alla luce dopo un lungo e travagliato percorso; il testo definitivo è
il risultato di un’operazione di compromesso tra diverse opinioni sul modo di tutelare le biotecnologie.
Prima dell’emanazione della direttiva, il panorama delle discipline nazionali in tema di invenzione e
brevetto era coordinato dai principi contenuti nella Convenzione sul Brevetto Europeo del 1973 e
nella Convenzione di Strasburgo del 1963, nate, entrambi, in un periodo storico in cui il problema
delle biotecnologie non era stato ancora avvertito. Da più parti, quindi, era stata indicata la necessità
di formulare, per le invenzioni biotecnologiche, una protezione efficace ed armonizzata in tutti gli
Stati membri al fine di mantenere e promuovere gli investimenti nel citato settore, rappresentando, lo
stesso, una voce sempre più importante nella ricerca industriale. Cfr. A. Berghè Loreti, L. Marini, La
protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, in Diritto dell’Unione Europea, 1998, p. 773.
79
) Cfr. considerando n. 1 della Direttiva 98/44/CE. Il preambolo della Direttiva è costituito da 56
considerando utili nell’interpretazione dei successivi 18 articoli. Tra gli obbiettivi esplicitati dal
legislatore comunitario vi è quello di tutelare la biodiversità in considerazione della crescente
importanza che essa ha assunto nel quadro dell’attuazione del principio dello sviluppo sostenibile
sancito dalla Conferenza di Rio de Janeiro nel giugno 1992; nel considerando 56 viene sottolineata la
necessità di promuovere la giusta ed equa ripartizione dei vantaggi derivanti dall’uso delle risorse
genetiche, compresa la protezione delle conoscenze, delle innovazioni e delle prassi delle comunità
indigene e locali che incarnano stili di vita tradizionali importanti ai fini della conservazione e
dell’uso sostenibile della varietà biologica. La salvaguardia della biodiversità è assicurata anche dal
considerando 27; con esplicito riferimento alla brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche, tale
considerando afferma che la domanda di brevetto relativa ad una invenzione avente ad oggetto
materiale biologico, di origine vegetale o animale, “dovrebbe” indicare il luogo geografico d’origine
di tale materiale allo scopo di evitare rischi di riduzione della diversità biologica e di favorire la
conservazione del patrimonio genetico.
80
) Cfr. considerando n. 2 della Direttiva 98/44/CE. L’innovazione legislativa introdotta dalla citata
Direttiva è stata in qualche modo completata a livello sovranazionale. Il 16 giugno del 1999 il
Consiglio di amministrazione dell’Organizzazione Europea dei Brevetti ha infatti modificato il
Regolamento di attuazione della CBE introducendovi un nuovo capitolo, il VI, intitolato “invenzioni
biotecnologiche” di cui fanno parte le Regole 23b, 23c, 23d e 23e. Si tratta di regole dichiaratamente
ispirate alla Direttiva; la Regola 23b(1), in particolare, prescrive espressamente che, nell’applicare ed
interpretare la CBE, si deve far ricorso, in via sussidiaria rispetto al Regolamento, alle norme della
Direttiva 98/44/CE. M. Ricolfi, La brevettazione delle invenzioni relative agli organismi
geneticamente modificati, in Riv. dir. ind., 2003, p. 5, osserva che, considerato che alcuni Stati
contraenti della CBE non sono Stati membri della UE, con queste norme secondarie ci si trova di
fronte ad un fenomeno davvero singolare in quanto la legislazione comunitaria finisce per proiettare il
proprio ambito di efficacia territoriale al di là degli ordinamenti degli Stati membri dell’UE. Nella
gerarchia delle fonti, tuttavia, osserva l’Autore, il testo originario della Convenzione prevale, in caso
di conflitto, su quello del Regolamento.
39
Sulla base di tali enunciazioni di principio, l’art. 1 della Direttiva 98/44/CE
sancisce la protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche attraverso il diritto
nazionale dei brevetti che, ove necessario, dovrà essere adeguato agli obblighi di
risultato sanciti dall’atto comunitario81. La protezione giuridica delle invenzioni
biotecnologiche non richiede, quindi, l’introduzione di una specifica disciplina dei
brevetti; necessita, piuttosto, dell’armonizzazione delle diverse legislazioni nazionali
al fine di eliminare le disparità che creano ostacoli agli scambi e costituiscono un
81
) Si considerano facenti parte delle legislazioni dei singoli Stati membri anche le convenzioni
internazionali vigenti in materia di brevetti e varietà vegetali intense, queste ultime, come un insieme
di vegetali nell’ambito di un unico taxon botanico del più basso grado conosciuto il quale, a
prescindere dal fatto che siano o meno soddisfatte pienamente le condizioni per la concessione di un
diritto di protezione delle nuove varietà vegetali, possa essere definito mediante l’espressione delle
caratteristiche risultanti da un dato genotipo o da una data combinazione di genotipi, distinto da
qualsiasi altro insieme vegetale mediante l’espressione di almeno una delle suddette caratteristiche e
considerato come un’unità in relazione alla sua idoneità a moltiplicarsi invariato. Un procedimento di
produzione di vegetali o di animali è essenzialmente biologico quando consiste integralmente in
fenomeni naturali quali l’incrocio o la selezione. Tra le Convenzioni internazionali che possono
considerarsi parte integrante del diritto nazionale dei brevetti vi sono quella per la protezione dei
ritrovati vegetali (UPOV) firmata a Parigi il 2 dicembre 1961 e modificata da ultimo il 19 marzo 1991,
il Trattato sul riconoscimento del deposito dei microorganismi ai fini della procedura in materia di
brevetti firmato a Budapest il 28 aprile 1977, la Convenzione sulla concessione di brevetti europei
(CBE) firmata a Monaco il 5 ottobre 1973, la Convenzione sull’unificazione di taluni aspetti della
legislazione sui brevetti d’invenzione firmata a Strasburgo dagli Stati membri del Consiglio d’Europa
il 27 novembre 1963. L’art. 1, § 2, della Direttiva 98/44/CE regola anche i rapporti tra la disciplina
comunitaria e la normativa prevista dalla Convenzione sulla diversità biologica, firmata a Rio de
Janeiro il 5 giugno 1992, e dall’Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al
commercio internazionale (TRIPS) annesso all’Accordo istitutivo dell’Organizzazione mondiale del
commercio (OMC), firmato a Marrakesh il 15 aprile 1994; conformemente alla prassi delle c.d.
dichiarazioni di compatibilità, gli obblighi previsti a carico degli Stati membri dai predetti accordi
internazionali prevalgano su quelli fissati dalla Direttiva. Ulteriore richiamo contenuto nella Direttiva
in esame è quello ai Trattati internazionali sui diritti umani. Tra questi la Dichiarazione dell’UNESCO
sul genoma umano del 1998, nella quale si afferma che gli Stati debbono incoraggiare le ricerche
destinate a identificare, prevenire e curare le malattie genetiche, in particolare quelle rare o endemiche
(c.d. malattie “orfane”) che colpiscono larga parte della popolazione. Il considerando 43 della
Direttiva 98/44/CE richiama poi l’art. F, § 2, del Trattato di Maastricht secondo cui l’Unione rispetta i
diritti fondamentali garantititi dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo e la salvaguardia delle
libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950. Ai diritti umani fa inoltre riferimento l’art.
16, lett. a), della Direttiva 98/44/CE nel quale si prevede che la Commissione presenti al Parlamento
europeo ed al Consiglio, ogni cinque anni, una relazione sugli eventuali ostacoli incontrati
nell’applicazione dell’atto comunitario con riferimento agli accordi internazionali sulla tutela dei
diritti dell’uomo ratificati dagli Stati membri. All’art. 16, lett. c), della Direttiva 98/44/CE il
legislatore comunitario ha altresì previsto l’obbligo per la Commissione di presentare annualmente (a
partire dal 30 luglio 2000) al Consiglio ed al Parlamento “una relazione sugli sviluppi e sulle
implicazioni del diritto dei brevetti nel campo della biotecnologia e dell’ingegneria genetica”, la prima
delle quali ha visto la luce il 7 ottobre 2002: COM (2002) 545, reperibile all’URL:
http://europa.eu.int/eur-lex/it/com/rpt/2002/com2002_0545it01.pdf.
40
impedimento al funzionamento del mercato interno in violazione dei principi
espressi dal Trattato U.E.82.
In Italia, la legge sulle biotecnologie è contenuta nel Codice della Proprietà
industriale83; il recepimento della Direttiva 98/44/CE è avvenuto con notevole
ritardo84 in quanto il nostro Paese aderiva inizialmente al ricorso presentato, avverso
la stessa, dai Paesi Bassi, ricorso poi respinto dalla Corte di Giustizia con sentenza
del 9 ottobre 200185.
I motivi di censura erano quelli della, presunta, scelta errata dell’articolo 100 A
del Trattato quale base giuridica della Direttiva e la necessità di riferirsi all’articolo
308 del Trattato (ex art. 235) che richiede, per l’adozione di una direttiva, un
consenso unanime degli Stati aderenti e non una mera maggioranza qualificata; altri
motivi di censura erano la violazione dei principi di sussidiarietà, della certezza del
diritto e del rispetto della dignità della persona.
Sul primo motivo di contestazione, la Corte rileva la contiguità dello scopo
concreto della Direttiva con le finalità di ravvicinamento delle disposizioni
legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri per l’instaurazione
ed il funzionamento del mercato interno; osserva, a tal proposito, che la Direttiva,
obbligando gli Stati a proteggere le invenzioni biotecnologiche tramite il loro diritto
nazionale, ha lo scopo di prevenire i rischi per l’unicità del mercato interno che
potrebbero derivare dalle unilaterali decisioni degli Stati membri di concedere o
negare il brevetto. La disciplina comunitaria sarebbe, dunque, chiaramente orientata
82
) La Direttiva saggiamente evita di proporre una disciplina dettagliata e completa delle invenzioni
biotecnologiche, consapevole del fatto che ancora non siamo pronti a tracciare tale disegno. Il regime
delle invenzioni biotecnologiche è tutto da costruire; per questa operazione dobbiamo far tesoro, da un
lato, dei non pochi spunti presenti nella Direttiva, dall’altro, delle indicazioni che possono essere colte
nell’esperienza già acquisita dalla casistica di questi primi anni: V. Di Cataldo, Biotecnologie e diritto,
cit., p. 351
83
) Artt. 81 bis c.p.i. e ss.
84
) La legge di recepimento, la n. 78, risale al 22 febbraio 2006 mentre il termine assegnato era il 30
luglio 2000. Sull’argomento si rimanda a L. C. Ubertazzi, Legge 22 febbraio 2006 n. 78 – Attuazione
della direttiva CE 98/44 in materia di protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, in
Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Padova, 2007, p. 1367.
85
) Corte di Giustizia 9 ottobre 2001, causa C-377/98, Olanda, Repubblica Italiana e Norvegia c.
Parlamento europeo, Consiglio dell’UE e Commissione, caso “Brevetto biotecnologico”. Cfr. G.
Morelli Gradi, La legittimità comunitaria della direttiva sulle invenzioni biotecnologiche (Corte di
Giustizia CE 9 ottobre 2001 ), in Il Dir. Ind., 2001, p. 323.
41
a garantire il buon funzionamento del mercato interno eliminando, e al tempo stesso
prevenendo, le eventuali cause di sperequazione al trattamento brevettuale delle
biotecnologie nei diversi ordinamenti nazionali.
Con riferimento alla, presunta, violazione del principio di sussidiarietà, la Corte
rigetta le censure rilevando come, in questo caso, l’azione progettata poteva essere
meglio realizzata a livello comunitario; lo sviluppo di legislazioni e prassi nazionali
differenziate osta al buon funzionamento del mercato interno e crea una distorsione
competitiva fra aree “protette”, in cui viene riconosciuta la brevettabilità a certe
condizioni del materiale biologico, ed aree “libere”, in cui viene negata l’esclusiva.
Circa la, presunta, violazione del principio della certezza del diritto, il ricorrente
lamentava un richiamo oltremodo generico ai criteri di ordine pubblico e di buon
costume con un conseguente, eccessivo, margine di discrezionalità lasciato agli
ordinamenti nazionali. La Corte rileva, di contro, come il trentanovesimo
considerando della Direttiva riconduca i concetti di ordine pubblico e di buon
costume nei principi etici e morali propri di ciascuno Stato membro; vi potrebbe
quindi essere un’interpretazione non necessariamente uniforme di questi criteri
senza che per questo si possa parlare di contrasto con il principio della certezza del
diritto. Ordine pubblico e buon costume sono concetti tradizionalmente utilizzati nel
diritto nazionale dei brevetti, cui si rinvia anche per assicurare quel margine di
flessibilità nell’adeguamento interno che dia conto dei diversi contesti sociali e
culturali di ciascuno Stato. La Corte evidenzia, a tal proposito, che uno dei suoi
compiti è proprio quello di vigilare in modo continuo sulla corretta applicazione di
questi criteri e di impedire che la discrezionalità concessa agli Stati membri possa
trasformarsi in abuso.
Sulla, presunta, strumentalizzazione del materiale umano vivente, lesiva della
dignità umana, la Corte sostiene che un tale effetto sia stato scongiurato dalla
Direttiva attraverso l’affermazione del principio secondo il quale non è brevettabile
il corpo umano nei vari stadi della sua costituzione e del suo sviluppo né sono
brevettabili, di per sé ed al di fuori di un’applicazione pratica, i suoi diversi elementi
costitutivi; questi ultimi sono brevettabili solo a condizione che siano associati ad un
42
processo tecnico che consenta di isolarli e produrli autonomamente dal loro
ambiente naturale, siano individuati e prodotti in vista di uno sfruttamento
industriale e di una applicazione concreta.
La Corte infine riconosce che gli Stati membri, in nome della salvaguardia di
irrinunciabili principi etici, quali il diritto alla consapevole autodeterminazione delle
persone, possano introdurre limitazioni o divieti legali alla ricerca ed allo
sfruttamento di prodotti brevettati e, quindi, possano porre restrizioni alle operazioni
anteriori o posteriori al rilascio del brevetto, senza comunque poter direttamente
impedire la brevettazione di materiale biologico ottenuto ai sensi della Direttiva. Le
legislazioni nazionali possono prevedere controlli sanitari, richieste di consenso sul
prelievo e l’utilizzo di materiale biologico ai pazienti interessati, certificazioni di
conformità, diritti di informazione per i consumatori, apposite licenze o
autorizzazioni alla commerciabilità del prodotto biotecnologico brevettato; possono
anche escludere tout court la realizzazione, l’uso o la vendita di un prodotto
brevettato o di un suo particolare impiego purché ciò avvenga nel momento
successivo alla procedura di rilascio del brevetto che non risente di tali divieti legali
salvo il limite della compatibilità con l’ordine pubblico e il buon costume86.
4. Il materiale biologico come oggetto di privativa in luogo dell’innovazione
meccanica. Suoi significati e problematiche connesse
La normativa comunitaria, e con essa quella nazionale, permette di brevettare un
prodotto biologico. È tale quello formato da materiale contenente informazioni
86
) Vedi infra Cap. III.
43
genetiche, autoriproducibile o capace di riprodursi in un sistema biologico87; hanno
queste caratteristiche gli organismi, i microrganismi e le sequenze di DNA88.
87
) Cfr. art. 3 Direttiva 98/44/CE e art. 81 quater c.p.i. La definizione di materiale biologico è
contenuta negli artt. 2 Direttiva 98/44/CE e 81 ter c.p.i. Mentre la direttiva pone semplicemente un
divieto di esclusione dalla brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche (ritenute tutelabili alla
stregua dei comuni requisiti di brevettabilità), il regolamento CBE detta una vera e propria definizione
di invenzione biotecnologica intendendo come tale le invenzioni che concernono un prodotto
consistente in materiale biologico o che lo contiene (art. 23b CBE): in tal senso T. Faelli, La tutela
delle invenzioni biotecnologiche in Europa: prime valutazioni d’insieme, in Riv. dir. ind., 2001, p.
125, il quale ritiene che questa scelta non può essere considerata come il tentativo di delimitare
l’ambito di applicazione delle nuove regole (operazione che sarebbe incompatibile con la natura
esclusivamente interpretativa di quelle contenute nel regolamento CBE); è diretta semplicemente a
regolare i casi in cui l’inventore deve procedere al deposito del trovato presso un centro di raccolta di
materiale biologico al fine di assolvere l’onere di descrivere sufficientemente l’invenzione (regola 28
CBE).
88
) Gli organismi ed i microrganismi sono entità vitali e dunque in grado di riprodursi; i secondi, a
differenza dei primi, sono organismi vegetali o animali non visibili a occhio nudo. Le sequenze di
DNA, pur comprendendo le informazioni necessarie per lo sviluppo della vita, non sono entità di per
sé vitali; esse sono in grado di essere riprodotte solo se inserite artificialmente in un sistema biologico
(vale a dire in una apposita cellula che, riproducendo se stessa, riproduce anche, nella cellula “figlia”,
la sequenza di DNA che la caratterizza). Ciò posto, possono formare oggetto di privativa i
microrganismi (presenti o meno in natura), le linee cellulari (incluse cellule di ibridoma), i prodotti
naturali ottenuti artificialmente quali batteri mutanti, virus attenuati e protozoi, i prodotti naturali
come gli enzimi, i materiali utili nella tecnologia del DNA ricombinante quali vettori, promotori,
microrganismi trasferibili, ect. T. Faelli, op. cit, p. 125 ritiene che le proteine non siano invenzioni
biotecnologiche essendo estranee alla definizione di materiale biologico. Per quanto ogni gene (una
sequenza di DNA sufficientemente estesa) codifichi una determinata proteina, il rapporto tra i due è
solo di tipo “informatico” essendo geni e proteine chimicamente e strutturalmente diversi. In altre
parole, scrive l’Autore, le proteine non contengono informazioni genetiche, elemento caratterizzante
della definizione di materiale biologico di cui all’art. 2 della direttiva e alla regola 23 b CBE;
conseguentemente un brevetto che ha per oggetto una proteina non può dirsi biotecnologico dovendo
essere considerato, più correttamente, “chimico”. La distinzione tra geni e proteine, e tra brevetto
biotecnologico e brevetto chimico, non è semplicemente una questione formale, di nomen; da essa è
infatti possibile trarre un’importante considerazione ovvero che al fine di non rendere superflua la
protezione giuridica accordata da CE e UEB alle invenzioni biotecnologiche, è necessario garantire la
brevettabilità delle sequenze di DNA in quanto tali, autonomamente rispetto alle proteine codificate.
In caso contrario, risulterebbe oscuro il significato di tutta la disciplina delle invenzioni
biotecnologiche data la (da sempre) pacifica brevettabilità delle proteine.
44
Il materiale biologico, per godere di protezione in quanto tale, cioè come
prodotto89, deve potersi qualificare come nuovo, essere frutto di attività inventiva
oltre che suscettibile di applicazione industriale90.
Difficile ipotizzare la realizzazione totalmente artificiale di un materiale
biologico contenente informazioni genetiche ed autoriproducibile; i requisiti della
novità e dell’attività inventiva saranno verosimilmente presenti in un prodotto
naturale geneticamente modificato e, quindi, nuovo in seguito agli interventi sulla
struttura genetica91. In tal senso si esprime anche l’art. 8 della Direttiva 98/44/CE
89
) In questo settore, considerate le peculiarità delle biotecnologiche, le invenzione di prodotto
consistono nel prodotto della materia vivente come sopra specificato, le invenzione di processo sono
quei procedimenti di produzione che possono riguardare l’isolamento, la purificazione, la cultura di
cellule e tessuti, le invenzione di uso riguardano nuove qualità e funzioni del prodotto già coperto da
brevetto.
90
) Art. 3, comma 1, della Direttiva 98/44/CE: “Sono brevettabili le invenzioni nuove che comportino
un’attività inventiva e siano suscettibili di applicazione industriale, anche se hanno ad oggetto un
prodotto consistente in materiale biologico o che lo contiene, o un procedimento attraverso il quale
viene prodotto, lavorato o impiegato materiale biologico”. In senso conforme l’art. 81 quater c.p.i.
che prevede: “Sono brevettabili purché abbiano i requisiti di novità e attività inventiva e siano
suscettibili di applicazione industriale : a) un materiale biologico, isolato dal suo ambiente naturale o
prodotto tramite un procedimento tecnico, anche se preesistente allo stato naturale ……c) qualsiasi
nuova utilizzazione di un materiale biologico o di un procedimento tecnico relativo a materiale
biologico”. L’art. 3 della citata Direttiva, estendendo il brevetto al materiale biologico che costituisca
un’invenzione ai sensi del diritto industriale, riprende la formula codificata dall’art. 27, § 1,
dell’Accordo TRIPS nel quale si legge che possono costituire oggetto di brevetto le invenzioni, di
prodotto o di procedimento, ottenute in tutti i campi della tecnologia purché siano nuove, implichino
attività inventiva e siano atte ad avere un’applicazione industriale. L’articolo richiama, anche, l’art.
52.1 CBE. Un’apposita clausola di salvaguardia è prevista nel preambolo della citata Direttiva in
favore degli ordinamenti nazionali che escludono dalla tutela brevettuale i metodi diagnostici,
terapeutici e chirurgici destinati alla cura dell’uomo e degli animali, nonché i procedimenti diagnostici
effettuati sul corpo umano o animale (considerando 35 Direttiva 98/44/CE; in senso conforme anche
l’art. 52, § 4, della CBE e l’art. 27, § 3, lett. a) dell’Accordo TRIPS).
91
) Un esempio in tal senso è rappresentato dal topo oncogeno messo a punto nei laboratori
dell’università di Harvard: cfr. a tal proposito par. 2. La possibilità di brevettare organismi incontra
peraltro un limite nel divieto di brevettare razze animali e varietà vegetali: artt. 4 Direttiva 98/44/CE,
81 quinques c.p.i.
45
che, riferendosi al brevetto di prodotto, definisce oggetto dell’invenzione un
materiale biologico dotato, in seguito all’invenzione, di determinate proprietà92.
Il prodotto può tuttavia consistere anche in un quid già esistente in natura, che
non viene modificato ma semplicemente identificato ed isolato. È la Direttiva in
esame che così dispone introducendo il principio secondo il quale “un materiale
biologico ... isolato dal suo ambiente naturale ... può essere oggetto di invenzione,
anche se preesistente allo stato naturale”93.
L’esistenza del prodotto in natura sembra invero mettere in discussione il
requisito della novità; l’unica interpretazione in grado di superare questa apparente
contraddizione è quella di riferirsi ad un materiale biologico esistente in natura ma
92
) L’art. 8 Direttiva 98/44/CE così recita: “La protezione attribuita da un brevetto relativo ad un
materiale biologico dotato, in seguito all’invenzione, di determinate proprietà si estende a tutti i
materiali biologici da esso derivati mediante riproduzione o moltiplicazione in forma identica o
differenziata e dotati delle stesse proprietà”. In Italia, l’omologo art. 81, comma 1, sexies c.p.i.
dispone che: “La protezione attribuita da un brevetto relativo ad un materiale biologico dotato, in
seguito all’invenzione, di determinate proprietà si estende a tutti i materiali biologici da esso derivati
mediante riproduzione o moltiplicazione in forma identica o differenziata e dotati delle stesse
proprietà”.
93
) Art. 3, comma 2, Direttiva 98/44/CE, art. 81 quater c.p.i. G. Spedicato, La brevettabilità delle
invenzioni biotecnologiche nella normativa e nella giurisprudenza comunitaria. Brevi considerazioni
etico-giuridiche, in Quaderni di diritto privato europeo, Vol. V, 2003, p. 323, osserva che, in ragione
della difficoltà di distinguere tra invenzione e scoperta, il legislatore comunitario, sulla scorta del
principio per cui né il diritto nazionale né il diritto europeo dei brevetti (convenzione di Monaco)
impongono divieti o esclusioni di principio in ordine alla brevettabilità del materiale biologico (cfr.
15° considerando Direttiva 98/44/CE), ha preferito dissipare qualunque dubbio relativo alla
qualificazione giuridica di un trovato biotecnologico introducendo due fictiones relative,
rispettivamente, alle invenzioni aventi ad oggetto materiale biologico di origine non umana e
materiale biologico di origine umana. La prima fictio è dettata dal secondo comma dell’art. 3 in virtù
del quale “un materiale biologico che viene isolato dal suo ambiente naturale o viene prodotto tramite
un procedimento tecnico può essere oggetto di invenzione, anche se preesisteva allo stato naturale”.
La seconda fictio è invece introdotta dal secondo comma dell’art. 5 ai sensi del quale “un elemento
isolato dal corpo umano, o diversamente prodotto, mediante un procedimento tecnico, ivi compresa la
sequenza o la sequenza parziale di un gene, può costituire un’invenzione brevettabile, anche se la
struttura di detto elemento è identica a quella di un elemento naturale”.
46
non ancora identificato nei suoi caratteri essenziali e nella sua funzione utile94. Un
materiale, cioè, non ancora scoperto95.
5. Il brevetto biotecnologico tra brevetto di prodotto e di procedimento.
Estensione dell’esclusiva e superamento della formula “comunque ottenuto” ed
in “in tutti i suoi possibili usi”.
Molteplici sono le fonti del materiale biologico; esso può preesistere allo stato
naturale, essere isolato dal suo ambiente naturale oppure essere prodotto tramite un
procedimento tecnico96.
Nonostante l’impiego di un linguaggio vago97, il verbo isolare sembra volto a
comprendere tutte quelle tecniche tradizionali che puntano a ricavare il prodotto
estraendolo da materiali naturali, più complessi, che già lo contengono98;
l’espressione produrre tramite un procedimento tecnico sembra invece riguardare
94
) I geni, ad esempio, quali sostanze esistenti in natura non possono essere considerati nuovi in senso
stretto ma possono esserlo considerato che, prima della loro scoperta ed identificazione, non
appartenevano al patrimonio tecnico-scientifico.
95
) G. Sena, L’importanza della protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, in Riv. dir. ind.,
2000, p. 65, il quale ritiene che la preesistenza in natura non toglie novità all’invenzione di un
materiale biologico perché ciò che preesiste in natura non necessariamente è già noto, o
immediatamente conoscibile, e riproducibile con caratteri costanti. In tale contesto G. Guglielmetti, La
brevettazione delle scoperte- invenzioni, Riv. dir. ind., 1999, p. 111, ritiene che “la novità può
sussistere se il prodotto in precedenza non era noto nella forma in cui l’inventore l’ha messo a
disposizione, ma solo all’interno di un ambiente dal quale non era separabile o lo era solo con un
diverso grado di purezza. Inoltre, il prodotto pur preesistente non può dirsi accessibile se la
preesistenza in natura non rendeva già noto l’insegnamento di come ottenere con caratteri costanti
l’oggetto dell’invenzione nella particolare forma in cui viene messo a disposizione”. Vedi infra par. 6
sulla dicotomia scoperta-invenzioni. Sempre G. Guglielmetti, Il decreto di recepimento della direttiva
sulle invenzioni biotecnologiche. Brevettabilità e requisiti di brevettazione, in L.C. Ubertazzi (a cura
di), Il progetto di novella del cpi. Le biotecnologie, Quaderni di AIDA, Milano, 2007, p. 131, osserva
che la novità del materiale isolato dallo stato naturale comporta, anche, come logica conseguenza, che
i diritti attribuiti dal brevetto sul materiale isolato non si estendono al corrispondente materiale nel suo
stato naturale. Ciò consente di riconoscere la brevettabilità anche delle parti isolate del corpo umano
senza che da tale brevettabilità derivi un’estensione dei diritti sul corpo umano. Cfr. considerando 20
Direttiva 98/44/CE.
96
) In tal senso art. 3 Direttiva 98/44/CE, art. 81 quater c.p.i.
97
) In tal senso V. Di Cataldo, La brevettabilità delle biotecnologie. Novità, attività inventiva,
industrialità, in Riv. dir. ind., 1999, p. 179. L’Autore aggiunge che, forse, l’intenzione del legislatore
comunitario era quella di evitare una lettura strumentalmente restrittiva della norma.
98
) Una proteina, ad esempio, può essere prodotta con tecniche di isolamento dall’ambiente naturale
raccogliendo le tracce che di essa si trovano in fluidi (sangue, urina) di organismi viventi oppure in
organi (fegato, reni) di organismi morti.
47
tutte le tecniche biotecnologiche che cercano di realizzare un materiale attraverso
l’attività di organismi viventi99.
L’invenzione potrà riguardare anche il procedimento attraverso il quale il
materiale biologico è prodotto, trattato o utilizzato100; sono esclusi dalla tutela i
procedimenti essenzialmente biologici, privi, cioè, nel loro svolgimento, di una
qualche fase tecnica essendo caratterizzati, esclusivamente, da fenomeni naturali101.
99
) Individuando il gene che codifica la proteina, si possono, ad esempio, elaborare tecniche di DNA
ricombinante per la sua produzione. Questa tecnica consiste nella separazione da una molecola di
DNA di uno specifico frammento di DNA, solitamente attraverso l’azione di enzimi di restrizione
(cioè di proteine derivanti da batteri che sono in grado di individuare una specifica sequenza
all’interno di una molecola di DNA e di ritagliarla/separarla dalla molecola di DNA stessa) e nel suo
inserimento attraverso un vettore in una cellula ospite. La moltiplicazione della cellula ospite da poi
luogo ad una discendenza di cellule ciascuna delle quali presenta il gene selezionato che sarà dunque
disponibile in grandi quantità. Detta tecnica permette anche di ottenere organismi che hanno nelle
proprie cellule frammenti di DNA estraneo, superando così le barriere tra specie diverse.
100
) Artt. 3 Direttiva 98/44/CE e 81 quater c.p.i. In tal senso anche la regola 23b CBE che definisce
invenzione biotecnologica anche il procedimento con cui un materiale biologico è prodotto, trattato o
utilizzato. L’art. 2 della Direttiva 98/44/CE definisce il procedimento microbiologico come il
procedimento nel quale si utilizza un materiale microbiologico, si interviene su un materiale
microbiologico o si produce un materiale microbiologico. In senso conforme l’art. 81 ter c.p.i. Il
procedimento potrà riguardare anche le c.d. tecniche ricombinanti che permettono di realizzare in
forma purificata una sostanza che è già presente nell’uomo o negli animali attraverso la manipolazione
del patrimonio genetico di una cellula mediante l’unione dei tratti di DNA provenienti da cellule
differenti dello stesso organismo o di organi diversi. Cfr. nota 43. Si noti comunque che nella maggior
parte delle ipotesi, il procedimento impiegato nelle biotecnologie è routinario e quindi non
brevettabile.
101
) Cfr. regola 23b CBE, art. 4 lettera b della Direttiva 98/44/CE, art. 53 b della Convenzione di
Monaco, T. Faelli, op. cit., p. 125, osserva che i problemi che sorgono nel valutare se un procedimento
sia essenzialmente biologico, e dunque non brevettabile, sono dovuti al fatto che molto spesso un
procedimento biologico comprende sia fasi microbiologiche, la gestione delle quali richiede sempre
una certa tecnica, sia fasi naturali, o semplicemente biologiche, che non richiedono alcuna tecnica
perché o avvengono spontaneamente o sono estremamente facili da provocare. L’Autore osserva
comunque che il problema è superato stante il tenore delle citate disposizioni.
48
La dottrina si è interrogata sull’estensione della privativa ovvero se, in questo
settore, il brevetto copre il materiale in sé, comunque ottenuto, ovvero il materiale in
quanto prodotto secondo la tecnica indicata nella domanda di brevetto102.
L’interpretazione della normativa brevettuale in materia di biotecnologie deve
essere guidata dall’idea che la tutela è da rapportare alla misura dell’insegnamento
proposto dall’inventore e, quindi, contenuta nei limiti dell’insegnamento stesso103.
102
) Se, in poche parole, l’inventore ha realizzato il prodotto con tecniche di DNA ricombinante, il
brevetto riguarderà anche il prodotto ottenuto con tecniche tradizionali ? Se l’inventore ha ottenuto il
prodotto con tecniche tradizionali, il suo brevetto coprirà anche il prodotto ottenuto con tecniche di
DNA ricombinante ? I quesiti sono posti da V. Di Cataldo, La brevettabilità delle biotecnologie, cit.,
p. 181, il quale, sull’argomento, riporta alcuni casi giurisprudenziali che hanno riguardato la
brevettabilità di una proteina realizzata con tecniche di DNA ricombinante in presenza di un brevetto
che copriva la stessa proteina realizzata, però, con un procedimento tradizionale, cioè per via di
estrazione e di purificazione. Uno dei primi casi è Scripps contro Genentech. Quest’ultima società, nel
1984, aveva individuato un frammento di DNA responsabile della produzione, in natura, del Fattore
VIII-C (proteina usata nel trattamento della emofilia) ed aveva elaborato una tecnica di DNA
ricombinante per riprodurre la proteina in grandi quantità ed a costi relativamente bassi. La società
Genentech, quando ancora non aveva avviato la produzione commerciale del prodotto né aveva
ottenuto brevetti, era stata convenuta in giudizio dalla società Scripps titolare di un brevetto sul
Fattore VIII-C estratto per purificazione dal plasma umano. Caso analogo quello della eritropoietina
(EPO), ormone del rene che controlla la produzione dei globuli rossi. Nell’ottobre del 1983 il dott.
Ken Lin, che lavorava per American Genetics (Amgen), era riuscito a clonare il gene che codificava
l’EPO. La società Amgen era poi riuscita a trasformare una cellula di criceto con tecniche di DNA
ricombinante, rendendola capace di realizzare una significativa produzione di EPO. Per le invenzioni,
la società Amgen aveva chiesto ed ottenuto il brevetto. Successivamente, il Genetics Institute aveva
brevettato un metodo di purificazione di EPO da urina concedendo la relativa licenza a Chugai il quale
aveva così avviato la produzione e la commercializzazione dell’EPO. La società Amgen aveva quindi
citato in giudizio la Chugada per contraffazione. In entrambi i casi, i Giudici avevano negato che un
brevetto su una proteina realizzata per estrazione copriva anche la proteina realizzata con tecniche di
DNA ricombinante e viceversa. Commentando i casi esposti, l’Autore osserva che entrambi
presentano lo stesso problema in quanto evidenziano la possibilità di realizzare una proteina attraverso
procedimenti strutturalmente diversi tra loro compresi (nei casi esaminati attraverso un processo di
estrazione dall’ambiente naturale ed un processo di produzione per via biotecnologica); entrambi i
processi possono essere considerati brevettabili, precisa l’Autore, se nuovi ed originali. La disciplina
sulle invenzioni biotecnologiche permette infatti di considerare come nuovo un materiale allo stato
naturale, isolato o prodotto tramite un procedimento tecnico, affermandone, dunque, la diversità ai fini
giuridici.
49
Ne consegue che, nel brevetto di prodotto, viene a cadere la formula secondo la
quale il brevetto copre il prodotto comunque ottenuto104 ed in tutti i suoi possibili
103
) V. Di Cataldo, La brevettabilità delle biotecnologie, cit., p. 182. V. Falce, Sulla tutela
dell’innovazione dei “nuovi” settori della tecnica con particolare riguardo alle invenzioni
biotecnologiche. Primi appunti sul contributo dell’analisi economica, in G. Ghidini. G. Cavani (a cura
di), Brevetti e biotecnologie, Roma, 2008, p. 127, osserva che in tal modo il monopolio temporaneo
accordato all’inventore “in cambio” del contributo reso al progresso tecnico verrebbe necessariamente
ed inderogabilmente commisurato all’apporto effettivamente fornito dall’insegnamento brevettuale. Il
che, oltre a risultare consono con il principio fondamentale dell’istituto, per il quale appunto
l’estensione del monopolio brevettuale trova la propria giustificazione e, dunque, anche i propri limiti
nell’insegnamento reso dall’inventore al progresso tecnico e divulgato attraverso la brevettazione,
sarebbe senz’altro condivisibile alla luce dei più maturi modelli dell’analisi economica per i quali la
promozione dell’innovazione dinamica richiede la corrispondenza tra l’ampiezza della protezione
fornita ed il contributo effettivamente reso.
104
) La prima parte della formula (“comunque ottenuto”) descrive la regola per cui il brevetto di
prodotto preclude ai terzi la produzione e la commercializzazione del prodotto a prescindere dal fatto
che il titolare del brevetto provi che esso è stato realizzato attraverso il procedimento descritto nella
domanda di brevetto; anche se il terzo convenuto in contraffazione dovesse dimostrare di averlo
realizzato attraverso un procedimento diverso da quello descritto dalla domanda di brevetto,
opererebbe comunque la tutela. Questa regola non è mai stata messa seriamente in discussione per le
invenzioni della meccanica; in quest’ultimo settore una sola è, normalmente, la tecnica di costruzione
di ciascun prodotto o, comunque, se possono immaginarsi tecniche diverse dalla prima, esse di solito
ne sono varianti non inventive ovvero, sostanzialmente, equivalenti a quella brevettata. Per la
meccanica, dunque, dire che il brevetto di prodotto copre il prodotto comunque ottenuto equivale in
fatto a dire che lo copre solo in quanto prodotto per quella via proprio perché assai rara è la possibilità
di immaginare una via diversa, non equivalente alla prima. La struttura generalizzante ed
onnicomprensiva della formula non è più appropriata da quando altri settori della tecnica hanno
iniziato a produrre invenzioni: in tal senso V. Di Cataldo, Fra tutela assoluta del prodotto brevettato e
limitazione ai procedimenti descritti ed agli usi rivendicati, in Riv, dir. ind., 2004, p. 111. Sempre V.
Di Cataldo, La brevettabilità delle biotecnologie, cit., p. 183, sostiene che il superamento della regola
“comunque ottenuto” comporterebbe che se l’inventore ha insegnato solo ad isolare il materiale, o ha
insegnato solo a realizzarlo con una tecnica di DNA ricombinante, non vi è alcun motivo per il quale
dovrebbe vantare diritti rispetto a chi, successivamente, realizzi lo stesso materiale con altra tecnica;
ciascuna delle due operazioni non è in nulla tributaria dell’altra. G. Ghidini, Profili evolutivi del diritto
industriale, Milano, 2008, p. 95, commenta la formula del “comunque ottenuto” asserendo che la
stessa evidenzia l’incombere, in ogni momento della storia ed in ogni punto della disciplina
brevettuale, di una prospettiva di massima dilatazione protezionista del diritto di privativa.
50
usi105; il brevetto di prodotto copre, del prodotto, solo gli usi rivendicati e quelli ad
essi equivalenti106. Sull’argomento, si deve poi tener conto che nel settore delle
biotecnologie non esiste una netta distinzione tra invenzione di prodotto ed
invenzione di procedimento. Si tratta di una classificazione che può riguardare
soltanto quei settori della tecnica in cui il prodotto brevettato sia individuabile a
prescindere dal suo processo di fabbricazione, fenomeno che non trova riscontro nei
105
) V. Di Cataldo, Fra tutela assoluta, cit., p. 112 osserva che, secondo la formula “in tutti i suoi
possibili usi”, il brevetto attribuisce al suo titolare una riserva sul prodotto che copre l’uso rivendicato
dalla domanda di brevetto e tutti gli altri possibili usi, a prescindere se siano noti o ignoti. La formula,
che trae le sue radici dall’esperienza secolare dei brevetti della meccanica, è, a parere dell’Autore,
sbagliata così come dimostra la brevettabilità della c.d. invenzione di traslazione. Chi utilizza un
trovato già conosciuto impiegandolo in un settore e per una funzione completamente diversa da quella
originaria, ha realizzato una nuova invenzione, detta invenzione di traslazione, da sempre considerata
brevettabile a seconda che il nuovo uso sia o meno equivalente a quello già noto. Nel primo caso, la
traslazione manca di originalità e, quindi, non è brevettabile; nel secondo caso, invece, la traslazione è
originale e, quindi, brevettabile. Il brevetto di traslazione è del tutto indipendente dal primo brevetto.
La doppia regola della brevettabilità dell’invenzione di traslazione e dell’indipendenza del brevetto di
traslazione dal primo brevetto di prodotto è logicamente incompatibile, secondo l’Autore, con l’idea
che il brevetto di prodotto copra tutti i possibili usi del prodotto stesso. Se, infatti, il brevetto di
prodotto coprisse davvero tutti gli usi del prodotto, anche il nuovo uso pensato dall’autore della
traslazione dovrebbe rifluire all’interno degli usi riservati al titolare del primo brevetto e, quindi, non
avrebbe alcun senso la concessione di un brevetto all’autore della traslazione; ancor meno, di un
brevetto “indipendente”. L’Autore conclude la sua riflessione scrivendo: “La formula “in tutti i suoi
possibili usi” è sicuramente sbagliata. È però, al tempo stesso, felice. La storia della tecnologia
evidenzia, infatti, che le traslazioni originali, e quindi brevettabili, sono assai rare, perché nella
meccanica i rapporti tra struttura e funzione sono di solito univoci e prevedibili, ed ogni prodotto è
normalmente monouso. Il caso in cui un uso nuovo risulti estraneo all’esclusiva attribuita al titolare
del brevetto è assolutamente marginale. In questo senso la formula “in tutti i suoi possibili usi”
appare, come pure ho detto, comunque felice. Essa in fondo esprime una sorta di presunzione di
equivalenza del nuovo uso all’uso noto (giustificata dalla rarità della traslazione originale). E
facilita, nel giudizio di contraffazione, la difesa del brevetto sul prodotto nuovo, senza creare, proprio
per la rarità della traslazione originale, costi intollerabili”.
106
) V. Di Cataldo, Biotecnologie e diritto, cit., p. 373 osserva che la tesi trova conferma nell’art. 5,
comma 3, della Direttiva 98/44/CE secondo il quale l’applicazione industriale di una sequenza o di
una sequenza parziale di un gene dev’essere concretamente indicata nella domanda di brevetto; non
avrebbe senso, secondo l’Autore, un onere di questo genere in capo al richiedente se poi il suo
brevetto dovesse automaticamente estendersi ad ogni applicazione industriale della sequenza che
venisse successivamente da altri individuata.
51
prodotti biotecnologici107; ai fini dell’identificazione di tali prodotti, infatti, deve
essere esattamente individuato il procedimento di sintesi, di isolamento o di
alterazione genetica che rende disponibili tali ritrovati alla collettività108.
L’invenzione biotecnologica di prodotto si qualifica dunque quale product by
process ovvero quale prodotto derivante da un procedimento determinato109.
107
) A. Vanzetti, Procedimento, prodotto ed unicità dell’invenzione, in Riv. dir. ind., 2011, p. 227,
osserva che in applicazione dell’art. 161, comma 1, c.p.i. “ogni domanda deve avere per oggetto una
sola invenzione”. Sulla base di questa norma, e del principio dell’unicità dell’invenzione che se ne
desume, si dice che nel caso di brevetto in cui vengano rivendicati sia un procedimento sia il prodotto
che ne deriva, entrambi nuovi e originali, risulti violato quel principio, trattandosi appunto di due
invenzioni. Si sostiene conseguentemente che chi voglia ottenere una tutela sia del procedimento, sia
anche, in via autonoma e assoluta, del prodotto che ne deriva, debba chiedere due distinti brevetti
Questo presupposto, aggiunge l’Autore, può considerarsi esatto oppure no a seconda che alla parola
“invenzione” si dia in questo contesto un senso categoriale, classificatorio, oppure un senso
sostanziale, attinente al momento genetico del nuovo trovato, e soprattutto al contenuto tecnicoconcettuale di esso. Se si adotta questa seconda accezione, il sostenere che procedimento e prodotto
che ne deriva sono due diverse invenzioni mi pare in generale sbagliato. Se si cerca infatti di figurarsi
il processo mentale attraverso il quale un individuo può giungere ad immaginare un utile prodotto
nuovo, ed il nuovo procedimento che ne consenta la creazione, è difficile (anche se non proprio
impossibile) pensare a due processi mentali separati, l’uno che si svolge ad esempio al mattino e
l’altro al pomeriggio, e che a un certo punto casualmente si incontrano, senza peraltro che neanche a
questo punto i rispettivi risultati si fondano. Ma se anche, tipologicamente a un altro estremo, si pensa
a un’invenzione del genere conseguita da équipes di ricerca, è difficile immaginare che queste si
dividano in gruppi reciprocamente impermeabili, l’uno alla ricerca di un prodotto nuovo e l’altro alla
ricerca di un procedimento per realizzare non si sa bene che cosa, e senza che anche qui alla fine i
rispettivi esiti si possano fondere concettualmente.
108
) Cfr. V. D’Antonio, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati Uniti, Napoli,
2004, p. 123
52
Argomenti in senso contrario non possono trarsi dagli artt. 8 e 9 della Direttiva
98/44/CE110; se il combinato disposto dei due articoli venisse interpretato in senso
estensivo, ovvero che il brevetto copre il prodotto o il procedimento in sé, comunque
ottenuti, si giungerebbe al paradosso di bloccare l’evoluzione della ricerca
scientifica, lasciando a colui che abbia per primo ottenuto un brevetto il potere di
decidere se continuare o meno nell’indagine. Considerato lo scopo della direttiva,
che è quello di favorire, tramite il riconoscimento di un diritto di proprietà
industriale, il progresso scientifico e lo sviluppo della conoscenza per migliorare la
109
) Nel settore delle biotecnologie tutti i brevetti di prodotto (quale che sia la tecnica adottata dalla
sua descrizione: struttura di prodotto e procedimento di realizzazione) dovrebbero essere intesi come
product by process patent così da limitarne la portata ai soli risultati indicati dall’inventore attraverso
lo specifico procedimento utilizzato. Detti brevetti riserveranno al titolare la produzione, la
commercializzazione e l’uso della proteina non comunque ottenuta ma solo in quanto prodotta con
quella particolare tecnica: V. Di Cataldo, Fra tutela assoluta del prodotto brevettato, cit., p. 114. Con
la formula, di origine statunitense, product by process patent s’intende che il brevetto per
un’invenzione di prodotto copre il prodotto solo in quanto realizzato secondo il procedimento tecnico
indicato nella domanda di brevetto, senza conferire un diritto di esclusiva su ogni prodotto identico a
quello brevettato, anche se ottenuto con differenti metodi; l’invenzione non protegge dunque il
prodotto in sé ma il prodotto volto ad un certo uso. Per approfondimenti circa l’origine del modo di
descrizione dell’invenzione product by process si rimanda a V. Di Cataldo opera appena citata. V.
Falce, La tutela, cit., p. 127, osserva che secondo la tecnica del product by process l’inventore che
insegni ad isolare il materiale preesistente in natura o a realizzarlo con una tecnica di DNA
ricombinante, potrà vantare un diritto di privativa solo nei limiti e secondo le modalità di sintesi
indicate nel processo utilizzato e non anche rispetto ad altre tecniche che conducano alla realizzazione
del medesimo materiale. L’inventore che identifichi una proteina sintetizzata ed almeno una delle
funzioni da essa svolte, potrà ottenere un brevetto che si limita a quel contributo ed, in particolare, alla
funzione identificata; il brevetto può dunque essere concesso in relazione al prodotto finito, isolato e
purificato nella misura in cui esso risulti diverso non solo quantitativamente ma anche
qualitativamente dalla sostanza naturale, così che esso possieda una nuova utilità, requisito la cui
presenza deve essere valutata insieme a quella della originalità. Sul punto T. Faelli, La tutela delle
invenzioni biotecnologiche in Europa: prime valutazioni d’insieme, in Riv. dir. ind., 2001, p. 125,
ritiene che il procedimento tecnico indicato nella domanda di brevetto ha la sola funzione di rendere la
sequenza “accessibile” e riproducibile con caratteri costanti, facendola assurgere allo status di
“invenzione”; tale procedimento non ha invece alcun impatto sull’ambito della tutela. Le sequenze di
DNA, ad esempio, una volta isolate o riprodotte, sono protette indipendentemente dal metodo con il
quale esse sono ottenute. Del resto, se così non fosse, questo tipo di brevetto perderebbe di significato,
dato che, una volta isolato, è molto semplice ottenere lo stesso gene attraverso un procedimento
differente. La posizione secondo la quale la definisce un prodotto di brevetto è sostenuta anche
dall’European Patent Office secondo il quale “a claim defining a product in terms of a process is to be
constructed as a claim to the product as such” (cfr. Guidelines EPO 2012, parte F. IV, 4.12).
110
) L’Art. 8 della Direttiva in esame dispone che l’ambito di protezione del brevetto relativo ad un
materiale biologico dotato, in seguito all’invenzione, di determinate proprietà si estende a tutti i
materiali biologici da esso derivanti mediante riproduzione o moltiplicazione, in forma identica o
differenziata, e dotati delle stesse proprietà. Il successivo art. 9 recita: “Fatto salvo l’art. 5, paragrafo
1, la protezione attribuita da un brevetto ad un prodotto contenente o consistente in un’informazione
genetica si stende a qualsiasi materiale nel quale il prodotto è incorporato e nel quale l’informazione
genetica è contenuta e svolge la sua funzione”.
53
qualità e le aspettative di vita, non si può che accedere ad una lettura riduttiva degli
articoli citati111. Quest’ultimi hanno la funzione di preservare le ragioni proprietarie
dell’inventore contro possibili abusi commessi dai successivi utilizzatori del
prodotto che, senza apportare alcun “salto ideativo”, si limitino a sfruttare
parassitariamente (tramite riproduzione, moltiplicazione, incorporazione di materiale
biologico brevettato) le invenzioni altrui; non inibiscono, invece, la legittima
richiesta di brevettare diverse caratteristiche e funzioni del prodotto già scoperto
ovvero utilizzazioni per finalità diverse in nuovi composti112.
Tutto ciò nasce dalla evidente necessità di non inibire le subsequent innovation
cioè soluzioni diverse, più progredite e competitive sul mercato; diversamente, si
rallenterebbe l’innovazione tecnologica113.
111
) A. Pizzoferrato, Brevetto per invenzione e biotecnologie, in Trattato di diritto commerciale e di
diritto pubblico dell’economia diretto da F. Galgano, vol. XXVIII, Padova, 2002, p. 153.
112
) L’individuazione di un nuovo uso, ovvero di un nuovo risultato utile che consenta l’efficiente
utilizzazione del trovato in campo e settori ulteriori rispetto a quelli in cui era stato sperimentato in
precedenza, non può non essere brevettato. Circa l’art. 9 della Direttiva 98/44/CE, la norma protegge
il prodotto che contiene o consiste nell’informazione genetica con riguardo non al prodotto in sé ma
alla sua funzione ed utilità concreta. Se dunque il prodotto viene combinato per realizzare la sua
funzione tipica, già individuata dall’inventore originario, questo sarà protetto dal brevetto; se viene
utilizzato per una funzione diversa ed innovativa, sconosciuta al primo inventore, il prodotto non può
essere coperto da brevetto e non sarà necessario richiedere al primo inventore una licenza d’uso: in tal
senso G. Sena, L’importanza della protezione giuridica, cit., p. 65. C. Signorini, I diritti di proprietà
industriale in materia di biotecnologie e la tutela della biodiversità, in G. Ghidini, G. Cavani (a cura
di), Brevetti, cit., p. 206, osserva che l’art. 9 in esame dispone che il brevetto per una sequenza di
DNA estende la propria tutela sia all’organismo nel quale la sequenza di DNA viene inserita sia agli
organismi da questo discendenti che contengono tale sequenza; la norma non definisce una privativa
verso qualunque successivo uso da chiunque compiuto, ma una protezione della funzione del prodotto
contenente o consistente in una informazione genetica. La Corte di Giustizia CE con la sentenza n.
428 del 6 luglio 2010 ha deciso che l’art. 9 della direttiva 98/44/CE impedisce che una normativa
nazionale riconosca protezione assoluta al prodotto brevettato in quanto tale, a prescindere dal fatto
che esso svolga o meno la sua funzione nel materiale che lo contiene. Tale articolo impedisce altresì al
titolare di un brevetto rilasciato prima dell'adozione di tale direttiva di invocare la protezione assoluta
del prodotto brevettato che gli sarebbe stata accordata dalla normativa nazionale allora vigente. Per
approfondire il testo della sentenza vedi infra.
113
) A. Pizzoferrato, Brevetto per invenzione, cit., p. 155. Sull’estensione del brevetto di prodotto
biotecnologico si veda anche G. Guglielmetti, Il decreto di recepimento, cit, p. 135, ritiene che si
debbano distinguere due ipotesi. Quando, come spesso accade, i due materiali ottenuti,
rispettivamente, con un procedimento già noto e con quello nuovo, non si presentino in forma
identica, ma ad esempio il secondo, realizzato con un procedimento di ingegneria genetica, si
caratterizzi per avere un grado di purezza maggiore rispetto al materiale ottenuto per mezzo di
procedure di estrazione dall’ambiente naturale, la brevettabilità, come prodotto, del risultato del
secondo procedimento non dovrebbe presentare particolari dubbi. Qualora invece i due materiali siano
assolutamente identici, pare inevitabile concludere per il difetto di novità della seconda invenzione
relativamente al prodotto. Resta salva la possibilità di brevettare il nuovo procedimento.
54
6. Dicotomia scoperta-invenzione: superamento del divieto di brevettare le
scoperte nel settore delle biotecnologie
L’estensione del brevetto alle biotecnologie fa riemergere la dicotomia scopertainvenzione posto che un prodotto biotecnologico, esistente già in natura, può essere
scoperto più che inventato.
L’espressione scoperta può essere utilizzata per designare tutte le forme di
conoscenza della natura; può trattarsi della mera descrizione empirica di determinati
oggetti o fenomeni naturali ovvero della spiegazione scientifica delle cause, degli
effetti e delle relazioni intercorrenti tra di essi114; la scoperta permette di individuare
un quid prima ignoto ma esistente in natura, ovvero le proprietà e le utilità, prima
ignote, di un quid già conosciuto115.
L’invenzione rappresenta invece una forma di applicazione pratica delle
conoscenze; porta ad un risultato tecnicamente utile116, idoneo ad essere sfruttato
industrialmente. Il quid creato dall’uomo non esisteva né deriva dal suo intervento
sulla natura.
La brevettazione delle scoperte è normalmente vietata117; la ratio del divieto è
ricondotta alla carenza del requisito di materialità giacché la scoperta, solitamente,
viene fatta coincidere con principi, proprietà e fenomeni naturali, accostata alle
114
) G. Guglielmetti, La brevettazione, cit., p. 97, ritiene che il termine scoperta designi il risultato
dell’attività consistenti nel riconoscere ciò che preesiste in natura ma che non era prima noto; le teorie,
i principi scientifici indicano invece la creazione, da parte dell’uomo, di ipotesi e modelli per
interpretare, spiegare fenomeni della realtà. Non esiste tuttavia, a parere dell’Autore, una rigida
separazione tra scoperte e teorie (o principi) scientifici. La percezione di un oggetto o di un fenomeno
preesistente in natura ma in precedenza ignoto non è rigidamente separabile dalla sua comprensione e
spiegazione scientifica. A volte non è possibile afferrare il significato di una nuova scoperta senza la
risistemazione dei principi scientifici accolti. Si tratta dunque di due forme di conoscenza della natura
di grado diverso.
115
) G. Sena, La brevettazione delle scoperte e delle invenzioni fondamentali, Riv. dir. ind., 1990, p.
316.
116
) Il carattere tecnico dell’invenzione deve essere inteso nel senso di utilizzazione della materia e
dell’energia per la soluzione di un problema: G. Guglielmetti, op. cit., p. 121.
117
) In tal senso l’art. 52 della Convenzione di Monaco e l’art. 45 c.p.i. In queste norme si legge: “non
sono considerate come invenzioni ... le scoperte”. Diversamente la legge americana (Patent Act, 35
U.S.C. §§ 100 a e 101) che definisce il termine “invention” come “invention or discovery” e precisa
che può ottenere il brevetto “ Whoever invents or discovers ...”.
55
teorie scientifiche ed ai metodi matematici118. Non vi sarebbe quindi alcun
arricchimento del patrimonio tecnologico119.
Se, concettualmente, la scoperta si distingue dall’invenzione, vi è tuttavia una
sostanziale identità fra le due fattispecie dal punto di vista dell’attività di ricerca,
dell’oggetto e dei risultati concreti; la ricerca che conduce ad isolare, e quindi a
scoprire, una sostanza naturale o ad individuare caratteristiche della materia prima
ignote è qualitativamente del tutto analoga all’attività che porta alla creazione di un
nuovo prodotto, di una nuova molecola, alla realizzazione di un nuovo composto o,
comunque, di un quid novi120. La scoperta, come l’invenzione, mette a disposizione
della tecnica un mezzo prima ignoto per la soluzione di determinati problemi e per la
soddisfazione di dati bisogni121.
La normativa che esclude la brevettazione delle scoperte riguarda, quindi, solo
quelle sovrapponibili con le teorie o i principi scientifici privi, di per sé, di
118
) A conferma, l’art. 45 c.p.i. dispone che non sono considerate invenzioni le scoperte, le teorie
scientifiche e i metodi matematici, i piani, i principi ed i metodi per attività intellettuali, per gioco o
per attività commerciale ed i programmi di elaboratore, le presentazioni di informazioni.
119
) In tal senso G. Dragotti, Le invenzioni, in Trattato di diritto privato diretto da Pietro Rescigno,
Vol. IV, 2009, p. 230.
120
) La scoperta può avere ad oggetto minerali, sostanze chimiche, microrganismi, virus, geni, ecc.; in
questi casi, i requisiti della concretezza, o materialità, e della immediata utilità si presenterebbero in
modo assolutamente identico con quelli propri delle invenzioni: in tal senso G. Sena, La brevettazione
delle scoperte, cit., p. 316.
121
) G. Floridia, Le invenzioni universitarie, in Riv. dir. ind., 2001 p. 215, osserva che la regola della
non brevettabilità della scoperta, nata per essere applicabile al settore della tecnologia meccanica, non
si adatta al settore della biotecnologia dove spesso scoperta ed invenzione si compenetrano in un tutto
inscindibile. V. Menesini, Le invenzioni biotecnologiche fra scoperte scientifiche, applicazioni
industriali, preoccupazioni bioetiche, in Riv. dir. ind., 1996, p. 191, osserva, sull’argomento, che
l’esigenza di una disciplina giuridica che incentivi la ricerca e che garantisca una remunerazione agli
investimenti, sempre ingentissimi, che tale attività comporta, sussiste indipendentemente dal fatto che
il risultato sia concettualmente qualificabile come scoperta o come invenzione.
56
immediata utilità122. In senso conforme si è espresso anche il legislatore comunitario
che, proprio nella Direttiva 98/44/CE, ammette la brevettabilità dei prodotti
biologici che, pur preesistendo allo stato naturale, non sono conosciuti perché non
122
) G. Sena, La brevettazione delle scoperte, cit., p. 317, osserva che il divieto non ha ragione di
esistere nel caso in cui l’oggetto della scoperta sia, di per sé, un prodotto dotato di immediata utilità.
A. Ottolia, Riflessi sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni EST, in Riv. dir. ind., 2005, p.
457, osserva che il discrimine semantico tra scoperta e invenzione, ai fini dell’accesso alla tutela
brevettuale, consiste nell’esistenza o meno di una conoscenza applicabile. In questo senso, limitando
l’ambito semantico del termine scoperta alle conoscenze o ai fenomeni meramente teorici, ovvero
privi di applicazione immediatamente utile all’industria, l’ambito dell’entità brevettabili arriva a
comprendere anche conoscenze attinenti ad un’entità naturale qualora siano però dotate di immediata
applicazione pratica. L’interpretazione trova conforto, osserva l’Autore, non solo nell’analisi
dell’evoluzione storica della disciplina, ma anche nel dato testuale. L’art. 2585 c.c. prevede la
proteggibilità della “applicazione tecnica di un principio scientifico purché dia immediati risultati
industriali”. Similmente, l’art. 45, comma 3, c.p.i. e l’art. 52 CBE che escludono la brevettazione
delle scoperte e delle teorie solo nella misura in cui il brevetto “concerna scoperte, teorie...
considerate in quanto tali”. Queste previsioni escludono dalla brevettazione solo il mero contenuto
conoscitivo della scoperta, riconoscendo, implicitamente, la legittimità di un’esclusiva conferita sulla
soluzione applicativa della stessa quale inedita risposta a un problema non in precedenza soddisfatto.
Questa impostazione consente di premiare, attraverso la ricomprensione fra le entità brevettabili, la
capacità dell’uomo di accrescere il proprio “approfittamento delle forze della natura”, attraverso
l’individuazione delle catene ideative che ne colgono i nessi funzionali, e di ricavarne nuove
applicazioni utili. Questo riconoscimento non sembra rappresentare, a parere dell’Autore, un quid
novi rispetto al modello brevettuale tradizionale, nonostante parte della dottrina abbia sottolineato
taluni rilevanti profili di specificità rispetto alla disciplina generale. In senso conforme V. Di Cataldo,
Biotecnologie e diritto, cit., p. 364, il quale ritiene esemplificativa delle suesposte circostanze la
vicenda relativa alla brevettazione da parte della società Chiron, nel 1987, di un kit
immunodiagnostico del virus dell’epatite C. La società, impegnata sin dal 1982 ad identificare il
genoma del citato virus, era riuscita a predisporre il kit utilizzando tecniche note; in concreto, dunque,
l’invenzione (di prodotto e/o di procedimento) consistente nel kit o nel procedimento di realizzazione
dello stesso era priva dei requisiti di novità e/o di originalità. In casi del genere, in cui erano state
coinvolte capacità operative di varie decine di scienziati di primo piano a livello mondiale,
finanziamenti valutati in ordine di vari milioni di dollari, la sola possibilità concreta di attribuzione di
un titolo brevettuale all’autore era nel ravvisare l’invenzione brevettabile proprio nella individuazione
della struttura del virus che era, in realtà, la sola operazione che richiede attività inventiva. Si trattava,
però, di una acquisizione che il linguaggio comune qualificava come scoperta e non come invenzione.
Nonostante ciò, venne ammessa la brevettabilità della scoperta in quanto essa presentava una
immediata applicazione pratica, limitandosi gli effetti del brevetto proprio a quella applicazione; la
scoperta è stata detta brevettabile, quindi, ma solo in funzione della realizzazione di quel particolare
metodo e di quel particolare strumento diagnostico. Per questa via, può darsi una risposta positiva,
afferma l’Autore, ad una esigenza reale. Il sistema brevettuale può essere utilizzato come strumento
di incentivazione/remunerazione della ricerca nel settore biotecnologico, per un tipo di problemi la
cui soluzione contribuisce notevolmente al miglioramento della qualità della vita umana, rispetto ai
quali il momento decisivo è proprio quello della scoperta, cioè della decodificazione del virus. In
concreto, la brevettazione diviene possibile perché la presenza dei requisiti di brevettabilità (novità e
originalità) può e deve essere accertata in rapporto all’invenzione, che in questo caso è la scoperta
cioè l’individuazione del virus; il rischio di superbrevettazione, cioè della concessione di uno spazio
di esclusiva eccessivo (cioè superiore all’apporto dato dall’inventore al patrimonio collettivo) viene
controllato dal fatto che il brevetto copre la scoperta solo in funzione della particolare applicazione
descritta e rivendicata. Sul punto, si rimanda anche infra nota 81
57
ancora scoperti123.
7. Ricerca pura e ricerca applicata: individuazione delle differenze e delle
ratio di natura economica e concorrenziale
Dalla dicotomia scoperta-invenzioni deriva l’ulteriore, importante, distinzione tra
ricerca pura, o di base, e ricerca applicata. La prima, è diretta a produrre risultati
teorici e astratti, privi di applicazioni concrete; la seconda è finalizzata a realizzare
innovazioni capaci di soddisfare bisogni di carattere pratico. La ricerca pura realizza
scoperte inidonee ad essere oggetto di privativa mentre la ricerca applicata crea
invenzioni sfruttabili su scala industriale124.
123
) Cfr. artt. 3 Direttiva 98/44/CE e 81 quater c.p.i. A tal proposito, relativamente alla scoperta di una
sequenza di DNA e delle relative proteine, V. Di Cataldo, Biotecnologie e diritto, cit., p. 364, scrive:
“In presenza di un sicuro bisogno (spesso drammaticamente avvertito) dell’uomo a disporre di una
determinata proteina, diviene difficile sostenere che colui il quale per primo la rende disponibile in
quantità e con un grado di purezza tali da poter effettivamente realizzare una distribuzione
commerciale non ha trovato una soluzione originale di un problema tecnico. L’invenzione è stata
individuata, in questi casi, nella scoperta della funzione di un frammento di DNA, in quanto
direttamente utilizzabile al fine della produzione della proteina”. M. Ricolfi, op. cit., p. 7, osserva che
il legislatore comunitario ha ritenuto di dover introdurre nella direttiva un criterio discretivo
consistente nello sceverare tra scoperta ed invenzione non più in ragione della distinzione tra svelato e
creato, bensì in ragione del differente estrinsecarsi del rapporto tra l’attività dell’uomo e la materia
vivente. Allorché questi compie un’attività meramente conoscitiva, puramente cerebrale, avente ad
oggetto materiale biologico egli compie una scoperta; laddove invece l’attività che l’uomo pone in
essere ha carattere materiale, comportando il compimento di un procedimento tecnico, la “tecnicità” di
tale procedimento permea, per così dire, di sé anche il prodotto, rendendolo suscettibile di costituire
oggetto di brevetto. A questo punto, l’Autore ritiene necessario andare a chiarire quando possa parlarsi
di procedimento tecnico, ovvero, in altre parole, se esista un minimum di “tecnicità” che tale
procedimento deve possedere. A tal uopo può farsi riferimento a quanto previsto nelle Guidelines
dell’EPO, dove si sottolinea che l’intervento umano deve essere tale da svolgere un ruolo significativo
nel determinare o controllare il risultato che si desidera ottenere, dovendosi intendere il termine
“significativo” in riferimento a tutti quei procedimenti tecnici che soltanto l’uomo è capace di mettere
in atto e che la natura di per sé stessa non è in grado di compiere (cfr. anche il 21° considerando
direttiva 98/44/CE). G. Sena, La brevettazione delle scoperte, cit., p. 316, riguardo all’art. 3 della
Direttiva in esame ritiene che la norma, pur regolamentando le biotecnologie, abbia una rilevanza
interpretativa generale.
124
) Il brevetto non protegge le teorie, le scoperte e le ideazioni che, pur evidenziano ricadute
applicative, non si siano tradotte (o non siano traducibili) in una specifica idea di soluzione
direttamente sfruttabile su scala industriale. La privativa copre soltanto una particolare idea di
soluzione di un problema pratico; ciò, anche quando l’ideazione applicativa presenta una
minusvalenza intellettuale rispetto a quella della teoria che la precede: in tal senso G. Ghidini, Profili
evolutivi del diritto industriale, Milano, 2008, p. 68
58
Dal punto di vista economico, questa distinzione si è tradotta in una ripartizione
dei compiti tra il settore pubblico e quello privato: la ricerca di base è
tendenzialmente svolta presso le Università, o enti pubblici, ed è finanziata con
fondi statali125; la ricerca applicata è, invece, sviluppata dalle imprese che compiono
investimenti per poi ottenere prodotti da immettere sul mercato. In questa fase, la
tutela brevettuale riveste un ruolo essenziale in quanto permette di recuperare i costi
sopportati.
125
) Le università, specie nel settore biotecnologico, hanno “scoperto” le potenzialità economiche della
brevettazione dei risultati delle ricerche da loro condotte. Il fascino delle royalties ha fatto sì che
all’interno di molti atenei si vadano moltiplicando gli uffici addetti al trasferimento tecnologico (TT) e
si dia vita ad imprese c.d. spin-off, con frequente compartecipazione, finanziaria e professionale, dei
privati. L’obiettivo, un tempo separato, tende a farsi comune, e così a favorire la mobilitazione di
risorse finanziarie dedicate appunto ad una ricerca “finalizzata”, orientata prevalentemente alla
realizzazione di nuovi farmaci (frutto non della chimica tradizionale bensì dei procedimenti di
ingegneria genetica), come pure di nuovi prodotti capaci di rispondere alle emergenze alimentari ed
energetiche. Questo fenomeno va letto anche in relazione al consistente aumento degli stanziamenti in
favore della ricerca pubblica nel campo biotecnologico, aumenti giustificati dalle speranze riposte in
questo settore per la produzione di nuovi farmaci, biocombustibili, OGM. Il 7º Programma Quadro
dell’Unione Europea ha aumentato le risorse per la ricerca (passando da uno stanziamento medio di
7.217 milioni di euro l’anno contro i 4.375 milioni di euro annui stanziati nel Sesto programma quadro
(per il periodo 2002-2006). In questo scenario le università e gli enti pubblici di ricerca stanno
assumendo un ruolo di primo piano nella ricerca biotecnologica, circostanza testimoniata dal
consistente incremento del numero di privative ottenute. La prospettiva evocata ha, notoriamente, le
sue radici nell’esperienza negli Stati Uniti i quali, per primi e più di ogni altro Paese, hanno sviluppato
la ricerca e l’industria nel campo delle biotecnologie. Da detta esperienza è possibile trarre utili
indicazioni sia per evitare gli errori che essa ha fatto emergere, sia per modellare assetti normativi
volti a perseguire gli obbiettivi dello stimolo all’innovazione e del benessere della collettività: P.
Errico, I brevetti sulle biotecnologie fra ricerca pubblica e sviluppo privato. Indicazioni
dall’esperienza statunitense, in Riv. dir. ind., 2009, p. 311. Sul ruolo delle Università nel settore della
ricerca si veda anche Capitolo V.
59
Tale suddivisione trova la sua ratio nella necessità di difendere il tipico modo di
produzione della ricerca pura126. La scienza si nutre di confronti, di scambi, di
condivisione critica del sapere, di verifica di comunità, pur talora in vivace
contrapposizione personale fra i ricercatori, delle nuove ipotesi affacciatesi; attirare
la ricerca pura nella logica proprietaria di quella applicata vorrebbe dire diminuirne
le potenzialità innovatrici oltre che gli stessi spazi di libertà, valore di rilievo
costituzionale127. L’industria tenderebbe a trascurare ambiti di ricerca poco
profittevoli seppur di grande interesse scientifico e/o sociale128, adattando tali
ricerche ai bisogni del pubblico-cliente129.
126
) Modello definito “non escludente” da G. Ghidini, Profili evolutivi, cit., p. 69, il quale osserva che
a tale modo di produzione ricorrono anche le imprese della Information Technologies ed i sistemi c.d.
Open Source; questi non negano, anzi postulano, l’esistenza di un diritto di proprietà industriale, in
particolare del diritto d’autore, sui risultati della ricerca, ma li aprono all’altrui condivisione in
funzione di più rapide ed ampie dinamiche di innovazione derivata.
127
) Da un lato, i ricercatori procederebbero più lentamente nel perseguire ulteriori avanzamenti
giacché non potrebbero liberamente usare, o dovrebbero pagar dazio per farlo, ogni precedente nuova
acquisizione teorica; dall’altro, se condizionati da una prospettiva di esclusiva di sfruttamento sui
primati scientifici, opererebbero in compartimenti stagni, ciascuno in segreto rispetto gli altri,
rinunciando così a sfruttare le preziose sinergie derivanti dallo scambio e, quindi, dalla condivisione di
idee ed esperienze.
128
) Una siffatta tendenza riguarda gli investimenti per la ricerca-sviluppo inerenti i brevetti sui
farmaci destinati alla diagnosi, profilassi e terapia delle malattie rare; la contestuale possibilità di
brevettare (a valle) e quella di esternalizzare sulle istituzioni pubbliche i costi della ricerca pura (a
monte), creano il massimo incentivo alla messa in cantiere di prodotti di pur scarso mercato,
propensione incoraggiata dalla reputational reward conseguibile, e, quindi, da un più ampio vantaggio
di immagine sfruttabile anche sul piano competitivo. La Comunità Europea ha regolato il settore con
norme che utilizzano il meccanismo della concessione di un diritto di esclusiva limitato nel tempo,
cioè una sorta di brevetto rilasciato senza che siano richieste novità ed originalità del trovato; è
prevista anche una riduzione delle tasse relative alla procedura di autorizzazione. In presenza di
un’autorizzazione per l’immissione in commercio di un farmaco per una malattia rara, la Comunità
europea e gli Stati membri non accettano altre domande di autorizzazione con le stesse indicazioni
terapeutiche per un periodo di dieci anni.
129
) Il che tende a vincolare l’industria stessa ad una cultura mediamente più arretrata di quella
posseduta dalle avanguardie futurizzanti: G. Ghidini, Profili evolutivi, cit., p. 70.
60
Altra, importante, ragione della suddivisione è quella di natura proconcorrenziale. Un sistema industriale che opera in regime di concorrenza richiede
che tutto il patrimonio di conoscenze generali, portato alla luce dalla ricerca
scientifica, sia considerato e resti una common resource, sottratta ai diritti esclusivi;
se così non fosse, l’impresa che viene ad acquisire diritti esclusivi su quel tipo di
ideazione verrebbe a detenere un monopolio esteso ad una serie di applicazioni
pressoché indeterminabili a priori130, coprendo l’intera catena delle applicazioni
ricollegabili, anche in via derivata, all’elaborazione scientifica. Si verrebbe, quindi, a
costituire un monopolio pluriapplicativo e potenzialmente illimitato131.
8. Area di confine tra ricerca pura e ricerca applicata nelle biotecnologie: la
c.d. ricerca finalizzata. Il problema della brevettabilità dei risultati della
ricerca di base
In settori come quello delle biotecnologie la contrapposizione, poc’anzi esposta,
fra ricerca pura e ricerca applicata appare particolarmente problematica;
l’elaborazione che dall’una rifluisce nell’altra è sovente un continuum.
130
) Nella sentenza n. 7083 risalente al 29 dicembre 1988 la Corte di Cassazione osservava che la
regola della non brevettabilità delle scoperte (ci si riferiva alla scoperta di un principio scientifico) si
fonda, non su una loro supposta intrinseca incapacità di produrre concreti risultati pratici, bensì
proprio, all’inverso, sulla loro capacità di determinare un insieme di applicazioni tecnologiche a
larghissimo ventaglio, pressoché indeterminato; attribuendo all’autore della scoperta la facoltà di
interdire l’attuazione pratica di tutte le innovazioni che altri potranno portare alla tecnologia basandosi
sulla scoperta, si giungerebbe a paralizzare ogni progresso.
131
) G. Sena, La brevettazione delle scoperte, cit., p. 316, osserva che la ragione più profonda di tali
posizioni è da rinvenire nel timore che una esclusiva sui risultati della ricerca di base possa costituire
un vero e proprio blocco delle sue applicazioni tecnologiche, che possa cioè comportare un effetto di
sbarramento e precludere lo sbocco pratico dei risultati della ricerca stessa.
61
I prodotti ed i procedimenti biotecnologici sono spesso realizzati mediante
tecniche di routine che, facenti oramai parte dello stato dell’arte, vengono applicate
ai nuovi risultati della ricerca di base che, conseguentemente, sfociano in soluzioni
tecniche perdendo l’astrattezza che li caratterizzava132.
Non solo. Sempre più frequentemente le ricerche scientifiche vengono condotte,
o comunque sostenute economicamente, da privati, interessati a conseguire le
ricadute applicative delle ricerche stesse. Tutto ciò porta ad ampliare la c.d. ricerca
finalizzata, area di confine tra la ricerca pura in senso stretto e quella applicata.
In questi casi, ci si chiede dove si collochi la soglia della brevettabilità.
Si pensi, ad esempio, alla messa a punto di nuovi composti chimici i quali
possono rappresentare un importante risultato non solo dal punto di vista scientifico
ma anche da quello della prevedibile, futura, utilità industriale e commerciale. In
questi casi, si dovrà negare il rilascio del brevetto sino a quando la utilizzazione di
detti composti non produca risultati applicativi ? Quale dovrà essere, a fronte del
citato continuum, l’ampiezza di una esclusiva che copra la c.d. formula generale di
una molecola biologicamente attiva ? Si estenderà o meno a tutti i composti che ne
derivino al di là delle specifiche indicazioni di varianti realizzative espressamente
formulate in sede di domanda brevettuale ? Nell’ipotesi che il carattere innovativo
del risultato finale, suscettibile di concreta applicazione, sia individuabile nello
stadio della ricerca, anziché in quello dello sviluppo applicativo in senso stretto, si
dovrà applicare il divieto di brevettare le scoperte ?
132
) L’individuazione di un gene, ad esempio, potrebbe condurre, con tecniche note, alla realizzazione
di varie invenzioni: un test di predisposizione ereditaria ad una malattia, un nuovo farmaco, nuove
tecniche sanitarie. T. Faelli, op. cit., p. 125, osserva che nel settore delle biotecnologie la ricerca di
base viene svolta con l’obiettivo di raccogliere il maggior numero di informazioni possibili intorno ad
un oggetto nella speranza che tali informazioni suggeriscano successivamente concrete applicazioni.
62
Negare, in questi casi, la brevettabilità significherebbe penalizzare l’attività di
ricerca ed i costosi investimenti che essa richiede; emergerebbe una grave
inelasticità ed una vistosa inadeguatezza del paradigma normativo rispetto alla
missiva, propria del sistema brevettuale, di incoraggiare ricerca e sviluppo anche
nelle ipotesi in cui la ricerca rappresenti l’antecedente necessario di successive
applicazioni utili ovvero produca essa stessa, come tale, risultati utili, seppur
intermedi, rispetto alla realizzazione di risultati finali133.
In risposta ai suddetti quesiti, è stata formulata la tesi dell’equilibrio efficiente
che tiene conto, da un lato, dell’esigenza di remunerare gli investimenti dedicati
all’innovazione, dall’altro di stimolare l’innovazione successiva; la finalità è quella
di incentivare gli investimenti dei concorrenti degli innovatori precedenti
salvaguardando la fisionomia concorrenziale del mercato134.
Premesso ciò, si esclude la brevettabilità di quelle ideazioni che presentino un
potenziale applicativo ancora indeterminato e, quindi, non traducibile, con il mero
ausilio di tecniche ordinarie, in specifiche soluzioni applicative135. Se, invece, il
passo in avanti richiesto per tradurre le potenzialità di ricadute di una sostanza in
soluzioni applicative determinate (e determinabili anche dalla destinazione
133
) Se venisse, in queste ipotesi, negato il brevetto apparirebbero giustificati i ricorrenti tentativi di
modificare, ammorbidendolo, l’attuale testo dell’art. 52.2 CBE, che equivale al nostro art. 45 c.p.i.,
per riscriverlo in consonanza con l’art. 27 TRIPs; quest’ultimo non menziona tali esclusioni e la Nota
aggiunta, che fa parte del testo ufficiale dell’Accordo, precisa, con manifesta apertura alla più
estensiva impostazione statunitense, che la idoneità ad avere un’applicazione industriale, sostanziale
discrimen fra ricerca teorica e ricerca applicata, può essere intesa, da uno Stato membro, come (mero)
sinonimo di utile.
134
) La tesi è proposta da G. Ghidini, Profili evolutivi, cit., p. 76.
135
) Ammetterne la brevettabilità, in specie di prodotto, significherebbe “prenotare” tutte le ricadute
applicative della ideazione stessa. I ricercatori e gli investitori, non potendo brevettare la ideazione
che non ha ancora precise ricadute applicative, saranno costretti a proseguire nella ricerca per arrivare,
appunto, alla fase applicativa, innestando un virtuoso effetto-stimolo dell’attività di ricerca-sviluppo.
Il ricercatore che ha seguito il lavoro sin dalle primissime fasi della sperimentazione ha un grande
vantaggio competitivo sotto il profilo della qualità dei risultati finali e dell’anticipazione temporale del
loro conseguimento. G. Guglielmetti, La brevettazione delle scoperte, cit., p. 135, scrive: “Attribuire
allo scopritore di un nuovo principio scientifico astratto un diritto esclusivo su tutte le successive
realizzazioni tecniche che oggettivamente possono essere spiegate come applicazione del principio
scoperto, significherebbe allora garantirgli un compenso che non è normalmente proporzionato al
suo contributo, al corso del progresso tecnico, e anzi un compenso paradossalmente tanto maggiore
quanto più il principio scientifico scoperto è generale e quindi distante da uno scopo pratico. Si
arriverebbe così a elevare a dismisura i costi della ricerca tecnica per finanziare quella scientifica,
solo perché talvolta, e in certi settori, questa può anche favorire ricadute tecniche. Inevitabilmente, si
finirebbe per intralciare la stessa ricerca scientifica”.
63
funzionale) sia alla portata del tecnico medio, le ideazioni saranno brevettabili. Il
brevetto coprirà le varianti nominate nella formula e quelle che, seppur non
espressamente indicate, siano deducibili dalla formula generale con il mero impiego
delle conoscenze del tecnico medio136.
Le invenzioni che, pur migliorando e/o variando le espressioni applicative di una
sostanza brevettata, la utilizzassero, in tutto o in parte, secondo lo stesso approccio
concettuale e funzionale, sarebbero dipendenti dal brevetto sulla sostanza e la loro
attuazione dipenderebbe da una licenza del primo titolare.
Non mancato, tuttavia, posizioni estreme secondo le quali la tutela giuridica deve,
sempre, essere estesa al momento della ricerca di base, assicurando in tal modo
136
) In tale ipotesi, si realizzerebbe un diritto di monopolio circoscritto con precisione; non
sbarrerebbe la strada alle innovazioni successive dei terzi che utilizzassero detta sostanza secondo un
percorso concettuale ed in una prospettiva funzionale radicalmente diversa e distante: G. Ghidini,
Profili evolutivi, cit., p. 76.
64
protezione anche alla fase che precede la specifica applicazione pratica137. La
scoperta o l’invenzione di grande portata che si vuole mettere a disposizione della
collettività, consentendone il libero sfruttamento da parte dei terzi, deve essere
innanzitutto prodotta; senza una normativa che renda convenienti gli ingenti
investimenti che essa richiede, non si produrranno quei beni che si vogliono offrire
allo sfruttamento gratuito. In un tale contesto, detti beni, seppur realizzati,
verrebbero tenuti segreti fino al conseguimento delle invenzioni minori (comunque
più specifiche e di concreta applicazione) alle quali solamente la protezione verrebbe
137
) G. Sena, Brevi note sulla brevettabilità delle scoperte e delle invenzioni biotecnologiche, in Riv.
dir. ind., 2000, p. 364. L’Autore osserva che la dicotomia tra scoperta-applicazione tecnica si presta a
due possibili costruzioni secondo che si ponga attenzione sul momento della scoperta o su quello della
sua applicazione tecnica; in altre parole, rimane da chiedersi se l’oggetto del brevetto consista nella
scoperta che dia immediati risultati industriali o, piuttosto, nella sua applicazione tecnica. A tal
proposito, un importante dibattito si era, anni fa, incentrato sul problema della novità e della attività
inventiva nei risultati della ricerca; secondo una prima tesi, detti requisiti andavano ricercati nella
scoperta e non necessariamente nella sua applicazione pratica che poteva essere immediata e del tutto
ovvia; secondo la tesi opposta, dovevano sussistere con riferimento alla applicazione pratica che
poteva essere brevettabile solo se nuova ed implicante una attività inventiva, non derivando in modo
evidente ed immediato dalla scoperta. La prima tesi è stata accolta dal Tribunale di Milano nella
sentenza dell’11.11.1999. L’impresa Chiron Corporation aveva svolto delle ricerche sull’epatite C
riuscendo ad isolare e decodificare il virus della malattia; dall’operazione di decodificazione,
l’impresa Chiron era riuscita a mettere a punto un Kit immunodiagnostico ottenendo un brevetto
statunitense nel 1987 e, successivamente, un brevetto europeo. Per difendere la privativa in Italia,
l’impresa aveva citato in giudizio per contraffazione la Sorin, la quale eccepiva la nullità del brevetto
sostenendo che il trovato non era brevettabile, non era applicabile industrialmente, mancava di
originalità e di sufficiente descrizione. In sede cautelare, il giudici milanesi avevano ammesso la
brevettabilità dell’individuazione della struttura del virus in quanto scoperta che possiede
un’immediata industrialità quanto alle sue utilizzazioni in analisi immunologiche; inoltre, i magistrati
avevano rilevato che la brevettabilità della scoperta scientifica avente diretta applicabilità industriale
implicava che il requisito dell’attività inventiva doveva essere riferito all’individuazione della
scoperta stessa poiché l’applicazione industriale, nel caso considerato, era per definizione automatica
ovvero tale da richiedere l’utilizzo di dispositivi già noti o alla portata del tecnico medio. I giudici
applicavano quindi l’art. 2585 c.c. secondo cui può costituire oggetto del brevetto anche
l’applicazione tecnica di un principio scientifico purché dia immediati risultati industriali. Secondo
questo orientamento, riaffermato nella sentenza di primo grado, una volta brevettata la cognizione
scientifica a monte (nel caso di specie l’individuazione del virus), purché suscettibile di immediata
applicazione industriale, i requisiti della novità e dell’originalità vanno ricondotti alla ricerca
compiuta per pervenire alla scoperta e non all’attività che ha portato alla sua applicazione industriale
(Kit immunologico). In senso conforme C. Galli, Problemi in materia di invenzioni biotecnologiche e
di organismi geneticamente modificati, in Riv. dir. ind., 2002, p. 398, il quale osserva che un
importante corollario della brevettazione dei risultati della ricerca di base è quello che i requisiti di
validità dell’invenzione vanno valutati in relazione alla scoperta, e non all’applicazione della stessa,
che può essere, di per sé, alla portata di un tecnico del ramo. Si rimanda alla Cass. civ. 29.12.1988 n.
7083, in Riv. dir. ind., 2000, p. 13 con nota di L. Biglia per la nozione di principio scientifico. Ivi si
legge che principio scientifico sta a significare scoperta, teoria scientifica, metodo tecnico o
matematico, da cui possa discendere una immediata applicabilità dal punto di vista industriale intesa
come idoneità a risolvere un problema tecnico.
65
garantita. Se è vero che vi sono scoperte ed invenzioni fondamentali, frutto della
ricerca di base, che possono determinare un insieme di applicazioni tecnologiche a
larghissimo ventaglio, è altrettanto certo che è necessario promuoverne la
produzione, l’accessibilità e la circolazione proprio per favorire lo sviluppo tecnico
che da esse deriva138.
9. La tutela brevettuale del materiale biologico di origine umana ed, in
particolare, delle sequenze di DNA
L’art. 5, commi 1 e 2, della direttiva 98/44/CE dispone che la scoperta di uno
degli elementi del corpo umano, di una sequenza o di una sequenza parziale di un
138
) G. Sena, L’importanza, cit., p. 65, osserva che se si ritiene che il sistema dei brevetti stimoli
l’attività inventiva, la divulgazione e la circolazione delle invenzioni, non vi è alcun motivo per
disapplicarlo proprio nella fase più rilevante della ricerca, costituita appunto dalla ricerca di base. Il
prezzo che la comunità paga alla ricerca sarà evidentemente maggiore quanto più importanti sono i
suoi risultati e l’istituto della esclusiva brevettuale assicura appunto tale equilibrio. Senonché, la
caratteristica delle scoperte ed invenzioni frutto della ricerca di base è costituita dal fatto che da esse
possono derivare numerosissime applicazioni tecniche, eventualmente qualificabili, a loro volta, come
vere e proprie invenzioni e che, anche con riguardo a queste ultime, si ripropongono gli stessi
problemi di promozione e di tutela. Il problema è insomma quello della sequenza di più invenzioni:
parrebbe che, se si tutelano con l’esclusiva brevettuale scoperte ed invenzioni fondamentali, si
disincentiva e addirittura si blocca il successivo sviluppo; se si nega, d’altra parte, la tutela brevettuale
alle prime, si riduce quella spinta, decisiva al progresso tecnologico, che è costituita dalla ricerca di
base. Ma questa alternativa, che costituisce il presupposto implicito della tesi qui criticata, è superata
dall’istituto della licenza, negoziale od obbligatoria. P. Errico, I brevetti sulle invenzioni sulle
biotecnologie fra ricerca pubblica e sviluppo privato. Indicazioni dall’esperienza statunitense, in Riv.
dir. ind., 2009, p. 311, osserva che l’innovazione nel settore delle biotecnologie non si esprime in
grandi progressi rispetto allo stato dell’arte. I risultati brevettabili consistono, tipicamente, in
innovazioni incrementali che possono ben scaturire in un’attività inventiva compiuta con basse
aspettative di successo. L’attività di ricerca in questo settore comporta, per la sua intrinseca
complessità, ingenti investimenti in termini di capitale umano e finanziario e lunghi tempi di
elaborazione ed attuazione. In questo settore, dunque, la promozione dell’attività di ricerca-sviluppo,
tipicamente affidata allo strumento brevettuale, postula che la soglia di “merito” per l’accesso alla
privativa si situi sul piano dei progressi incrementali e non delle c.d. blockbuster inventions. Non solo.
In questa materia appare spesso problematica la netta contrapposizione normativa fra “ricerca pura” e
“ricerca applicata”, sì da rendere particolarmente ardua l’applicazione del divieto di brevettare le
scoperte (artt. 52 CBE e 45 Codice della Proprietà Industriale). Fatta salva la ratio fondamentale del
divieto, vale a dire evitare il rischio di monopolizzazioni di portata potenzialmente indeterminata sulle
elaborazioni scientifiche, è stata avvertita l’esigenza di remunerare adeguatamente quel tipo di ricerca
detta “finalizzata”: ossia di base ma orientata a, e produttiva di risultati che, ancorché non
“industriali”, siano comunque utili; ovvero, ancora, di una ricerca applicata il cui carattere innovativo
si collochi propriamente in acquisizioni scientifiche “a monte”.
66
gene non possono costituire invenzioni brevettabili139; è, invece, brevettabile
l’elemento del corpo umano isolato o diversamente prodotto, mediante un
procedimento tecnico, ivi compresa la sequenza o la sequenza parziale di un gene,
anche se la struttura di detto elemento è identica a quella di un elemento naturale.
Quando ad essere brevettate sono le sequenze geniche, nella relativa domanda
deve essere anche indicata la concreta applicazione industriale dell’invenzione140. La
CE e l’UEB offrono spiegazioni differenti sulla consistenza di tale indicazione.
Secondo il considerando 24 della Direttiva 98/44/CE “affinché sia rispettato il
criterio dell’applicazione industriale, occorre precisare, in caso di sequenza di un
gene o di sequenza parziale di un gene utilizzata per produrre una proteina o una
proteina parziale, quale sia la proteina o la proteina parziale prodotta o quale
funzione essa assolva”.
139
) La Convenzione di Oviedo, trattando del divieto di profitto all’art. 21 così recita: “il corpo umano
e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonti di profitto”.
140
) Le sequenze di DNA sono generalmente distinte in “geni, “sequenze parziali di geni”, “ESTs” e
“SNPs”. I geni sono tratti distinti (presentano un segnale di inizio e uno di fine) dell’intera sequenza di
DNA disposta in doppia elica contenuta nei cromosomi di un organismo. I geni contengono le
istruzioni per la sintesi di proteine complete; ogni gene “codifica” una particolare proteina. Le
sequenze parziali dei geni sono tratti di DNA; sono utili a codificare, per esempio, parti di proteine
individuate (come il nucleo attivo di una sostanza). L’ottenimento di parti di proteine opportunamente
selezionate può rendere disponibili sostanze con proprietà dieci o venti volte superiori rispetto a quelle
reperibili allo stato naturale. Gli ESTs, expressed sequence tags, sono invece brevi sequenze di DNA
utilizzate per individuare sequenze di geni che ancora non si conoscono. Poiché gli ESTs inducono le
sequenze ricercate ad evidenziarsi, la loro funzione viene definita di “marker”. Gli SNPs, single
nucleotide polimorphism, sono brevi tratti di DNA introdotti in più ampie sequenze geniche in modo
che queste ultime codifichino proteine diverse rispetto a quelle naturali (o comunque già nello stato
della tecnica) ovvero con nuove proprietà. In ultima analisi, dunque, la sequenza genica può avere
prevalentemente due funzioni: quella di decodificare una proteina oppure essere utilizzata come
marker di geni. In questo secondo caso, le sequenze geniche hanno un ruolo essenziale sia per la
ricerca di base (es. il compimento di esperimenti di laboratorio) sia per quella applicata (es.
predisposizioni di farmaci). La decodificazione di frammenti e di sequenze di geni ha un ruolo
conoscitivo enorme; negli anni novanta veniva lanciato il progetto “genoma umano” sostanzialmente
esaurito alle soglie del 2000 con la mappatura dell’intero DNA dell’uomo. In questo settore, le prime
domande di brevetto risalgono al 1991 quanto il National Institute of Health (NIH) depositava avanti
al Patent Office USA una serie di domande di brevetto per varie sequenze di geni dell’uomo, di
funzione ancora ignota, decodificate da Venter. Il deposito veniva immediatamente accompagnato da
commenti e reazioni negative. Lo stesso Governo USA, taluni governi europei e molti scienziati,
manifestavano la propria contrarietà. Il Patent Office rifiutò il brevetto; la decisione non veniva
reclamata.
67
La nota alla regola 23e CBE dispone, invece, che quando le sequenze e le
sequenze parziali di un gene sono l’oggetto di un’invenzione “è necessario indicare
in particolare quale funzione è svolta dalla sequenza e dalla proteina da essa
codificata”. Diversamente dalla Direttiva 98/44/CE, il Regolamento pone dunque
sull’inventore l’ulteriore onere d’indicare, nella domanda di brevetto per un gene, la
funzione sia del gene (l’indicazione della proteina codificata) che della proteina
codificata (e non rivendicata).
Posto che l’indicazione della funzione del gene è soddisfatta dall’indicazione
della proteina codificata, e ciò attraverso il nome della proteina (qualora questa sia
già nota) oppure attraverso la descrizione della struttura della proteina, la dottrina ha
cercato di capire in quali termini debba essere indicata dall’inventore del gene la
funzione della proteina codificata o, meglio, con quale grado di concretezza141, e se
il sistema brevettuale possa garantire una privativa sui risultati degli stadi intermedi,
la cui utilità è, cioè, solo per gli stadi successivi142.
La CE e l’UEB, prescrivendo l’onere di indicare la concreta applicazione
industriale delle sequenze di DNA che s’intendono brevettare143, si preoccupano di
assicurare la possibilità che le ricerche di primo grado siano ulteriormente
sviluppate, rendendo accessibile la brevettazione solo all’inventore che indichi, con
una certa precisione, la direzione nella quale concentrare le ricerche ulteriori.
141
) T. Faelli, La tutela delle invenzioni biotecnologiche in Europa: prime valutazioni d’insieme, in
Riv. dir. ind., 2001, p. 125, osserva, a tal proposito, che le conoscenze sulla funzione (o le funzioni) di
una proteina possono giungere ad un ragionevole grado di certezza anche molto tempo dopo la sintesi
della proteina stessa.
142
) Nel campo delle biotecnologie è, infatti, frequente che vengano svolte ricerche finalizzate ad
ottenere risultati precisi (come la sintesi di una data proteina) la cui utilità è però incerta (la funzione
della proteina). In questi casi, il ricercatore confida che, una volta resa disponibile la proteina, uno
studio specifico su di essa ne evidenzi le proprietà ed uno studio specifico di queste ultime renda
possibile la realizzazione di un prodotto con una qualche utilità. Fino a quest’ultimo stadio, la
collettività non trae nessun beneficio concreto dall’attività di ricerca.
143
) Rispettivamente con l’art. 5, comma 3, Direttiva 98/44/CE e art. 23e CBE.
68
L’onere di descrivere la funzione della proteina sintetizzata da un gene, quando
oggetto del brevetto è il gene, assolve dunque la funzione di permettere la
prosecuzione della ricerca in una determinata direzione e nulla più. Da tale
indicazione non ci si può aspettare che essa conduca il tecnico del settore alla
realizzazione del prodotto finale (cioè di un prodotto che utilizza le proprietà della
proteina) in quanto ciò esula da quanto rivendicato144.
Non si pone, conseguentemente, alcun problema ai sensi dell’art. 83 CBE, per il
quale la descrizione brevettuale deve essere sufficientemente precisa ovvero tale da
porre l’esperto del ramo in grado di attuare l’invenzione; quest’ultima riguarda
infatti solo il gene e non la proteina o il suo utilizzo145. In altre parole, se per
brevettare una sequenza di DNA come strumento per produrre una proteina è
necessario indicare la
funzione di tale proteina, non è altrettanto necessario
144
) La tesi è di T. Faelli, op. cit., p. 126.
) T. Faelli, op. cit., p. 127, il quale ritiene che il brevetto biotecnologico sul gene riguarda solo il
gene in sé, mentre la proteina è coperta da autonomo brevetto chimico.
145
69
descriverne l’utilizzo146. Diversamente, se si pretendesse una descrizione della
proteina come se proprio questa fosse oggetto di privativa, verrebbe meno il
146
) In tal senso T. Faelli, op. cit., p. 128. L’Autore, a supporto della tesi, illustra numerosi
orientamenti giurisprudenziali a partire da quelli formatisi oltre oceano. Nel 1966 la Corte Suprema
statunitense stabiliva, nel caso Brenner v. Manson, che le invenzioni brevettabili devono possedere
una “utilità pratica” dalla quale sono esclusi prodotti e procedimenti impiegabili solamente come
strumenti di ricerca (per le ricerche di stadio successivo). Successivamente, nel 1985 la Corte
Suprema nel caso Cross v. Iizuka sanciva che l’utilità di un’invenzione può essere dimostrata anche in
via indiziaria, attraverso una serie di dati concordanti che la rendano almeno probabile. Nel 1995 il
Federal Circuit, nel caso Brana, affermava che l’utilità pratica delle invenzioni farmaceutiche è
soddisfatta dalla descrizione di un’utilità in vitro (vale a dire “in provetta”, sulla base dei soli
esperimenti di laboratorio) purché non sia evidente l’impossibilità di un’utilità in vivo (direttamente
sull’organismo destinatario, sulla base dei test clinici). La Corte sottolineava anche che la prova di una
concreta utilità in vivo non può essere richiesta nella domanda di brevetto, dato che essa può
raggiungersi, almeno per i farmaci, solo dopo l’esame da parte della FDA (l’ente statunitense preposto
al rilascio delle autorizzazioni al commercio anche dei farmaci). Tale esame, perché il sistema
brevettuale sia ancora di incentivo alla ricerca, deve necessariamente avvenire dopo la brevettazione
dell’invenzione (la sperimentazione clinica rischierebbe tra l’altro di divulgare l’invenzione
privandola della novità); secondo la Corte, dunque, l’utilità nel diritto brevettuale, e in particolare nel
campo delle invenzioni farmaceutiche, include necessariamente la possibilità di ulteriori ricerche e
sviluppo. A parere dell’Autore, con questi due ultimi casi è stato introdotto il concetto di “credibilità”
dei risultati pratici; in altre parole il rigore del requisito di utilità pratica dell’invenzione è stato
attenuato, risultando necessaria una puntuale indicazione di un’utilità almeno sperimentale
dell’invenzione ed essendo sufficiente che l’utilità pratica vera e propria non sia a priori esclusa sulla
base delle conoscenze dello stato della tecnica. Di un gene quindi, osserva l’Autore, deve senz’altro
essere indicata la proteina codificata, oltre alla “credibile” utilità di tale proteina. La credibilità
dell’utilità della nuova proteina può anche essere dimostrata in via presuntiva, facendo richiamo, nella
domanda di brevetto, alla già nota utilità di una proteina che l’inventore giudica essere almeno in parte
simile alla propria. In Europa l’UEB ha avuto modo di pronunciarsi su questo argomento in alcuni
casi, dall’esame dei quali si evince che pure l’ufficio europeo pare non ritenere necessaria, nella
domanda di brevetto per un gene, la descrizione precisa della funzione della proteina codificata dal
gene. Nel caso T 301/87, deciso il 16 febbraio 1989, l’UEB accoglieva l’appello contro la decisione
della propria Divisione di opposizione che aveva revocato, per difetto di chiarezza delle rivendicazioni
e insufficienza della descrizione, un brevetto in cui la rivendicazione principale verteva su una
sequenza di DNA che codificava un polipeptide [una proteina] del tipo IFN-alfa [interferone alfa].
L’UEB aveva ritenuto che, a fronte della rivendicazione di una sequenza di DNA, non era necessario
descrivere anche il modo in cui la proteina operava come interferone (nella descrizione brevettuale vi
era solamente un generico richiamo alle proprietà immunologiche e antivirali dell’interferone alfa).
Una decisione ancora più chiara sull’argomento veniva presa il 16 giugno 1994 nel caso T 886/91. Nel
brevetto controverso, la Biogen rivendicava alcuni tratti genici che codificavano polipeptidi con
funzione HBV antigenica. La critica mossa al brevetto in sede di appello era la mancanza del requisito
di applicabilità industriale ai sensi dell’art. 57 CBE perché non c’era nessuna indicazione concreta
circa la HBV antigenicità di cui era fatto riferimento. In altre parole, gli opponenti al brevetto
sostenevano che fosse troppo generica, nelle rivendicazioni relative ai geni, l’indicazione della
funzione dei polipeptidi codificati da tali geni. L’UEB accoglieva il motivo d’appello, giudicando
sufficiente quanto contenuto nella descrizione del brevetto, vale a dire che i polipeptidi ottenuti erano
genericamente utili come antigeni nel campo della diagnosi e della cura dell’epatite B. Questo,
secondo l’Autore, può essere considerato un esempio del livello di specificità richiesto dall’UEB
nell’indicazione della funzione della proteina codificata dal gene brevettato. Tra l’altro nel brevetto
Biogen erano autonomamente rivendicati anche i polipeptidi ottenuti: in un brevetto che si limiti
invece a rivendicare i geni, la funzione dei polipeptidi codificati da tali geni può forse essere indicata
70
significato delle norme sulla brevettazione delle biotecnologie che ammettono la
tutela di invenzioni aventi ad oggetto un prodotto consistente in materiale biologico
o che lo contiene.
in maniera ancora meno precisa. Diversamente dalle precedenti decisioni, nel caso T 923/92, definita
l’8 novembre 1995, l’UEB ha invece affermato: “Una rivendicazione di un procedimento che
comprende la preparazione di una proteina che svolge funzione di attivatore del plasminogeno di
tessuto umano (t-PA), senza ulteriore indicazione di quale sia tra le molte funzioni del t-PA umano
quella cui è fatto riferimento, non è ammissibile ai sensi degli articoli 83 e 84 CBE [sufficienza della
descrizione, chiarezza e fondatezza delle rivendicazioni]”. In questo caso l’UEB ha adottato un
criterio per la valutazione della concretezza dell’indicazione della funzione della proteina codificata
dal gene solo apparentemente più severo rispetto ai casi precedenti. Infatti nel caso in esame l’UEB ha
contestato semplicemente il fatto che, tra le molte possibili funzioni del t-PA umano, nessuna era stata
indicata. Questa motivazione è coerente con il principio per cui i risultati della ricerca di base possono
essere brevettati a patto che l’inventore indichi la direzione nella quale la ricerca deve proseguire. Nel
caso in esame l’UEB, sottolineando l’elevato numero di possibili funzioni del t-PA, pare avere
rilevato proprio il mancato assolvimento di questo onere. Diversamente M. Ricolfi, op. cit., p. 5, il
quale osserva che, specie dopo le innovazioni introdotte dalla Direttiva 98/44/CE, incorporate nel
diritto dei brevetti della CBE, la funzione di una sequenza di DNA deve essere prevista e descritta in
modo attendibile e, soprattutto, riferendosi ad usi che non siano speculativi ma sostanziali, specifici e
credibili. L’Autore cita, a tal proposito, la decisione della Divisione di opposizione dell’EPO del 20
giugno 2001, caso ICOS/Smith & Kline Beecham e Duphar International Research, che, relativamente
al considerando 24 della Direttiva 98/44/CE, precisa che la norma deve essera intesa nel senso della
necessità di indicare nella domanda di brevetto anche l’utilità, e non solo la struttura, dalla proteina
codificata dalla sequenza. V. Di Cataldo, E. Arezzo, Scope of the patent and uses of the product in the
European biotechnology directive, in G. Ghidini, G. Cavani (a cura di), Brevetti, cit., p. 78, sono
dell’idea che non possa essere oggetto di brevetto il gene in quanto tale (la cui idoneità a costituire la
base di partenza genetica per la codificazione di una proteina è un fatto scientifico oramai accertato)
ma soltanto il risultato del processo che dal DNA porta alla definizione di uno specifico mRNA,
capace di codificare una (e una soltanto) data proteina. Solo in tal caso si ha una coincidenza tra
contenuto informativo e sua concreta applicazione industriale. Sull’argomento G. Guglielmetti, Il
decreto di recepimento, cit., p. 142, osserva che, in via generale, la brevettabilità dovrebbe essere
ammessa ogni volta che possa essere indicata una qualsiasi funzione industrialmente utile, anche
diversa dalla produzione di proteine o parti di proteine (es. una sonda nucleica con finalità di diagnosi
di una particolare malattia genetica).
71
Ciò posto, ne consegue che sono brevettabili anche le sequenze di DNA utili a
mettere a punto applicazioni per ricerche successive147.
In materia, è stato poi sostenuto che qualora l’applicazione venga descritta nella
domanda piuttosto che nelle rivendicazioni la tutela delle sequenze sarebbe
assoluta148; in senso contrario, è stato rilevato che il brevetto deve coprire non la
147
) T. Faelli, La tutela, cit., p. 128. L’Autore rileva che questo atteggiamento di favore verso la tutela
dei vari stadi della ricerca è, tra l’altro, coerente col basso grado di originalità richiesto dall’UEB per
la concessione di un brevetto. Se infatti il livello di originalità dell’invenzione richiesto dall’UEB
fosse particolarmente alto, questo potrebbe essere raggiunto solamente sulla base del cumulo dei
risultati di ricerche di più stadi successivi, risultando così vanificato il tentativo di incentivare la
ricerca di base attraverso la sua pronta brevettazione. Il basso grado di originalità richiesto dall’UEB è
testimoniato dal fatto che, nel giudizio sull’originalità dell’invenzione, l’ufficio ricostruisce l’esperto
del ramo come un tecnico totalmente privo di inventiva o immaginazione. Nel caso Genentech
Interferone gamma T 223/92 del 1992, l’esperto del settore è stato indicato come “colui che ha la
conoscenza di una squadra di esperti, ma la capacità di iniziativa di un tecnico, senza immaginazione
inventiva e con la capacità di attuare solo metodiche già sperimentate”. Questa definizione era già
stata proposta dall’UEB con la decisione T 455/91, decisione nella quale si poteva leggere che
“l’esperto del ramo di media preparazione si presume essere una persona che ragiona lungo le linee di
una convenzionale conoscenza del ramo e che non intraprende alcuna attività di innovazione” (cfr.
inoltre T 422/93, T 666/89, T 32/81, N DE01/91). È dunque possibile affermare, conclude l’Autore,
che ad ogni brevetto biotecnologico (quello che si arresta al tratto genico con l’indicazione “credibile”
della funzione della proteina sintetizzata) seguono brevetti frutto di ulteriori ricerche che conducono
alla realizzazione di prodotti pronti per l’uso (come i farmaci); anche in Europa, dunque, pare
configurarsi un sistema di brevettazione per stadi della ricerca. Per approfondire l’argomento si
rimanda infra par. 10.
148
) G. Guglielmetti, Tra tutela assoluta e relative del brevetto sul nuovo composto chimico,
originalità dell’invenzione, dinamiche della ricerca, in Studi in onore di A. Vanzetti, Milano, 2004, p.
768.
72
sequenza genica in sé bensì la sola applicazione pratica che il richiedente abbia
esplicitamente individuato149.
Le problematiche sino ad ora esposte, sono state affrontate anche dal Parlamento
europeo nella risoluzione adottata il 26 ottobre 2005, concernente i brevetti relativi
alle invenzioni biotecnologiche150, nella quale rileva: “la direttiva consente di
brevettare il DNA umano solo in relazione ad una funzione, ma ... non è chiaro se il
campo di applicazione del brevetto si limiti solo a detta funzione o se possa
estendersi ad altre funzioni … la questione da esaminare è quella di stabilire se i
brevetti di sequenze genetiche ... debbano essere autorizzati secondo il modello
149
) In tal senso M. Ricolfi, La brevettazione delle invenzioni relative agli organismi geneticamente
modificati, in Riv. dir. ind., 2003, p. 7. T. Faelli, op. cit., p. 128 è dell’avviso che la questione non
abbia rilevanza nel settore e, a tal proposito, scrive: “I geni a differenza delle proteine hanno come
unica funzione la sintesi di una precisa proteina, risultando irrilevante chiedersi se la tutela
brevettuale sia limitata all’unica funzione possibile. Anche le sequenze di DNA brevettate come
elemento di modifica destinato a essere inserito in un gene (SNPs), o come marker al fine di risalire
al gene che codifica una certa proteina (ESTs), pare possano svolgere solamente la funzione per la
quale sono state selezionate. Il caso in cui una stessa sequenza parziale possa fungere da marker per
un gene e da modifica inventiva per un altro (così che l’indicazione nella domanda di brevetto di una
delle due funzioni lasci «libera» l’altra) pare prima facie di dubbia credibilità. In generale, dunque,
poiché le sequenze di DNA vengono selezionate in virtù della funzione che si desidera far loro
svolgere, diviene irrilevante il problema del «nuovo uso» di una sequenza di DNA e dei suoi rapporti
con i precedenti usi. In senso contrario non pare possano essere invocati gli artt. 8 e 9 della direttiva
che prevedono l’estensione della tutela brevettuale al materiale biologico riprodotto o incorporante
la sequenza solo quando la sequenza di DNA svolge la «propria» funzione. Questa condizione, infatti,
non è dettata per l’ipotesi in cui la sequenza di DNA svolga nel nuovo materiale biologico una
funzione «diversa», ma per l’ipotesi in cui la sequenza di DNA non svolga alcuna funzione perché
«inattiva». Questa interpretazione muove da considerazioni di ordine tecnico. Tutte le cellule
contengono infatti l’intero patrimonio genetico dell’organismo, nonostante siano adibite a funzioni
particolari. Così le cellule del fegato contengono anche le istruzioni per «funzionare» come cellule
polmonari; la differenziazione delle funzioni delle cellule (caratteristica di tutti gli organismi ad
eccezione di quelli unicellulari) avviene attraverso un sistema di attivazione/disattivazione dei geni
interessati. La precisazione degli artt. 8 e 9 della direttiva sull’effettivo svolgimento della funzione
propria della sequenza mira dunque a evitare che un materiale biologico (ad es. un organismo) sia
colpito dalla protezione brevettuale attribuita a una sequenza di DNA nei casi in cui tale sequenza sia
presente nel materiale biologico in via meramente incidentale, rimanendo inattiva. Resta ora da
capire se neppure l’indicazione della funzione della proteina codificata dal gene brevettato, richiesta
sempre dalla regola 23 e CBE, limiti in qualche misura la protezione brevettuale della sequenza di
DNA. A questo proposito occorre tenere presente che, come sopra accennato, la proteina (la cui
multifunzionalità non è un’ipotesi scolastica ma è una caratteristica naturale) è estranea alla tutela
conferita dal brevetto biotecnologico di prodotto (che ha ad oggetto una sequenza di DNA). Risulta
così fuorviante chiedersi se l’indicazione della sua funzione possa limitare una tutela che, almeno
direttamente, non la riguarda. L’indicazione della funzione della proteina codificata, col grado di
precisione e nei termini sopra descritti, ha infatti la sola funzione di individuare la soglia minima di
conoscenza attorno alle sequenze di DNA perché queste possano essere brevettate”.
150
) La risoluzione è stata pubblicata sulla Guce n. C272E del 9 dicembre 2006, p. 440.
73
classico della richiesta di brevetto, in virtù del quale il primo inventore può
rivendicare un’invenzione che copre possibili impieghi futuri di tale sequenza, o se
il brevetto vada ristretto in modo che possa essere rivendicato unicamente l’uso
dichiarato nella richiesta di brevetto (tutela basata sugli scopi)”. Riferendosi, in
particolare, alla privativa concessa dall’Ufficio europeo dei brevetti relativamente ai
metodi per la selezione di cellule germinali umane, il Parlamento ha invitato tale
Ufficio a “concedere brevetti sul DNA umano solo in presenza di un’applicazione
concreta e limitando il brevetto d’invenzione a tale applicazione, in modo che altri
utilizzatori possano utilizzare e brevettare la stessa sequenza di DNA per altre
applicazioni (tutela basata sugli scopi)”; dopo aver ricordato che “nessuna
considerazione relativa alla ricerca può scavalcare quella della dignità della vita
umana”, il Parlamento ha invitato la Commissione a studiare se l’interpretazione
della direttiva fondata sulla c.d. tutela di scopo possa essere perseguita per mezzo di
una raccomandazione agli Stati membri o se sia necessario apportare un
emendamento all’art. 5 della direttiva medesima151.
151
) Pur con esclusivo riferimento alle biotecnologie vegetali, la questione è stata espressamente
affrontata anche dalla Corte di giustizia con la sentenza del 6 luglio 2010, causa C-428/08, Monsanto
c. Cefetra et Al. (in Raccolta, 2010, p. I-6765 e ss). Con detta pronuncia, la Corte sembra accogliere la
tesi della c.d. tutela di scopo (cfr. i punti 33-50), che era stata sostenuta, molto più incisivamente,
dall’Avvocato generale nelle conclusioni presentate il 6 marzo 2010 (cfr. i punti 21-41). Secondo
l’Avvocato generale, infatti, “la grande importanza riconosciuta dalla direttiva alla funzione che una
sequenza genetica svolge è finalizzata, naturalmente, a permettere una distinzione tra la “scoperta” e
la “invenzione”. L’individuazione di una sequenza genetica senza che ne sia indicata una funzione
costituisce una semplice scoperta, in quanto tale non brevettabile. Viceversa, è l’indicazione di una
funzione che la sequenza svolge a trasformare la stessa in un’invenzione, la quale può dunque godere
della protezione del brevetto. Ora, l’interpretazione secondo la quale una sequenza genetica godrebbe
della protezione brevettuale “classica”, estesa cioè a tutte le possibili funzioni della sequenza stessa,
anche a quelle non conosciute al momento della richiesta di brevetto, significherebbe riconoscere un
brevetto per funzioni ancora ignote nel momento in cui lo stesso è stato richiesto. In altri termini,
basterebbe chiedere un brevetto per una singola funzione di una sequenza genetica per ottenere una
protezione per tutte le altre possibili funzioni della sequenza stessa. A mio avviso, tale interpretazione
finirebbe per consentire, in pratica, la brevettabilità di una semplice scoperta, in contrasto con i
principi di base in materia di brevetti” (cfr. il punto 31 delle conclusioni).
74
Sul tema in esame, il legislatore italiano ha assunto un atteggiamento di maggior
rigidità. Ha infatti prescritto l’obbligo, per chi intenda percorrere la strada della
brevettazione del materiale biologico umano, di indicare e descrivere concretamente
nonché di rivendicare specificatamente nella domanda di brevetto la relativa
funzione ed applicazione industriale152. La ratio della norma è quella di escludere, in
radice, il rischio che accedano all’area della brevettabilità delle ideazioni che non
rivelino immediate possibilità applicative e la cui sottrazione al pubblico dominio
determinerebbe, a fronte di indeterminate ed indeterminabili conseguenze
monopolistiche sul fronte dell’applicazione industriale, un impoverimento della
conoscenza che si alimenta e rinnova con il continuo contributo dei ricercatori sul
fronte della ricerca di base153.
152
) Cfr. art. 81 quinques, comma 1 lett. c), c.p.i. nel quale si legge che non può essere brevettata:
“Una semplice sequenza di DNA, una sequenza parziale di un gene, utilizzata per produrre una
proteina o una proteina parziale, salvo che venga fornita l'indicazione e la descrizione di una funzione
utile alla valutazione del requisito dell'applicazione industriale e che la funzione corrispondente sia
specificatamente rivendicata”. Quella contenuta nell’art. 81 quinques c.p.i. è una specifica che
attribuisce alla norma un valore astringente assai forte; ciò diversamente dalla Direttiva comunitaria
che si limita a prevedere la semplice descrizione dell’applicazione industriale, e non anche la
rivendicazione, relativamente, peraltro, alle sole sequenze di DNA o sequenze parziali di DNA e non
anche a qualsiasi indiscriminato elemento del corpo umano: V. Falce, Sulla tutela dell’innovazione dei
“nuovi” settori della tecnica con particolare riguardo alle invenzioni biotecnologiche. Primi appunti
sul contributo dell’analisi economica, in G. Ghidini, G. Cavani (a cura di), Brevetti e Biotecnologie,
Roma, 2008, p. 125. C. Germinario, L’attuazione della Direttiva n. 98/44/CE in materia di protezione
giuridica delle invenzioni biotecnologiche, in Dir. Ind., 2006, p. 315, ritiene che il concetto di
funzione utile alla valutazione dell’applicazione industriale di una sequenza nucleotidica non deve
essere interpretato in maniera restrittiva. Benché la funzione inerente ad una sequenza nucleotidica sia
quella di esprimere, cioè produrre, una proteina o di esprimere una funzione di controllo, sequenze o
frammenti di DNA anche silenti possono pur tuttavia avere applicazioni importanti che ne
giustifichino la brevettabilità.
153
) Rischio che appare tanto più grave ove si consideri che l’estensione del raggio della disciplina
brevettuale anche alle ideazioni di carattere e portata generale avrebbe l’effetto di abbracciare
necessariamente tutti i possibili impieghi e, quindi, di impedire lo sfruttamento delle possibili
applicazioni pratiche di quel medesimo principio che il titolare del brevetto non riuscisse ad
individuare (in quanto indeterminate o non immediatamente percepibili al tempo della brevettazione)
ovvero non avesse intenzione di trasformare in innovazioni da immettere sul mercato.
75
La legge nazionale, ancorando al testo delle rivendicazioni la concreta e specifica
indicazione delle funzioni e dell’applicazione industriale dell’elemento isolato, e,
ancor più, disponendo la brevettabilità di qualsiasi applicazione nuova di un
materiale biologico o di un procedimento tecnico già brevettato, fornisce
un’indicazione ulteriore circa l’estensione della privativa. In particolare, sembra
accreditare l’impostazione secondo cui alle invenzioni biotecnologiche si darebbe
una protezione non assoluta ma limitata all’uso indicato, e rivendicato,
dall’inventore154.
10. La brevettabilità degli strumenti di ricerca: il caso delle sequenze ESTs.
Tra le sequenze di DNA, le ESTs ricoprono una posizione particolare in quanto
non sono idonee a codificare una proteina155; vengono normalmente impiegate per
individuare sequenze complete di geni, utili, a loro volta, a codificare una
determinata proteina, per valutare l’espressione di un gene, per capire la fisiologia di
un organismo in contesti ed in tessuti diversi, per assolvere funzioni diagnostiche156.
Stante le predette caratteristiche, si discute se nelle sequenze ESTs siano presenti,
o meno, i requisiti della utilità e della industrialità.
Parte della dottrina tende ad escludere la ricorrenza di detti requisiti trattandosi di
sequenze che vengono impiegate, solitamente, per svolgere ricerche ulteriori157.
154
) V. Falce, La tutela, cit., p. 126.
) Una sequenza ESTs, Expressed Sequence Tags, letteralmente “etichetta di sequenza espressa”, è
una porzione di un cDNA (DNA complementare) sintetizzato in laboratorio partendo dall’mRNA
messaggero.
156
) T. Faelli, op. cit., p. 126, ritiene che l’onere dell’indicazione volta a specificare la concreta
applicazione industriale dell’invenzione non deve essere assolto quando una sequenza di DNA è
utilizzata come marker (es. gli ESTs) piuttosto che per produrre una proteina, completa o parziale; in
questo caso, infatti, l’indicazione della concreta applicazione industriale della sequenza consisterebbe
semplicemente nell’indicazione del materiale biologico evidenziato dal marker. La conclusione trova
conferma, secondo l’Autore, nel considerando 24 della Direttiva 98/44/CE che prevede l’onere della
indicazione relativa alla proteina solo nel caso in cui la sequenza di DNA sia brevettata per la
produzione della proteina stessa (ciò che non avviene nel caso degli ESTs).
157) M. Ricolfi, op. cit., p. 5.
155
76
Di contro, è stato osservato che, se pare potersi escludere una qualche utilità delle
sequenze prive di applicazioni specifiche, più sfumati devono considerarsi i casi nei
quali le ESTs svolgano una funzione particolare, permettendo, ad esempio, la ricerca
di un gene necessario alla produzione di una proteina determinata, oppure assolvano
una funzione diagnostica per una malattia già individuata158. In tali fattispecie
appare più difficile escludere, a priori, l’esistenza di un’immediata utilità di ricerca
sfruttabile industrialmente159.
Le problematiche relative alla brevettazione delle sequenze ESTs rappresentano
un esempio del dilemma che attiene alla scelta della metodologia preferibile al fine
di predisporre meccanismi di accesso alla conoscenza compatibili con i necessari
incentivi all’innovazione160.
La dottrina intervenuta sull’argomento ha prospettato alcune possibili soluzioni.
È stata, innanzitutto, sostenuta la necessità di escludere la brevettabilità delle
sequenze ESTs attraverso una previsione legislativa che avrebbe come principale
conseguenza quella di relegarle al pubblico dominio161.
Una simile soluzione, pur avendo il pregio di restituire la conoscenza di base al
pubblico dominio, richiederebbe la dimostrazione che l’esclusione della tutela
brevettuale sia, in ogni caso, un modello da preferire ad altri. Una tale conclusione è,
tuttavia, indimostrata non esistendo sufficienti dati empirici per provarlo; trattandosi
di scelte di interesse generale, incontra poi i tipici limiti del modello di previsione
legislativa ex ante ed unilaterale non sempre da preferire a quello basato su
bilanciamenti ex post e decentrati quali quelli, per esempio, operati tradizionalmente
dal giudice162.
158) G. Guglielmetti, Tra tutela assoluta, cit., p. 769.
159
) A. Ottolia, op. cit., p. 458.
160
) Tali problematiche verranno approfondite nel Capitolo IV.
161) Di questo avviso sono Rebecca Eisenberg & Arti Rai, The Public and the Private in
Biopharmaceutical Research, 2003, consultabile sul sito www.law.duke.edu/papers/raieisen.pdf.
162
) Tale perplessità è fatta propria da Lemley e Burk, che criticano l’idea di una abolizione di
property rights a favore del controllo governativo sulle invenzioni sostenute dal finanziamento
pubblico, in Lemley, Burk Biotechnology’s Uncertainty Principle, 2002, UC Berkeley Public Law
Research Paper No. 125; Minnesota Public Law Research Paper No. 03-4.
77
Altre ipotesi, si muovono invece all’interno di un modello in cui coesistono la
privativa brevettuale con un meccanismo di accesso al trovato da parte di terzi;
l’idea è quella di introdurre una clausola generale che consenta l’uso legittimo di
taluni trovati biotecnologici in caso di “utilizzo ragionevole”163. Questa soluzione è
ipotizzata da studiosi nordamericani164 anche in virtù della familiarità che la dottrina
nutre, in generale, nei confronti delle limitazioni alle privative industriali basate su
clausole generali165. Il modello consente un uso ragionevole del trovato da parte dei
terzi ed affida al giudice il bilanciamento fra gli interessi di quest’ultimi e quelli
dell’inventore; si tratta di un modello non privo di utilità in un’ottica di
frammentazione dei soggetti preposti al perseguimento dell’interesse generale, in
previsione anche di una specializzazione della classe dei magistrati nel sistema
comunitario, in particolare italiano166.
L’introduzione di un simile meccanismo dovrebbe, tuttavia, tener conto della
biforcazione esistente, per quanto attiene al ruolo del potere giudiziario, tra
ordinamenti di civil law e common law, sicché appare difficile immaginare che una
simile soluzione possa essere agevolmente importata in ordinamenti dell’Europa
continentale167.
163
) Cfr. O’Rourke, Toward a Doctrine of Fair Use in Patent Law, in Colum. Law Rev., 2000, p. 1177.
) Si veda Gitter, International Conflicts Over Patenting Human DNA Sequences in the United States
and the European Union: An Argument for Compulsory Licensing and a Fair-Use Exemption, in
N.Y.U. L. Rev., 2001, 76, p. 1623. Si veda inoltre, per un’altra soluzione interna alla privativa
brevettuale ma de iure condendo Holman & Munzer, Intellectual Property Rights in Genes and Gene
Fragments: A Registration Solution for Expressed Sequence Tags, in Iowa L. Rev., 2000, 85, p. 735.
165
) Ciò accade, nel diverso contesto della disciplina del copyright, con la clausola del fair use. Il fair
use (17 U.S.C. 107) è stato descritto come l’istituto più problematico nell’intera disciplina del diritto
d’autore (così il giudice Hand nella causa Dellar v. Samuel Goldwyn, Inc., 104 F. 2d 661, 2d Cir.
1939). In tema di ruolo creativo di questa clausola generale nella disciplina del copyright statunitense
si veda Posner, When is Parody fair use? in J. Legal Stud., 1992, 21, 67 ss.; Merges, Are you making
fun of me?: notes on market failure and the Parody defense in Copyright, in AIPLA Q. J., 1993, 21,
305 e ss. Per i rapporti tra fair use e misure tecniche di protezione si veda Burk & Cohen, Fair Use
Infrastructure for Digital Rights Management Systems, in Harv. J. Law & Tech, 2001, 15, p. 44.
166
) Così A. Ottolia , op. cit., p. 458.
167
) A. Ottolia, op. cit., p. 459.
164
78
Un’ulteriore tesi è quella di impiegare licenze obbligatorie di dipendenza168.
Nell’ordinamento italiano, l’istituto consente al titolare di un’invenzione dipendente
di ottenere una licenza non esclusiva dal titolare dell’invenzione principale; le
condizioni sono che l’invenzione dipendente comporti un progresso tecnico
considerevole, che la licenza sia necessaria per la sua attuazione, che sia corrisposta
una congrua royalty e che sia concessa, specularmente, una licenza al titolare del
brevetto principale169. L’impatto di questo istituto nel contesto biotecnologico è,
tuttavia, limitato per due ordini di motivi. In primo luogo, l’istituto della licenza
obbligatoria, presupponendo l’esistenza di un brevetto (dipendente), è applicabile ai
soli casi in cui il prodotto biotecnologico renda necessaria la violazione di un
brevetto altrui (riducendo i costi di transazione orizzontali): essa non è, pertanto,
applicabile alla fattispecie più problematica del brevetto delle sequenze ESTs. In
secondo luogo, sussistono, anche in questo campo, limiti strutturali dell’istituto che
ne rendono generalmente difficile l’applicazione; tra questi, la complessità del
procedimento, l’indeterminatezza delle condizioni richieste e l’aleatorietà della
individuazione del canone170.
168
) In favore di un meccanismo di licenza obbligatoria è G. Sena, L’importanza della protezione
giuridica delle invenzioni biotecnologiche, cit., p. 65.
169
) Si vedano gli art. 71 c.p.i. sulla licenza obbligatoria per brevetto dipendente, l’art. 47 della
Convenzione sul Brevetto Europeo, l’art. 32 TRIPS, l’art. 12 direttiva 98/44/CE. Per approfondire la
tematica della licenza obbligatoria si rimanda al cap IV, par. 5.
170
) Si veda F. Leonini, Il ruolo del brevetto nella ricerca biotecnologica, in Studi di diritto industriale
in onore di A. Vanzetti, Giuffrè, 2004, p. 825
79
Devono infine segnalarsi alcune iniziative poste in essere da imprese
biotecnologiche dirette a garantire l’accesso a biblioteche di sequenze parziali ESTs
attraverso delle banche dati171. Queste iniziative, tendenti a realizzare un open
171
) La Merck Pharmaceuticals, dal febbraio 1995, ha provveduto alla creazione di una banca dati
contenente informazioni sulle sequenze Ests; al fine di impedirne la brevettazione da parte dei
competitori, ha preservato la natura pubblica di tali trovati riducendo così il rischio di anticommons.
Nel 1999 il SNP Consortium ha creato una mappa degli SNPs accessibile a tutti dando così vita ad un
progetto cui aderivano importanti società biotecnologiche, farmaceutiche ed informatiche.
Sull’argomento P. Errico, Tutela brevettuale e ricerca biotecnologica. Un binomio non sempre
perfetto, in G. Ghidini, G. Cavani (a cura di), Brevetti e biotecnologie, Roma, 2008, p. 54, osserva che
la proliferazione dei brevetti sui risultati della ricerca di base ha incoraggiato le imprese private a
creare pubblici databases per sequenze geniche ignorando la tutela brevettuale. Questa soluzione
permette di divulgare informazioni scientifiche raggiunte dalle imprese impedendo ai concorrenti di
richiedere esclusive sulle stesse. La via del copyright servirebbe per tutelare i risultati della ricerca di
base che siano carenti sotto il profilo dell’applicazione industriale. G. Ghidini, Profili evolutivi, cit., p.
200, è contrario all’impiego del diritto d’autore per tutelare le banche dati che, a suo parere,
rappresentano delle raccolte strutturate di informazioni che ricordano quelle “presentazioni di
informazioni” che la Convenzione sul Brevetto Europeo (e sulla scia la nostra legge invenzioni)
esclude, come tale, dalla tutela brevettuale. Si tratta di una consacrazione che, a parere dell’Autore,
rappresenta un’aperta violazione del principio classico delle non appropri abilità di dati conoscitivi
non specificatamente oggetto di copyright. Per remunerare l’attività svolta e gli investimenti effettuati
nel ricercare informazioni e dati si sarebbe potuto semplicemente ricorrere, osserva l’Autore, ad un
sistema di accesso pagante sul modello delineato dall’art. 99 L.A. (oltre che alle norme in materia di
concorrenza sleale in presenza di modalità scorrette di apprendimento ed uso dei dati). Detta soluzione
avrebbe conciliato, con maggiore equilibrio, l’esigenza di compenso del costitutore con quella
dell’accesso dei terzi ai dati in sé non protetti (o addirittura non proteggibili). Sul punto si deva anche
V. Falce, Il rapporto tra ricerca di base e ricerca applicata alla luce del recente completamento della
mappa genetica dell'uomo, in Working Papers 2001 dell’Osservatorio di Proprietà intellettuale,
concorrenza e comunicazioni, consultabile alla pagina http://ricerca.giurisprudenza.luiss.it/centri-diricerca/opicc/pubblicazioni/working-papers ritiene che con questa forma di protezione si realizza un
controllo sul contenuto della banca dati e quindi sulle sequenze geniche. Applicando la tutela sui
generis, infatti, al titolare di questo diritto, il costitutore, sarebbe riservata ogni attività di estrazione e
reimpiego dei dati contenuti nel database (le sequenze). Di qui, l’aggiramento della norma che vieta
l’esclusiva sulle sequenze in quanto tali. L’auspicio è dunque quello di un nuovo intervento a livello
istituzionale che si preoccupi di come effettivamente finanziare la ricerca di base e remunerare i suoi
sforzi, specie quando i risultati raggiunti sono inerentemente legati a successive applicazioni pratiche.
A. De Robbio, A. Corradi, Biobanche in bilico tra proprietà privata e beni comuni: brevetti o open
data sharing ?, in JLIS.it, Volume 1, n. 2, Dicembre 2010, p. 305, consultabile alla pagina
http://leo.cilea.it/index.php/jlis, osservano che molti scienziati sono convinti dei benefici di un
“approccio aperto” e partecipativo alla scienza. Nel 2005 venne creato un open data sharing da alcuni
dottorandi in bioingegneria del Massachusetts Institute of Technology, diventato poi una vera
comunità on line dove i gruppi di ricerca possono pubblicare i protocolli utilizzati, i risultati (positivi e
negativi) ottenuti e altre informazioni utili alla comunità del ricercatori. Concetti come open data
sharing stanno a significare, secondo le Autrici, che i dati di quei progetti sono rilasciati nel pubblico
dominio, soggetti a certe condizioni, incluso il requisito che non vengano esercitati diritti di proprietà
intellettuali tali da che possano precluderne l’accesso agli altri utilizzatori. A tal proposito, riportano
l’esempio della scoperta che riguarda la ricerca sulle staminali di Shinya Yamanaka, ricercatore
giapponese di Kyoto, che nel 2006 scoprì il modo di riportare indietro nel tempo cellule staminali
adulte, precisamente allo stato di simil-embrionali. Nei quattro anni successivi alla scoperta, la tecnica
fu perfezionata grazie al fatto che Yamanaka aveva messo a disposizione i dati in condivisione aperta
80
genomics, sono indizio di un nuovo dinamismo nel pubblico dominio, non
determinato da un’iniziativa dello Stato ma derivante da un processo che vede la
spontanea proliferazione dei soggetti che si fanno (strategicamente) carico
dell’interesse generale, le cui implicazioni vanno ben oltre l’esperienza delle
sequenze parziali ESTs.
La scelta fra le diverse soluzioni prospettate non dovrebbe, comunque, dipendere
esclusivamente dalla sola verifica del risultato più efficiente bensì dalla
democraticità del processo decisionale auspicato, ovvero dalla sua capacità di
possedere anticorpi nei confronti delle pressioni e degli interessi di parte172.
11. La brevettabilità del DNA umano alla luce del caso Myriad Genetics
Negli Stati Uniti d’America, il dibattito sulla brevettabilità delle sequenze di
DNA umano è giunto dinanzi ai tribunali federali.
Il 29 marzo 2010, la Corte distrettuale federale di Southern District di New York
dichiarava invalidi, nella controversia Association of Molecular Pathology v.
USPTO173, sette dei ventitré brevetti conseguiti dalla società Myriad Genetics in
relazione alla sequenza di geni onocosoppressori BRCA1 e BRCA2 (dalle cui
mutazioni deriva la predisposizione al carcinoma mammario e a quello ovarico) e
dei relativi tests diagnostici.
di modo che tutti i laboratori del mondo potessero (e possano tuttora) lavorare alla ricerca in modo
collaborativo
172
) Così A. Ottolia, op. cit., p. 457. G. Guglielmetti, Il decreto di recepimento, cit. p. 143, osserva
che la brevettabilità dei risultati intermedi della ricerca ha effetti positivi poiché consente alle imprese
di raccogliere più agevolmente sul mercato le risorse necessarie al finanziamento della ricerca di tali
oggetti e di trasferire poi i risultati alle imprese attive nella ricerca a valle, favorendo così la divisione
del lavoro e la specializzazione delle attività di ricerca che sono in generale fattori di maggiore
efficienza e di progresso. Per altro verso, tuttavia, la brevettazione dei risultati intermedi accresce i
costi e gli ostacoli per i ricercatori che operano a valle, che si trovano a dover negoziare con un’ampia
cerchia di soggetti fornitori di input della loro ricerca. Il bilancio complessivo è difficilmente
calcolabile e può variare a seconda di un complesso numero di fattori in gioco che incidono sui costi
di transazione (tipologia di research tool, sua sostituibilità con altri, politica delle licenze più o meno
aperta, prassi informali di scambio, ecc.).
173
) Association of Molecular Pathology v. United States Patent and TrademarK Office.
81
La società Myriad Genetics174 aveva depositato nell’agosto del 1994 la domanda
per brevettare 47 mutazioni del gene BRCA1; qualche anno dopo, precisamente nel
1997, l’U.S. Patent and Trademark Office le aveva consesso il brevetto richiesto al
quale, negli anni, si erano aggiunti quelli relativi ai metodi diagnostici per analizzare
il gene ed identificarne le mutazioni. Nel 1998, la società aveva ottenuto il brevetto
sull’intera sequenza del gene BRCA1.
Dopo che nel cromosoma 13 era stata individuata la sede di un secondo gene
correlato al cancro al senso, il BRCA2, la società Myriad, completandone il
sequenziamento, aveva depositato la relativa domanda di brevetto175.
Le privative concesse alla società Myriad le avevano, di fatto, conferito un
monopolio sull’analisi del geni BRCA1 e BRCA2, sulle rispettive mutazioni nonché
sull’uso dei test diagnostici.
Al fine di consolidare la propria posizione, la Myriad Genetics aveva deciso di
non concedere licenze a terzi e di entrare direttamente nel mercato diagnostico
aprendo un proprio laboratorio specializzato, con sede a Salt Lake City, per offrire
un servizio di analisi “in house”, differenziandolo per prezzo e comprensività dei tre
174
) La società era stata costituita nel 1991 dal genetista Mark Skolnick e dal Prof. Walter Gilbert,
Premio Nobel per la chimica grazie ai suoi lavori sul sequenziamento dell’acido nucleico. All’epoca,
Skolnick era a capo di uno dei più importanti gruppi di ricerca, a livello internazionale, impegnati
nell’identificazione dei geni coinvolti nell’insorgenza del tumore al seno. Tale gruppo, avvalendosi
anche della collaborazione di alcuni studiosi del National Institute of Health, aveva intrapreso uno
studio ad ampio raggio sul profilo genetico del gruppo dei Mormoni. Skolnick aveva a disposizione
anche un database da lui stesso costituito negli anni’70 presso il Center fir Cancer Genetics
Epidemiology della University of Utah, contenente informazioni su 200.000 famiglie e la maggior
parte dei 1,6 milioni di discendenti degli originari 10.000 coloni stabiliti nello Utah. Tale database era
stato incrociato con il registro dei malati di cancro dello Utah (contenente più di 100.000 files) dando
vita ad un campione di 40.000 profili genetici altamente rappresentativo, sul quale si erano
concentrate le ulteriori ricerche di Skolnick. In questo contesto era stata fondata la società Myriad
creata con gli spin off del Center fir Cancer Genetics Epidemiology della University of Utah al fine di
attrarre il capitale di rischio necessario al completamento della ricerca. La società Myriad, pur
disponendo di cospicui finanziamenti pubblici specificatamente destinati alla ricerca sul gene BRCA1
dal National Insitute of Health (tra i 2 e i 5 milioni di dollari, equivalenti a circa un terzo dei
finanziamenti necessari per condurre a termine la ricerca) e dal National Cancer Institute of Canad,
concludeva un accordo con l’impresa farmaceutica Eli Lilly & Co., la quale erogava, anch’essa, un
cospicuo finanziamento.
175
) La domanda riguardava la sequenza del gene BRCA2, le sue mutazioni ed i relativi metodi
diagnostici.
82
tests principali176. Aveva poi fatto ricorso alla pubblicità diretta ai consumatori,
aveva costruito una fitta rete commerciale con gli operatori sanitari, i centri
diagnostici e gli assicuratori (considerata l’assenza di sanità pubblica), aveva
imposto a tutti i laboratori collegati di inviare per posta i campioni di DNA al
proprio centro di Salt Lake City al fine di costituire, nel medio periodo, un ampio
database di dati clinici preziosi per lo svolgimento di ulteriori studi sulle varie forme
di tumori con base genetica. La società era arrivata a minacciare azioni legali contro
qualsiasi centro diagnostico che avesse effettuato test sui geni BRCA1 e BRCA2; tra
questi, vi erano non solo istituti privati ma anche enti universitari come la Univesity
of Pennsylvania o il Yale DNA Diagnostic Laboratory che avevano sviluppato in
maniera autonoma altri test di suscettibilità di tumore al seno.
Tale strategia, seppur vincente sul piano finanziario, aveva contribuito a creare
una tensione crescente; il mondo della ricerca scientifica e quello delle professioni
mediche avevano denunciato il blocco che la politica adottata dalla Myriad aveva
avuto sulla ricerca scientifica e sullo sviluppo di test più attendibili di quelli già in
commercio177.
176
) Il test standard, denominato Comprehemsive BRACAnalysis, aveva, nel 2009, un prezzo di euro
3.150 dollari.
177
) Nel 2001 in Europa un’ampia schiera di genetisti molecolari e clinici, oncologi ed altri ricercatori,
guidati da Dominique Stoppa-Lyonnet dell’Istituto Curie di Parigi, coadiuvati da diversi governi
nazionali ed enti non profit (Greenpeace e il Partito Socialdemocratico svizzero), promossero la prima
di una lunga serie di procedure d’opposizione contro le privative concesse a favore della Myriad
dall’Ufficio europeo brevetti. Il brevetto sui tests diagnostici relativi al gene BRCA1 fu revocato
dall’Opposition Division nel 2004 per ragioni formali correlate a vizi della domanda. Gli altri brevetti
furono ridotti o revocati con decisioni confermate dal Board of Appeals.
83
Nel maggio del 2009 alcune delle principali associazioni di categoria,
rappresentate da più di 15.000 genetisti, oncologi e biologi molecolari, medici,
ricercatori universitari e pazienti, rappresentati dall’American Civil Liberties
Association, l’ente impegnato, da sempre, nelle più importanti battaglie per i diritti
civili negli Stati Uniti, decidevano quindi di promuovere una causa contro la società
Myriad Genetics, l’University of Utah Research Foundation (in qualità di co-titolari
e licenziatari esclusivi dei brevetti) e l’Ufficio brevetti e marchi statunitense
chiedendo la nullità di 7 dei complessivi 23 brevetti conseguiti dalla predetta società
sui geni BRCA1 e BRCA2178.
Il Giudice, pur lasciando impregiudicate le censure di natura costituzionale179,
impostava l’intera decisione sull’interpretazione del § 101 del Patent Act; il thema
decidendum veniva ricondotto all’interrogativo se, alla luce dei criteri fissati dalla
suddetta norma, i frammenti isolati di DNA e le tecniche di comparazione delle
rispettive sequenze costituivano o meno vere e proprie invenzioni, situate all’interno
della frontiera “dell’anything under the sun that is made by man”180, oppure dei
prodotti della natura semplicemente scoperti dall’uomo e, quindi, non brevettabili al
178
) La tesi della nullità era fondata sulle seguenti considerazioni: i) violazione del § 101 del U.S.
Patent Act concernente i requisiti di brevettabilità del trovato; ii) contrarietà all’art. 1, sez. 8, comma 8
della Costituzione USA, in quanto il brevetto in esame impediva, piuttosto che promuovere, “the
progress of science and the useful arts”; iii) violazione del Primo e del Quattordicesimo
Emendamento della Costituzione in quanto tali brevetti davano vita ad una forma di monopolio di
“idee astratte e conoscenza base” incompatibile con le garanzie della libertà, di parola e di
informazione (segnatamente con il diritto di essere informato in ordine alla propria salute).
179
) Si rimanda, per approfondimenti sul punto, a G. Resta, La privatizzazione della conoscenza e la
promessa dei beni comuni: riflessioni sul caso Myriad Genetics, in Riv. crit. del dir. priv., 2011, p.
300.
180) Diamond v, Diehr, 450, U.S., 175, 182, (1981). Cfr. par. 2.
84
pari delle “leggi di natura, fenomeni naturali e idee astratte”181.
La Corte distrettuale perveniva alla conclusione che i brevetti erano nulli in
quanto contrari al § 101 del Patent Act ed, in particolare, alla regola, di formazione
giurisprudenziale, della non brevettabilità dei prodotti della natura e di idee astratte;
il trovato in esame non era, pur costituendo un composto chimico, un’entità
“markedly different” rispetto a quella presente in natura182. Di conseguenza, i
brevetti attinenti ai metodi per comparare o analizzare i geni BRCA1 e BRCA2
erano invalidi in quanto consistevano in processi mentali astratti, esclusi, come tali,
dalla brevettabilità183.
181
) Le posizioni, radicalmente diverse, tra le quali il Giudice si trovava a decidere erano le seguenti:
a) il DNA è un composto chimico, tecnicamente un acido deossiribonucleico, il quale, una volta
estratto dal suo ambiente naturale e separato dalle altre sostanze alle quali era originariamente
associato (proteine, altri nucleotidi, etc.), assume una connotazione strutturalmente diversa da quella
preesistente; b) il DNA rappresenta una sequenza di acidi nucleici con una spiccata valenza
informazionale, la quale non viene alterata dalle attività di purificazione ed isolamento cosicché il
DNA isolato non può ritenersi funzionalmente diverso dal DNA nel suo stato naturale. L’Ufficio
brevetti e marchi statunitensi avevano operato, sino a quel momento, in base all’assunto che una
molecola di DNA isolata e purificata, avendo caratteristiche chimiche fondamentalmente diverse da
quelli naturali (se non altro per l’assenza delle proteine e delle altre sequenze di nucleotidi presenti
nell’ambiente naturale) doveva ritenersi una differente entità, prodotta dall’uomo con ingegno e
dispendio di mezzi e, quindi, brevettabile. I genetisti ed i biologi molecolari erano invece dell’idea
che le attività di isolamento e purificazione non determinavano alcuna significativa alterazione nella
struttura chimica o nel contenuto informazionale del DNA.
182
) Enfatizzando le peculiarietà del DNA in quanto vettore di informazioni, la Corte esclude che le
differenze di struttura conseguenti all’attività di purificazione ed isolamento siano tali da giustificare
un giudizio di alterità: la sequenza di nucleotidi, elemento cruciale sia per la funzione biologica
originaria sia per l’utilità delle molecole di DNA isolato, rimarrebbe infatti del tutto invariata.
183
) Resta, op. cit., p. 302, osserva che le ragioni della decisione attengono, in realtà, più che ad aspetti
di carattere strettamente biologico, alle conseguenze sociali del monopolio ventennale esercitato e
garantito dalla Myriad con effetti altamente discorsivi sia sul piano clinico che della ricerca. Il
modello di business perseguito dalla citata società aveva avuto come effetto quello di rendere
impossibile ai pazienti di rivolgersi ad altre strutture per avere conferma dei risultati evidenziati dal
BRACAnalysis o per usufruire di tests alternativi più accessibili sul piano economico. L’adozione di
una politica aggressiva di tutela dei brevetti anche nei confronti di centri universitari e di laboratori di
ricerca non profit aveva creato una situazione di forte disagio presso la comunità medica e scientifica,
finendo talvolta per dissuadere lo sviluppo di nuovi tests genetici e la prosecuzione della ricerca sulle
malattie ereditarie multigeniche. Il problema fondamentale del progresso in ambito biotecnologico,
osserva l’Autore, è rappresentato dal fatto che, una volta concesso un brevetto su un gene, risulta
estremamente difficile aggirare tale privativa. Un tests genetico che non prenda in considerazione un
gene potenzialmente rilevante per una malattia risulterà inattendibile. Si tratta di una vera e propria
barriera a monte, la quale rischia di divenire tanto più grave quanto più la ricerca e l’attività
diagnostica tendono a concentrarsi sulle malattie a carattere multigenico.
85
La decisione è stata conferma dalla Corte Suprema degli Stati con la sentenza
pronunciata il 13 giugno 2013; i Giudici hanno, all’unanimità, stabilito che i brevetti
sui geni, anche quando isolati, non sono ammissibili in quanto prodotti di natura.
Rimane invece brevettabile il DNA sintetico, cDNA, in quanto non disponibile in
natura.
La Corte, pur riconoscendo alla Myriad il merito di avere individuato la sequenza
genetica dei geni BRCA1 e BRCA2, statuisce che l’avere isolato detti geni dal loro
ambiente non costituisce un’invenzione bensì una scoperta che, benché
rivoluzionaria, innovativa, o addirittura geniale, non soddisfa di per sè le richieste
del §101 del Patent Act184.
184
) Lo stesso giorno in cui la sentenza è stata resa pubblica, l’USPTO ha comunicato nuove linee
guida ai suoi esaminatori chiedendo loro di rifiutare le richieste sui prodotti che si riferiscono ad acidi
nucleici o frammenti naturali, isolati o meno, motivando la decisione con la sentenza emessa dalla
Corte Suprema sul caso Myriad. Alla luce della sentenza, la prassi sino ad ora seguita dal United
States Patent and Trademark Office negli ultimi venti anni, che ha condotto alla brevettazione circa il
20% del genoma umano, risulterebbe fondamentalmente errata e dovrebbe essere immediatamente
modificata.
86
Capitolo III
Rilettura dei requisiti di brevettabilità alla luce delle caratteristiche
proprie delle invenzioni biotecnologiche. Abbassamento della soglia per
accedere alla tutela brevettuale
87
1. L’originalità nelle attività svolte dai gruppi di ricerca. Spersonalizzazione
dell’innovazione
Nel settore delle biotecnologie la ricerca utilizza normalmente tecniche note
applicandole, in modo routinario, a materiali biologici preesistenti. Si tratta di
operazioni che necessitano di ingenti risorse finanziarie, tempi di esplorazione
lunghissimi, dotazioni strumentali sofisticate; non richiedono invece tecniche nuove,
capacità personali particolari, creatività ed ingegno elevati.
Tali peculiarità pongono il problema se nei risultati della ricerca biotecnologica
sia presente o meno il requisito dell’attività inventiva185; si potrebbe infatti sostenere
che detta qualità non ricorra posto che qualsiasi operatore del ramo sarebbe in grado
di realizzare l’invenzione se solo avesse a disposizione molto tempo, risorse
finanziarie e strumentali adeguate186.
Questa conclusione avrebbe sicuramente effetti disincentivanti per determinate
ricerche; investimenti elevati, propri del settore biotecnologico, non verrebbero
molto probabilmente affrontati sapendo di non poter contare su un’esclusiva
185
) Il requisito dell’altezza inventiva ha la funzione di escludere la valida brevettazione di tutto ciò
che, pur essendo nuovo, altro non è che una estrinsecazione del normale progresso tecnico: G.
Dragotti, Le invenzioni, in Trattato di diritto privato diretto da Pietro Rescigno, Vol. IV, 2009, p. 238.
Il requisito dell’attività inventiva misura la distanza della nuova invenzione dallo stato della tecnica in
termini di impegno intellettuale (e quindi di norma anche finanziario, dato che la ricerca è per lo più
svolta in forma organizzata tramite lavoro e capitali) necessario per giungervi: G. Guglielmetti, La
brevettazione delle scoperte- invenzioni, Riv. dir. ind., 1999, p. 107. G. Sena, I diritti sulle invenzioni
e sui modelli industriali, Milano, 1990, p. 143, definisce il requisito dell’altezza inventiva come:
“L’apporto creativo, il contributo al progresso tecnico in cui consiste l’attività inventiva o novità
intrinseca od originalità o, se si preferisce, il quantum di novità richiesto dall’invenzione deve
distingue quest’ultima da ciò che è un’ovvia implicazione del notorio, ma non deve necessariamente
essere eccezionale, geniale sorprendente o comunque notevole”. Nella giurisprudenza risalente, il
requisito dell’altezza inventiva viene sovente denominato originalità o novità intrinseca, e viene
distinto dalla novità c.d. estrinseca. Con il primo termine, s’intende lo stacco qualitativo rispetto al
patrimonio della conoscenza acquisita; con il secondo, l’obbiettiva differenziazione dalle soluzioni
tecniche note.
186
) Cfr. l’art. 48 c.p.i. che esclude il requisito dell’attività inventiva se, per una persona esperta del
ramo, essa risulti in modo evidente dallo stato della tecnica ovvero si tratti di un’invezione che il
tecnico medio sia in grado di realizzare. Il giudizio di originalità (chiamata, in accordo con i testi
convenzionali, attività inventiva) si svolge secondo le seguenti fasi: occorre prima individuare il
settore cui attiene l’invenzione; si deve poi costruire un modello “persona esperta del ramo” ed il
giudice deve valutare se quel modello considererebbe l’invenzione evidente o non evidente. Tale
valutazione deve essere agganciata il più possibile ai dati della realtà e, a tal fine, si deve dar spazio
anche ai c.d. indizi di evidenza e di non evidenza. Si tratta di indizi oggettivi in quanto direttamente
dedotti dall’analisi della realtà e, più precisamente, dalle caratteristiche tecniche dell’invenzione o del
procedimento che ha condotto alla sua realizzazione, dalla storia del settore anteriore o successiva
all’invenzione.
88
brevettuale. Si arriverebbe alla conclusione, paradossale, che certe tecniche note
(come quelle del DNA ricombinante) capaci di pervenire alla realizzazione di
proteine, vaccini, kit diagnostici, sarebbero alla portata di qualunque operatore del
settore eppure non effettivamente impiegate da alcuno187.
Al fine di verificare la presenza dell’attività inventiva, il cui scopo è quello di
selezionare ciò che è al di là del divenire normale di ciascun settore188, si deve
valutare se l’attività in questione rientri tra quelle che per costi, tempi e probabilità
di successo vengono affrontate da un operatore medio del settore o piuttosto da
gruppi di ricerca; in quest’ultimo caso, le capacità del tecnico medio riguardano sia
le caratteristiche intellettuali che di formazione professionale nonché un certo grado
(medio) di organizzazione degli elementi personali e materiali189.
L’idea che l’attività inventiva sia riconducibile alle capacità intellettuali
dell’inventore deriva dalle riflessioni sull’archetipo dell’inventore persona fisica e
187
) Una conclusione del genere sarebbe assai deludente. La qualità della nostra vita può essere
tremendamente migliorata dalla disponibilità di proteine, vaccini ed altri materiali biologici artificiali
che, in assenza di brevetto, sarebbe più difficile o addirittura impossibile ottenere. La disciplina
brevettuale ha la funzione di promuovere il progresso tecnico, cioè il miglioramento della qualità della
nostra vita. Dire che il diritto dei brevetti non consente di incentivare in certi settori talune attività di
ricerca, che potrebbero dare risultati importanti, non può essere considerato un modo accettabile di
chiudere il problema. Significa semplicemente che bisogna cercare tutte le strade per dare ad esso una
soluzione diversa se del caso mutando l’interpretazione delle norme esistenti o cambiando le norme o
creando delle norme ad hoc: V. Di Cataldo, La brevettabilità delle biotecnologie. Novità, attività
inventiva, industrialità, in Riv. dir. ind., 1999, p. 185.
188
) V. Di Cataldo, L’originalità dell’invenzione, Milano, 1993, p. 76. G. Guglielmetti, La
brevettazione, cit., p. 100 osserva: “Esistono settori della tecnica, in particolare la chimica e la
biotecnologia, dove proprio le scarse cognizioni scientifiche sui meccanismi di azione dei prodotti
spesso sorreggono il giudizio di originalità. Infatti, le insufficienti nozioni possono rendere
imprevedibili gli effetti che mutamenti strutturali generano sulle proprietà dei prodotti noti, e la non
ovvietà dell’invenzione può essere data proprio dal fatto di mettere a disposizione prodotti nuovi con
proprietà inattese, o anche nello scoprire e sfruttare tali proprietà in prodotti di per sé noti”.
L’Autore comunque precisa che la mancata o insufficiente comprensione scientifica dei rapporti
struttura-funzione limita lo spazio disponibile per la brevettazione in quanto minori saranno le
rivendicazioni relative agli insegnamenti descritti nel brevetto. A. Vanzetti, V. Di Cataldo, Manuale di
diritto industriale, Milano, 2009, p. 390 scrivono: “L’originalità segna una linea di confine tra ciò
che appartiene al divenire normale di ciascun settore, che potrebbe essere realizzato da qualunque
operatore del settore, e quindi non merita il brevetto, e ciò che è frutto di una idea che supera le
normali prospettive di evoluzione del settore, che non è alla portata dei tanti che in esso operano, e
quindi merita l’attribuzione del diritto esclusivo”.
189
) Nelle invenzioni biotecnologiche ricorre il requisito dell’originalità in quanto l’invenzione, pur
non richiedendo operazioni mentali di cui il tecnico medio non sarebbe capace, è resa possibile solo
dallo svolgimento di operazioni che per la loro complessità ed il loro costo richiedono dotazioni
umane, finanziarie e strumentali superiori a quelle che può impiegare un operatore medio del settore:
in tal senso A. Vanzetti, V. Di Cataldo, op. cit., p. 480.
89
dell’invenzione come frutto spontaneo del genio. Quando, però, la ricerca assorbe
investimenti importanti e diviene attività di gruppo, il riferimento esclusivo alle
capacità dell’inventore non trova più alcuna giustificazione190; entrano in gioco
prepotentemente altri fattori come la dotazione finanziaria e strumentale, il tempo a
disposizione, il livello di organizzazione ed il grado d’integrazione dell’équipe191.
In questi casi, il requisito dell’originalità deve essere valutato tenendo conto che
si vuole premiare non già un flash of genius192, un’intuizione felice, ma la ricerca, la
190
) Il riferimento alla persona esperta del ramo è andato perdendo progressivamente di pregnanza
allorché, conformemente con una giurisprudenza dell’Ufficio europeo dei brevetti, tale soggetto viene
indicato come “colui che ha la conoscenza di una squadra di esperti, ma la capacità di iniziativa di un
tecnico, senza immaginazione inventiva e con la capacità di attuare solo metodiche già sperimentate”:
così l’EPO nel caso Genentech Interferone Gamma, EPO Appeal Board Decision T 223/92, 20 luglio
1993. Nella prospettiva dell’UEB viene pressoché svuotato il momento soggettivo, giacché la persona
esperta del ramo viene declassata ad un tecnico “senza immaginazione inventiva” e con la “capacità di
attuare solo metodiche già sperimentate”; inoltre, si presume che l’esperto del ramo di media
preparazione è una persona che ragiona lungo le linee di una convenzionale conoscenza del ramo, che
non intraprende alcuna attività di innovazione (T 455/1991).
191
) Nel campo delle biotecnologie sempre più di frequente risultati positivi sono ottenuti grazie alle
dimensioni dell’investimento effettuato piuttosto che alla particolare creatività degli approcci seguiti.
Se questi dati di fatto non precludono l’accesso alla protezione, è perché lo standard della persona
esperta del ramo tende oggi ad essere inteso in modo più riduttivo che in passato. Assumendo infatti
che il parametro di riferimento possa essere reperito nella figura di un tecnico senza immaginazione
inventiva e con la capacità di attuare solo metodiche già sperimentate diventa meno problematico
ravvisare l’altezza inventiva anche in innovazioni che, pur avendo mobilitato risorse assai ampie,
posseggano in effetti un gradiente di originalità relativamente basso. L’abbassamento di questo
requisito di accesso alla protezione non è, peraltro, carattere specifico dell’innovazione
biotecnologica. Al contrario, esso corrisponde ad una tendenza diffusa del diritto brevettuale degli
ultimi decenni, che trova alla propria base ragioni di ordine generale le quali, nel caso della
brevettazione della materia vivente, si sono incontrate con ragioni specifiche di quest’ultimo settore.
Ancor oggi esistono, tuttavia, soglie al di sotto delle quali si tende a negare che ricorra altezza
inventiva. Così, quando si deducano le funzioni di una sequenza di DNA conducendo comparazioni
computerizzate con altre sequenze la cui funzione sia già nota, è probabile che la brevettabilità venga
negata per l’assenza del requisito in esame. In questo senso la decisione della Divisione di
opposizione dell’EPO del 20 giugno 2001, caso ICOS/Smith & Kline Beecham e Duphar International
Research.
192
) La Corte di Cassazione 14 aprile 1988 n. 2965 così decideva: “è invenzione brevettabile non solo
quella che è frutto di genialità (flash of [creature] genius), non solo quella che dà un risultato
sorprendente, ma anche quella che più semplicemente ottiene un risultato nuovo, non deducibile per
semplici e agevoli passaggi mentali dallo “stato della tecnica” esistente, cioè che non sia
un’inevitabile implicazione del notorio”.
90
grande ricerca, intesa come costoso e paziente lavoro di sperimentazione di grandi
équipes di ricercatori193.
193
) A. Vanzetti, Presentazione del volume I nuovi brevetti – Biotecnologie e invenzioni chimiche.
Milano 1995, p. VII. G. Spedicato, La brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche nella normativa
e nella giurisprudenza comunitaria. Brevi considerazioni etico-giuridiche, in Quaderni di diritto
privato europeo, Vol. V, 2003, p. 323, osserva che in termini generali è possibile rilevare come nel
corso del tempo si sia assistito ad un continuo abbassamento della soglia richiesta per accedere alla
tutela brevettuale. Tale abbassamento se per un verso potrebbe essere interpretato dai più maliziosi
con la volontà, politica ed economica, di facilitare l’accesso a questa forma di tutela in modo da
garantire ai richiedenti (spesso e volentieri grosse multinazionali che possono sostenere gli elevati
costi richiesti dalla procedura di concessione del brevetto) la forte protezione offerta da tale
strumento, riflette per altro verso il cambiamento epocale, verificatosi in maniera più significativa a
partire dai primi decenni del secolo scorso, nel modo di fare ricerca scientifica e tecnologica. Dalla
figura del genio solitario (alla Leonardo o alla Newton, per capirci) che, proprio in virtù delle sue
straordinarie capacità e di una improvvisa folgorazione, riesce a “creare” quasi ex nihilo teorie o
macchinari che ancora oggi, come allora, non cessano di stupirci, si è transitati gradualmente verso la
figura dell’equipe scientifica, in cui un consistente numero di scienziati e tecnici collabora in un
faticoso ed oneroso (sotto tutti i profili) lavoro di migliaia, a volte centinaia di migliaia, di
esperimenti, di tentativi ed errori. Se il lavoro di ricerca è oggi questo, è evidente che la pur suggestiva
nozione del flash of genius, ritagliata su una realtà scientifica in cui lo scienziato agisce e viene
considerato come singolo soggetto, corre il serio rischio di diventare anacronistica. Il genio, per forza
di cose, è uno, mentre un’equipe è ontologicamente, oltre che nominalmente, più d’uno. E’ pertanto,
in tal senso, fisiologico che il requisito dell’attività inventiva, ad uno con la scienza cui si riferisce, si
sia evoluto partendo dalla soggettività del flash of genius transitando attraverso l’oggettività
dell’inventive step fino a giungere, secondo l’indirizzo che pare oggi prevalente, al dato quasi
meramente formale della non-ovvietà. Tale richiamata oggettivizzazione del requisito dell’attività
inventiva se per un verso si spiega con il passaggio da una dimensione “singolare” ad una dimensione
“plurale” della ricerca scientifica, riflette peraltro la perduta centralità del fattore “persona” rispetto al
fattore “risorsa economica”, in una evoluzione che potremmo definire “asimmetrica”, poiché non è
tanto l’importanza del primo fattore ad essere scemata in termini assoluti, quanto piuttosto il peso del
secondo ad essere cresciuto esponenzialmente. Se infatti il numero di ricercatori qualificati
attualmente operanti è sufficientemente alto (soprattutto se paragonato ad un secolo fa) da poter far
ipotizzare una certa intercambiabilità soggettiva tra gli stessi, la rilevanza della disponibilità di (spesso
ingenti) risorse economiche è tale da risultare, in determinati settori quale quello biotecnologico, dove
gli investimenti si quantificano in milioni di dollari, assolutamente pregiudiziale. Critica con la
tendenza ad abbassare la soglia della brevettabilità è C. Signorini, I diritti di proprietà industriale in
materia di biotecnologie e la tutela delle biodiversità, in G. Ghidini, G. Cavani, (a cura di) Brevetti e
Biotecnologie, Roma, 2008, p. 212. L’Autrice osserva che un abbassamento della soglia di tutela in
riferimento ai requisiti di applicabilità industriale e di attività inventiva non costituiscono
necessariamente un incentivo allo sviluppo; non risulterebbero infatti liberamente appropriabili i
risultati di quelle ricerche che non segnano un effettivo contributo tecnico industriale e che,
nonostante ciò, sarebbero oggetto di una forte protezione grazie alla concessione del brevetto. Le
conoscenze intermedie potrebbero invero trovare altre forme di tutela meno forti (es. una durata, più
limitata nel tempo, di eventuali diritti esclusivi). In questo modo, per ogni diverso stadio di ricerca
sarebbe definita una specifica ed adeguata tutela.
91
2. La presenza del requisito della novità nel materiale biologico preesistente
in natura. I nuovi usi di sostanze già note
Uno dei requisiti necessari per accedere alla tutela brevettuale è quello della
novità.
Un’invenzione è considerata nuova se non è compresa nello stato della tecnica194
del quale fa parte tutto ciò che è stato reso accessibile al pubblico, per mezzo di una
194
) Art. 46, comma 1, c.p.i., art. 54 CBE. Lo stato della tecnica viene normalmente inteso come
patrimonio mobile in continuo progressivo accrescimento per via delle piccole innovazioni che
vengono quotidianamente realizzate dalla massa anonima degli operatori di ciascun settore.
Commentando l’articolo in esame, G. Ghidini, Profili evolutivi del diritto industriale, Milano, 2008, p.
101, scrive: “Si accorda tutela esclusiva anche all’innovazione di merito concettuale obbiettivamente
modesta, purché appunto, agli occhi di un esperto del settore, essa non appaia evidentemente
(ovviamente) deducibile dalla tecnica nota. Come accennato, tale impostazione “riduzionista” (se
non “minimalista”) vuol corrispondere all’esigenza di adeguare la tutela brevettuale alla ricordata
tipica connotazione della moderna attività di ricerca: la quale, più frequentemente che per stacchi
intellettuali di particolare livello, avanza, come ricordato, grazie a continue successive
sperimentazioni e applicazioni affidate a complesse èquipe e a mezzi tecnologici avanzati (elaboratori
di grande potenza ecc.). Avanza insomma, facciamola breve, grazie alla quantità degli investimenti
più che al “genio” di singoli ricercatori (e del resto proprio quella degli investimenti appare la
chiave più appropriata per interpretare anche il rilevato indirizzo a “spostare in alto” al piano cioè
della scoperta, l’individuazione dell’attività inventiva). Da ciò, appunto, per adempiere anche in
siffatto contesto alla missione di premio/stimolo dell’innovazione, il consolidarsi della tendenza
all’abbassamento dello strandard di originalità. Ovvio corollario della ridotta selettività dell’accesso
al brevetto è la facilità, per i concorrenti, di elaborare soluzioni diversificate che sfuggano allo ius
excludendi del titolare del brevetto. Proprio il modesto grado di “originalità” ritenuto sufficiente per
ottenere la privativa, consentirà più facilmente altre soluzioni di non qualificarsi come mere
variazioni attuative di una stessa “idea di soluzioni” i.e. come meri “equivalenti”, dunque
contraffazioni, assurgendo invece ad autonoma dignità inventiva: e al contempo, sottraendosi al
raggio dell’altrui esclusiva ed altresì accedendo, coeteris paribus, ad autonoma brevettabilità”.
92
descrizione scritta od orale, mediante l’utilizzo o in qualsiasi altro modo, prima della
data del deposito della domanda di brevetto195.
I fatti distruttivi della novità vengono distinti in anteriorità e predivulgazioni.
Sono anteriorità distruttive della novità tutte le conoscenze brevettate e non
brevettate, diffuse in qualunque modo in Italia o all’estero, anteriormente alla data di
domanda di brevetto; lo sono a prescindere dal fatto che siano o non siano note
all’inventore. La ratio della regola è chiaramente quella di non rilasciare un brevetto
a chi è autore di un’invenzione già realizzata da altri.
In alcuni sistemi stranieri, si tende in vario modo a temperare la severità delle
regole che pretendono la novità assoluta escludendo, ad esempio, che abbiano
capacità distruttiva della novità le anteriorità puramente cartacee, quelle cioè
costituite da informazioni pubblicate che non hanno alcun seguito in quanto
dimenticate. Regole di questo tipo sono sicuramente ragionevoli nella loro
ispirazione; fatto distruttivo della novità non è, infatti, la pura esistenza di
un’anteriorità bensì la sua accessibilità al pubblico (e quindi anteriorità trasmesse in
forma criptica, o non trasmesse ai terzi, dovrebbero essere considerate irrilevanti)196.
Nello stesso spirito, la novità di un materiale biologico che venga isolato dal suo
195
) Art. 46, comma 2, c.p.i., art. 54 CBE. G. Spedicato, op. cit., p. 325 ritiene che nel concetto di stato
della tecnica rientrino le comuni conoscenze generali, le conoscenze potenziate, le conoscenze
nascoste, le domande di brevetto anteriori pubblicate o rese accessibili al pubblico. Nello stato della
tecnica rientrerebbero quindi sia le conoscenze generali comunemente a disposizione dell’esperto sia
quelle a lui difficilmente accessibili (le conoscenze potenziate) o nascoste (sebbene solo in senso
relativo poiché, seppur non possedute dall’esperto medio, esse rientrano sicuramente nel patrimonio
conoscitivo di “qualcuno nel mondo”). A tali conoscenze devono poi aggiungersi, secondo quanto
previsto l’art. 46 c.p.i. e dall’art. 54 CBE, quelle desumibili dalle domande di brevetto già depositate
in uno Stato membro della Comunità, o all’estero, e quelle pubblicate o altrimenti rese accessibili al
pubblico. Poiché la legge vuole evitare che vengano rilasciati due brevetti diversi per la stessa
invenzione, l’art. 46, comma 3, c.p.i. ritiene distruttive delle novità anche le domande di brevetto
italiano ancora segrete ovvero le domande di brevetto europeo o internazionale designanti l’Italia
ancora segrete. M. Franzosi, Novità e non ovvietà. Lo stato della tecnica, in Riv. dir. ind., 2001, pag.
68, rileva, a proposito della conoscenza nascosta, che “(…) il fatto che non sia nota all’esperto non è
considerato rilevante; la tecnica è attribuita alla conoscenza dell’esperto, anche se egli non la
conosce …… a volte la tecnica nota, ignota in alcuni paesi o per determinate tecnologie, può essere
considerata non sconosciuta in altri paesi o in altri settori”.
196
) In tal senso A. Vanzetti, V. Di Cataldo, op. cit., p. 386.
93
ambiente naturale o venga prodotto per via biotecnologica non è esclusa dal fatto
che lo stesso materiale preesista in natura se in natura non è accessibile197.
Si ha predivulgazione quando l’inventore comunichi, volontariamente o
involontariamente, l’invenzione a terzi in data anteriore alla domanda di brevetto198.
Proprio in relazione al requisito della novità sono sorte, nel settore delle
biotecnologiche, alcune questioni spinose riguardanti, in particolari, il fenomeno
197
) G. Sena, L’importanza della protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, Riv. dir. ind.,
2000, pag. 71. L’Autore osserva che “il fatto che i geni sono sostanze esistenti in natura, che essi
possono essere scoperti, ma non inventati, e che perciò non possono essere nuovi in senso stretto, non
ne esclude la brevettabilità; anche i geni possono essere considerati nuovi perché, prima della loro
scoperta ed identificazione, non appartengono al patrimonio tecnico-scientifico”. L’invenzione,
osserva l’Autore, può consistere nel mettere il prodotto a disposizione della collettività isolandolo dal
suo ambiente naturale oppure purificando un prodotto che già era noto in forma diversa. La novità
potrà sussistere se il prodotto in precedenza non era noto nella forma in cui l’inventore l’ha messo a
disposizione ma solo all’interno di un “ambiente” dal quale non era separabile o lo era solo con un
diverso metodo. Inoltre il prodotto, pur preesistendo, può non dirsi accessibile se la preesistenza in
natura non rendeva già noto l’insegnamento di come ottenere, con caratteri costanti, l’oggetto
dell’invenzione. Cfr. sul punto anche le considerazioni già espresse nel Capitolo II, par. 4.
198
) La predivulgazione è causa di distruzione della novità in quanto realizza l’accessibilità al pubblico
dell’invenzione. Deve riguardare l’invenzione nella sua interezza e deve essere stata fatta a persone (o
anche ad una persona) in grado di capire il messaggio ricevuto e di ritrasmetterlo. Non si ha la perdita
della novità se l’invenzione viene riferita ai terzi che collaborano con l’inventore ai fini della messa a
punto dell’invenzione stessa; in tali casi si applica l’art. 2105 c.c. Qualora il prestatore di lavoro violi
il segreto, la novità verrà meno e l’inventore potrà pretendere solo il risarcimento dei danni. L’unico
caso in cui la predivulgazione non fa venir meno la novità è quello disciplinato dall’art. 47 c.p.i.. Il
sistema U.S.A., a differenza di quello europeo, concede all’inventore un periodo di grazia ritenendo
che la comunicazione dell’inventore fatta a terzi prima del deposito della domanda non distrugga la
novità dell’invenzione se poi l’inventore deposita la domanda entro il brevissimo termine di un anno.
94
della biopirateria ovvero se ricorra il requisito in esame nell’invenzioni ottenute
tramite fenomeni di biocolonianismo199.
Questione diversa, ma altrettanto delicata, è quella della presenza della novità nei
nuovi usi di sostanze già note200.
Nel settore della chimica, il fenomeno in esame è piuttosto frequente tant’è che la
brevettabilità del nuovo uso del composto noto è oramai, da tempo, un dato
199
) V. Shiva, Il mondo sotto brevetto, Milano, 2002, pag. 49 definisce i termini biocolonianismo e
biopirateria come l’utilizzo dei sistemi di proprietà intellettuale per legittimare il possesso e il
controllo esclusivo di risorse, prodotti e processi biologici utilizzati per secoli nelle culture non
industrializzate. L’Autore considera, a tal proposito, paradigmatico il caso del neem, albero originario
dell’India e dall’estratto dei cui semi, per secoli, le popolazioni autoctone avevano realizzato, tra le
altre cose, un efficace pesticida naturale in grado di combattere più di duecento tra insetti e parassiti.
Come una vera e propria usurpazione, pertanto, era stato visto il tentativo, in parte riuscito, condotto
dal colosso dell’industria chimica statunitense, la W.R. Grace, di ottenere dall’US Patent and
Trademark Office brevetti su tutta una serie di metodi per la produzione dell’estratto del seme di neem
estremamente simili, per molti versi, a quelli utilizzati secondo la tradizione millenaria da parte della
popolazione indiana. Sulla vicenda l’Autore osserva: “A parte ogni considerazione di merito sul
fenomeno in parola, sicuramente deprecabile dal punto di vista delle conseguenze socio-economiche
che produce nei paesi in via di sviluppo, può seriamente revocarsi in dubbio che invenzioni
biotecnologiche quali quelle aventi ad oggetto il neem e tante altre cui si è pervenuti attraverso
attività di «biopirateria» possano integrare il requisito della novità per come lo si è andato sopra
delineando. Le conoscenze indigene infatti, rientrano a pieno titolo nello stato della tecnica, per lo
meno a titolo di conoscenze nascoste … In tal caso pertanto, quand’anche non si versi in un’ipotesi di
identità fotografica ma meramente funzionale rispetto alla tecnica nota costituita dalla conoscenza
indigena, quest’ultima costituisce senz’altro un’anteriorità distruttiva della novità che dovrebbe
pertanto precludere all’invenzione la possibilità di accedere alla tutela brevettuale”. Identica la
valutazione dell’Ufficio Europeo dei Brevetti che il 10 maggio 2000 aveva revocato il brevetto
detenuto, congiuntamente, dalla W.R. Grace e dal governo degli Stati Uniti poiché privo dei requisiti
della novità e dell’attività inventiva. Caso simile quello del turmeric: si tratta della curcuma, una
spezia che presenta anche proprietà curative e cosmetiche. Per la curcuma era stato rilasciato
dall’ufficio brevetti U.S.A., su richiesta di due ricercatori indiani espatriati negli Stati Uniti, un
brevetto poi rapidamente revocato a seguito dell’intervento dell’India, con cui si è dimostrata la
ricomprensione nello stato dell’arte di tali proprietà della radice.
200
) Le rivendicazioni d’uso sono espressamente contemplate come genere separato sia dalle
rivendicazioni di prodotto che da quelle di procedimento; in altri sistemi, le rivendicazioni d’uso sono
considerate una forma di rivendicazioni di processo o di metodo.
95
acquisito201. Stante la ricorrente affinità tra il settore della chimica e quello delle
biotecnologie, in quanto, in entrambi, il brevetto si estende all’insegnamento
apportato dall’inventore, si ritiene che le conclusioni raggiunte nella ricerca chimica
debbano applicarsi a quella biotecnologica202.
Da chiarire se esista un rapporto, e quale eventualmente, tra il brevetto di nuovo
uso di un composto ed il brevetto (anteriore) eventualmente rilasciato a favore di chi
abbia per primo realizzato il composto stesso; rimane cioè da chiarire se il secondo
brevetto sia dipendente dal primo.
La soluzione di questo problema deve dare attenzione primaria alla funzione del
sistema brevettuale ed alla necessità che l’estensione della privativa sia
proporzionata all’apporto che l’inventore ha dato al progresso tecnico ed al
benessere collettivo.
La domanda può dunque trovare una risposta equilibrata solo individuando due
sottoipotesi di cui vanno valorizzate le specifiche caratteristiche203. La regola più
ragionevole è quella che varia a seconda che il composto (alla data della prima
invenzione, cioè dell’invenzione che ha dato vita ad un composto nuovo) sia dotato
di originalità per la sua struttura o per la sua funzione. Può darsi, infatti, che il primo
inventore abbia creato un composto strutturalmente non ovvio perché dotato di una
struttura non derivabile (da parte di un tecnico medio) dai composti già noti; può
201
) Si pensi al caso primordiale dell’etere, del D.D.T. cui hanno fatto seguito molte altre note vicende
dello stesso genere. Nel caso T 231/85, 8 dicembre 1986, Triazole derivates/Basf, OJ EPO, 1989, 74,
ed in quello G 2/88, 11 dicembre 1989, Friction reducing additive/Mobil Oil, OJ EPO, 1990, 93,
riguardanti, rispettivamente, un agente chimico usato per favorire la crescita delle piante che rivelò
proprietà fungicide ed una composizione nota per le sue proprietà di agente antiossidante dei motori
che dimostrò di possedere proprietà lubrificanti. In tali casi, l’Ufficio europeo brevetti decideva che un
effetto che si produca in maniera inerente in una utilizzazione già nota di una sostanza o di un
prodotto non può essere considerato, per questo solo fatto, privo di novità. Il concetto di novità si
fonda infatti sulla appartenenza allo stato della tecnica, intesa come accessibilità e, dunque,
conoscenza effettiva o quantomeno immediata pubblica conoscibilità delle informazioni della cui
novità si discute. La proprietà nascosta, che non sia immediatamente riconoscibile nel corso
dell’utilizzazione nota della sostanza o del prodotto, non può dirsi accessibile al pubblico ai sensi
dell’art. 54 CBE. In dottrina, si rimanda a G. Guglielmetti, La brevettazione, cit., p. 104 per
approfondimenti.
202
) Cosi V. Di Cataldo, Fra tutela assoluta del prodotto brevettato e limitazione ai procedimenti
descritti ed agli usi rivendicati, in Riv, dir. ind., 2004, p. 111.
203
) G. Guglielmetti, Tutela “assoluta” e “relativa” del brevetto del nuovo composto chimico,
originalità dell’invenzione e dinamiche della ricerca, in Studi in onore di A. Vanzetti, Milano, 2004,
p. 765.
96
invece accadere che l’inventore abbia costruito un composto strutturalmente ovvio
perché dotato di una struttura agevolmente derivabile da composti già noti, ma
provvisto di funzioni non ovvie perché diverse e non equivalenti alle funzioni dei
composti già noti.
In entrambi i casi l’inventore del nuovo uso ha diritto al brevetto, ma il suo
brevetto verrebbe ad avere estensione diversa nei due casi. L’invenzione di nuovo
uso di un composto noto dovrebbe essere considerata dipendente dalla prima quando
il composto, alla data della prima invenzione, era strutturalmente originale; in questa
ipotesi, è ragionevole riconoscere un debito dell’inventore del nuovo uso rispetto
all’inventore del composto, visto che appunto, il composto era strutturalmente non
ovvio, ed il secondo inventore ha utilizzato il nocciolo della prima invenzione (cioè
la sua struttura). L’invenzione di nuovo uso di un composto noto dovrebbe invece
essere considerata indipendente dalla prima quando il composto, alla data della
prima invenzione, era strutturalmente ovvio, ed ha ottenuto il brevetto solo per
originalità di funzione; in questo caso, l’inventore del nuovo uso non ha fruito
dell’invenzione precedente visto che, essenzialmente, essa risiedeva nella funzione
del composto e non nella sua struttura204.
3. La liceità dell’invenzione biotecnologica
Nell’ambito delle biotecnologie, il requisito della liceità dell’invenzione non ha
sicuramente il compito di risolvere i problemi etici, ambientali, sociali connessi al
204
) Sul punto sia veda anche la decisione della Commissione ampliata dei ricorsi dell’UEB dell’11
dicembre 1989, Mobil Oil Corp. c. Chevron, in Riv. dir. ind. 1990, p. 141 e in Foro it., 1990, p. 311
con nota di V. Di Cerbo, Brevetto (europeo) d’uso: modifica delle rivendicazioni e novità del trovato,
caso Friction reducing additive/Mobil Oil III e G. Guglielmetti, La brevettazione, cit., p. 101.
97
settore205. La brevettazione è un fenomeno giuridico che concerne il regime di
appartenenza (monopolistico e privato anziché concorrenziale o pubblico) dei
risultati della ricerca che nulla ha a che fare con la liceità della ricerca medesima né,
tanto meno, con la liceità dello sfruttamento dei suoi risultati.
A conferma l’art. 50 c.p.i. che, vietando la brevettazione delle invenzioni la cui
attuazione sia contraria all’ordine pubblico o al buon costume206, distingue il piano
della realizzazione da quello dell’accesso al brevetto207; il rilascio della privativa
non implica il diritto di utilizzare l’invenzione ma concerne solo il potere, in capo al
titolare, di vietare a terzi di attuarla208. La nostra disciplina prevede, non a caso, che
sui brevetti venga apposta l’annotazione che l’attuazione dell’invenzione non potrà
essere effettuata se non con l’osservanza delle disposizioni legislative e
regolamentari concernenti la produzione ed il commercio dei prodotti oggetto
dell’invenzione”209.
Si può quindi osservare che, almeno in linea di principio, il divieto di
brevettazione riguardi i casi in cui l’illiceità attenga alla modalità monopolistica di
205
) Un ordinamento che tema l’uso di una certa invenzione non può limitarsi a proporre per essa un
divieto di brevettazione; un divieto del genere può avere un effetto disincentivante più o meno
marcato, perché alla ricerca nel settore mancherebbe l’incentivo dato dalla prospettiva del brevetto,
ma non può affatto garantire che quella ricerca non venga comunque effettuata e, ancor meno, che poi
quell’invenzione non venga utilizzata. L’ordinamento deve piuttosto incidere sulla sfera dei
comportamenti dei consociati, proponendo, se lo crede opportuno, divieti di conduzione di una
determinata linea di ricerca, o di uso dell’invenzione, quand’anche non brevettata: V. Di Cataldo,
Biotecnologie e diritto. Verso un nuovo diritto, e verso un nuovo diritto dei brevetti, in Contratto e
impresa, 2003, p. 345.
206
) Si tratta di un divieto che non ha trovato invero frequente applicazione. La ragione deve essere
individuata nella circostanza che il rilascio del brevetto è sostanzialmente escluso solo per le
invenzioni per le quali non è pensabile neppure un uso lecito; di contro, se è pensabile almeno un uso
lecito, l’invenzione è brevettabile. La norma rimane dunque confinata in uno spazio marginale.
207
) Diversi sono i soggetti deputati al controllo sull’attuazione dell’invenzione rispetto a quelli
competenti al rilascio della privativa. Il controllo sull’attuazione viene di norma affidato ad autorità
dotate specificamente degli strumenti per procedere alla valutazione del rischio corrispondente (si
pensi al settore dei farmaci), munite della necessaria legittimazione, piuttosto che a funzionari di un
Ufficio dei brevetti, i quali difettano sia della preparazione sia dell’investitura corrispondenti.
208
) L’inventore di un nuovo tipo di fucile mitragliatore ha diritto al rilascio del brevetto; l’avere
ottenuto la privativa non gli consente tuttavia di andare in giro con la sua nuova arma sparando tra la
folla. G. Ghidini, G. Cavani (a cura di), Brevetti e biotecnologie, Roma, 2008, p. 20, osservano che il
diritto di brevetto attribuisce al titolare solo uno ius excludendi alios e non anche una (neppure
implicita) autorizzazione a fare ciò che costituisce oggetto del brevetto.
209
) Cfr. art. 33 l. inv. commentato da P. Spada, Liceità dell’invenzione brevettabile ed esorcismo
dell’innovazione, Riv. dir. ind., 2000, p. 16.
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produzione e vendita in regime di privativa piuttosto che ad una valutazione
dell’anteriore fase di ricerca o della successiva fase di attuazione210.
Non mancato tuttavia tesi favorevoli ad innestare nella fase di brevettazione, e nel
giudizio di validità del titolo di protezione da questa conferito, la considerazione di
più ampi valori sociali inerenti, fra gli altri, la salute umana, la biodiversità211, l’equa
ripartizione dei benefici derivanti dalla ricerca biotecnologica212.
Pur essendo stato esposto a non poche, e trascurabili, obiezioni213, tale approccio
ha il pregio di porre l’attenzione sulle conseguenze avverse che possono manifestarsi
con l’attuazione dell’invenzione214.
210
) M. Ricolfi, La brevettazione delle invenzioni relative agli organismi geneticamente modificati, in
Riv. dir. ind., 2003, p. 7.
211
) In tal senso R. Pavoni, Brevettabilità genetica e protezione della biodiversità: la giurisprudenza
dell’Ufficio Europeo dei brevetti, in Riv. dir. ind., 2000, p. 429 ss. Tra le tante, assumono rilievo le
preoccupazioni dell’impatto che un organismo geneticamente modificato per essere resistente ai
diserbanti può avere sulla medesima quantità di diserbanti impiegati ovvero il rischio di innescare
processi che determinino l’insorgere di specie resistenti al controllo umano (i c.d. superweeds);
discussi anche gli effetti avversi che vegetali, animali e microrganismi ricombinanti possono avere
sulla salute umana e sulla biodiversità. Per un’attenta rassegna di questi rischi si rimanda
all’inquadramento generale fornito dal Ministero dell’Ambiente della Repubblica italiana,
Problematiche connesse all’impiego di Organismi Geneticamente Modificati e proposte di interventi,
Bari, 2001.
212
) Si pensi ad un dolcificante naturale diverso dalla barbabietola e dalla canna da zucchero che,
conservato per molti millenni nell’anfratto di una micro-cultura, sia capace di svolgere le sue funzioni
senza produrre gli inconvenienti, dietetici e salutistici, dello zucchero di barbabietola o di canna e dei
suoi sostituti artificiali. Arriva qualche impresa occidentale; preleva un campione del materiale
conservato in situ; ne decuplica la resa con una manipolazione genetica ed ottiene il brevetto sulla
varietà “modificata”. Un momento dopo, il prodotto originario è inevitabilmente fuori mercato data la
sua bassa resa rispetto a quello modificato. Tutti i profitti del nuovo prodotto, sulla base delle regole
di appartenenza del regime brevettuale, appartengono solo ed esclusivamente al titolare del brevetto e
non alle collettività che hanno conservato il germoplasma di partenza. Questo risultato è chiaramente
iniquo ma non del tutto infrequente se è vero, ad esempio, che il fenomeno della “biopirateria”, così è
designata l’appropriazione non autorizzata di risorse genetiche da piante ed animali del Sud del
Mondo, è un fenomeno denunciato con crescente frequenza ed asprezza dai paesi in via di sviluppo:
M. Ricolfi, La brevettazione, cit., p. 8.
213
) Tra queste, l’osservazione che il divieto di brevettazione non incide sull’attuazione
dell’invenzione e che, anzi, potrebbe indurre l’inventore a sfruttare l’innovazione in regime di segreto
con la conseguenza che verrebbe ridotto anziché ampliato il controllo sociale sulle tecnologie
pericolose: P. Spada, Liceità dell’invenzione brevettabile, cit., p. 15. In senso conforme G. Ghidini,
G. Cavani, Brevetti, cit., p. 20, i quali sostengono che il rifiuto di brevettare una tecnologia non ne
preclude, di per sé, l’attuazione; ove ciò sia fattualmente possibile, ne promuove fatalmente la
produzione in regime di segreto aggiungendo così all’inutilità (sul piano etico) della mancata
brevettazione il danno, consistente in una riduzione della quantità delle conoscenze scientificotecnologiche rese di pubblico dominio, determinando un conseguente rallentamento del processo di
subequent innovation.
99
4. Limiti alla brevettabilità del materiale biologico. La sentenza della Corte
di Giustizia nel caso Brüstle
In linea di principio, non esiste alcun divieto di brevettare le invenzioni
biotecnologiche215; ciò nonostante, sono stati posti dei limiti alla concessione della
privativa216.
Sono esclusi dal novero delle invenzioni brevettabili il corpo umano nei vari stadi
della sua costituzione e sviluppo compreso l’embrione217; le invenzioni il cui
sfruttamento218 commerciale sia contrario alla dignità umana, all’ordine pubblico e
al buon costume219, alla tutela della salute, dell’ambiente e della vita delle persone e
degli animali, alla preservazione dei vegetali e della biodiversità ed alla prevenzione
di gravi danni ambientali, in conformità ai principi contenuti nell’articolo 27,
paragrafo 2, dell’Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al
commercio (TRIPS)220.
L’esclusione riguarda, in particolare: i procedimenti di clonazione di esseri
214
) In quest’ottica, è stata presa in considerazione la necessità di istituire autorità specificamente
preposte al controllo di particolari tipologie di rischi connessi alle invenzioni (nella specie: ambientali
correlativi all’introduzione di piante resistenti agli erbicidi: Commissione tecnica di ricorso dell’UEB
del 21 febbraio 1995, caso "Plant Genetic Systems") piuttosto che mettere in discussione la
competenza dell’UEB ad operare la valutazione corrispondente.
215
) In tal senso il considerando n. 15 Direttiva 98/44/CE.
216
) Nel considerando n. 14 della Direttiva 98/44/CE si legge: “un brevetto di invenzione non autorizza
il titolare ad attuare l’invenzione, ma si limita a conferirgli il diritto di vietare ai terzi di sfruttarla a
fini industriali e commerciali e che, di conseguenza, il diritto dei brevetti non può sostituire ne´
rendere superflue le legislazioni nazionali, europee o internazionali che fissino eventuali limiti o
divieti, o dispongano controlli sulla ricerca e sull’utilizzazione o sulla commercializzazione dei suoi
risultati, con particolare riguardo alle esigenze di sanità pubblica, sicurezza, tutela dell’ambiente,
protezione degli animali, conservazione della diversità genetica e relativamente all’osservanza di
alcune norme etiche”.
217
) Art. 81 quinques, commi 1, lett. a), e 2, c.p.i. L’Italia recependo la direttiva comunitaria, ha
escluso dalla brevettabilità ogni procedimento tecnico che utilizzi cellule embrionali umane; il divieto
è assoluto ed include anche le linee di cellule staminali embrionali umane.
218
) La locuzione sfruttamento è sufficientemente ampia da essere considerata equivalente alle nozioni
di pubblicazione od attuazione dell’invenzione: in tal senso R. Rossolini, La tutela dell’embrione
umano nelle invenzioni biotecnologiche alla luce della sentenza della Corte di Giustizia nel caso
Brustle, in Riv. dir. ind., 2012, p. 136.
219
) La costante giurisprudenza della Corte di giustizia richiede il verificarsi di una minaccia effettiva
ed abbastanza grave ad uno degli interessi che, in un determinato momento storico, sono considerati
fondamentali dal Paese interessato. Anche la violazione del buon costume, che solitamente non
assume valore autonomo rispetto all’ordine pubblico, richiede che lo sfruttamento, in un dato contesto
culturale caratterizzante la società, sia considerato ripugnante.
220
) Art. 81 quinques, comma 1 lett. b) c.p.i.
100
umani221; i procedimenti di modificazione dell’identità genetica germinale
dell’essere umano; ogni utilizzazione di embrioni umani, ivi incluse le linee di
cellule staminali embrionali umane; i procedimenti di modificazione dell’identità
genetica degli animali atti a provocare su questi ultimi sofferenze senza utilità
medica sostanziale per l’essere umano o l’animale, nonché gli animali risultanti da
tali procedimenti; le invenzioni riguardanti protocolli di screening genetico, il cui
sfruttamento conduca ad una discriminazione o stigmatizzazione dei soggetti umani
su basi genetiche, patologiche, razziali, etniche, sociali ed economiche, ovvero
aventi finalità eugenetiche e non diagnostiche222.
I suesposti limiti sono contenuti anche nella Direttiva comunitaria 98/44/CE223; la
ratio della disciplina è quella di tutelare la dignità umana224. In tal si è espressa
anche la Corte di giustizia nella sentenza del 9 ottobre 2001 con la quale,
respingendo il ricorso volto all’annullamento della direttiva in esame, attribuiva alla
dignità umana un rilievo autonomo rispetto agli altri diritti fondamentali
dell’Unione225.
221
) La clonazione comprende tutti quei procedimenti rivolti a produrre un essere umano con le stesse
informazioni genetiche nucleari di un altro essere umano, vivo o morto, comprese le tecniche di
scissione degli embrioni (41° considerando della direttiva). La clonazione può essere applicata
all’uomo con finalità riproduttive o terapeutiche. Nel primo caso, consiste nella produzione in vitro di
un embrione che, impiantato nell’utero, sviluppa un feto. Nel secondo caso, lo sviluppo del clone è
bloccato in laboratorio al fine di ottenere cellule staminali embrionali umane. Il divieto di clonazione è
sancito dall’art. 11 della Dichiarazione dell’UNESCO sul genoma umano del 1998 nonché dal
Protocollo addizionale alla Convenzione sulla biomedicina firmato a Parigi il 12 gennaio 1998. La
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel campo medico e biologico vieta soltanto la
clonazione riproduttiva.
222
) Art. 81 quinques, comma 1 lett. b) c.p.i.
223
) Cfr. artt. 5 e 6 Direttiva 98/44/CE.
224
) R. Rossolini, op. cit., p. 139 ritiene che sia di difficile connotazione il concetto di dignità umana,
ritenendola una nozione più facile da percepire più che da definire pur essendo alla base di tutte le
libertà. Generalmente, essa è ricondotta al dato comune in base al quale l’essere umano non può essere
svilito a grandezza misurabile e, quindi, equiparato a cosa. Una più precisa connotazione del termine
può essere fornita in relazione al caso concreto che, nella fattispecie che ci occupa, è connessa ad una
concezione di uomo intesa come realtà o continuum biologico.
225
) La sentenza ritiene che la direttiva 98/44/CE salvaguardi la dignità umana assicurando
l’indisponibilità ed inalienabilità del corpo come materiale biologico umano. In tal senso, il 38°
considerando della direttiva avverte che non sono brevettabile invenzioni contrastanti con la dignità
umana; il 14° considerando richiama la Carta dei diritti fondamentali dell’uomo che, all’art. 1,
protegge la dignità dell’uomo. Per approfondire il testo della sentenza della Corte di Giustizia si
rimanda al Cap. II, par. 3.
101
Qualche anno fa, la Corte è tornata ad occuparsi della direttiva 98/44/CE226. La
vicenda riguarda un brevetto rilasciato in Germania al sig. Oliver Brüstle
relativamente a cellule staminali isolate e purificate di neuroni, ai processi necessari
per produrle a partire dalle cellule staminali embrionali, all’uso delle cellule
precursori227 per il trattamento delle malattie neuronali come il morbo di Parkinson.
Il brevetto era stato impugnato, tra gli altri, da Greenpeace innanzi al Tribunale dei
brevetto tedesco che l’aveva invalidato per il fatto che le cellule precursori erano
state ottenute da cellule staminali embrionali umane ricavate dall’embrione, allo
stadio di blastula228, che veniva poi distrutto dal prelievo. Detta pronuncia era stata,
a sua volta, impugnata dall’interessato dinanzi alla Corte federale di Cassazione
tedesca che sottoponeva, in via pregiudiziale, alla Corte di Giustizia i quesiti
concernenti l’interpretazione dell’art. 6, n. 2, lett. c) della direttiva; alla Corte
veniva, tra gli altri, sottoposto anche il quesito di precisare a quale stadio di sviluppo
della vita umana poteva ritenersi esistente l’embrione229.
Richiamando, ancora, il principio della dignità umana, la Corte interpreta la
normativa comunitaria in senso ampio statuendo che qualsiasi ovulo umano deve
essere considerato embrione sin dalla fase della sua fecondazione. Sono da
considerarsi ovuli anche le cellule uovo non fertilizzate, nelle quali è stato
impiantato il nucleo di una cellula umana differenziata230 o, alternativamente,
stimolate a dividersi e svilupparsi per partogenesi; queste cellule infatti, pur non
essendo fertilizzate, sono ugualmente in grado di dare inizio ad un processo di
sviluppo di un organismo proprio al pari della cellula uovo fertilizzata da uno
226
) Causa C-34/10, Brüstle/Greenpeace, sentenza del 18 ottobre 2011.
) Una cellula precursore è una cellula non differenziata, immatura, ancora incapace di moltiplicarsi
e di differenziarsi. Una cellula precursore di cellule neuronali è in grado di differenziarsi in cellule
mature del sistema nervoso: i neuroni.
228
) Cfr. infra.
229
) Per un’esaustiva e completa descrizione dei quesiti si rimanda a R. Rossolini, op. cit., p. 143.
230
) Si tratta della c.d. clonazione di organismi alla base della produzione di organismi geneticamente
modificati (OGM).
227
102
spermatozoo231.
Nell’esaminare il caso Brüstle, la Corte si occupa anche delle cellule staminali
ottenute da un embrione umano quando è ad uno stadio di sviluppo denominato
blastocisti; si tratta di cellule multipotenti incapaci, una volta isolate, di dare origine
ad un organismo232. A tal proposito, la Corte ha scelto di non dare una risposta
definitiva e cristallizzata, assumendo, piuttosto, come occorra tenere in
considerazione gli sviluppi della scienza; se infatti la ricerca permettesse, in futuro,
di generare un individuo da una cellula embrionale umana prelevata da un embrione
allo stadio di blastocisti, essa rientrerebbe nella definizione di embrione umano e,
quindi, ne sarebbe impedita la brevettabilità di ogni uso ai sensi dell’art 6 n. 2 lett. c)
della Direttiva 98/44/CE.
Escluso dalla brevettabilità è anche l’impiego di embrioni umani ai fini di ricerca;
nonostante, in linea generale, le finalità della ricerca scientifica devono essere tenute
distinte dalle finalità industriali e commerciali, l’utilizzo di embrioni umani per
ricerche che poi conducano ad una materia oggetto di brevetto non può essere
distinto dal diritto brevettuale che esso stesso generi233. La sola eccezione ammessa
dalla Corte a tale diniego è rappresentata dagli usi di embrioni umani a scopi
terapeutici o diagnostici come, ad esempio, per correggere malformazioni o per
231
) Per determinare il significato di embrione, la Corte considera lo scopo della direttiva ovvero la
tutela della dignità umana; tale concetto assorbe, menzionato dal 13° considerando della direttiva,
quella di integrità del corpo umano in quanto la dignità costituisce un implicito, quanto necessario,
corollario dell’indisponibilità ed inalienabilità della materia umana vivente. Da tale premessa, la Corte
desume che occorre interpretare la nozione di embrione in modo ampio stante l’indisponibilità della
materia vivente ai fini brevettuali.
232
) Una blastocisti è uno stadio tardivo dello sviluppo embrionale di un vertebrato che per la specie
umana si ottiene almeno cinque giorni dopo il momento della fertilizzazione. Le cellule staminali che
compongono i blastocisti, pur essendo ancora immature, non differenziate, sono oramai programmate
e, pertanto, multipotenti, in grado ciò di differenziarsi solo in alcune direzioni.
233
) Il giudizio appare rafforzativo della regola generale che nega l’estensione del diritto di brevetto a
ricerche condotte a fini sperimentali contenuta nelle leggi nazionali (per l’Italia art. 68, comma 1, lett.
a), c.p.i.).
103
limitare casi spontanei di aborti234.
Coerentemente con le predette dichiarazioni, la Corte, chiamata a pronunciarsi
sulla brevettabilità di un’invenzione che implica la produzione di cellule precursori
neuronali da cellule staminali embrionali umane, con la conseguente distruzione
dell’embrione per il loro ottenimento, ne ha escluso la brevettabilità; l’esclusione si
estende infatti anche ai casi in cui l’oggetto delle rivendicazioni, pur non
menzionando o non consistendo nell’utilizzazione di embrioni umani, presupponga
però il loro uso o distruzione235.
La sentenza non ha tuttavia escluso la brevettabilità di cellule staminali di
derivazione non embrionale che non abbiano le potenzialità di totipotenza, cioè che
non siano in grado di dare origine ad un organismo236; in altre parole, l’unico spazio
di brevettabilità è quello che riguarda cellule staminali pluripotenti che non derivino
da procedimenti in cui sia necessario distruggere un embrione umano.
234
) Il 42° considerando della Direttiva 98/44/CE recita: “Le utilizzazioni di embrioni umani a fini
industriali o commerciali devono a loro volta essere escluse dalla brevettabilità; che tale esclusione
non riguarda comunque le invenzioni a finalità terapeutiche o diagnostiche che si applicano e che sono
utili all’embrione umano”. O. Capasso, La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea
sulla brevettabilità di cellule staminali derivate da embrioni umani, in Riv. dir. ind., 2012, p. 261,
commenta la sentenza osservando che la statuizione sarà di difficile applicazione sia in considerazione
dell’imprescindibile divieto di ottenere un brevetto se si attuano procedimenti che comportano la
distruzione dell’embrione umano, sia per l’estesa interpretazione, fornita dalla Corte stessa, al
concetto di embrione. Per ulteriori commenti alla sentenza si rimanda a L. Marini, Brevetto
biotecnologico e cellule staminali nel diritto comunitario, in Giurisprudenza Commentata, 2013, p.
586, G. Colangelo, La tutela delle invenzioni biotecnologiche in Europa e negli Stati Uniti alla luce
dei casi Brustle e Myriad Genetics, in Giur. Comm., 2012, p. 35.
235
) In una sentenza relativa a colture di cellule staminali, il Eboa, nel novembre del 2008, caso Warf /
Thomson (G 2/06), aveva deciso che sotto l’EPC non era possibile concedere un brevetto per
un’invenzione che implicava necessariamente l’uso e la distruzione di embrioni umani. Il Eboa
sottolineava, tuttavia, che la sua decisione non riguardava la questione generale della brevettabilità
delle cellule staminali umane.
236
) Da alcune cellule si possono ottenere alcuni tessuti come dal sangue, dal cordone ombelicale e dai
tessuti che mantengono capacità rigenerative.
104
5. L’applicazione industriale dell’invenzione biotecnologica
Tra i requisiti necessari affinché l’invenzione acceda alla tutela brevettuale,
l’industrialità è, probabilmente, quello che, risultando piuttosto sfumato nella forma
e nella sostanza, appare di più difficile connotazione237.
Facendo riferimento al dato normativo nazionale, il requisito risulta integrato
allorché l’oggetto di un’invenzione possa “essere fabbricato o utilizzato in qualsiasi
genere di industria, compresa quella agricola”238; è, a tal proposito, acutamente
chiarito che esso consiste nella “ripetibilità del processo di fabbricazione per un
numero non finito di volte con risultati costanti”239.
La presenza di questo requisito, che garantisce la possibilità di distinguere tra
invenzione e scoperta240, è richiesta in via meramente potenziale così come si
237
) Emblematico al proposito, pur se tra il serio ed il faceto, V. Di Cataldo, La brevettabilità delle
biotecnologie. Novità, attività inventiva, industrialità, in Riv. dir. ind., 1999, p. 188 “(…) avendo detto
più volte, in pubblico ed in privato, che non ho mai capito bene cosa sia l’industrialità (…)”. A.
Vanzetti, V. Di Cataldo, op. cit., p. 384 osservano che il requisito della industrialità si confonde,
invero, con la stessa definizione di invenzione brevettabile. Sul piano storico, potrebbe avanzarsi
l’ipotesi che tale requisito non abbia avuto per secoli effettiva consistenza e che l’espressione
“invenzione industriale” sia stata adoperata in origine come un concetto unitario, il cui contenuto era
tutto e solo riferito al sostantivo “invenzione” e l’aggettivo “industriale” si aggiungeva in termini
quasi solo pleonastici, senza alcun valore proprio. Sotto altra prospettiva, potrebbe ipotizzarsi che nel
corso dell’ottocento l’aggettivo “industriale” sia stato adoperato per distinguere le invenzioni,
appunto, “industriali”, ritenute brevettabili, dalle invenzioni “non industriali”, ritenute non
brevettabili. Invenzioni “non industriali” venivano considerate quelle agricole, riguardanti sementi,
innesti ed ibridi cioè quelle parti che oggi si definirebbero nuove “varietà vegetali”. Se l’una o l’altra
delle due ipotesi storiche appena indicate risultasse confermata, si avrebbe la ragione della difficoltà,
ovunque avvertita, di trovare un contenuto accettabile per il requisito della industrialità. G. Oppo, Per
una definizione dell’industrialità dell’invenzione, in Riv. dir. civ., 1973, p. 4, ritiene che al requisito di
industrialità si è talvolta assegnato il significato di indicare che l’invenzione è completa solo quando il
suo oggetto è idoneo a essere riprodotto con caratteri ed effetti costanti, requisito pure questo che
peraltro è già desumibile dal concetto stesso di invenzione tecnica, il quale implica padronanza dei
meccanismi causali utilizzati.
238
) Cfr. art. 49 c.p.i. La norma definisce l’industrialità come fabbricabilità industriale o utilizzabilità
industriale dell’invenzione; le due note sono chiaramente alternative e si riferiscono, rispettivamente,
all’invenzione di prodotto ed a quella di procedimento.
239
) A. Vanzetti, V. Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, cit., p. 336 scrivono che l’industrialità
“non implica fabbricabilità in serie” bensì “la ripetibilità del processo di fabbricazione per un
numero non finito di volte con risultati costanti". Questo requisito, osservano gli Autori, appare di
grande portata nei settori della chimica e della biologia nei quali non è sempre facile comprendere il
significato di ciascuna delle componenti di una certa operazione, perché per garantire la ripetibilità
dell’operazione occorre avere raggiunto un quadro chiaro delle diverse influenze di ogni settore.
240
) Si veda, a tal proposito, il Capitolo II, par. 6.
105
desume dalla formulazione dell’art. 49 c.p.i. dove si parla di invenzioni “atte ad
avere un’applicazione industriale”241.
Di tenore analogo sono le disposizioni di cui agli artt. 3 e 5 della direttiva
98/44/CE.
L’art. 3 fa riferimento al dato meramente potenziale della suscettibilità di
applicazione industriale del materiale biologico242.
Il requisito sembra invero assumere un’altra identità quando si considerano le
invenzioni aventi ad oggetto materiale biologico di origine umana; la brevettabilità
di sequenze di geni o di sequenze parziali di geni è infatti subordinata dall’art. 5,
comma 3, della citata direttiva alla concreta indicazione, nella domanda di brevetto,
dell’applicazione industriale delle sequenze geniche. Il dato testuale sembrerebbe
pertanto suggerire che in relazione ad un particolare tipo di invenzioni, quelle
appunto aventi ad oggetto sequenze di geni o sequenze parziali di geni, il legislatore
non si sia accontentato di un requisito solo potenziale ma abbia invece avvertito la
necessità di richiederne una sua manifestazione concreta ed immediata243.
241
) Nella medesima direzione conduce l’analisi dell’art. 57 CBE, il quale fa riferimento ad una
“invention (…) susceptible of industrial application”, e quella dell’art. 27 dell’Accordo TRIPS dove il
richiamo è alle “inventions (...) capable of industrial application”.
242
) La norma riguarda il materiale biologico attinente ad un essere vivente; l’art. 5 si riferisce invece,
specificatamente, al materiale biologico di origine umana.
243
) V. Di Cataldo, La brevettabilità, cit., p. 188. Si rimanda sull’argomento anche alle considerazioni
già espresse nel Cap. II, par. 9.
106
6. Principio di proporzionalità fra esclusiva ed apporto inventivo: ratio della
norma
La legge italiana ed europea dispongono, in modo espresso, la nullità del
brevetto qualora nella relativa domanda manchi o sia insufficiente la descrizione244.
Il precetto ha un ruolo strategico245; il brevetto attribuisce all’inventore un
monopolio temporaneo commisurato all’effettivo apporto fornito dall’insegnamento
stesso246.
244
) In tal senso artt. 76 c.p.i. e 138 CBE. Per G. Floridia, Le creazioni intellettuali a contenuto
tecnologico, in Aa.V.v, Diritto industriale Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2012, p. 262,
il requisito della descrizione sarebbe un vero è proprio requisito di validità del brevetto seppur non
attinente alla struttura dell’invenzione bensì alla redazione del brevetto come documento e come titolo
avente efficacia costitutiva della protezione. Per A. Vanzetti, V. Di Cataldo, op, cit., p. 340 sarebbe
invece un elemento “necessario” del brevetto stesso. G. Guglielmetti, La brevettazione, cit., p. 99
osserva che un’invenzione è compiuta, ai fini della brevettazione, quando può essere descritta in
maniera sufficientemente chiara da consentire a ogni persona esperta del ramo di attuarla con caratteri
costanti. Per assicurarne la riproducibilità, è sufficiente che sia compresa, almeno a livello empirico,
l’esistenza del rapporto causale tra i mezzi impiegati per la soluzione del problema ed il risultato
ottenuto.
245
) Non solo ai fini della validità del brevetto ma anche dell’interpretazione delle rivendicazioni (che
vanno intese alla luce della descrizione) e dell’individuazione della data di priorità (che assiste
l’estensione in altro paese nei limiti in cui il brevetto successivo già fosse adeguatamente descritto
nella prima domanda): M. Ricolfi, op. cit., p. 5.
246
) Il diritto esclusivo di utilizzare l’invenzione sorge con il rilascio del brevetto da parte dell’Ufficio
Italiano Brevetti e Marchi; dalla data del deposito della domanda, che funge anche da criterio di
soluzione del conflitto tra più inventori, decorre il termine ventennale di efficace del brevetto (art. 60
c.p.i.). Ciascuna domanda deve avere ad oggetto una sola invenzione (principio dell’unità
dell’invenzione), deve individuare l’invenzione, proporre per essa un titolo (che ha funzione
prevalentemente classificatoria), articolare le rivendicazioni e fornire una descrizione dell’invenzione.
Nell’invenzione di procedimento, l’invenzione si realizza tramite l’indicazione dell’obbiettivo del
procedimento e delle sue caratteristiche fondamentali. Nell’invenzione di prodotto, l’individuazione
dell’invenzione si realizza tenendo conto che l’invenzione non è il prodotto in sé bensì il prodotto
rivolto ad un certo uso. Nel settore delle biotecnologie, la domanda volta a brevettare una sequenza
genica deve indicare concretamente e rivendicare specificatamente le applicazioni industriale
dell’invenzione stessa. Nell’invenzioni d’uso, tale requisito limiterà l’ambito di estensione del
brevetto. Le rivendicazioni, segnalano invece i punti per i quali il richiedente intende acquisire il
diritto di esclusiva e svolgono un ruolo essenziale in sede di interpretazione del brevetto poiché,
appunto, permettono di conoscere la finalità dell’invenzione; esse sono strumento imprescindibile per
il trattamento elettronico dei dati brevettuali, consentendo all’Ufficio (ove sia previsto un esame
sostanziale delle domande) ed a qualunque interessato di acquisire una rapida informazione sul
contenuto dei diritti di brevetto esistenti. La descrizione deve essere tale da permettere, ad una persona
esperta del ramo, l’attuazione dell’invenzione (art. 51, comma 2, c.p.i.). Quando l’invenzione ha ad
oggetto o utilizza materiale biologico contenente microrganismi o OGM la domanda necessita di una
dichiarazione che garantisca l’avvenuto rispetto degli obblighi riguardanti tali modificazioni derivanti
dalle normative nazionali o UE. Quando invece la domanda ha per oggetto o utilizza materiale
biologico di origine umana deve essere obbligatoriamente corredata dalla dichiarazione di consenso
espresso, libero ed informato della persona cui è stato estratto il materiale biologico.
107
L’inventore,
in
cambio
della
protezione
temporanea
attribuitagli
dall’ordinamento, è tenuto a mettere a disposizione della collettività tutte le
informazioni tecnologiche corrispondenti al nuovo insegnamento. A tanto egli è
tenuto in vista di un duplice fine: arricchire, con la descrizione dell’invenzione, lo
stato dell’arte già nell’immediato, a partire cioè dalla pubblicazione della domanda,
e consentire, al successivo momento della scadenza della tutela, la libera
riproduzione dell’invenzione nel frattempo caduta in pubblico dominio.
In ordinamenti dove la libertà concorrenziale è la regola e l’esclusiva
monopolistica è l’eccezione, il principio di proporzionalità mira ad evitare che i costi
del monopolio possano eccedere quanto è strettamente indispensabile per conseguire
i benefici connessi al brevetto stesso247; la normativa sulla sufficienza della
descrizione mira, a sua volta, ad assicurare che la regola di proporzionalità sia
rispettata248.
Nel settore delle biotecnologie la descrizione può essere integrata da un deposito
del materiale biologico cui l’invenzione si riferisce249. Quando l’intervento umano
riguarda il vivente, la descrizione, seppur minuziosa, non garantisce che
247
) I costi sono relativi sia ai beni protetti dal monopolio che a quelli della produzione
dell’innovazione successiva.
248
) Nella materia trattata, esistono delle differenze fra il diritto brevettuale statunitense e quello
europeo; il primo impone che la descrizione sia tale da mettere una persona esperta del ramo nelle
condizioni di attuare l’invenzione ed illustri il best mode di realizzazione e, quindi, la modalità più
agevole ed efficiente. In Europa si richiede che l’invenzione sia “esposta nella domanda di brevetto
europeo in modo sufficientemente chiaro e completo affinché un esperto del ramo possa attuarla” (art.
83 CBE; il lessico dell’art. 51 c.p.i. è quasi identico). L’art. 29(1) TRIPs ammette entrambi gli
standards. Le disposizioni nordamericane, sono imperniate sul raccordo fra un precetto che mette
l’accento sul risultato che deve essere conseguito, la messa a disposizione della nuova tecnologia
all’esperto del ramo, ed un precetto di written description, che si appunta sul modo in cui i caratteri
dell’invenzione sono comunicati ed è preordinato a mostrare tanto che il depositante abbia davvero
conseguito l’invenzione (c.d. possession), quanto che ciascuna rivendicazione sia basata su di un
apporto conoscitivo effettivamente fornito dal depositante. In Europa, la previsione dell’art. 83 CBE è
omologabile al precetto americano della descrizione scritta; quella dell’art. 84 CBE, sancendo che le
rivendicazioni devono “essere chiare e concise e fondarsi sulla descrizione” pare creare un assetto più
smilzo di quello americano.
249
) In Europa v. le Regole 28 e 28a del Regolamento di attuazione della CBE e per l’Italia l’art. 162
c.p.i. Il riconoscimento internazionale del deposito di microrganismi a fini brevettuali è previsto dal
Trattato di Budapest firmato il 28 aprile 1977, ratificato dall’Italia con l. 14 ottobre 1985, n. 610, cui
nel 2001 aderivano 44 Stati. Per approfondire la tematica sul consenso necessario alla raccolta ed alla
conservazione di materiale biologico umano si rimanda a G. Resta, Do we own our bodies ? Il
problema dell’utilizzazione del materiale biologico umano a scopi di ricerca e brevettazione, in
Pòlemos, 2008, p. 115.
108
ripercorrendo le tappe dell’insegnamento brevettuale si produca il risultato
desiderato; appare quindi logico prevedere che l’apporto innovativo dell’inventore
possa, da questi, essere messo a disposizione della collettività.
Al fine di prevenire il rischio che tale normativa incrini la regola della
proporzionalità dell’apporto all’esclusiva250, la direttiva 98/44/CE prevede che in
caso di deposito la descrizione sia ritenuta sufficiente solo se, sulle caratteristiche
del materiale biologico depositato, la domanda fornisca tutte le informazioni
rilevanti di cui dispone il depositante251.
Quando la brevettazione riguarda materiale vivente, il compito di evitare
un’eccedenza
dell’ampiezza
della
protezione
rispetto
all’apporto
effettivo
dell’inventore è affidato ad un governo attento alle regole sulla descrizione. È
necessario tener fermo, date le coordinate normative prescelte dai sistemi europei
nella definizione del requisito di industrialità, il principio per cui l’oggetto su cui
cade la descrizione non può essere solo il materiale biologico rivendicato ma anche
la sua funzione.
Poiché la protezione ha un’estensione assai diversa a seconda dell’ampiezza della
classe di prodotti che essa abbraccia e, così, è assai più larga se si riferisca ad un
250
) Ciò, in particolare, potrebbe avvenire se l’inventore approfittasse della possibilità offertagli di
integrare la descrizione con un deposito per ridurre al minimo le informazioni scritte fornite con la
descrizione vera e propria.
251
) In tal senso l’art. 13 direttiva 98/44/CE. M. Ricolfi, op. cit., p. 5 osserva che si tratta di una
soluzione timida ed insufficiente in quanto si sarebbe dovuto chiarire che la descrizione deve
contenere tutte le informazioni relative, oltre che alle caratteristiche del materiale biologico,
all’invenzione che ad esso si riferisce, che siano disponibili al depositante o, in altri termini, che il
deposito può solo integrare ma non sostituire la descrizione. In questa direzione si muoveva
l’Emendamento presentato dall’On. Bontempi con il n. 56 (in PE 150.463/Em. 56 Or. PAN) approvato
come Emendamento 35 dal Parlamento europeo nelle sedute dell’8 aprile 1992 e 29 ottobre 1992 ma
lasciato cadere nella successiva legislatura V. Relativamente alla sufficiente descrizione ed all’esatta
individuazione della provenienza del materiale biologico C. Signorini, I diritti di proprietà industriale
in materia di biotecnologie e la tutela della biodiversità, in G. Ghidini, G. Cavani (a cura di), Brevetti
e Biotecnologie, Roma, 2008, p. 206, osserva che l’art. 13 della citata Direttiva non consente di
collegare direttamente la mancata indicazione della provenienza del materiale genetico
all’insufficienza della descrizione. Il considerando 27 prevede infatti che la domanda di brevetto deve
contenere indicazioni sul luogo geografico di origine del materiale genetico e che la mancanza di tale
indicazione non pregiudica il rilascio del brevetto in quanto non incide sull’esame delle domande e
sulla validità dei diritti. Nonostante ciò, conclude l’Autrice, si deve evitare una interpretazione della
disciplina della proprietà industriale che risulti di ostacolo alla diffusione di tecnologie idonee ad uno
sviluppo sostenibile. Una completa spiegazione delle modalità poste in essere dal tecnico per attuare
l’innovazione dovrebbe, quindi, anche prevedere un’adeguata informazione sulle caratteristiche del
materiale e sulla sua provenienza.
109
genus di beni anziché ad una species, si tratta di sottoporre a riesame la regola, che
può aver giustificazione nel campo meccanico ma necessita una verifica più attenta
quando sia trasposta nel campo della materia vivente, in forza della quale può
bastare la descrizione di un solo esempio di realizzazione per ottenere una tutela
estesa a tutta la classe rivendicata252.
252
) Sul punto esiste una previsione specifica del Regolamento di attuazione della CBE, la Regola
27(1)(e), su cui la Direttiva europea 98/44/CE non pare aver influito direttamente. Effettivamente la
prassi europea tende talora ad accontentarsi di un solo esempio di realizzazione per concedere poi
rivendicazioni estese a tutta la classe (così ad es. la decisione della Commissione tecnica di ricorso
dell’UEB del 3 ottobre 1990, caso "Onco-mouse/Harvard", secondo cui potrebbe, salvo prova
contraria, essere sufficiente la descrizione di un solo esempio di realizzazione, riferito ai topi, anche se
la rivendicazione sia più ampia e riferita a tutti i mammiferi non umani). Tra le sentenze nazionali, si
segnala quella resa dalla House of Lords nel caso del 1996 Biogen Inc. v. Medeva PLC.; ivi si
distingue fra il caso in cui l’invenzione abbia per oggetto un principio generale e quello in cui essa
concerna realizzazioni specifiche prima di valutare quante esemplificazioni siano necessarie per
soddisfare il precetto che impone che le rivendicazioni siano supportate dalla descrizione. M. Ricolfi,
op. cit., p. 5 osserva che l’approccio seguito in Biogen Inc. v. Medeva PLC, è preferibile perché
presenta un duplice vantaggio. Esso infatti consente di evitare tanto il rischio di concedere un
monopolio brevettuale esteso ad intere classi quando l’apporto dell’inventore sia invece limitato ad
una singola realizzazione (in cui incorre la prassi dell’UEB, che troppo spesso trascura che la
biotecnologia, diversamente dalla meccanica, è “arte imprevedibile” in senso brevettuale), quanto il
rischio, opposto e simmetrico, di imporre all’inventore l’onere di investire risorse ingenti per attività
di routine di verifica di laboratorio concernenti l’eseguibilità dell’invenzione anche per modalità di
realizzazione non molto diverse da quelle da cui sia nato il principio generale inventivo.
110
Capitolo IV
Il fenomeno della privatizzazione della conoscenza nel settore della
ricerca e dello sviluppo: criticità e rimedi posti a tutela delle istanze
sociali e del mercato
111
1. Il ruolo della conoscenza nell’attuale sistema economico. Il capitalismo c.d.
cognitivo
Ai profondi mutamenti verificatesi nell’ambito della tutela brevettuale
corrispondono altrettanti, importanti, cambiamenti del sistema economico; i mezzi
di produzione tradizionali (beni fisici, mobili ed immobili) hanno perso la funzione
cruciale che svolgevano fino a pochi lustri fa ed, in un’economia knowledge-based
come l’attuale, l’informazione è divenuta il bene di maggior valore253.
Il lavoro, la proprietà e le forze produttive tradizionali, tipiche di una società
industriale figlia delle macchine e del capitale fisico, non sono più considerate
fattore di crescita dell’economia e della ricchezza; ad esse si è sostituita la
conoscenza che, attualmente, rappresenta il principale fattore di competitività delle
imprese254. Gli studi economici e le rilevazioni statistiche confermano come i dati di
crescita e di produttività dei diversi sistemi nazionali dipendano non tanto dalla
253
) M. Granieri, Evoluzione del diritto statunitense sulla tutela brevettuale e profili di contrasto con le
dinamiche concorrenziali, in Giur. Comm., 2003, p. 29.
254
) M. Vona, Management delle biotecnologie. Competizione, innovazione e sviluppo
imprenditoriale, Milano, 2008, p. 80. G. Sena, Beni materiali, beni immateriali e prodotti industriali:
il complesso intreccio delle diverse proprietà, in Riv. dir. ind., 2004, p. 55 scrive: “… tutti gli oggetti
prodotti dall’uomo sono composti da elementi immateriali e da elementi materiali. Tutti i manufatti,
ed in particolare i prodotti industriali ai quali più specificamente mi riferisco, consistono nella
realizzazione, con mezzi materiali ed in oggetti materiali, di conoscenze, esperienze, tecniche
acquisite nel tempo, o di nuove invenzioni, modelli, know how, opere dell’ingegno insomma, frutti di
ricerche attuali. La disciplina della produzione industriale e la attribuzione dei suoi prodotti
all’imprenditore, presuppone dunque regole giuridiche circa la disponibilità, tanto dei fattori
materiali (strumenti e materia), quanto delle conoscenze immateriali; la proprietà dell’oggetto
prodotto, sintesi delle due componenti, richiede insomma la proprietà-disponibilità dei fattori
materiali della produzione e la proprietà-disponibilità dei beni immateriali che sono alla base della
sua realizzazione; beni diversi, che sono attribuiti e circolano autonomamente secondo regole
proprie. Avviene tuttavia che la rilevanza delle due componenti sia assai diversa nella produzione dei
diversi manufatti. Quando le tecniche ed i modelli utilizzati sono tradizionali, largamente diffusi, non
più rivendicati o rivendicabili da alcuno, caduti, come si dice, in pubblico dominio, l’aspetto
immateriale è trascurato e si ha l’impressione che l’oggetto della produzione sia un bene
esclusivamente materiale; il che non è, né da un punto di vista per così dire di fatto, poiché anche le
conoscenze diffuse sono pur sempre elementi essenziali e spesso preziosissimi della produzione, né da
un punto di vista giuridico, poiché anche la regola del dominio pubblico è pur sempre una regola
giuridica che disciplina la disponibilità dei beni immateriali, ancorché negativa di un diritto
esclusivo. Quando invece il carattere innovativo del prodotto è preminente ed i costi affrontati nella
ricerca e sviluppo sono di gran lunga superiori al valore della materia impiegata nella produzione,
come avviene nei settori tecnologicamente più avanzati, l’aspetto immateriale diviene del tutto
prevalente e si pone al centro della problematica giuridica. L’evoluzione economica è certamente in
questo senso e negli ultimi decenni il prodotto delle società industrializzate è diventato sempre più
immateriale”.
112
disponibilità di capitali e materie prime quanto dagli investimenti effettuati in risorse
intangibili (istruzione, formazione, management, software, R&S, ecc.)255.
La conoscenza è una risorsa fondamentale per il sistema economico sia in veste
di output destinato al consumo (es. istruzione, intrattenimento, ecc.) sia come input
strumentale alla produzione di ulteriore, nuova, conoscenza (c.d. cumulatività della
risorsa); proprio per la centralità che quest’ultima ha assunto nell’attuale processo
produttivo, si parla, non a caso, di “economia della conoscenza”256.
Il capitalismo industriale è stato, a sua volta, progressivamente rielaborato come
capitalismo cognitivo nel quale la capacità di produrre informazioni è condizione
255
) Si veda, in tal senso, OCSE, Scienza, Tecnologia, Industria nella zona OCSE: Quadro di
valutazione, Edizione 2007, disponibile sul sito http://www.oecd.org/dataoecd/63/13/39527059.pdf;
ivi si legge che gli investimenti in conoscenza, base dell’innovazione e del progresso tecnologico,
continuano a crescere nella maggior parte dei paesi oggetto dell’indagine.
256
) Già in passato, oramai quasi due secoli fa, Adam Smith, nella sua opera “La ricchezza delle
nazioni” spiegava l’aumento del reddito con l’apprendimento di nuove conoscenze che si
accompagnava alla crescente divisione del lavoro; quasi un secolo dopo, un altro illustre economista,
Marshall, nei suoi “Principi di economia” attribuiva alla conoscenza il ruolo di motore della
produzione. Soltanto a partire dai primi anni sessanta si è però cominciato a parlare di vera e propria
“economia della conoscenza”. Sebbene venga odiernamente impiegata per comprendere certi
comportamenti, certi vantaggi competitivi, certe gerarchie, la dottrina economica non sembra disporre
di una teoria della conoscenza vera e propria che spieghi come, quando e perché essa viene prodotta,
scambiata ed utilizzata nel circuito economico. Si rimanda ad una variabile esplicativa, la conoscenza
appunto, che non viene però definita, ma solo assunta in base ad ipotesi arbitrarie più o meno credibili.
La mancanza di una teoria della conoscenza trova la sua giustificazione anche nella mancanza di
accordo sul significato da attribuirgli all’interno del mondo accademico: da molti anni, infatti, gli
studiosi tentano di definire dei criteri che permettano di distinguere in maniera univoca i concetti di
informazione, apprendimento, conoscenza, senza essere riusciti, però, a raggiungere risultati
unanimamente apprezzati: V. Zeno Zencovich, G. Battista Sandicchi, L’Economia della conoscenza
ed i suoi riflessi giuridici, in Dir. dell’Informazione e dell’Informatica, 2002, p. 971. Gli Autori
illustrano il dibattito tenutosi sul tema e, tra le tanti tesi sostenute, riportano quella c.d. endogena.
Questa interpreta la conoscenza come network ovvero come il prodotto della correlazione di soggetti
economici che si trasmettono le proprie competenze. Tale teoria, in sostanza, porta avanti un
approccio di tipo sistemico: la conoscenza è, cioè, il risultato dei processi d’interazione nel sistema
economico. La designazione come teoria endogena discende dall’integrazione della conoscenza nella
funzione aggregata della produzione: essa diventa un terzo fattore produttivo, accanto a capitale e
lavoro. Viene, in sostanza, integrata nella teoria endogena come un fattore indispensabile per garantire
la crescita nel lungo termine. I processi cognitivi e organizzativi che promuovono la formazione della
conoscenza tecnologica vengono descritti come un fenomeno essenzialmente economico. La
conoscenza, non soltanto modifica il tasso di sostituzione marginale tra lavoro e capitale, ma introduce
un elemento di entropia persistente nel sistema economico, a causa della difficoltà che il ripristino di
condizioni di equilibrio nell’allocazione delle risorse comporta. Addirittura, secondo tale teoria, nel
lungo termine i rendimenti crescenti indotti dalla conoscenza consentono al sistema economico di
crescere in modo indefinito. Un simile contesto economico viene indicato con il nome di economia
della conoscenza.
113
indispensabile per l’agente economico257; quest’ultimo è chiamato a generare valore
non tanto attraverso una trasformazione delle condizioni materiali dell’esistenza
quanto, piuttosto, attraverso il trasferimento di informazioni, pensieri, emozioni,
identità nelle dinamiche produttive ed innovative258.
257
) D. Lebert-C. Vercellone, Il ruolo della conoscenza nella dinamica capitalistica di lungo periodo:
l’ipotesi del capitalismo cognitivo, in C. Vercellone (a cura di), Capitalismo cognitivo, Roma, 2006, p.
22, ove si sottolinea come l’espressione “capitalismo cognitivo” consenta di “focalizzare l’attenzione
sul rapporto dialettico tra i due termini che lo compongono: il termine capitalismo designa la
permanenza, pur nella loro metamorfosi, delle variabili fondamentali del sistema capitalistico: in
particolare, il ruolo guida del profitto e del rapporto salariale o più precisamente le differenti forme
di lavoro dipendente dalle quali viene estratto il plusvalore; l’attributo cognitivo mette in evidenzia la
nuova natura del lavoro, delle fonti di valorizzazione e della struttura di proprietà sulle quali si fonda
il processo di accumulazione e le contraddizioni che questa mutazione genera”.
258
) Cfr. V. Zeno Zencovich, F. Mezzanotte, Le reti della conoscenza: dall’economia al diritto, in Dir.
dell’Informazione e dell’Informatica, 2008, p. 141, i quali osservano che si potrebbe essere tentati di
circoscrivere il campo applicativo dell’economia della conoscenza a quei settori imprenditoriali che,
in termini generici, vengono ricompresi nella nozione di new economy, la quale, a sua volta, rimanda
alle attività ed agli investimenti basati sulle nuove tecnologie informatiche e telematiche gestibili, in
particolar modo, sulla rete Internet. Così facendo, si corre il rischio, affermano gli Autori, di non
tenere nella dovuta considerazione tutti quei settori produttivi che, seppur non caratterizzati da una
spiccata legittimazione scientifica e dalla codificazione disciplinare del sapere (aree c.d. high-tech e
knowledge intensive), si fondano comunque sul capitale cognitivo, sulla capacità, cioè, di sfruttare e
di rielaborare le conoscenze proprie della realtà in cui ciascun agente economico si trova ad operare.
In altri termini, quando si parla di economia della conoscenza non ci si può limitare ad esaminare quei
settori ad alta densità cognitiva che, attraverso la ricerca di nuove nozioni codificabili (formule,
processi, fattori tecnologici, ecc.), guidano l’avanzamento della frontiera tecnologica; il carattere
cognitivo del sistema economico emerge, infatti, anche in tutte quelle attività che si alimentano dei
saperi, prevalentemente di natura implicita, propri dell’ambiente in cui sono svolte, e che, seppur già a
disposizione degli agenti, richiedono una costante attività di rielaborazione all’interno dei diversi
contesti organizzativi e produttivi al fine di un sempre più efficiente sfruttamento. Se si ammette,
infatti, che il tratto caratterizzante della knowledge-based economy risiede nella possibilità di generare
valore economico attraverso l’uso della conoscenza, si perviene al riconoscimento dell’insussistenza
di una netta discontinuità tra le attività fondate sulla ricerca di nuove forme di conoscenza e quelle che
trovano i propri vantaggi competitivi nella capacità imprenditoriale di sfruttare forme di sapere già
diffuse nell’ambiente economico e produttivo.
114
In questo contesto, si colloca, e trova giustificazione, la generalizzata tendenza ad
abbassare la soglia della brevettabilità259; il diritto di esclusiva conferito
all’innovatore permette la moltiplicazione degli investimenti e delle relazioni
giuridiche aventi ad oggetto la conoscenza e ne assicura lo scambio al prezzo
determinato ex ante dal detentore. Quest’ultimo ha la possibilità di internalizzare i
benefici derivanti dalla propria attività innovativa.
Agli indubbi benefici connessi al sistema dei c.d. intellectual property rights si
affiancano tuttavia rilevanti svantaggi che sembrano precludere il raggiungimento di
soluzioni pienamente efficienti260.
2. Riflessioni sulla conoscenza come merce: criticità del processo di
privatizzazione del sapere.
L’ampliamento dei diritti di privativa ha notevolmente assottigliato i confini tra il
pubblico ed il privato nella circolazione e nella produzione della conoscenza, con
una chiara tendenza al rafforzamento del privato a danno del pubblico261.
259
) G. Ghidini, Prospettive “protezionistiche” nel diritto industriale, in Riv.. dir. ind., 1995, p. 73,
osserva che questa tendenza si manifesta sul piano dell’accesso ai, e della portata stessa dei, diritti
esclusivi. In riferimento alle condizioni di brevettabilità, e più specificamente a quelle che esprimono
(seppur in misura articolata da settore a settore) il grado di selettività dell’accesso all’esclusiva, si è
assistito, quanto al “carattere inventivo”, alla decisa svalutazione del criterio del c.d. progresso tecnico
(ridotto, al più, a indizio di novità) a favore di quello, assai meno oggettivo, della “non ovvietà per un
tecnico medio”. Un criterio che, più del primo, si presta tendenzialmente (specie se la figura
professionale di riferimento sia quella di un tecnico “meramente esecutivo”) ad attenuare il rigore
dell’indagine sino, forse, a prefigurare il sostanziale assorbimento del requisito in parola in quello
della novità in senso estrinseco. Una considerazione, quest’ultima, che appare avvalorata dalla genesi
della norma-madre della CBE (art. 10), dalla quale, osserva l’Autore, si volle espressamente
espungere ogni riferimento al “valore” dell’invenzione. Si aggiunga, sul distinto piano della verifica
della c.d. novità estrinseca, che tale tradizionale, ulteriore ed autonomo, presupposto di brevettabilità
sembra ormai pressoché assorbito dalla valutazione circa la (mera) predivulgazione del trovato. Si
rimanda sul punto anche alle considerazioni espresse nel Capitolo III, par. 1 e 2.
260
) In tal senso Z. Zeno Zencovich, F. Mezzanotte, Le reti della conoscenza, cit., p. 141. In termini di
analisi economica, il sistema dei diritti di proprietà intellettuale rappresenta il modo di introdurre nel
sistema economico una scarsità “artificiale” di un bene non rivale e non escludibile, qual è, appunto,
la conoscenza.
115
Il fenomeno della continua espansione dei diritti esclusivi a fronte della riduzione
degli spazi di libero accesso alle risorse immateriali262, denominato dai giuristi
261
) Un bene è pubblico quando presenta due caratteristiche strettamente correlate: a) non rivalità: il
consumo di un bene pubblico da parte di una persona non ne impedisce il consumo da parte di un’altra
(non ne diminuisce l’ammontare disponibile per ogni altro consumatore); b) non escludibilità: i costi
di esclusione dei beneficiari non paganti che consumano un bene pubblico sono talmente alti che
nessuna impresa privata, che massimizzi i profitti, desidera offrirlo. Se si rivolge l’attenzione al bene
conoscenza, si può osservare come da tempo ne siano state evidenziate con chiarezza alcune
particolarità che la rendono, in sostanza, un bene “pubblico” nel senso precedentemente chiarito. Gli
aspetti essenziali che caratterizzano la conoscenza sono tre: incontrollabilità, non-rivalità e
cumulatività. La conoscenza è un bene che può essere utilizzato anche da chi non abbia partecipato
alla sua creazione; in altre parole, si tratta di un bene “fluido e trasportabile”, che è difficile rendere
esclusivo e controllare privatamente. La conoscenza è tipicamente un bene non esauribile e che, per di
più, aumenta al crescere della sua utilizzazione. Nel campo scientifico e tecnologico, la conoscenza
rappresenta un processo cumulativo e progressivo. In un certo senso, infatti, la conoscenza non è
soltanto il risultato dell’attività di ricerca e sviluppo (R&S), ed in genere di ogni attività rivolta
all’innovazione, ma ne è anche fattore produttivo essenziale. In sostanza, la conoscenza acquisita
svolge un ruolo essenziale per la creazione di ulteriore nuova conoscenza. La conoscenza come
“bene” si colloca facilmente nel contesto di strategie di intervento pubblico sotto un duplice profilo: lo
Stato dispone di vastissime quantità di informazioni e di conoscenze (si pensi ai dati statistici, agli
archivi storici, ai registri pubblici) e dunque deve individuare le regole in base alle quali utilizzare,
comunicare, cedere questi dati e queste conoscenze. In secondo luogo, lo Stato moderno ha come
tipica missione quella di assicurare la conoscenza e l’informazione ai propri cittadini partendo dalle
scuole per arrivare all’università: V. Zeno Zencovich, G. Battista Sandicchi, L’Economia, cit., p. 971,
cui si rimanda per approfondire la tematica ed, in generale, le linee politiche in materia di conoscenza
come bene.
262
) Molti degli interventi comunitari promossi negli anni Novanta sono ispirati a garantire un “elevato
livello di protezione” della proprietà intellettuale all’interno di un quadro giuridico armonizzato. Nel
Considerando n. 10 della direttiva 2004/48/CE sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale si legge:
“L’obiettivo della presente direttiva è di ravvicinare queste legislazioni al fine di assicurare un livello
elevato, equivalente ed omogeneo di protezione della proprietà intellettuale nel mercato interno”. Il
Considerando n. 4 della direttiva 2001/29/CE sull’armonizzazione del diritto d’autore nella società
dell’informazione recita: “Un quadro giuridico armonizzato in materia di diritto d’autore e di diritti
connessi, creando una maggiore certezza del diritto e prevedendo un elevato livello di protezione
della proprietà intellettuale, promuoverà notevoli investimenti in attività creatrici ed innovatrici,
segnatamente nelle infrastrutture delle reti, e di conseguenza una crescita e una maggiore
competitività dell’industria europea per quanto riguarda sia la fornitura di contenuti che le
tecnologie dell’informazione nonché, più in generale, numerosi settori industriali e culturali. Ciò
salvaguarderà l’occupazione e favorirà la creazione di nuovi posti di lavoro”. Nel Considerando 9
della direttiva 2001/29/CE appena citata si legge ancora:“Ogni armonizzazione del diritto d’autore e
dei diritti connessi dovrebbe prendere le mosse da un alto livello di protezione, dal momento che tali
diritti sono essenziali per la creazione intellettuale. La loro protezione contribuisce alla salvaguardia
e allo sviluppo della creatività nell’interesse di autori, interpreti o esecutori, produttori e
consumatori, nonché della cultura, dell’industria e del pubblico in generale. Si è pertanto
riconosciuto che la proprietà intellettuale costituisce parte integrante del diritto di proprietà”. Il
Libro Verde del 2008 sul diritto d’autore nell’economia della conoscenza e la Comunicazione al
Consiglio, al Parlamento ed al Comitato Economico e Sociale del Settembre del 2009 recano il titolo
“Migliorare la tutela dei diritti di proprietà intellettuale nel mercato interno”. Tale politica è stata
giustificata sulla base del paradigma utilitaristico secondo cui il rafforzamento delle esclusive è uno
strumento di crescita economica ed occupazionale. L’art. 17, 2° comma, della Carta dei Diritti
Fondamentali dell’Unione Europea dispone infine che “la proprietà intellettuale è protetta”.
116
enclosure263, si manifesta, in particolare, nell’ambito della conoscenza pura,
piuttosto che applicata, tradizionalmente prodotta per la fruizione collettiva ed oggi
investita da un processo di commodification crescente, emblematicamente
inaugurato dal Bay Dohle Act e da altri atti normativi volti ad incrementare
l’accesso al brevetto da parte delle istituzioni universitarie pubbliche ed il
trasferimento di tecnologie ai privati264.
Per effetto di delibate scelte istituzionali si introducono nuovi property rights
anche in relazione a beni in precedenza soggetti ad un regime di libero accesso o
sottratti alla circolazione onerosa. Tutto ciò è riconducibile ad un processo di
legittimazione culturale incentrato sull’idea della conoscenza come merce265.
263
) G. Resta, La privatizzazione della conoscenza e la promessa dei beni comuni: riflessioni sul caso
Myriad Genetics, in Riv. crit. dir. priv., 2011, p. 282.
264
) R. Caso (a cura di), Ricerca scientifica pubblica, trasferimento tecnologico e proprietà
intellettuale, Bologna, 2005. Per approfondimenti sul Bay Dohle Act vedi infra Capitolo V, par. 2.
265
) G. Resta, La privatizzazione della conoscenza, cit., p. 282, osserva che, odiernamente, la
conoscenza non rappresenta soltanto uno dei principali fattori della produzione, ma tende ad essere
attratta, in maniera sempre più irreversibile, nella sfera delle merci; vi sono casi in cui la conoscenza
non viene prodotta per la vendita, o non viene prodotta affatto, in quanto essa già esiste in natura
prima di acquisire uno specifico valore di scambio. In queste ipotesi, l’applicazione di un regime
giuridico proprietario, preordinato alla commercializzazione ed allo scambio mercantile, legittima la
riconduzione di tali entità al novero delle merci fittizie. Se si analizzano con attenzione i processi
istituzionali in atto, si vedrà come il loro effetto principale è quello di ritagliare porzioni sempre più
ampie del parco collettivo di conoscenza ed assoggettarle alla logica dell’appropriazione esclusiva e
dello sfruttamento di mercato. L’Autore si chiede se tale mutamento istituzionale costituisca una
risposta razionale all’evoluzione del contesto sociale o tecnologico oppure rappresenti uno dei tanti
esempi di cattura del regolatore da parte dei pochi, ed influenti, attori economici in grado di imporsi
sul mercato della legislazione nazionale, comunitaria ed internazionale. M. Granieri, op. cit., p. 29
ritiene che si cerca di far somigliare l’informazione ad un bene in senso tradizionale, mentre i diritti di
proprietà intellettuale vengono associati al diritto di proprietà nella sua formulazione più assoluta e
piena. Il tentativo di far coincidere il diritto di proprietà con gli effetti esterni dell’informazione
avviene, a sua volta, in due sensi: verticale ed orizzontale. Espansione in senso verticale dei diritti di
proprietà intellettuale, significa che la volontà di catturare le esternalità positive dell’informazione si
traduce nella dilatazione delle maglie e dei presupposti di proteggibilità delle opere dell’ingegno e
dell’intelletto. Espressione di questa tendenza è, per esempio, la progressiva dilatazione dell’area di
brevettabilità, che determina una spinta verso il basso ed un progressivo assoggettamento alla logica
proprietaria di aree di conoscenza pura, piuttosto che alla sua dimensione applicativa. La
brevettazione dell’idea, più che dell’invenzione, è in parte effetto voluto di questa tendenza, in parte
causa indesiderata, poiché il crescente numero di richieste di brevetto, in ciò accresciuto dalla
tendenza in parola, rende la qualità del lavoro degli esaminatori piuttosto bassa; molti junk patents
sono il frutto di superficiali controlli circa lo stato dell’arte e il concreto ricorrere dei presupposti di
brevettabilità. Espansione in senso orizzontale significa invece che le forme esistenti di protezione
vengono dilatate, fino allo snaturamento, con l’obiettivo di ricomprendere informazioni per l’innanzi
trascurate o che abbiano assunto, successivamente, importanza ai fini dello sfruttamento industriale o
commerciale.
117
Discutendo delle fondamenta concettuali di tali politiche, è stata sottolineata la
centralità dell’idea relativa alla naturale inefficienza dei regimi di libero accesso
all’informazione e del conseguente ricorso al sistema dei diritti esclusivi, limitati nel
tempo, come imprescindibile meccanismo di stimolo all’innovazione266. Detta teoria
poggia, da un lato, sui postulati dell’analisi economica dell’informazione e,
dall’altro, sulle tesi di stampo hayekiano circa la superiorità dei regimi di proprietà
privata rispetto alle varie forme di regolamentazione pubblica267. Il punto di
intersezione tra i due modelli teorici è rappresentato dal paradigma della tragedia dei
commons268; mentre nel campo dei beni materiali tale tragedia s’identificherebbe
con l’eccessivo sfruttamento delle riserve da cui scaturirebbe la loro completa
consumazione, nell’area dell’immateriale, dati i caratteri di non escludibilità e non
rivalità nel consumo dell’informazione, da essa deriverebbe un’insufficiente
produzione di beni269.
E’ stato obiettato che al problema della produzione di un livello sub-ottimale
d’informazione potrebbe porsi rimedio impiegando strategie istituzionali diverse da
quelle della costituzione di diritti di monopolio (attraverso, ad esempio, il sistema
dei premi, dei sussidi, della ricerca finanziata tramite fondi pubblici, ecc.)270; di
contro, è stato osservato che, proprio per contrastare tali obiezioni, si attinge alla
266
) Per una descrizione dei modelli teorici di riferimento P. Mennell – S. Scotchmer, Intellectual
Property, in A. Mitchell Polinksy – S. Shavell, Handbook of Law & Economics, II, Amsterdam, 2007,
p. 1475.
267
) Per ulteriori approfondimenti delle tesi citate nel testo si rimanda a G. Resta, La privatizzazione
della conoscenza, cit., p. 285.
268
) Il termine è stato coniato G. Hardin nel suo saggio The Tragedy of the Commons, in Science,
1968, p. 1243, nel quale il biologo americano dimostra l’ineluttabile depauperamento delle risorse
comuni derivante dal loro sovra-utilizzo attraverso un esperimento mentale in cui alcuni allevatori
hanno libero accesso ad un pascolo pubblico.
269
) La possibilità di accedere liberamente all’attività di ricerca può determinare un inefficiente sovrautilizzo della stessa. Questo rilievo, applicato alla ricerca cognitiva, può tradursi in eccessivi
investimenti in alcuni, particolari, settori da parte di operatori desiderosi di prevalere nella gara per il
brevetto, o può dar vita a duplicazioni di attività sperimentali precludendo lo sviluppo di piani di
indagine coordinati e complementari.
270
) In tal senso G. Resta, op. cit., p. 285 il quale osserva che la letteratura gius-economica ha
esaminato altre diverse possibili soluzioni attraverso le quali risolvere la “tragedia” della ricerca in
campi comuni. Tra queste, quella fondata su una preliminare gara d’asta attraverso la quale allocare il
diritto esclusivo allo svolgimento delle ricerche in particolari settori; la regolazione e l’intervento
statale nella ricerca; la creazione ed il sostegno assicurato a joint ventures di ricerca tra i soggetti
coinvolti.
118
teoria classica dei property rights la quale, decantando le virtù della
decentralizzazione, conclude nel senso della superiorità di un regime di stimolo
all’innovazione incentrato sull’iniziativa privata rispetto ai meccanismi di
programmazione centralizzata e di regolamentazione pubblica271.
271
) P. Mennell – S. Scotchmer, Intellectual Property, cit. p. 1475, G. Ghidini, Prospettive
protezionistiche, cit., p. 74, osserva, sull’argomento, che: “Solo in piccola parte, anzi minore, la
descritta multiforme tendenza “espansiva” può essere semplicemente ricondotta ad una generica
istanza di tutela di produttori e investitori rispetto al fisiologico ampliarsi degli orizzonti tecnologici e finanziari e concorrenziali - connessi all’attività di ricerca e innovazione …… Più specificamente,
invero, quella tendenza si è molto probabilmente determinata anche per ragioni di concorrenza
internazionale, e segnatamente fra Paesi industriali e PVS. Come è stato ben osservato, l’accresciuta
capacità competitiva di questi ultimi nelle produzioni c.d. mature ha accresciuto l’interesse dei paesi
industrialmente avanzati a competere con prodotti incorporanti tecnologie innovative. Non a caso,
quella tendenza (il cui consolidamento «could disproportionately harm the developing countries who
are struggling to overcome technological lag») è stata duramente propugnata dai primi e duramente
osteggiata dai secondi - con un «clamore diplomatico» affatto inusitato per le controversie in tema di
proprietà intellettuale - nelle sedi negoziali internazionali, in particolare in ambito GATT (Uruguay
Round): le previsioni del quale in materia, contenute nel ricordato TRIPS Agreement, accolgono ed
anzi talora estendono, di detta tendenza, i profili qualificanti. Ma neppure una spiegazione di questo
tipo può essere esauriente. Anche a mio avviso, ci si avvicina alla ragione più profonda della
tendenza protezionistica descritta, se si pone mente al fatto, già più volte richiamato, che detta
tendenza si è manifestata e si manifesta con particolare intensità (non in modo indifferenziato, bensì)
nei - e «partendo» dai - settori di punta dell’industria contemporanea: quelli, in particolare legati
all’informatica - c.d. information technologies - come pure alla biotecnologia (in un prossimo futuro,
è dato facilmente di prevedere, nel novero delle nuove «industrie protette», sotto il profilo - anche delle regole di proprietà industriale, entrerà quello della ricerca spaziale). E se si pone mente, altresì
- quanto al piano del commercio - al fatto che detta tendenza si è manifestata con particolare
evidenza in riferimento al valore pubblicitario dei marchi d’impresa. Orbene - quanto ai profili
dell’innovazione tecnologica - ci si può chiedere: perché proprio in (anzi: partendo da) quei settori?
Cominciamo con l’osservare che si tratta di quelli a più alta intensità insieme di investimenti e
(processi di) concentrazione, addirittura su scala planetaria. Ed è intuitivo - e specificamente
comprovato dalla netta differenza di «tasso protezionistico» rilevabile, rispettivamente, nella
normativa sui programmi per elaboratori e in quella sulle topografie dei semiconduttori - che quanto
più la struttura tipica di un settore industriale sia fortemente concentrata, tanto più protezionistica è
la richiesta che questo settore esprime - ed eventualmente «impone» al legislatore - (anche) rispetto
ai risultati della ricerca-innovazione che esso produce. Laddove un ambiente industriale più
diffusamente concorrenziale esprime una maggior preoccupazione di salvaguardia, appunto, di tale
sua fisionomia, e manifesta quindi maggiori resistenze rispetto a una protezione che favorisca
eccessivamente i first comers. Ma anche siffatto ordine di ragioni, pur rilevante, non coglie il cuore
del problema. La ragione più profonda della tendenza protezionistica in atto - e del suo legame
genetico con le «nuove» tecnologie - va ricercata nel fatto che particolarmente in quei settori, a
fronte della crescente e spesso smisurata grandezza degli investimenti richiesti, il modo caratteristico
di sviluppo dell’innovazione - e il tipo stesso dei risultati da proteggere - si discostano più nettamente
da quelli di riferimento del modello classico. Proprio in quei settori, invero, l’innovazione oggi
prodotta, ad altissimi costi, è tipicamente il frutto del lavoro di complesse, superspecializzate équipes
che, con piccoli passi progressivi di un continuo processo di sperimentazione, producono per lo più
un tipo di innovazione «marginale» - o meglio incrementale, come la definisce Reichman - piuttosto
che uno propriamente «differenziale», espressione di un vero e proprio stacco rispetto alle tecniche
note. Producono dunque, molto spesso, piuttosto che quel tipo di innovazione che il modello classico,
119
in funzione di stimolo del progresso tecnico, destinava alla protezione brevettuale, quell’altro tipo di
innovazione, per l’appunto incrementale, cui quel medesimo modello assegna(va) un posto per così
dire di seconda fila, quale «conoscenza nuova ma non di carattere inventivo ... suscettibile di
utilizzazione industriale», di conseguenza qualificandolo come (un tipo di) know-how: (qui) inteso
appunto come innovazione «secondaria» non proteggibile in assoluto, bensì solo contro metodi
scorretti di appropriazione, come l’abuso di segreti. Ebbene, come si diceva, è tipicamente in questa
innovazione incrementale che si esprimono oggi i (costosissimi) frutti della ricerca-innovazione nei
settori avanzati: frutti, molto spesso, di serie B secondo il modello classico, ma di serie A quanto a
potenziale rilievo commerciale ed (attuale) intensità di investimenti richiesti. (Analogo problema,
accennavo poc’anzi, si porrà a breve per la ricerca-innovazione condotta nello spazio, dove la
considerazione dell’enorme rilievo commerciale di prodotti e materiali realizzati in assenza di
gravità, e dell’altrettanto enorme mole degli investimenti richiesti, si scontrerà, quanto ai profili
brevettuali, con la frequente se non immanente difficoltà di ammettere - secondo i canoni classici - il
carattere inventivo di risultati nuovi in senso estrinseco ma frutto, essenzialmente, delle condizioni
ambientali di sperimentazione e produzione). Ora, ben si comprende come finanziatori e imprenditori
non possano accontentarsi, a fronte di ingenti investimenti (e dei gravi rischi connessi: specie in una
situazione, ricordiamo, di aspra concorrenza oligopolistica su scala mondiale, tipica dei mercati delle
tecnologie di punta cui ci riferiamo) di una protezione di serie B, che per carenza di assolutezza non
garantisca agli innovatori, rispetto ai potenziali imitatori, un vantaggio competitivo idoneo a
remunerare gli investimenti. Da queste ragioni, e proprio rispetto a questo tipo di ricercainnovazione si manifesta (con un inevitabile, e storicamente risaputo, effetto trainante di portata
generale) lo specifico bisogno di protezione non soddisfatto (donde, soprattutto, la multiforme
tendenza «protezionista» che abbiamo delineato) dagli strumenti tradizionali, e tradizionalmente
«usati», della c.d. proprietà industriale. Di più. Quello specifico bisogno di protezione si fa tanto più
stringente in relazione a quelle information technologies, che caratterizzano la società industriale
contemporanea, e rispetto alle quali il tempo tecnico di riproducibilità dell’innovazione da parte dei
terzi è particolarmente breve, tale innovazione essendo «scritta sulla superficie» dei prodotti
(analogamente a quanto avviene, mutatis mutandis, per le innovazioni funzionali incorporate nei
prodotti del design). Acquistati questi ultimi, i concorrenti possono con facilità e quasi
immediatamente impadronirsi degli insegnamenti elaborati dall’ìnnovatore. Un programma per
computers, ad esempio, è facilmente analizzabile da un esperto di settore che, con un procedimento di
decompilazione (reverse engineering), potrà ricostruire le idee, l’impostazione, le sentenze ecc.,
racchiuse nel programma, e così mettersi in grado di riprodurre in brevissimo tempo, e a costi
bassissimi, per un prodotto concorrente, gli insegnamenti e le funzioni del programma stesso. Viene
quindi a ridursi pressoché a zero l’einaudiano «profitto della novità», ossia quel tempo tecnico di
vantaggio (lead time) di cui può godere l’innovatore rispetto alla comparsa degli imitatori. Da
(l’insieme di) questi motivi, dunque, scaturisce pressoché inevitabilmente la specifica pressione degli
ambienti professionali (comprovata «autenticamente» dalla ricordata tipica impronta protezionistica
di significative espressioni dell’autodisciplina, nonché della prassi contrattuale) vuoi ad adattare,
nella direzione e nei modi descritti, gli istituti classici della proprietà industriale, vuoi a surrogare il
copyright al brevetto per la protezione dell’innovazione industriale; vuoi, pure, a generare forme
«ibride» di protezione che combinino i vantaggi del sistema brevettuale con quelli del diritto
d’autore, per realizzare appunto il massimo effetto protettivo, e così la massima garanzia di «ritorno»
sugli investimenti”.
120
Il modello privatistico non è andato esente da ulteriori critiche che riguardano,
principalmente, le gravi implicazioni sociali272 e redistributive che lo stesso potrebbe
avere273.
272
) G Colangelo, Mercato e cooperazione tecnologica. Gli accordi di patent pooling, in Quaderni
AIDA, 2008, p. 1, osserva che nel conferire agli inventori il diritto di escludere gli altri dall’opera
realizzata, il legislatore consente loro di creare una scarsità artificiale per i beni intellettuali cosicché il
loro prezzo aumenti e gli investimenti siano recuperati. Il proverbiale rovescio della medaglia ci
rammenta, precisa l’Autore, come l’operazione comporti costi sociali. Una volta realizzata
l’invenzione, lo ius excludendi genera una perdita secca, limitando l’accesso per coloro che, al fine di
utilizzare i beni in questione, sono disposti a pagare un prezzo sopracompetitivo ma inferiore al
corrispettivo fissato dal titolare per la massimizzazione del profitto. Per di più, dal momento che
l’innovazione ha sovente carattere cumulativo, la protezione insita nella privative può rappresentare
un freno ai processi innovativi, inibendo l’accesso a determinati input.
273
) Le tematiche dell’accesso ai farmaci antiretrovirali coperti da brevetto non possono essere né
sottovalutate né sottaciute: Resta, op.cit., p. 287. A tal proposito, V. Di Cataldo, Biotecnologie e
diritto. Verso un nuovo diritto, e verso un nuovo diritto dei brevetti, in Contratto e impresa, 2003, p.
382, riporta la vicenda verificatasi in Sud Africa, paese dove l’epidemia di AIDS ha assunto
dimensioni particolarmente allarmanti per la sottovalutazione del problema da parte delle autorità
governative. Nella terapia contro l’AIDS vengono impiegati farmaci sviluppatisi in industrie
farmaceutiche occidentali, la cui preparazione ha chiesto tempi lunghissimi e sforzi finanziari enormi.
Il loro prezzo è assai elevato. In alcuni paesi (come l’India) questi farmaci non hanno protezione
brevettuale e sono liberamente venduti come generici ad un prezzo relativamente basso (perché
misurati solo sui costi vivi di produzione). È accaduto che questi farmaci sono stati esportati, allo
stesso prezzo, in paesi terzi in cui esisteva una protezione brevettuale. Si è così prodotto un conflitto
tra il titolare del brevetto ed il terzo produttore, che la disciplina brevettuale impone di considerare un
contraffattore, il quale, tuttavia, risolve un gravissimo problema ovvero rende disponibile, a costi per
quel paese tollerabili, un farmaco essenziale che il titolare del brevetto vende a costi più elevati ed
insostenibili. Le industrie titolari del brevetto sono state considerate delle “predatrici” e quelle “pirata”
delle benefattrici. Ci si dovrebbe però chiedere, osserva l’Autore, come le industrie “benefattrici”
potrebbero produrre detti farmaci se qualcun altro non li avesse inventati con spese ingenti, consentite
proprio dalla prospettiva del brevetto. Le industrie “benefattrici” non producono peraltro a costo zero:
i loro prezzi sono relativamente bassi perché non devono remunerare alcuna ricerca ma sono
comunque lautamente remunerativi rispetto al basso livello dei costi sostenuti. Sull’argomento si veda
anche M. Dragoni, Accordo TRIPS, brevetti e resistenze interne in India, in Riv. inter. Studi
afroasiatici, 2011, p. 147. Z. Zeno-Zencovich, F. Mezzanotte, Le reti della conoscenza, cit., p. 141
osservano che è necessario bilanciare i benefici privati derivanti dalla tutela degli investimenti
produttivi dei singoli operatori con i costi sociali legati all’indisponibilità di determinate conoscenze,
rilevanti soprattutto in assenza di valide opzioni sostitutive. La soluzione offerta dal sistema della
proprietà intellettuale dà origine a quella che gli economisti definiscono una situazione di second best
(ottimo di secondo ordine) in quanto offre un rimedio ad un’imperfezione del mercato, il
sottoinvestimento in conoscenza, creandone un’altra, l’effetto monopolistico di limitazione della
libera circolazione delle idee. Il “dilemma della conoscenza” risiede proprio in questo delicatissimo
equilibrio tra incentivi funzionali ad una corretta allocazione delle risorse nel processo produttivo e la
necessità di garantire la diffusione pubblica delle informazioni, in modo da stimolarne la
rielaborazione e il perfezionamento. A. Ottolia, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali
di geni EST, in Riv. dir. ind., 2005, p. 457, osserva che una progressiva estensione delle privative si
risolverebbe in una minore disponibilità della materia prima intellettuale ed in un conseguente
rallentamento del progresso e della innovazione.
121
È stato anche osservato che un regime di libero accesso alle risorse immateriali
non conduce necessariamente ad esiti tragici274 mentre il ricorso alla tecnica
dell’esclusiva rischia, se non adeguatamente controllata, di ipotecare le possibilità di
sviluppo e di innovazione futura, neutralizzando i vantaggi derivanti dal progresso
tecnologico e dall’accresciuta possibilità di condivisione delle informazioni275.
3. La tutela delle istanze sociali nell’innovazione brevettuale: la teoria dei
beni comuni ed il sistema delle corti
Movimenti di opinione organizzati rivendicano l’esigenza di rivedere i regimi di
stimolo all’innovazione intorno alla categoria dei beni comuni276.
Il progetto, orientato alla tutela della conoscenza come “bene comune”,
assumendo tale formula come riassuntiva di un regime di disciplina connotato dalla
sottrazione a processi di appropriazione esclusiva277, non si è soltanto imposto a
274
) Il problema della produzione di un ammontare sub-ottimale di informazioni appare, in particolare,
alquanto sopravvalutato dal momento che in molti settori i fattori reputazionali e le regole sociali
informali costituiscono spesso incentivi all’innovazione non meno efficaci della promessa di un
monopolio allo sfruttamento: J. Boyle, Public Domain. Enclosing the Commons of the Mind, New
Haven, 2008, p. 42.
275
) J. Boyle, op. cit., p. 48.
276
) Uno dei movimenti più noti è l’A2K, acronimo che sta per access to knowledge; il movimento è
basato sull’idea che l’accesso al sapere deve essere legato a principi fondamentali di giustizia, libertà e
sviluppo economico. Ne fanno parte giuristi, rappresentanti di organizzazioni non governative,
attivisti e leaders politici provenienti da varie parti del mondo ed, in particolare, dai paesi in via di
sviluppo, impegnati nel contrasto alle derive neo-protezionistiche e nell’affermazione di una diversa
“ecologia” dell’informazione. Per tutti i riferimenti del caso si rimanda a G. Resta, op. cit., p. 292.
277
) Sul punto cfr. M.R. Marella, Il diritto dei beni comuni. Un invito alla discussione, in Riv. crit. dir.
priv., 2011, p. 103, L. Nivarra, Alcune riflessioni in tema di beni comuni, disponibile sul
sitohppt://giurisprudenza.unipg.it/index.php?option=com_content&view=article&id=500:seminaribeni-omuni&catid=34. L’Autore, evidenzia che il bene comune, di cui possono essere date diverse
definizioni, è sostanzialmente un bene sottratto al mercato ovvero un bene indisponibile a trasformarsi
in merce o, se si preferisce, il cui valore d’uso prevale su quello di scambio. Il “comune” del bene
comune non è affatto sinonimo di “pubblico” per la semplice ragione che esso non sta a designare un
regime di appartenenza quanto, piuttosto, una modalità di fruizione o, per meglio dire, lo specifico,
peculiare, prestarsi del bene ad una fruizione collettiva ad opera di comunità variamente individuate.
In altri termini, “comune” esprime una qualità essenziale del bene, non un suo attributo estrinseco,
quale, appunto, è l’appartenenza ad un soggetto, pubblico o privato che sia.
122
livello di dibattito pubblico, ma ha trovato i primi riscontri in alcuni importanti atti
normativi e programmatici278.
Le istituzioni attraverso le quali le suddette istanze collettive potrebbero trovare
un’effettiva rappresentanza dovrebbero essere quelle politiche; nella specie,
l’iniziativa parlamentare propria degli ordinamenti democratici279. Tale strategia
incontra, nell’attuale assetto istituzionale, i limiti della decentralizzazione del
278
) Tra questi, la Dichiarazione di Doha del 2001 su Trips e salute pubblica nata nel corso della
quarta Conferenza ministeriale della World Trade Organization (WTO); la Dichiarazione di Doha
vincola i membri della WTO ad un’interpretazione flessibile e più umana dell’accordo sui brevetti, in
grado di tenere conto delle insostenibili realtà di molti paesi a basso reddito. La Dichiarazione, oltre
ad esplicitare la protezione della salute pubblica, enfatizza il fattore della promozione dell’accesso alle
cure per tutti. In particolare, il paragrafo 6 della Dichiarazione chiede che la WTO trovi una soluzione
alla questione dei vincoli all’esportazione: quando un paese decide di imporre una licenza obbligatoria
su un brevetto, è sottinteso che la copia del medicinale realizzata dai produttori locali a regime di
eccezione debba essere destinata essenzialmente al mercato interno. Altri atti sono la Decisione del
General Council (WTO) del 2003 nella quale si esprime una netta apertura alle non- voluntary
licenses che possono ridurre i gravi rischi per lo sviluppo economico-industriale dei PVS derivanti
dall’applicazione della regola (art. 27.1 TRIPs) secondo la quale il brevetto può essere attuato anche
attraverso semplice importazione, con ciò abrogando lo storico principio dell’onere di attuazione in
situ. Sull’argomento G. Ghidini, Profili evolutivi del diritto industriale, Milano, 2008, p. 129, ritiene
che per affrontare detto rischio, e quello, ancora più drammatico, dell’impossibilità delle popolazioni
più povere del pianeta di accedere ai farmaci brevettati per la cura di gravi malattie, è possibile
esplorare una via suggerita parzialmente dal Regolamento 953/2003. Nell’ambito di un assetto
convenzionale multilaterale, e sotto egida istituzionale (WTO in particolare), i titolari del brevetto
dovrebbero accettare di produrre in Developing countries e far circolare liberamente, all’interno del
relativo circuito, adeguate quantità di medicinali a prezzo misurato sul potere di acquisto locale,
ragguagliato al reddito pro-capite. I vantaggi per i titolati del brevetto sarebbero quelli di mantenere il
controllo sulla circolazione dei prodotti immessi a prezzi politici, mentre le industrie locali potrebbero
acquisire conoscenze in termini di know-how tecnico e produttivo. Sulla scia delle citate decisioni,
l’Unione Europa ha adottato il Regolamento n. 816/2006 con il quale ha stabilito una procedura di
licenze obbligatorie su brevetti e certificati complementari di protezione per la fabbricazione e la
vendita di farmaci unicamente destinati all’esportazione verso i paesi con gravi problemi di salute
pubblica. Questa linea politica sembra avere ispirato anche le posizioni assunte dal Parlamento
europeo al momento della discussione della proposta di direttiva (poi respinta) sulla brevettazione del
softwar.
279
) Di fronte alla questione delle nuove materie brevettabili è il legislatore che deve definire
chiaramente che cosa è escluso, e cosa no, dalla protezione: M. Granieri, op. cit., p. 29.
123
sistema delle fonti280, della costante pressione della regulatory competition281,
dell’estrema rapidità del mutamento tecnologico282.
A ciò si aggiunge la profonda asimmetria nelle capacità d’incidenza politica; ai
pochi repeat players, dotati di un ampio potere economico ed interessi omogenei, si
oppone una massa diffusa e piuttosto disorganica di potenziali controinteressati283.
Preso atto di ciò, è stata proposta, come idonea alternativa, il sistema delle corti
che, seppur non sufficientemente considerato, può assumere un rilievo crescente284.
Là dove il concreto assetto istituzionale di un sistema favorisca l’accesso alla
giustizia e permetta di configurare i suddetti interessi oppositivi in termini di pretese
costituzionalmente garantire, valorizzando quindi i diritti fondamentali nella loro
280
) U. Breccia, Immagini della giuridicità contemporanea tra disordine delle fonti e ritorno al diritto,
in Riv. crit. dir. priv., 2006 p. 361; N. Lipari, Le fonti del diritto, Milano 2008.
281
) A. Zoppini (a cura di), La concorrenza tra gli ordinamento giuridici, Roma-Bari, 2004.
282
) Nell’area immateriale emerge sempre più spesso il divario, profondo e strutturalmente
incolmabile, tra la rapidità del progresso tecnologico e la lentezza della risposta parlamentare. Lo
sviluppo delle tecnologie, da un lato, e l’evoluzione dei modelli culturali ed economici, dall’altro,
producono incessantemente nuove utilità, spesso dal notevole valore patrimoniale; esse si collegano
all’impiego di risorse del mondo esterno come, ad esempio, le reti telematiche, l’immagine e le
informazioni genetiche. L’appropriazione di tali utilità fa sorgere molteplici conflitti di interessi che il
diritto, prima di altri sistemi di regolazione sociale, è chiamato a comporre; tutto ciò solleva una serie
di questioni, tra le quali quella di capire quali siano le istituzioni deputate ad operare l’inclusione delle
nuove risorse nella categoria dei beni rilevanti per il sistema giuridico (art. 810 c.c.) ed in base a quali
principi stabilire l’allocazione dei suddetti beni a favore di uno o più gruppi di individui ed a
detrimento di altri. Nel campo della proprietà intellettuale tale questione è stata tradizionalmente
risolta in base all’assunto della tipicità e del numero chiuso dei diritti sui beni immateriali. Tale
principio, pur non essendo espressamente sancito da alcuna norma di diritto positivo, viene
generalmente desunto dal sistema dal suo insieme e considerato uno degli assi portanti della teoria
classica dei beni: cfr. Z. Zeno Zencovich, Cosa, in Digesto civ., IV, Torino, 1989, p. 438 ss. G.
Ghidini, Profili evolutivi del diritto industriale, Milano, 2008, p. 73, considera come prima direttrice
dell’interpretazione e dell’applicazione della disciplina in materia di DPI il principio del numero
chiuso ossia della tassatività dei diritti esclusivi in quanto attributivi di poteri restrittivi della
concorrenza (in questo senso monopolistici) e, come tali, anche formalmente eccezionali rispetto al
principio, di rango costituzionale, di libertà di iniziativa economica.
283
) Numerosi sono gli studi che, adottando gli strumenti analitici della teoria delle scelte pubbliche,
hanno dimostrato quanto forte sia la capacità di incidenza dei gruppi di pressione nel settore della
proprietà intellettuale stante il numero relativamente ristretto di giocatori professionali in confronto
con la schiera diffusa ed altamente disomogenea dei controinteressati. Profonde, sono le forme di
condizionamento che essi riescono ad esercitare sulle dinamiche regolatorie a livello interno ed
internazionale. Questo elemento, assieme all’indubbia presa politica e culturale del modello
giuseconomico della proprietà quale strumento efficiente di stimolo all’innovazione e di lubrificazione
degli scambi, sta progressivamente mettendo in crisi il ruolo di garanzia che un tempo si attribuiva
alla legge rispetto alla definizione di equilibri tra sfere di proprietà e sfere di libertà nell’utilizzazione
dei beni immateriali.
284
) G. Resta, Nuovi beni immateriali e numerus clausus dei diritti esclusivi, in G. Resta (a cura di),
Diritti esclusivi e nuovi beni immateriali, Milano, 2011, p. 61.
124
funzione di apertura delle sfere d’esclusiva, il circuito giurisdizionale può offrire un
valido canale di emersione del retroterra non proprietario, congiunturalmente al (o in
supplenza del) tradizionale processo politico285.
All’obiezione che questo tipo di scelte spetti al potere legislativo piuttosto che a
quello giudiziario, è stato replicato che non si può sottovalutare il ruolo che in un
sistema costituzionale spetta alle corti, trattandosi dei garanti dei diritti fondamentali
285
) G. Resta, La privatizzazione della conoscenza, cit., p. 288, il quale osserva che il rilievo delle corti
rispetto al tema della salvaguardia dei beni comuni quali la conoscenza, emerge nel caso Myriad; al di
là dei caratteri eccezionali che connotano il diritto brevettuale statunitense (nella specie la ristrettezza
dell’eccezione d’uso sperimentale, il mancato utilizzo dello strumento della licenza obbligatoria,
l’ampiezza con la quale è stata ammessa la tutela brevettuale indipendentemente dalla specifica
indicazione della funzione concretamente svolta dalla molecola di DNA nella domanda di brevetto, la
sostanziale assenza di un sistema sanitario universale, l’impatto altamente distorsivo del Bay Dohle
Act sul comportamento delle istituzioni universitarie, incentivate a competere in maniera aggressiva
sul mercato dell’innovazione e a ricercare, attraverso la corsa ai brevetti, quei canali di finanziamento
resi necessari dalla riduzione del supporto pubblico) i giudici americani hanno sostanzialmente
contestato uno dei principali cardini della teologia proprietaria contemporanea. Nella specie, la
brevettabilità delle sequenze di DNA. La decisione riflette l’esigenza che, in una moderna democrazia
costituzionale, venga riconosciuto uno statuto rafforzato ad alcuni beni ed alcune aree dei rapporti
sociali; tale esigenza trova oramai una cristallizzazione giuridica, gradualmente sempre più precisa,
nella formula dei “beni comuni”. Tra questi, il genoma umano come patrimonio comune dell’umanità,
formula contenuta nella Dichiarazione sul genoma e i diritti umani. L’Autore osserva come taluni
abbiano considerato l’esclusione dalla brevettabilità delle sequenze di DNA una soluzione troppo
radicale e dettata da un atteggiamento ostile al regime di stimolo all’innovazione incentrato sullo
strumento dei diritti esclusivi, con il conseguente rischio di porre nel nulla i copiosissimi investimenti
destinati alle imprese biotech ed alla promozione della ricerca biomedica. Non v’è dubbio, avverte
l’Autore, che è necessario guardarsi da letture ideologiche e considerare in maniera pragmatica le
concrete implicazioni sociali di ciascuna scelta regolativa. Un’impostazione ideologica del problema,
tuttavia, è quella adottata dai fautori del modello dell’enclosure, i quali tendono ad assumere come
verità assiomatiche alcune semplici ipotesi operative – prima fra tutte l’effetto di stimolo alla ricerca e
all’innovazione connesso al sistema brevettuale – le quali, in realtà, sono prive di univoci riscontri
empirici e meriterebbero di essere, volta per volta, sottoposte ad attenta verifica. Il conferimento di
diritti esclusivi è uno strumento che va maneggiato con grande cautela in quanto esso rischia di
comprimere (piuttosto che di stimolare) la ricerca e l’innovazione, imponendo costi sociali spesso
sproporzionati.
125
degli individui anche, e soprattutto, contro le scelte della maggioranza286; spesso, i
tribunali sono stati chiamati a svolgere una funzione di salvaguardia dei beni comuni
non appropriabili, funzione dimostratasi tanto più preziosa quanto più legata
all’insuccesso dell’ordinario circuito parlamentare, paralizzato, in svariate occasioni,
dalle pressioni dei gruppi di interesse287.
Evidente è la convergenza tra il settore della proprietà intellettuale e quello dei
diritti fondamentali. Materie considerate mutualmente indipendenti mostrano zone
286
) S. Rodotà, Magistratura e politica in Italia, in E. Bruti, Liberati, A. Ceretti, A. Giansanti,
Governo dei Giudici. La magistratura tra diritto e politica, Milano, 1996, p. 17. A. Ottolia, Riflessi
sulla brevettabilità, cit., p. 457, osserva: “All’evoluzione tecnologica si accompagna un’evoluzione
giuridica che non risiede in una maggior rilevanza della morale nel diritto, ma nella crescente
esigenza di incorporare nel dibattito relativo all’individuazione dei modelli regolativi più efficienti,
anche una verifica della democraticità (intesa come pluralismo) dei modelli decisionali preordinati
alle politiche dell’innovazione …. In particolare …., non si può non registrare l’esistenza di una
biforcazione delle possibili soluzioni, fra modelli di pianificazione e modelli incentrati su soluzioni di
tipo rivalistico. Riferendomi a questa alternativa, intendo indicare la differenza fra soluzioni
determinate ex ante, attraverso una sorta di “pianificazione della libertà”, e soluzioni, al contrario,
in cui la legittimazione a decidere sull’innovazione viene frammentata e affidata a una pluralità di
soggetti, posti in posizione rivalistica fra loro ed operanti scelte ex post. Questa dualità si esprime,
nella sua forma più semplice, nell’alternativa fra soluzioni legislative e soluzioni interpretative, ma
può presentarsi secondo gradi diversi di complessità. Del primo tipo sono i modelli di pianificazione
basati su scelte a priori, quali quelli tendenti ad escludere la tutelabilità di determinate entità, o a
realizzare sistemi di sovvenzioni pubbliche che consentano l’individuazione ex ante della tipologia di
innovazioni da incentivare e da cedere al pubblico dominio, o ancora gran parte dei modelli basati su
liability rules. Del secondo tipo sono, invece, i modelli che si realizzano attraverso decisioni, per così
dire, “dal basso” ed ex post. A questa categoria pare si possano ricondurre, oltre alle soluzioni che
demandano, a vari gradi, la decisione della innovazione tutelabile al giudice, anche quelle che
demandano alla negoziazione fra privati la possibilità di uscire dai vincoli derivanti dai forti diritti di
esclusiva sulla conoscenza”.
287
) Il tal senso la decisione del Conseil Costitutionnel francese (Conseil const. 10.6.2009 n. 2009-580
DC, in Foro it. 2009, IV, c. 472) il quale ha sancito la parziale illegittimità costituzionale della legge
n. 669 del 2009 favorisant la diffusion et la protection de la creation sur internet per contrasto con
l’art. 11 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 ove è garantita la libertà di
manifestazione del pensiero ed opinioni. G. Resta, La privatizzazione della conoscenza, cit., p. 310,
descrive invece come caso di insuccesso la decisione della Corte di Giustizia nel caso Regno dei Paesi
Bassi c. Parlamento e Consiglio europeo del 9.10.2001; l’Autore si chiede se gli esiti della decisione
sarebbe stati gli stessi qualora la controversia fosse stata decisa nel quadro di un diverso assetto
istituzionale, con una Carta dei diritti fondamentali dotata di immediata efficacia precettiva ed una
Corte di giustizia operante come una vera e propria Corte Costituzionale. Decisioni come quella da
ultima citate, non devono essere necessariamente intese, commenta l’Autore, come una dimostrazione
dei limiti intrinseci dell’approccio giurisdizionale, quanto piuttosto come un’ulteriore prova
dell’esigenza di una più radicata e diffusa cultura dei diritti, rispetto alla quale si rivela essenziale
l’interazione tra una dottrina che non aspiri soltanto ad una formalistica esegesi dell’esistente ed una
giurisprudenza che non si ritragga di fronte al peso del proprio ruolo. Presenti tali condizioni, è
possibile ipotizzare che il sistema delle corti possa svolgere una funzione preziosa nel contrasto ai
processi di privatizzazione e nella salvaguardia del retroterra non proprietario. Se poi questa, come
altre forme di auto-protezione della società, abbiano un’effettiva capacità d’intaccare i capisaldi del
capitalismo cognitivo contemporaneo è tutt’altra, e ben più complicata, questione.
126
di sovrapposizione e punti di contatto sempre più frequenti; i diritti fondamentali
(all’informazione,
all’istruzione,
alla
salute,
alla
dignità
umana)
sono
insistentemente invocati al fine di neutralizzare i conflitti provocati dalla continua
espansione dei regimi di esclusiva su beni e servizi rilevanti per lo sviluppo
umano288.
4. Derive protezioniste della proprietà intellettuale e tutela della
concorrenza. Anticorpi pro concorrenziali contenuti nella disciplina brevettuale
La tendenza a garantire una sempre maggiore protezione alla proprietà
intellettuale rischia anche di compromettere le dinamiche concorrenziali dei mercati.
Aumentare le tutele significa, infatti, disseminare sul cammino dei concorrenti
lacci e divieti tanto più efficaci quanto più sinergicamente accentrati nelle mani dei
più forti first comers; qualora il rapporto fra protezione dell’esclusiva e tutela della
concorrenza sia
eccessivamente squilibrato
in
favore della privativa si
moltiplicheranno, nel sistema, i motivi di litigiosità (offensiva e difensiva: la prima
spesso ulteriore e deteriore strumento di dissuasione concorrenziale) e gli stessi
innovatori propenderanno ad attribuire maggior interesse per i risultati già realizzati
piuttosto che per quelli che potranno ottenere in futuro289.
Esiti di siffatto tipo priverebbero le attività di ricerca e di innovazione della
vivacità e della competitività che dovrebbe invece contraddistinguerle290.
288
) G. Resta, Nuovi beni immateriali, cit., p. 63.
) Per queste ed altre considerazioni si rimanda a G. Ghidini, Prospettive protezionistiche, cit., p. 75.
L’Autore osserva che la disseminazione di barriere immateriali, fondate su esclusive brevettuali
“pesanti” sbarrerebbe la strada ai concorrenti e, al contempo, stimolerebbe gli stessi leaders a riposare
sugli allori, cioè a prolungare lo sfruttamento dell’innovazione già sviluppata (massimizzando i
profitti a breve) anziché continuare a creare ulteriore e più avanzata innovazione; tali effetti restrittivi
della concorrenza si produrrebbero con tanta maggiore intensità quanto più il controllo di detti diritti
esclusivi fosse concentrato nelle mani dei concorrenti in posizione dominante.
290
) La vitalità del sistema brevettuale si misura sulla sua capacità di premiare l’innovazione realizzata
in modo che quello stesso premio, attribuito all’inventore attuale, stimoli sia quest’ultimo a continuare
sia i terzi a sviluppare una innovazione successiva, competitiva rispetto a quella precedente e, quindi,
anche per ciò stesso, “sferzante” il primo inventore: G. Ghidini, Profili evolutivi, cit., p. 81.
289
127
Una serie di anticorpi pro-concorrenziali sono invero già presenti nella
legislazione brevettuale. Può essere, innanzitutto, preso in considerazione il termine
ventennale dell’esclusiva; l’eventuale prolungamento derivante dal certificato
complementare di protezione rappresenta una deroga apparente in quanto finalizzato
al recupero dei tempi non utilizzabili per lo sfruttamento della privativa291.
Il terzo concorrente che imiti l’altrui invenzione dopo la scadenza della privativa
è perfettamente nella legalità; egli è assimilabile ad un licenziatario gratuito di
diritto. Anche se imitare non significa innovare è comunque vero che crea
concorrenza contribuendo ad abbassare il prezzo; imitare è impossessarsi delle
tecniche, mettersi in gioco per poter superare, quanto meno nel senso di realizzare
meglio, ciò che altri hanno anticipato al fine di poter competere con loro292. Il
titolare della privativa, nonostante il venir meno della tutela, godrà comunque sul
mercato, rispetto all’offerta di quella certa soluzione tecnologica, di un avviamento
consolidato da vent’anni di presenza esclusiva.
291
) Sulla vicenda del regime giuridico dei CCP cfr. G. Floridia, Durata dell’esclusiva e garanzia
costituzione della proprietà industriale, in Riv. dir. ind., 2008, p. 5; G. Bianchetti, Certificati di
Protezione Complementari e preparativi di un dossier di registrazione, in Riv. dir. ind., 2008, p. 1, G.
Del Corno, Brevetti e certificati protettivi complementari, in Riv. dir. ind., 1998, p. 47. Cfr.
sull’argomento anche Capitolo I, par. 2.
292
) Cfr. Corte di Cassazione 29 febbraio 2008 n. 5437, Riv. dir. Ind., 2008, p. 151 con nota di Peron,
che, nel riaffermare la libera riproducibilità di modelli ed invenzioni non più coperti da esclusiva,
osserva che operando diversamente si finirebbe per ingessare il mercato. Spesso, tuttavia, vengono
impiegate delle prassi volte ad prolungare, surrettiziamente, la durata della originaria esclusiva. Nel
campo chimico-farmaceutico, si depositano ad esempio dei brevetti che tutelano meri “equivalenti”
del brevetto principale prossimo alla scadenza. Tra le vicende maggiormente conosciute quella della
Novartis e l’Ufficio brevettuale indiano svoltasi davanti alla Higt Court di Chennai (olim Madras),
terminata con la sentenza del 1 aprile 2013. La Suprema Corte dell’India ha rigettato il ricorso
presentato dalla Novartis contro la decisione dell’Ufficio brevetti indiano di non concedere la
privativa ad un particolare farmaco oncologico noto come Glivec. Terminato il periodo di tutela del
primo brevetto, l’industria indiana aveva cominciato a produrre il farmaco in proprio vendendolo ad
un prezzo di gran lunga inferiore rispetto a quello del farmaco originario. La Novartis aveva, nel
frattempo, depositato una nuova domanda di brevetto per una versione migliorata del Glivec che, se
accolta, le avrebbe garantito altri venti anni di esclusiva. La Corte indiana, sul presupposto normativo
che non è un’invenzione la mera scoperta di una nuova forma di una sostanza nota da cui non risulta
alcun miglioramento dell’efficacia, già conosciuta, di quella sostanza, ha rigettato il ricorso ritenendo
che la nuova formula del farmaco non riguardava l’efficacia terapeutica, già garantita dal primo
brevetto, e che i miglioramenti erano del tutto secondari e non meritevoli di protezione. Per
approfondire il tema si rimanda a A. Lollini, Proprietà intellettuale, bilanciamento degli interessi e
farmaci low cost: i casi India e Sud Africa, in Riv. trimestrale diritto pubblico, 2009, p. 115.
128
Nella logica pro-concorrenziale si colloca anche la regola secondo la quale il
diritto esclusivo attiene strettamente a quanto formalmente rivendicato nonché a
quanto effettivamente insegnato dal titolare. La normativa brevettuale impone al
richiedente di indicare, con precisione, nella domanda i caratteri e lo scopo del
brevetto; la descrizione deve essere sufficientemente chiara e completa affinché ogni
persona esperta del ramo possa attuarla; deve comprendere una o più rivendicazioni
in cui venga indicato, specificatamente, ciò che deve formare oggetto di brevetto293.
L’attribuzione del brevetto comporta infine la pubblicità della domanda294.
Queste condizioni di disclosure e di pubblicità realizzano diversi effetti
sostanziali, tutti riconducibili alla necessità di commisurare i modi di attribuzione
dell’esclusiva all’obiettivo di realizzare un’efficace remunerazione-incentivo
dell’innovazione, senza, tuttavia, compromettere la fisionomia concorrenziale del
mercato di riferimento; la concorrenza diventa strumento promotore di ulteriore
innovazione. Poiché il brevetto copre solo la specifica idea di soluzione
precisamente descritta e rivendicata dall’inventore, e tale idea viene integralmente
comunicata ai terzi, cioè ai concorrenti, si apre a costoro la possibilità di soddisfare
la medesima utilità mediante una soluzione tecnica diversa, mantenendo in tal modo
sul mercato una concorrenza sostitutiva, benefica in ordine sia alla varietà
293
) Artt. 51, 52 c.p.i.
) Art. 53 c.p.i. Dalla pubblicazione della domanda, che normalmente avviene decorsi diciotto mesi
dal deposito della stessa, decorrono gli effetti del brevetto.
294
129
dell’offerta sia al livello dei prezzi295. Ai terzi, si schiude anche la possibilità di
ottenere una licenza296.
Ulteriore principio che attenua la portata monopolistica dell’esclusiva è quello
dell’esaurimento. L’art. 5 c.p.i. dispone che la facoltà di trarre beneficio
dall’invenzione brevettata “si esaurisce” una volta che il prodotto sia stato messo in
commercio dal titolare del brevetto, o con il suo consenso, nel territorio dello Stato,
nel territorio di uno Stato membro della Comunità europea o dello Stato economico
europeo. Dopo la prima messa in commercio, dunque, il titolare non ha più diritto di
condizionare, con il suo consenso, l’ulteriore circolazione del prodotto e, quindi, di
influire in qualsiasi modo sulle condizioni della circolazione stessa, rimesse
conseguentemente al libero gioco della concorrenza297.
La norma, nell’estendere il principio alla prima immissione in commercio a
qualsiasi Stato membro dell’Unione o dello SEE fa proprio il suo progenitore ovvero
il principio dell’esaurimento comunitario che, per l’appunto, nega al titolare la
295
) Apprendendo l’iter logico ed i problemi funzionali che l’inventore si è posto, ed il modo in cui
egli li ha risolti, i terzi potranno molto più agevolmente percorrere strade alternative in vista della
realizzazione, che deve rimanere sempre aperta e libera, del medesimo tipo di utilità. In tal modo, la
restrizione della concorrenza diretta provocata dalla concessione dell’esclusiva su quel trovato viene
compensata da un allargamento della concorrenza per sostituti. Corollario logico dello scambio tra
attribuzione del diritto esclusivo e integrale disclosure dell’invenzione dovrebbe essere il rifiuto di
tutelare in modo esclusivo l’invenzione mantenuta, ed eventualmente sfruttata, in regime di segreto. Il
codice della proprietà industriale ha invece ricondotto le informazioni riservate nell’ambito dei diritti
di proprietà intellettuale facendone oggetto di facoltà esclusive assolute; il segreto è tutelato contro
ogni appropriazione o utilizzazione non autorizzata dal detentore/titolare (art. 99 c.p.i.). La tutela è
assoluta. La norma appare inficiata da profonde distonie sistematiche; tende a cancellare le differenze
circa la portata della tutela fra segreto e brevetto, incoraggiando a privilegiare il regime di segreto
rispetto a quello di brevetto. Al titolare del segreto viene infatti consentito di accedere ad una tutela di
stampo reale senza limiti temporali predefiniti, senza costi, senza oneri di rivelare ai terzi concorrenti
l’innovazione realizzata. Si ostacola dunque il compiersi dei numerosi effetti benefici collegati allo
scambio fra l’attribuzione della esclusiva e la durata certa e limitata della stessa. Viene inoltre
accordata una protezione erga omnes a dati informativi semplicemente qualificati dalla destinazione al
segreto impressa loro dal detentore ed alla loro rilevanza economica. Si tratta in particolare di
informazioni che potrebbero non possedere i requisiti di brevettabilità ovvero informazioni meramente
commerciali, intrinsecamente non brevettabili; a queste si aggiungono, i risultati della ricerca
scientifica che la normativa brevettuale, in armonia con la Convenzione sul Brevetto europeo,
tassativamente esclude da appropriazione esclusiva. Per queste ed altre considerazioni si rimanda a G.
Ghidini, Profili evolutivi, cit., p. 93.
296
) Cfr. infra par. 5.
297
) Ad esempio, il titolare non potrà, in forza della sola esclusiva brevettuale, limitare la quantità e le
altre modalità delle successive commercializzazioni del prodotto; in particolare, fissare i prezzi di
quest’ultimo. I soli soggetti ai quali, in forza del brevetto, il titolare potrà opporre l’esclusiva dopo la
prima immissione in commercio sono i produttori non autorizzati del prodotto brevettato.
130
facoltà, attribuitagli dal diritto nazionale, di opporsi all’importazione del prodotto
brevettato se il prodotto stesso sia stato precedentemente posto in commercio col suo
consenso, in modi leciti, in altri Stati membri. E ciò, anche se in detti Stati il
prodotto non sia brevettato né brevettabile. Il principio dell’esaurimento opera anche
per incrinare l’assolutezza della stessa esclusiva nazionale; se il prodotto oggetto di
brevetto nazionale è stato venduto su uno dei mercati dello SEE, ma non in Italia, il
titolare dell’esclusiva non potrà opporsi all’importazione del prodotto, da parte di
terzi, sul mercato italiano.
Nel settore delle biotecnologie, il principio dell’esaurimento, pensato in relazione
alla materia inanimata, non può essere trasposto meccanicamente. La protezione
relativa al materiale autoreplicante si estende, infatti, anche alle generazioni
successive della materia biologica, siano esse linee cellulari, sementi o progenie di
animali bioingegnerizzati; in questa situazione è necessario determinare se il
consenso prestato alla prima messa in commercio esaurisca i diritti del titolare,
anche con riferimento alle generazioni successive di materia vivente, e, più
specificamente, è opportuno compiere tale determinazione sulla base di un criterio
coerente con quello che sta alla base della disciplina generale dell’esaurimento298.
A questo fine, l’art. 10 della Direttiva 98/44/CE detta due proposizioni normative
raccordate fra di loro. La prima prevede che in linea di principio la protezione
conferita dal brevetto non si estenda alle generazioni successive “qualora la
riproduzione o moltiplicazione derivi necessariamente dall’utilizzazione per la quale
il materiale biologico è stato commercializzato”. La seconda provvede, invece, a
restringere l’area di libertà attribuita agli acquirenti al fine di evitare che questi,
avendo conseguito la disponibilità di una generazione di materiale auto replicante
(ad es. delle sementi ingegnerizzate) possano presentarsi sul mercato come venditori
del materiale che incorpora l’invenzione brevettata e far, quindi, concorrenza al
titolare. A tal fine, si stabilisce che l’esaurimento ha luogo “purché il materiale
ottenuto
non
venga utilizzato
successivamente per altre riproduzioni
298
o
) In tal senso M. Ricolfi, La brevettazione delle invenzioni relative agli organismi geneticamente
modificati, in Riv. dir. ind., 2003, p. 13.
131
moltiplicazioni”. Questa regola, pur configurandosi come un’eccezione, subisce, a
sua volta, una deroga nel caso in cui l’acquirente sia un agricoltore. In questo caso
viene in gioco la tradizionale farmers’ exemption, che sottrae all’esclusiva del
titolare del brevetto le generazioni successive di materiale protetto (siano esse le
sementi conservate da un raccolto precedente o la progenie degli animali
bioingegnerizzati originariamente acquistati) ottenute sul fondo ed a questo
destinate. L’esenzione corrispondente viene conservata anche nel diritto brevettuale
comunitariamente armonizzato, sia pur in spazi notevolmente più ridotti di quelli
consueti alla legislazione speciale sulle varietà vegetali.
5. Dinamiche competitive della licenza obbligatoria
Ulteriore istituto pro-concorrenziale è quello della licenza obbligatoria;
disciplinato dall’art. 71 c.p.i.299, ricorre nei casi in cui un’invenzione sia dipendente
299
) L’art. 71 c.p.i. così recita: “Può essere concessa licenza obbligatoria se l’invenzione protetta dal
brevetto non possa essere utilizzata senza pregiudizio dei diritti relativi ad un brevetto concesso in
base a domanda precedente. In tale caso, la licenza può essere concessa al titolare del brevetto
posteriore nella misura necessaria a sfruttare l’invenzione, purché questa rappresenti, rispetto
all’oggetto del precedente brevetto, un importante progresso tecnico di considerevole rilevanza
economica. La licenza così ottenuta non è cedibile se non unitamente al brevetto sull’invenzione
dipendente. Il titolare del brevetto sull’invenzione principale ha diritto, a sua volta, alla concessione
di una licenza obbligatoria a condizioni ragionevoli sul brevetto dell’invenzione dipendente”. Altre
norme di riferimento sono gli artt. 72 e 81 octies c.p.i., 31 TRIPs.
132
da un’altra ovvero sia basata sull’utilizzazione, totale o parziale, di soluzioni da altri
anteriormente elaborate o brevettate300.
L’innovatore, in questi casi, avrà il diritto di chiedere ed ottenere, dal titolare del
primo brevetto, una licenza (detta quindi obbligatoria) qualora la sua invenzione
corrisponda ad un “importante avanzamento tecnico di considerevole rilevanza
300
) Può ravvisarsi il rapporto di dipendenza qualora il secondo trovato adotti, in tutto o in parte, la
stessa idea di soluzione (eventualmente anche procedimentale) dell’innovazione brevettata in
relazione allo stesso tipo di risultato utile, cioè alla stessa destinazione d’uso. Ad esempio,
l’invenzione che migliora (nel senso di accrescere, rendere più economico, ecc.) il conseguimento
dello stesso tipo di utilità con una idea di soluzione che comunque utilizza, pur perfezionandola,
quella propria dell’esclusiva anteriore o che (impiegando le parole dei TRIPs, art. 31, comma 1) non
si possa sfruttare senza contraffazione di un altro brevetto, è dipendente da questa. Viceversa,
l’invenzione che, pur utilizzando elementi oggetto di altrui precedente esclusiva, li combini in modo
originale dando luogo ad un nuovo risultato utile che i singoli elementi considerati in sé e nella loro
semplice sommatoria non consentivano di conseguire (alla stregua della tecnica nota), va considerata
come non dipendente dalla prima. Così pure va ritenuta non dipendente l’invenzione che trasferisca
l’ideazione precedente di un diverso, lontano (e non equivalente) settore d’uso, conseguendo un nuovo
risultato utile (art. 46, comma 4, c.p.i.): G. Ghidini, Profili evolutivi, cit., p. 111. Scarse sono le
riflessioni della dottrina nazionale sulla licenza obbligatoria; pressoché inesistenti sono i precedenti
giurisprudenziali in quanto rari sono i casi concreti in cui ne è stata fatta applicazione. Il repertorio
della più completa rassegna italiana delle decisioni in materia di proprietà industriale (cioè la
Giurisprudenza annotata di diritto industriale) alla voce “licenza obbligatoria”, contempla il solo caso
della mancata attuazione, a significare che la casistica riguardante la concessione di licenze
obbligatorie per invenzioni dipendenti è nulla. Sparuti, del resto, sono anche i casi di licenza
obbligatoria concessi a causa della mancata attuazione dell’invenzione, l’altra ipotesi prevista dalla
legislazione brevettuale. Due soli casi negli anni ottanta sono giunti all’attenzione della giurisdizione
amministrativa. Le ragioni che spiegato lo scarso impiego dell’istituto sono state individuate nelle
condizioni richieste per il rilascio della licenza obbligatoria e nella farraginosità del procedimento di
concessione della medesima.
133
economica”301. La licenza deve essere concessa a “ragionevoli condizioni” che, in
assenza di disaccordo tra le parti, potranno essere determinate in via giudiziale302.
301
) G. Ghidini, Profili evolutivi, cit., p. 115 evidenzia che, in generale, l’imposizione di regole
maggiormente severe all’ingresso sul mercato per gli inventori dipendenti rispetto agli inventori che
hanno brevettato la loro idea, rappresenta un saggio compromesso fra l’esigenza di incentivare
l’innovazione derivata, di miglioramento, e quella di non incoraggiare propensioni generali di
dipendenza tecnologica; gli inventori derivati non devono limitarsi ad una mera riproposizione di
soluzioni da altri escogitate in quanto un siffatto sistema rallenterebbe le innovazioni successive
sostitutive ovvero la ricerca di nuove vie di progresso tecnico. Relativamente alle biotecnologie,
l’Autore è però dell’idea che il meccanismo della licenza obbligatoria dovrebbe operare a prescindere
dalla verifica dell’important tecnica advance of considerable economic significance; tale verifica
potrebbe comportare inopportuni rallentamenti nella realizzazione e commercializzazione di progressi
tecnologici in settori nei quali l’ordinamento intenda particolarmente incentivare la ricerca ed il
dinamismo innovativo. Esistono delle ipotesi di rapida sequenzialità incrociata di prodotti e sostanza
per uso terapeutico come i farmaci anti-rigetto che esigono l’impiego (e quindi il più rapido sviluppo)
di altri farmaci capaci di neutralizzare o attenuare certi effetti tossici dei primi. Farmaci che, a loro
volta, possono indurre ulteriori diversi effetti avversi e chiedono dunque lo sviluppo e l’impiego di
altri anti-anti preparati. Rispetto a una siffatta spirale terapeutica, l’urgenza e la necessità dovrebbero
far scattare la luce verde all’innovazione dipendente da subito, anche a prescindere appunto dalla
verifica dall’alto profilo tecnologico ed economico della stessa. Ulteriore ipotesi in cui la licenza
dovrebbe operare a prescindere dalla verifica dell’important tecnica advance of considerable
economic significance è quella che riguarda la realizzazione di avanzati prodotti o procedimenti la cui
più diffusa fruizione risponda a preminenti ragioni di pubblica utilità. Si pensi ai farmaci essenziali
brevettati, per i quali l’Unione Europea adottando il Regolamento n. 816/2006, ha stabilito una
procedura di concessione di licenze obbligatorie su brevetti e certificati complementari di protezione
per la fabbricazione e la vendita di farmaci, unicamente destinati all’esportazione verso paesi con
gravi problemi di salute pubblica. Per distribuire gli effetti pro concorrenziali della licenza in modo
equilibrato, in siffatte ipotesi dovrebbe conservarsi il diritto alla licenza incrociata a favore
dell’innovatore antecedente secondo il noto schema del modello normativo di invenzioni dipendenti di
cui all’art. 31 TRIPs. Critica sull’istituto in esame è P. A. E. Frassi, Innovazione derivata, brevetto
dipendente e licenza obbligatoria, in Riv. dir. ind., 2006, p. 212, la quale evidenzia che le stringenti
condizioni per accedere alla licenza, nonché la farraginosità del procedimento del rilascio, sarebbero
le cause dell’insuccesso dell’istituto. Tali condizioni, dettate inizialmente dagli accordi TRIPs e
riproposte dall’art. 71 c.p.i., volevano scoraggiare l’appropriazione dell’innovazione principale, a costi
contenuti, da parte degli utilizzatori localizzati in aree del mondo a rischio di (sotto)sviluppo. “ Non vi
è chi non colga” osserva l’Autrice “la ingiustificata severità di un requisito, quello del notevole
progresso tecnico, che rischia di essere eccessivamente selettivo in particolare se rapportato alle
dinamiche innovative tipiche dei settori … caratterizzati dalla presenza di un’innovazione di tipo
incrementale, e che sono potenzialmente i più interessati alla possibilità di una ampia condivisione
dei risultati dell’innovazione principale. È chiaro che, così inteso, l’istituto rischia di fallire proprio
nei settori nei quali la dipendenza sembra essere la regola del processo innovativo. Il titolare del
brevetto precedente, laddove non contratti spontaneamente con il secondo arrivato, può dunque
contare, nell’ipotesi di dover concedere un accesso forzato, su di una barriera protettiva più alta di
quella posta dal requisito ordinario dell’attività inventiva. Quanto all’altro parametro, quello della
notevole rilevanza economica, appare veramente difficile, ex ante, e cioè nel momento dello
svolgimento di un procedimento che per definizione precede la fase dell’attuazione dell’invenzione e
dunque il riscontro del mercato, formulare giudizi di prognosi sulla rilevanza economica
dell’invenzione dipendente. Ambedue le valutazioni, non lo si dimentichi, sarebbero poi devolute al
(secondo alcuni discrezionale) giudizio dell’autorità amministrativa, l’UIBM, con una latitudine di
poteri sconosciuta all’autorità giudiziaria ordinaria, quando decide della validità del brevetto. Detto
questo, deve sicuramente sottoscriversi la proposta avanzata in dottrina di cancellare tali requisiti
134
dall’istituto della licenza obbligatoria per invenzione dipendente. Sempre in una prospettiva de iure
condendo, ma forse in controtempo data la ancor giovane età del Codice della proprietà industriale,
credo che si debba riflettere sulle modalità di concessione della licenza obbligatoria, cioè sul secondo
degli aspetti che, come indicavo più sopra, ne hanno decretato fino ad oggi l’insuccesso, cioè il
procedimento della sua concessione. Tale procedimento, risistemato nel 1994 ed ora incorporato
negli artt. 71, 73 e 199 CPI, è un procedimento amministrativo gestito dall’UIBM, che si svolge nel
contraddittorio fra le parti, e che termina con un decreto di concessione del Ministero dell’Industria,
il quale determina l’ambito, la durata, e tutte le altre garanzie e condizioni alle quali è subordinata la
concessione della licenza obbligatoria, ed in particolare la misura e la modalità di pagamento del
compenso. Tale licenza, come è noto, è infatti sempre concessa a titolo oneroso (cfr. art. 72.2 c.p.i.).
Le condizioni della licenza possono essere variate con successivo decreto del Ministero e ad istanza
di parte, qualora sussistano validi motivi al riguardo (cfr. art. 72.8 c.p.i.). Alla modificazione del
compenso, o in caso di opposizione del titolare alla sua iniziale determinazione amministrativa,
provvede un collegio di arbitratori con equo apprezzamento; questa decisione soggiace poi al vaglio
della autorità giudiziaria ordinaria. Come i provvedimenti amministrativi in generale, il decreto di
concessione può essere impugnato avanti alla giurisdizione amministrativa (nella specie, il Tar del
Lazio). Secondo questo schema, dunque, che peraltro non risulta essere mai stato applicato
nell’esperienza pratica, in un caso di licenza obbligatoria per invenzione dipendente, l’UIBM, che
come noto non compie un esame preventivo dei requisiti di brevettabilità né dei requisiti di alcun
altro dei titoli di proprietà industriale che concede, e che resiste, forse motivatamente date le
strutturali carenze di organico, all’introduzione del giudizio di opposizione in materia di marchi,
dovrebbe nell’ordine e nel vagliare la domanda: a) esaminare la sussistenza dei requisiti oggettivi
nell’invenzione successiva, cioè l’importante progresso tecnico e la notevole rilevanza economica; b)
esaminare la sussistenza di quelli soggettivi, cioè la eventuale buona fede del contraffattore
richiedente; c) gestire il procedimento in contraddittorio fra le parti, cioè notificare l’istanza al
titolare del brevetto precedente, riceverne l’eventuale opposizione, e le conseguenti controdeduzioni
del richiedente, convocare le parti per un tentativo obbligatorio di conciliazione, ed infine concedere
o negare la licenza con decreto, il tutto nel termine di 180 giorni dalla data di presentazione della
domanda (art. 199 c.p.i.). Anche considerando questo termine come meramente ordinatorio, per chi
abbia una qualche pratica della materia, appare evidente come tutto ciò sia innanzitutto difficilmente
praticabile, quanto meno dal punto di vista pratico-organizzativo, nel contesto attuale dell’Ufficio
Italiano Brevetti e Marchi. Ma questa è un’osservazione in linea di mero fatto. Il punto critico è,
infatti, quello di diritto e cioè se sia opportuno che le valutazioni in diritto, che la procedura di
concessione della licenza obbligatoria involge, siano affidate all’autorità amministrativa. Questa,
infatti, procede con la discrezionalità sua propria, su di un terreno che tipicamente riguarda diritti
soggettivi e richiede valutazioni puramente in diritto da assumere sulla base della legislazione
brevettuale, con un percorso che in nulla differisce, nella sostanza, da quello che segue il giudice
ordinario nel decidere della brevettabilità dell’invenzione, della validità e violazione del brevetto, e
della determinazione di eventuali compensi, quando ciò sia previsto dalla norma. Questo aspetto
avrebbe dovuto essere forse approfondito in occasione del riassetto normativo avviato dal Codice di
diritto industriale; la legge di delega non costituiva un ostacolo insuperabile ad un intervento di
razionalizzazione anche in questo specifico campo. Così non è stato, ma proprio in una prospettiva de
iure condendo, si provi a riflettere sulle possibilità alternative. Queste mi paiono essere
essenzialmente due, l’una che manterrebbe la competenza nell’ambito amministrativo, l’altra che la
sposterebbe sull’autorità giudiziaria ordinaria. Quanto alla prima, valorizzata la vocazione proconcorrenziale dell’istituto della licenza obbligatoria nel caso dell’invenzione dipendente, la
competenza sul relativo provvedimento di concessione potrebbe essere attratta naturalmente in quella
dell’organo che l’ordinamento ha preposto alla tutela della concorrenza, cioè dell’Autorità Garante
della concorrenza e del mercato, la quale, peraltro, già interviene nel caso di licenza «volontaria» sui
principi attivi (art. 200 c.p.i.). Il meccanismo del controllo delle decisioni dell’Autorità Garante
seguirebbe poi la via delle ordinarie impugnazioni degli atti amministrativi. Quanto alla seconda, e a
mio modo di vedere largamente preferibile, soluzione, della questione dovrebbe naturalmente essere
investita l’autorità giudiziaria ordinaria, che già provvede al controllo della validità e
135
Molteplici sono gli interessi coinvolti nell’istituto in esame: a quelli del primo
inventore a non vedere ridotto il valore del suo brevetto, a causa dello
scavalcamento da parte di una soluzione tecnologica più avanzata, si
contrappongono quelli del secondo inventore a vedere premiati gli sforzi e gli
investimenti da lui compiuti per migliorare la tecnologia esistente. Si tratta di
interessi individuali e, al tempo stesso, afferenti all’esigenza collettiva di fruire,
quanto prima, della tecnologia più progredita (es. un farmaco depurato da effetti
collaterali nocivi).
Il problema del conflitto fra inventore “dipendente” e titolare del brevetto
originario, inerente sostanzialmente il consenso di quest’ultimo all’entrata nel
mercato del primo, riguarda, invero, solo la fase di attuazione del trovato ovvero la
produzione e l’immissione nel mercato. L’inventore “dipendente” è infatti
perfettamente libero di brevettare senza dover chiedere alcun permesso. Tale libertà,
pur non congiunta a quella di attuare, consentirà comunque a costui di difendere la
all’accertamento della contraffazione del brevetto per invenzione. La proposta mi è apparsa
particolarmente convincente, soprattutto immaginando come potrebbe presentarsi la situazione in
concreto oggi, alla luce delle modifiche introdotte dal CPI. Data la possibilità che la licenza
obbligatoria venga concessa anche al contraffattore in buona fede, è ipotizzabile che il titolare del
brevetto successivo attui inizialmente l’invenzione senza chiedere alcuna autorizzazione e che esso
venga poi convenuto avanti al giudice ordinario in una causa di contraffazione instaurata dal titolare
del brevetto principale precedente. Ed è proprio questo il momento e la sede in cui nasce l’interesse
del contraffattore a richiedere la licenza obbligatoria. Succede allora che il giudizio ordinario deve
sospendersi nel momento in cui il contraffattore fa istanza all’UIBM per ottenere tale licenza?
Parrebbe che la risposta debba essere affermativa, ma il giudizio dovrebbe però anche essere (forse
inutilmente) riassunto, per concludersi con il rigetto dell’azione di contraffazione, che sarebbe
divenuta a questo punto logicamente incompatibile con la avvenuta concessione della licenza. Non
sarebbe, invece, più lineare, semplice e sistematicamente coerente, anche nell’ottica della
specializzazione del giudice ordinario della materia industrialistica, che la domanda di licenza
obbligatoria potesse essere formulata in via subordinata dal contraffattore nel quadro della sua
difesa nell’azione ordinaria contro di lui proposta, e potesse essere formulata in ogni stato e grado
del giudizio, esattamente al pari della domanda di conversione del brevetto (art. 76.3 c.p.i.), che pure
affida al giudice il compito di valutare la sussistenza nel trovato dei requisiti per la concessione di un
diverso brevetto? Si darebbe luogo, così ragionando, ad una sentenza di accertamento costitutivo, che
terrebbe luogo del contratto non concluso volontariamente dalle parti (art. 2932 c.c.), e che dovrebbe
essere poi trasmessa entro un termine dato (i sei mesi previsti dall’art. 76 c.p.i. per la sentenza che
dispone la conversione del brevetto) all’UIBM per la dovuta trascrizione. A me pare questo un
sistema astrattamente praticabile e soprattutto coerente con il meccanismo di controllo sulla validità
del brevetto per invenzione accolto dall’ordinamento. Così riformato, l’istituto avrebbe forse delle
chances di applicazione maggiori di quelle, nulle, dimostrate dal 1968 ad oggi”.
302
) Art. 71, comma 1, c.p.i., art. 31, comma 1, TRIPs; l’art. 72, comma 2, c.p.i. ha esteso detto
beneficio al contraffattore dipendente che dimostri la propria buona fede.
136
sua invenzione contro i terzi contraffattori compreso il titolare del brevetto
precedente. Inoltre, anche in assenza (temporanea o meno) di attuazione, la
brevettazione consentirà, attraverso la pubblicità della domanda, il prodursi degli
effetti virtuosi derivanti dalla disclosure dell’invenzione.
Nella ricerca biotecnologica accade molto spesso che una nuova invenzione sia
strettamente collegata alla precedente303; in questo settore l’innovazione procede,
infatti, non tanto per salti inventivi eclatanti e stacchi qualitativamente decisivi
rispetto allo stato della tecnica nota, quanto per uno stratificarsi di più modeste
acquisizioni dovute alla sperimentazione su larga scala304. Gli ultimi trovati sono
fortemente tributari rispetto al bagaglio delle informazioni che li ha preceduti. Il
patrimonio delle conoscenze collettive è dunque un indispensabile antecedente
tecnico dal quale parte lo studio e la possibilità stessa dell’innovazione305.
L’ordinamento, al fine di salvaguardare l’interesse competitivo del primo
inventore, attribuisce a quest’ultimo, su basi di reciprocità, il diritto ad una licenza
sulla nuova tecnologia. In tal modo, egli stesso potrà divenire concorrente diretto del
secondo inventore ed, entrambi, potranno portare sul mercato, in reciproca
concorrenza, l’innovazione complessivamente più avanzata. Il legislatore tende, in
tal modo, ad innescare una spirale virtuosa di licenze incrociate ovvero ad impedire
che l’accesso al mercato della innovazione dipendente di alto profilo venga ritardato
dalla volontà ostruzionistica dell’innovatore precedente; consente quindi ad
entrambi gli inventori di competere al livello più avanzato e soddisfa,
303
) L’art. 81 octies c.p.i. contiene la disciplina della licenza obbligatoria inerente lo sfruttamento
delle privative sulle varietà vegetali.
304
) Si precisa comunque che l’attività sperimentale è sottratta alla tutela brevettuale ai sensi dell’art.
68 comma 1, lett. a) c.p.i. il quale così recita: “La facoltà esclusiva attribuita dal diritto di brevetto
non si estende, quale che sia l’oggetto dell’invenzione: a) agli atti compiuti in ambito privato ed a fini
non commerciali, ovvero in via sperimentale; b) agli studi e sperimentazioni diretti all’ottenimento,
anche in paesi esteri, di un’autorizzazione all’immissione in commercio di un farmaco ed ai
conseguenti adempimenti pratici ivi compresi la preparazione e l’utilizzazione delle materie prime
farmacologicamente attive a ciò strettamente necessarie; c) alla preparazione estemporanea, e per
unità, di medicinali nelle farmacie su ricetta medica, e ai medicinali così preparati, purché non si
utilizzino principi attivi realizzati industrialmente”.
305
) In tal senso P. A.E. Frassi, Innovazione derivata, cit., p. 212. L’Autrice osserva che la
conseguenza della rilevata natura incrementale di una larga parte dell’innovazione nei settori di punta
è che il debito dell’innovazione successiva rispetto a quella precedente tende a proporsi come la
regola e non già come una condizione eccezionale, come, invece, sembra ancora ritenere il legislatore
nazionale nel dettare la disciplina della licenza obbligatoria nel caso di invenzioni dipendenti.
137
contemporaneamente, gli interessi dei consumatori poiché nel sistema duopolio i
prezzi sono tipicamente meno alti rispetto a quelli del monopolio.
La valorizzazione dei profili pro-concorrenziali del sistema brevettuale
rappresenta, dunque, un punto fermo sia per l’interprete che per il legislatore i quali,
nei rispettivi ruoli, si propongano di adeguare l’ordinamento all’evoluzione dei
contesti tecnologici, economici e finanziari della ricerca applicata e del suo
sfruttamento industriale, promuovendo un contesto di concorrenza dinamico nel
quale
l’innovazione
stimoli
la
competizione
sull’innovazione.
138
e
la
competizione
poggi
Capitolo V
Nuovi modelli organizzativi deputati alla produzione ed allo
sfruttamento della conoscenza
139
1. Nuovi saperi ed imprenditorialità. Rimodulazione degli equilibri esistenti
sul mercato tramite nuove strategie organizzative
Il dibattito teorico sull’efficienza del sistema delle privative ha posto scarsa
attenzione agli aspetti maggiormente dinamici ed idiosincratici della conoscenza306.
Il trasferimento degli intellectual property rights non è, infatti, di per sé sufficiente a
garantire un’effettiva circolazione di quella parte di conoscenza che, diversamente
dall’informazione codificata, può essere scambiata unicamente attraverso processi di
condivisione che ne valorizzino la portata relazionale e che ne consentano
l’assorbimento da parte dei soggetti interessati alla sua acquisizione307.
In un’economia della conoscenza il controllo delle fonti, di produzione e di
distribuzione, del sapere assume un ruolo cruciale per lo sviluppo della
competitività308; le imprese sono costrette a rivedere le proprie strategie arrivando
sinanche a valutare opzioni incentrate sui meccanismi di natura contrattuale
piuttosto che sulle classiche operazioni di arricchimento delle risorse interne309.
Queste ultime rappresentano, tuttavia, ancora oggi, un fattore essenziale di sviluppo.
Le imprese, per essere competitive, devono saper combinare la capacità di
realizzare innovazione con il talento e le risorse strutturali e manageriali necessarie
per attivare e gestire, con adeguata competenza e professionalità, le operazioni
306
) In tal senso V. Zeno Zencovich, F. Mezzanotte, Le reti della conoscenza: dall’economia al
Diritto, in Dir. Informatica, 2008, p. 141.
307
) F. Cafaggi, Reti di imprese, spazi e silenzi regolativi, in Id. (a cura di), Reti di imprese tra
regolazione e norme sociali. Nuove sfide per diritto ed economia, Bologna, 2004, p. 43, scrive “i
regimi di accesso alla conoscenza rivelano l’insufficienza delle attuali tecniche pubblicistiche (di
regolazione) e di quelle privatistiche (di stampo proprietario) e la necessità di individuare nuovi
strumenti di interazione tra diritti di proprietà intellettuale e modelli organizzativi deputati alla
produzione e sfruttamento della conoscenza condivisa [...]”.
308
) In tal senso E. Rullani, Economia della conoscenza, Roma, 2006.
309
) Si tratta di cambiamenti resi ancora più necessari dai nuovi equilibri verificatisi nel mercato così
come modificato dalle nuove tecnologie. Le imprese divenute obsolete a causa dell’innovazioni sono
costrette a verificare la loro capacità di resistere al cambiamento; le stesse possono rinnovare
tecnologicamente le loro aziende ovvero abbandonare la scienza competitiva.
140
produttive ed i sistemi di collegamento con i mercati di sbocco310. Le risorse e le
competenze interne maturano con gli anni di lavoro e con gli investimenti; sono
inscindibili rispetto alla realtà che le ha generate, difficilmente acquisibili o
replicabili e, pertanto, fonti primarie di vantaggio competitivo311.
Sulla base di una qualificata dotazione di competenze interne l’impresa può
decidere di instaurare rapporti di collaborazione con soggetti ad essi esterni ovvero
seguire lo sviluppo dell’innovazione dalla fase della ricerca a quella commerciale.
Le imprese orientate ad intraprendere la strada dello sviluppo esterno
implementeranno tipologie di alleanze calibrate in funzione degli obiettivi di crescita
cui daranno priorità; potranno decidere di condividere risorse ed investimenti
finalizzati a produrre scoperte scientifiche (cooperazione per la ricerca)312 ovvero
attività economiche (cooperazione per lo sviluppo industriale e commerciale). La
ricerca è trainata dal desiderio irrefrenabile di esplorare e conoscere l’ignoto senza
condizionamenti specifici; l’industrializzazione delle scoperte scientifiche è invece
guidata da finalità essenzialmente economiche e richiede l’attivazione di risorse di
natura tecnico-aziendale, umane, strutturali, conoscenze, competenze e abilità che
solo un’impresa esperta ed affermata sul mercato è in grado di gestire.
310
) R. Vona, Management delle biotecnologie. Competizione, innovazione e sviluppo imprenditoriale,
Milano, 2008, p. 84, il quale rileva che la disponibilità “di uno zoccolo duro di intelligenza e abilità di
proprietà” costituisce un fattore competitivo cruciale con il quale alimentare il serbatoio di saperi cui
attingere per tutelare l’autonomia strategica e di azione dell’impresa nei confronti del rischio di non
riuscire a contrastare i comportamenti opportunistici ovvero assistere impotenti al sopravanzare delle
inefficienze rispetto ai benefici generati dai sistemi aziendali frammentati.
311
) A. Gambardella, Competitive advantages from in-house basic research, Research Policy, 2005, p.
391, osserva che la disponibilità di saperi scientifici interni all’impresa rappresenta un asset essenziale
sia per alimentare la propensione e la tensione verso la scoperta e la gestione in house delle
innovazioni sia per comprendere appieno le traiettorie del cambiamento tecnologico sviluppate da
realtà esterne all’impresa.
312
) Un esempio di alleanza finalizzata al potenziamento del sapere nel campo delle biotecnologie è
l’accordo tra la società di ricerca Biogen e l’Università di Zurigo che ha permesso di scoprire la
molecola “Intron A”, il primo ritrovato ad essere ammesso alla fase di sperimentazione clinica per il
trattamento di certe tipologie di leucemie e di epatite “C”. Una volta che i risultati delle attività di
ricerca ebbero creato le condizioni per costruire una sorta di prototipo, le strategie della Biogen si
focalizzarono sulle iniziative di sviluppo industriale che sfociarono in un accordo di collaborazione
con la compagnia farmaceutica Schering-Plough; la Biogen stipulò, in particolare, un contratto di
licensing out in esclusiva che, a fronte di royalty, trasferiva a carico della licenziataria i costi ed i
rischi delle attività di sperimentazione e gli oneri derivanti dalla necessità di investimenti conseguenti
alla decisione (eventuale) di affrontare anche le problematiche di produzione e di marketin.
141
Normalmente, sono le grandi multinazionali che effettuano gli ingenti
investimenti necessari per portare un nuovo ritrovato sul mercato curandone anche il
marketing, le vendite e gestendone gli aspetti di natura giuridica, normativa e legale.
Nelle piccole imprese si concentrano invece le conoscenze specialistiche e le
capacità dinamiche per generare nuovi ritrovati313; una volta raggiunto l’obiettivo
scientifico, dette imprese possono decidere di entrare nella fase successiva dello
sviluppo industriale dell’innovazione (strategia d’integrazione verticale discendente)
piuttosto che mantenere la connotazione iniziale di research firm314.
Le imprese di ricerca che decidono di allargare i propri confini organizzativi per
svolgere attività inerenti la fase successiva alla ricerca, seppur penalizzate dalla
313
) Le nuove tecnologie hanno generato, negli ultimi venti anni, un tessuto industriale nel quale si
distinguono: grandi multinazionali, e loro filiali, che si concentrano sulla fase a valle del processo
biotech a partire dallo sviluppo dei nuovi ritrovati sino all’approvazione ed alla commercializzazione
degli stessi; imprese biotech di ricerca che si specializzano sulla fase a monte del processo generando
nuovi ritrovati e quindi concentrandosi sulla ricerca vera e propria e, al più, sulle prime fasi dello
sviluppo pro competitivo; imprese biotech di servizio e di supporto che offrono, sia alle grandi che
alle piccole imprese, gli strumenti, i metodi, le tecniche (come, ad esempio, tecnologie di screening,
piattaforme tecnologiche o la gestione informatica dei dati) con le quali realizzare alcune attività del
processo di ricerca e sviluppo; centri di ricerca specializzati pubblici e privati; parchi scientifici;
imprese, consorzi d’imprese, enti a partecipazione pubblica che fungono da provider di relazioni
strategiche, networking e trasferimento tecnologico.
314
) Le imprese di ricerca possono decidere di continuare a focalizzare la loro attenzione sulle
problematiche scientifiche (strategia di sviluppo orizzontale) scegliendo magari di sviluppare un
nuovo filone scientifico, più o meno distante dal precedente, promuovendo una strategia di
arricchimento del portafogli “prodotti”; in quest’ultimo caso, lasciano alle altre imprese il compito di
valutare la convenienza ad investire ed a rischiare in attività di accompagnamento degli avanzamenti
delle scienze e delle tecnologie verso il mercato. Si assiste così ad un processo di specializzazione che
porta alcune imprese a diventare il punto di riferimento di altre stabilendo, sovente, rapporti di
collaborazione talvolta più stringenti, talaltra meno vincolanti così da lasciare la massima libertà di
valutare in ogni momento le migliori opportunità sul versante sia della ricerca che del management e
del trasferimento tecnologico.
142
complessità tecnica della gestione aziendale315, godranno del vantaggio di conoscere
in profondità i punti di forza e di debolezza che caratterizzano, sul piano scientifico,
la propria scoperta rispetto al panorama delle tecnologie esistenti, condizione
preziosa ai fini di una misurazione più precisa ed affidabile del potenziale
economico di mercato associabile ad una nuova scoperta316.
A prescindere dal livello (ricerca o commercio) in cui un’impresa decida di
operare nel settore biotecnologico, la stessa dovrà comunque far fronte a
cambiamenti che si presentano straordinariamente veloci e che richiedono un
controllo assoluto e professionale delle fonti delle conoscenze più qualificate, con le
quali è essenziale stabilire relazioni e paternariati senza limitazioni di natura
organizzativa e territoriale se si vogliono massimizzare i risultati degli sforzi
creativi. In teoria, quindi, scienziati, imprese, istituzioni pubbliche e private
interessate al progresso scientifico, dovrebbero sempre cooperare in modo
315
) Gli imprenditori provenienti dal mondo del sapere scientifico devono misurarsi con la complessità
tecnica della gestione aziendale, cui si può far fronte reclutando ed integrando un adeguato (per
numero e qualità) stock di risorse manageriali, ovvero stipulando speciali accordi con imprese ritenute
in grado di apportare competenze nelle aree del marketing, della produzione e del controllo
economico-finanziario, accettando di negoziare l’accordo in condizioni di asimmetria informativa data
la difficoltà di valutare elementi dell’offerta estranei alla cultura scientifica. Lo scienziato inoltre,
salvo eccezioni, potrebbe non possedere il talento e l’attitudine per gestire quotidianamente le
preoccupazione e gli oneri dell’operatività associata all’attuazione di un progetto d’impresa, capacità
che invece possiedono i professionisti del management. In letteratura, si ritiene tuttavia che la
leadership tecnologica di paesi come gli Stati Uniti sia ricollegabile allo straordinario sviluppo delle
iniziative imprenditoriali promosse in forma di Spin-Off dai ricercatori delle principali strutture
accademiche del paese; tale modello sarebbe anche alla base del successo delle biotecnologie in
Inghilterra. Esiste una correlazione positiva tra avanzamento della conoscenza e sviluppo delle nuove
imprese promosse in ambito accademico che hanno dato vita al fenomeno (considerato una best
practice a livello internazionale) della creazione di aggregazioni territoriali (i c.d. distretti tecnologici)
di offerta di servizi ed attività economiche in prossimità delle istituzioni universitarie di maggior
prestigio, condizione essenziale per incentivare i c.d. star scientist a “fare impresa”: M. Raffa, L.
Iandoli (a cura di), Entrepreneurship competitiveness and local development, Napoli, 2005.
316
) R. Vona, op. cit., p. 93., osserva che i prodotti della ricerca, inclusi quelli protetti da brevetto,
possono presentare aspetti di complessità talmente rilevanti da rendere il know-how accessibile e
gestibile solo per coloro che hanno lavorato al processo di scoperta; ciò, rappresenta una barriera
naturale (non legale) che rende estremamente delicati e ben più articolati e fallibili i processi
“distributivi” della scienza. Sovente, quindi, nelle operazioni di trasferimento tecnologico non
possono mancare gli inventori, i soli in grado di progettare e gestire un efficiente sistema di
presentazione e riproduzione della conoscenza; la somministrazione (e non la semplice cessione) del
sapere necessita del talento e delle abilità scientifiche di coloro che possiedono i segreti profondi delle
nuove conoscenze.
143
costruttivo, superando steccati e confini aziendali, per aumentare la qualità e la
quantità del progresso scientifico, economico e sociale317.
2. Il ruolo delle Università e dei centri di ricerca nel sistema imprenditoriale
biotecnologico. Individuazione dei titolari dei diritti di privativa
Il mondo della ricerca scientifica si avvicina sempre più spesso a quello
imprenditoriale; all’interno degli atenei si moltiplicano gli uffici addetti al
trasferimento tecnologico (TT) e le imprese c.d. spin-off. Si tratta di una tendenza
che conferma il venir meno della tradizionale divisione fra ricerca “pura”, affidata
alle università e finanziata dalla mano pubblica, e ricerca “applicata”, sovvenzionata
e svolta dalle imprese318; non è raro assistere a ricerche scientifiche condotte
direttamente, o comunque finanziate, dai privati nel mentre le università, specie nel
settore biotecnologico, ricorrono alle potenzialità economiche della brevettazione.
Gli Atenei e gli enti di ricerca, facendo leva su elementi di contenuto (capacità
d’innovare) e di immagine (prestigio e reputazione), riescono ad attivare circuiti
virtuosi favorevoli all’avvio ed al radicamento di iniziative imprenditoriali promosse
da scienziati rinomati; ambienti attraenti sul piano delle condizioni generali di
lavoro, costituiscono elementi essenziali per incoraggiare gli scienziati di maggior
317
) In tal senso R. Vona, op. cit. p. 80, riporta, come esempi, quello della società Amgen che, pur
rappresentando una delle realtà imprenditoriali di maggiore dimensione specializzata nelle
biotecnologie, è cresciuta investendo risorse finanziarie e scientifiche nelle collaborazioni esterne con
numerose piccole imprese di ricerca indipendenti (veri e propri satelliti assimilabili a dei subfornitori); a queste imprese è stato attribuito il ruolo strategico di curare in outsourcing il laboratorio
aziendale con l’obiettivo di massimizzare la produzione di innovazioni tecnologiche promettenti da
sottoporre a validazione scientifica, per poi portarle eventualmente sul mercato mediante specifici
accordi di licenza. Diversa è la strategia seguita dalla Chiron, leader mondiale nel campo delle
biotecnologie, partecipata dalla multinazionale farmaceutica svizzera Novartis e dal colosso del largo
consumo Johnson&Johnson. La Chiron è riuscita a costruire una vasta rete di rapporti di
collaborazione scientifica (formale ed informale) che include piccole unità di ricerca indipendenti,
strutture universitarie, imprese specializzate piccole e grandi. Il colosso svizzero della farmaceutica,
Hoffaman LaRoche, ha invece rafforzato la collaborazione strategica con la partecipata Genentech,
sviluppando progetti comuni sul versante della ricerca e del marketing, ed ha altresì attivato relazioni
con altre imprese leader nel campo biotecnologico come Amgen e Affymetrix.
318
) Per approfondire le problematiche connesse alla dicotomia ricerca “pura” e ricerca “applicata” si
rimanda al Cap. II, par. 7.
144
prestigio ad intraprendere la sfida, onerosa e rischiosa, del confronto con il mercato
e le sue regole. Ciò spiega il successo dei modelli di sviluppo finalizzati alla
creazione di veri e propri distretti, guidati dalla leadership strategica del sapere e
della produzione di innovazioni all’avanguardia, considerati a livello internazionale
una “best practice” da emulare; cresce, in prossimità della grandi accademie, sia il
livello di produttività scientifica sia l’incentivo a promuovere l’insediamento,
nell’ambito del proprio territorio, di nuove entità di impresa come gli spin-off
accademici. Questi nascono, in particolare, da una “costola” di un ente di ricerca
(pubblico o privato)319; al fine di avviare con maggiore libertà e flessibilità tutte le
iniziative necessarie per meglio valorizzare i prodotti della conoscenza,
costituiscono una struttura nuova, autonoma, giuridicamente e finanziariamente,
dall’ente di provenienza320.
Tali iniziative trovano, notoriamente, le loro radici nell’esperienza degli Stati
Uniti dove la ricerca scientifica è sostenuta da un ingente flusso di finanziamenti e
dalla ventennale applicazione della normativa del Bayh-Dole Act che, sin dal 1980,
319
) La definizione è di R. Vona, op. cit., p. 95.
) Accade, in sostanza, che un gruppo di ricercatori, spesso di provenienza accademica, decida di
intraprendere un percorso di sviluppo commerciale dei risultati della propria ricerca avviando,
autonomamente, nuove strutture private alle quali conferire il proprio sapere e parte del proprio tempo
(con il consenso delle strutture di appartenenza), in modo da investire nuove energie e risorse in
processi finalizzati, da un lato, a sviluppare ulteriormente la conoscenza e, dall’altro, a trovare mercati
interessati ad utilizzarla e a pagarla; si tratta dunque di un circuito virtuoso di risorse e di benefici a
vantaggio sia della ricerca sia del mondo dei possibili fruitori della stessa. Altro vantaggio delle
società spin-off deriva dalla capacità di creare strutture dotate di migliori condizioni patrimoniali e
culturali per poter accedere a fonti di finanziamento private attratte, solitamente, da investimenti in
iniziative ad elevata intensità di conoscenza e di innovazione. M. Granieri, Circolazione (mancata) dei
modelli e ricerca delle soluzioni migliori. Il trasferimento tecnologico dal mondo universitario
all’industria e la nuova disciplina delle invenzioni d’azienda, in Riv. dir. ind., 2002, p. 61, definisce lo
spin off universitario come la creazione, da parte dell’università o di un suo dipartimento, di un
soggetto societario di piccole dimensioni, licenziatario del diritto di proprietà industriale; la fase del
distacco è normalmente preceduta da un periodo di tutoraggio, di sostegno tecnico e finanziario
definito, solitamente, come “incubazione”. L’oggetto sociale della piccola società è rappresentato
dallo sfruttamento del brevetto. La permanenza dell’università nella compagine sociale della cd.
società volano è garantita normalmente fino al superamento della fase di start-up. In quel momento,
alla dismissione della partecipazione universitaria corrisponde o la completa “privatizzazione” del
soggetto, anche attraverso la quotazione in borsa, oppure l’acquisizione dello stesso da parte di società
più grandi interessate a quella particolare attività industriale. In ogni caso, il profitto che viene
realizzato dall’università, come corrispettivo della sua uscita, viene reinvestito nella ricerca
scientifica.
320
145
promuove l’utilizzazione delle invenzioni realizzate con fondi pubblici federali e
favorisce la collaborazione fra atenei e mondo imprenditoriale321.
Il Bayh-Dole Act attribuisce la titolarità dell’invenzione alle università ed agli
enti di ricerca. A tutela dei finanziatori, la norma riconosce all’agenzia federale che
ha sovvenzionato la ricerca la possibilità di rivendicare la titolarità del brevetto
qualora l’università non gli comunichi, entro un tempo ragionevole, l’invenzione
realizzata;
ulteriore
facoltà
è
quella
di
richiedere
all’inventore
(concessionario/licenziatario esclusivo) il rilascio di una licenza a condizioni
ragionevoli (c.d. march-in right). Quest’ultimo istituto trova invero applicazione
solo se il titolare dell’esclusiva non abbia commercializzato l’invenzione oppure la
licenza sia necessaria per soddisfare bisogni primari della collettività.
Quando le università non dispongono degli apparati necessari per realizzare e
vendere, su larga scala, i prodotti incorporanti la tecnologia brevettata, gli atenei
321
) Il Bayh-Dole Act è codificato nei § 200-212 del 35 U.S.C.; si applica a tutte le invenzioni
finanziate dal governo statunitense, indipendentemente dalla natura pubblica o privata del destinatario
dei fondi. Al fine di promuovere il trasferimento tecnologico dai centri di ricerca pubblica alle imprese
private, è stato approvato anche l’intervento del Congresso statunitense del 1980 noto come
Stevenson-Wydler Technology Innovation Act, codificato nel 15 U.S.C. § 3701-3714. Tale normativa
ha istituito all’interno del Department of Commerce una Technology Administration con il compito di
coordinare a livello federale le politiche per l’innovazione. Ha inoltre incoraggiato le Agenzie federali
a realizzare progetti di ricerca congiunta e a negoziare accordi di licenza con altre autorità per le
invenzioni da queste sviluppate.
146
accedono al mercato concludendo normalmente contratti di licenza con le imprese
private; i relativi canoni diventano una delle loro principali fonti di finanziamento322.
322
) L’esperienza statunitense sembra indicare che, in linea generale, lo strumento contrattuale
preferibile sia quello delle c.d. field-of-use licenses vale a dire licenze multiple in relazione ad
utilizzazioni distinte. Il brevetto riguardante un gene potrebbe, per esempio, essere oggetto di più
licenze in relazione alle molteplici applicazioni rivendicate (es. realizzare e vendere prodotti
diagnostici basati sull’antigene; realizzare e vendere la proteina ad uso terapeutico; vendere la
proteina come reagente). Tali contratti possono, da un lato, garantire la massimizzazione dei ricavi e,
dall’altro, meglio raggiungere l’obiettivo della più ampia diffusione della tecnologia con un
conseguente incremento del benessere collettivo. Tale tipologia di licenze scongiura anche il rischio di
underuse: di fronte ad un brevetto con molteplici ricadute applicative, un’impresa potrebbe infatti
decidere di destinare investimenti allo sviluppo di un’applicazione e di “tralasciare” altre utilizzazioni
ritenute meno remunerative. Il ricorso a clausole di esclusiva potrebbe, d’altra parte, rendere
inefficiente (rispetto al conseguimento anche dell’obbiettivo di public policy), la gestione del
portafoglio brevettuale da parte di un’università, specie nel caso di brevetti biotecnologici relativi ad
upstream patents o research tools. In queste ipotesi, infatti, l’invenzione potrebbe avere molteplici
applicazioni e una licenza esclusiva potrebbe rivelarsi la soluzione ottimale per le casse delle
università (le licenze esclusive, infatti, sono generalmente accompagnate da canoni più elevati), ma
non quella migliore per il benessere sociale (negli anni novanta, ad esempio, la Winsconsin Alumni
Rearch Foundation, WARF, aveva concesso in esclusiva tutti i brevetti sulle cellule staminali da essa
detenuti ad una impresa privata operante nel mercato farmaceutico). Diverse università ed enti di
ricerca pubblica operanti nel settore biomedico hanno anche messo a punto alcune best practices
intese ad armonizzare l’obbiettivo economico con quello della promozione e della diffusione non
discriminatoria delle conoscenze scientifiche incorporate nei brevetti riguardanti strumenti di ricerca
ovvero tecniche di ingegneria genetica. Si segnala, in particolare, il “modello” del California Institute
for Regenerative Medicine (CIRM), agenzia pubblica creata con lo scopo di finanziare e pianificare la
ricerca genetica; ulteriore scopo è quello di diffondere i risultati ottenuti tramite la
commercializzazione dei prodotti in vista dei ritorni economici. Per ottenere il finanziamento, il
beneficiario degli stanziamenti è tenuto a rispettare le condizioni poste dal CIRM circa la gestione
delle licenze dei diritti di proprietà industriale che saranno generati nell’ambito dell’attività di ricerca.
Se il soggetto finanziato è un ente no profit (come le università) quest’ultimo deve impegnarsi a
rendere accessibili, a condizioni ragionevoli, i propri diritti di proprietà intellettuale; se invece il
soggetto finanziato è un’impresa, questa deve presentare una relazione annuale sulle licenze rilasciate,
condividere con l’ente finanziatore i ricavi delle stesse e concedere licenze non esclusive a terzi volte
a sviluppare/migliorare l’invenzione. Di particolare interesse è anche un documento promosso dalla
Università di Stanford, sottoscritto nel 2007 da vari atenei, in tema di trasferimenti tecnologici; il
documento fissa alcuni (nove, per l’esattezza) valori/obiettivi comuni ispirati al primato dell’interesse
collettivo ed, in particolare, alla divulgazione scientifica e alla diffusione delle tecnologie avanzate.
Non manca inoltre chi promuove l’estensione del modello open source, affermatosi nel mercato dei
software, anche alle biotecnologie; tale modello indica, in informatica, un software i cui autori (più
precisamente i detentori dei diritti) ne permettono e favoriscono il libero studio e l’apporto di
modifiche da parte di altri programmatori indipendenti tramite l’applicazione di apposite licenze
d’uso. In tal senso è attivo il progetto Science Commons che propone un accesso più facile alla
letteratura, dei dati e dei diritti di proprietà intellettuale in un’ottica di maggiore condivisione della
conoscenza. Science Commons ha messo a punto il Biological Materials Transfer Project che intende
promuovere l’adozione di contratti standard per i trasferimenti tra istituzioni allo scopo di abbassare i
c.d. costi transattivi legati all’utilizzazione dei research tools. Per queste ed altre considerazioni si
rimanda a P. Errico, I brevetti sulle biotecnologie fra ricerca pubblica e sviluppo privato. Indicazioni
dall’esperienza statunitense, in Riv. dir. ind., 2009, p. 311. L’Autrice precisa che siffatti modelli
possono avere successo qualora l’oggetto, cioè i brevetti siano attribuiti direttamente alle università e
agli enti di ricerca; in caso contrario, cioè qualora la titolarità della privativa sia disseminata in capo a
147
In controtendenza rispetto al suesposto modello ed a quello adottato dalla
maggior parte degli ordinamenti brevettuali europei323, nel 2001 l’Italia ha
modificato la disciplina inerente la titolarità delle invenzioni realizzate in ambiente
universitario, riconoscendo i relativi diritti in capo ai ricercatori324 piuttosto che agli
Atenei325.
A quest’ultimi, viene attribuita esclusivamente la possibilità di conseguire, a
titolo gratuito, una licenza non esclusiva per lo sfruttamento del trovato nel caso di
mancata attuazione da parte dell’inventore; possono inoltre fissare gli importi
massimi dei canoni di licenza per la concessione, in uso, dell’invenzione a terzi
ciascun inventore individuale, la realizzazione, e soprattutto, l’enforcement di siffatti sistemi
risulterebbero pressoché impossibile.
323
) Per un raffronto con gli ordinamenti brevettuali degli altri Paesi europei si veda A. Bax, Le
invenzioni dei ricercatori universitari: la normativa italiana, in Riv. dir. ind., 2008, p. 209, S. Breschi,
A. Della Malva, F. Lissoni, F. Montobbio, L’attività brevettuale dei docenti universitari: l’Italia in un
confronto internazionale, in Economia e Politica Industriale, 2007, p. 46.
324
) Ai ricercatori universitari sono equiparati, nella norma, i ricercatori impiegati presso enti pubblici
di ricerca e, più in generale, tutti quei casi in cui intercorre un rapporto di lavoro con una pubblica
amministrazione avente tra i suoi scopi istituzionali finalità di ricerca.
325
) Art. 65 c.p.i. E. Arezzo, La tutela e la valorizzazione della ricerca universitaria in tempi di crisi,
in Riv. dir. ind., 2013, p. 148, osserva sull’argomento: “L’istituzione del c.d. privilegio accademico –
così definito perché introduce un regime eccezionale rispetto a quello applicabile ai dipendenti delle
imprese - in un momento storico in cui un Paese come la Germania, da sempre leader
nell’innovazione, provvedeva ad espungerlo dal proprio ordinamento brevettuale, pare trovasse
fondamento — nel c.d. “ pacchetto Tremonti” — nel convincimento che l’attribuzione della titolarità
dei frutti della ricerca ai diretti inventori (anziché agli Atenei) avrebbe comportato una serie di effetti
benefici. In primo luogo, un più intenso ricorso al brevetto, nel presupposto vuoi che “l’interesse
egoistico del ricercatore” lo avrebbe incentivato maggiormente verso la privativa brevettuale, vuoi
che il singolo ricercatore, liberato dalle maglie della burocrazia accademica, avrebbe avuto accesso
più facile e veloce alla privativa. In secondo luogo, una migliore valorizzazione della ricerca
universitaria: sempre nell’assunto che il singolo ricercatore, potendo disporre autonomamente dei
frutti della propria ricerca, avrebbe avuto un maggiore interesse ad attivarsi per trovare le modalità
di sfruttamento più adeguate. Le Università, infatti, non essendo realtà imprenditoriali, non
dispongono delle infrastrutture necessarie per produrre su scala industriale i frutti dell’invenzione, né
di adeguati canali per la distribuzione (….). La riforma del 2001 tradisce una certa sfiducia nei
confronti dell’Università come istituzione — interessata a e — capace di valorizzare i propri assets
immateriali e preferisce fare affidamento sul singolo ricercatore, nella speranza che facendo leva
sull’interesse del singolo possano ottenersi benefici per l’intero sistema”. Come dianzi accennato, la
Germania con legge 18 gennaio 2002 ha provveduto ad invertire il regime di titolarità sulle invenzioni
accademiche attribuendone i relativi diritti agli Atenei, seppure, pare, a titolo derivativo. All’inventore
viene anche riconosciuto il diritto di non rendere pubblica l’invenzione, nel rispetto della propria
libertà didattica o scientifica. La legge tedesca riconosce altresì al ricercatore-inventore il diritto ad
una licenza non esclusiva relativamente all’utilizzo dell’invenzione nell’ambito della propria attività
accademica nonché il diritto a percepire una quota dei proventi (del 30%) derivanti dallo sfruttamento
economico del brevetto.
148
nonché ogni ulteriore aspetto dei rapporti reciproci326.
La norma non è andata esente da critiche.
È stato osservato che attribuendo al ricercatore il diritto al brevetto, lo studioso è
gravato dagli esosi costi connessi al deposito della relativa domanda (tra questi le
parcelle dei consulenti brevettuali, le spese delle traduzioni, le tasse di deposito,
etc.)327. Il ricercatore potrebbe avere interesse ad affrontare le spese della
brevettazione allorquando abbia rapporti con il mondo imprenditoriale che gli
permetterà di recuperarle; in tali casi, tuttavia, è raro che il privato finanziatore
acconsenta a lasciare la titolarità del brevetto al ricercatore, il quale, spesso, accetta
di cedere ab initio il diritto al brevetto328 ovvero trasferisce la privativa in pendenza
del lungo processo di brevettazione329.
Potrebbe anche accadere, come nel caso di privative scaturenti dalla ricerca
vincolata, che tali brevetti vadano a situarsi nel gruppo delle privative c.d. di
326
) V. Di Cataldo, Le invenzioni delle università. Regole di attribuzione dei diritti, regole di
distribuzione dei proventi, e strumenti per il trasferimento effettivo delle invenzioni al sistema delle
imprese, in Riv. dir. ind., 2002, p. 340, nota, opportunamente, che l’attribuzione della titolarità
dell’invenzione dovrebbe comportare “il pieno diritto dell’inventore di negoziare con terzi
l’invenzione stessa senza dover sentire l’Università e senza dover nulla ad essa concedere”.
327
) Non si vede come il ricercatore universitario italiano, il cui stipendio, peraltro, è inferiore rispetto
alla media dei colleghi europei, possa essere incentivato ad anticipare somme ingenti per ottenere un
brevetto al quale, nella quasi totalità dei casi, non è in grado di dare attuazione in proprio: E. Arezzo,
op. cit., p. 36. Nel valutare i costi di brevettazione è necessario anche considerare che l’effettività
della tutela è legata in misura direttamente proporzionale alla sua estensione territoriale. Un brevetto
depositato solo in Italia, sebbene certamente meno costoso, attribuirà una protezione minima
all’inventore che non potrà opporsi allo sfruttamento e alla circolazione del suo trovato all’estero. Sui
costi del brevetto si rimanda al Capitolo I, par. 3, e sul principio di territorialità in materia brevettuale
a V. Di Cataldo, I brevetti per invenzione e per modello di utilità. I disegni e modelli. Artt. 25842594, in Il Codice Civile, Commentario, fondato da P. Schlesinger, diretto da F.D. Busnelli, Milano,
2012, p. 243.
328
) Al ricercatore interessa solitamente, più che mantenere la titolarità dei diritti patrimoniali, essere
riconosciuto come autore dell’invenzione con il conseguente prestigio all’interno della comunità
accademica e la valutazione positiva ai fini della progressione di carriera. In tal senso L.C. Ubertazzi,
Le invenzioni dei ricercatori universitari, in Contratto e impresa/Europa, 2003, p. 1117. L’ipotesi di
una cessione del brevetto, con un buon corrispettivo una tantum, potrebbe essere dunque preferibile ad
un contratto di licenza i cui canoni potrebbero essere collegati, ad esempio, in misura percentuale, al
numero di prodotti venduti o comunque a variabili che il ricercatore non è in grado di monitorare: E.
Arezzo, op. cit., p. 148.
329
) Il ricercatore potrebbe effettuare un primo deposito presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi, che
comporta una spesa contenuta, e poi, sfruttando il lasso di tempo consentito per estendere la privativa
in Europa e all’estero, iniziare le trattative con l’imprenditore in maniera da cedergli, in corso di
procedura, il diritto sull’invenzione e, quindi, consentirgli, se interessato, di proseguire a suo nome, e
a sue spese, le successive pratiche di brevettazione.
149
derivazione accademica330; molti regolamenti universitari hanno, a tal proposito,
introdotto dei meccanismi
volontari
di cessione all’Ateneo dei diritti nascenti
dall’invenzione spettanti ex lege ai ricercatori331.
Altra criticità della norma è relativa alla circostanza che le predette regole non
trovano applicazione qualora le ricerche siano finanziate, in tutto o in parte, da
soggetti privati ovvero realizzate nell’ambito di specifici progetti di ricerca
sovvenzionati da soggetti pubblici diversi dalle università, enti o amministrazioni di
appartenenza del ricercatore332.
Posto che la norma esclude il ricercatore dal novero dei titolari dell’invenzione333,
la dottrina osserva che la privativa spetti all’Ateneo piuttosto che all’ente
330
) I brevetti accademici sono quelli depositati ed ottenuti dalle istituzioni accademiche e dagli enti
pubblici di ricerca.
331
) Cfr. E. Arezzo, op. cit., p. 158, cui si rimanda per una descrizione di tali regolamenti e delle
Università che vi hanno fatto ricorso.
332
) Cfr. art. 65, comma 5, c.p.i.
333
) Nel nuovo quadro normativo suggellato all’art. 65 c.p.i. l’inventore-ricercatore verrebbe dunque a
godere di una diversa posizione giuridico-economica verso i frutti del suo ingegno a seconda della
circostanza che l’invenzione ricada nell’ambito della sua attività di ricerca ‘ordinaria’ o piuttosto
all’interno di un progetto finanziato, in tutto o in parte, da un soggetto terzo. In quest’ultima ipotesi, la
posizione del ricercatore peggiorerà drasticamente in quanto non solo non sarà più titolare dei diritti
sulla propria invenzione, ma non avrà più diritto a percepire il 50% dei proventi derivanti dallo
sfruttamento economico dell’invenzione. Nel caso di ricerca c.d. libera — recte ‘non finanziata’ — il
ricercatore vede attribuirsi la possibilità di ottenere, a sue spese, un costosissimo diritto esclusivo che,
nella maggior parte dei casi, non è in condizione di far fruttare e gli viene altresì riconosciuto il diritto
di ricevere un compenso pari a non meno del 50% dei proventi derivanti dallo sfruttamento
economico dell’invenzione. Nel diverso caso di un’invenzione accidentalmente concepita all’interno
di un progetto finanziato, dove sicure sarebbero le prospettive di sfruttamento economico
dell’invenzione essendoci già un soggetto terzo che, con grande probabilità, sarà interessato ad
attuarla su scala industriale (e probabilmente anche a coprire perlomeno parte delle spese brevettuali),
al ricercatore viene sottratta la titolarità sull’invenzione e gli viene precluso anche il diritto di vantare
quella speciale remunerazione economica di cui al terzo comma dell’art. 65 c.p.i.
150
finanziatore334; non pare infatti opportuno che quest’ultimo approfitti dei risultati
riconducibili,
principalmente,
alle
risorse
strutturali
ed
intellettuali
dell’Università335.
Le conclusioni cui giunge la dottrina non risultano invero essere dirimenti perché
le Università italiane tendono a trasferire i diritti posseduti sugli assets immateriali;
l’odierno contesto economico, caratterizzato da una pesante e perdurante riduzione
dei finanziamenti pubblici ad Università e centri di ricerca, ha messo in seria
334
) In tal senso V. Di Cataldo, I brevetti, le invenzioni ed i modelli di utilità, cit., p. 241 il quale non
manca tuttavia di evidenziare i risvolti negativi che l’adozione di tale tesi potrebbe causare nella
contrattazione degli Atenei con i partner industriali. E. Arezzo, op. cit., p. 163, osserva come in
assenza di un preciso rimando ad uno dei commi dell’art. 64 c.p.i., non è chiaro se la disciplina
applicabile alle invenzioni universitarie nel caso di ricerca vincolata sia quella delle invenzioni di
servizio, per le quali il codice non contempla nessun ‘bonus’ aggiuntivo, dal momento che l’attività
inventiva è prevista nel contratto ed è specificamente remunerata, ovvero quella delle invenzioni di
azienda dove si prevede, invece, la corresponsione di un equo premio. Se, a ben vedere, l’applicazione
della disciplina delle invenzioni di servizio sembra improbabile, sarebbe certamente auspicabile un
preciso rimando al secondo comma dell’art. 64 c.p.i. L’incertezza del quadro normativo, infatti, ha
favorito l’instaurarsi di una prassi contrattuale che tende a riconoscere all’inventore-ricercatore,
generalmente al momento del deposito o del rilascio del brevetto, un bonus forfettario da
corrispondersi una tantum il cui importo, solitamente assai modesto, viene fissato ex ante e non tiene
in considerazione in alcun modo i parametri dettati dall’art. 64, 2º comma, c.p.i. quali l’importanza
della protezione conferita all’invenzione dal brevetto, le mansioni svolte dall’inventore dipendente, la
retribuzione percepita, il contributo che questi ha ricevuto dall’organizzazione predisposta dal datore
di lavoro. Si rimanda all’opera da ultima citata per un raffronto tra l’art. 64 e l’art. 65 c.p.i.
335
) A differenza di quanto accade nel caso dell’invenzione realizzata dal prestatore di lavoro in un
rapporto privato di impiego, nel caso che qui ci occupa l’inventore-ricercatore riceve la sua
retribuzione principale da un soggetto diverso rispetto a quello che finanzia la ricerca e cioè
dall’Università o dall’Ente Pubblico di ricerca. Non solo. Spesso, a fronte di un (esiguo)
finanziamento esterno, la ricerca vincolata viene svolta intra moenia, e cioè utilizzando il know-how
dell’équipe di ricercatori universitari, ovvero le infrastrutture e le attrezzature universitarie.
151
difficoltà dette istituzioni pubbliche nonostante il ruolo sempre maggiore che stanno
assumendo nell’ambito della ricerca336.
Il reddito proveniente dalle commesse di ricerca private rappresenta una fonte
essenziale di sopravvivenza per le Università, che con tali fondi sovvenzionano la
ricerca stessa sotto forma di borse di studio, assegni di ricerca, acquisto di materiali
e strumentazioni tecniche337. Le Università sono, dunque, costrette a competere fra
loro al fine di ottenere le commesse più remunerative ovvero più durature e stabili
nel tempo. A ciò si aggiunge che il sistema universitario italiano non è
sufficientemente maturo per consentire una competizione basata sui “cervelli”; la
concorrenza in accademia si gioca, quindi, essenzialmente su due variabili: il
corrispettivo della commessa e la titolarità dei diritti di proprietà intellettuale sulle
invenzioni brevettabili scaturenti dalla ricerca, elemento quest’ultimo assai caro ai
committenti. Il conseguente rischio è che la singola Università, pur di ottenere la
commessa, finisca non solo per accettare importi esigui e, comunque, non
336
) La globalizzazione dei mercati ha posto l’industria europea in una posizione di svantaggio rispetto
alle realtà dei Paesi emergenti mentre il ruolo dell’Università nella catena di produzione
dell’innovazione è destinato ad occupare uno spazio sempre più importante. La letteratura economica
europea parla, a tal proposito, del c.d. modello della tripla elica, in cui la produzione dell’innovazione
sarebbe determinata dall’interazione di tre soggetti e cioè: l’Università, le imprese private ed il
Governo. Sul tema v. L. Poma, L. Ramacciotti, La valorizzazione della ricerca universitaria mediante
l’interpolazione dei saperi. Infrastrutture materiali ed immateriali, in L’Industria, 2008, p. 278. R.
Vona, op. cit., p. 84 osserva che l’affanno finanziario riduce l’autonomia strategica delle imprese di
ricerca favorendo, nei rapporti con il paternariato, i soggetti più dotati in termini di capitale e capacità
manageriali; quest’ultimi avranno maggiori probabilità di prevalere nell’imporre le proprie decisioni
nel corso della trattativa finalizzata a definire i prezzi di scambio delle singole componenti della
catena di valore. Tali asimmetrie potrebbero svantaggiare le imprese titolari del know-how
tecnologico nonostante queste possiedano una posizione di vantaggio che deriva dal controllo delle
informazioni rilevanti ai fini dello sviluppo della capacità innovativa; si tratta di informazioni
essenziali per misurare, con maggiore precisione ed affidabilità, la valenza scientifica dei risultati
dell’attività di ricerca da cui discende il potenziale economico delle relative applicazioni industriali.
337
) Cfr. i dati riportati da A. Gherardini, Andante ma non troppo. L’apertura delle università italiane
alle imprese, in Stato e Mercato, 2012, p. 465. Segnatamente, l’autore riporta che nel periodo
compreso tra il 2004 ed il 2008, il finanziamento proveniente dal Governo centrale alle Università è
diminuito del 13,7% (passando dal 37,5% al 23,8% del budget complessivo), mentre si è rilevato un
aumento del peso di altri proventi, tra cui, in particolare, i contratti di ricerca e consulenza finanziati
da terzi (dell’ 8,6%) e i finanziamenti di Regioni e altri enti locali (del 7%).
152
commisurati all’effettivo valore della prestazione pattuita, ma, soprattutto, “svenda”
la sua proprietà intellettuale, cedendola “a costo zero” al soggetto finanziatore338.
Il nostro paese dovrebbe riflettere sulla circostanza che la ricerca scientifica
rappresenta l’unica, vera, risorsa distintiva, difficilmente imitabile, di cui ogni paese
dispone per costruire una propria strategia di sviluppo finalizzata a fronteggiare, in
modo efficace, la concorrenza delle altre economie, in particolare di quelle
emergenti.
3. La cooperazione tecnologica come nuovo modello di sviluppo nel settore
della ricerca e sviluppo. I contratti di rete
Il contratto è, per le imprese che decidono di ricorrere alla cooperazione, uno
strumento di sviluppo alternativo ed ulteriore rispetto alla crescita interna339.
La cooperazione consiste in un insieme di relazioni contrattuali che tendono a
coordinare la governance e l’attività di una pluralità di imprese in modo
tendenzialmente stabile; da essa possono nascere reti di contratti collegati, reti
organizzative composte da enti giuridici promossi e partecipati dalle imprese nodo,
reti complesse ove si combinano strumenti contrattuali ed organizzativi di
338
) Cfr. il recente studio di N. Baldini, R. Fini, R. Grimaldi, The transition towards entrepreneurial
universities: An assessment of academic entrepreneurship in Italy, 2012, consultabile al sito
http://ssrn.com/abstract=1979450, dove gli autori sottolineano il minor potere contrattuale delle
Università italiane verso i propri partner industriali rispetto a quelle nord-americane. E. Arezzo, op.
cit., p. 175 osserva che l’impianto normativo di cui all’art. 65 c.p.i., nell’attribuire la titolarità sui
diritti nascenti dalle invenzioni ai ricercatori, compromette il ruolo che le Università debbono
necessariamente occupare nel processo di valorizzazione dei risultati della ricerca accademica e, più in
particolare, nel trasferimento di tali risultati all’industria. L’indebolimento del potere negoziale degli
Atenei nei rapporti con i possibili partner commerciali, oltre a porsi in netta controtendenza con
l’obiettivo di rafforzare, in generale, l’autonomia universitaria, rischia di minare il delicato equilibrio
ipotizzato nel modello della “ tripla elica” incentrato sulla crescente importanza dell’interazione
(paritaria) dei tre principali “ agenti dell’innovazione ”: Università, Industria e Governo e,
conseguentemente, (rischia) di relegare le Università nel ruolo di meri “fornitori a basso costo” di
tecnologia e di saperi.
339
) In tal senso G. Vettori, Il contratto di rete e sviluppo dell’impresa, in Contratto e Mercato, 2009.
153
coordinamento, reti proprietarie costituite mediante l’intreccio di partecipazioni
incrociate340.
In paesi, come il nostro, caratterizzati da un livello di investimenti insufficienti
per la ricerca e lo sviluppo, l’obbiettivo di produrre beni ad alto contenuto di
conoscenza può essere centrato impiegando risorse nell’industria tradizionale oppure
valorizzando la struttura distrettuale, con il potenziamento di appropriati modelli
evolutivi basati sul meccanismo delle reti341, cui possono partecipare anche i
governi, le istituzioni e le università342.
In materia, utile strumento predisposto dal legislatore italiano è il contratto di
rete; nato con l’art. 3, comma 4 ter, d.l. 10 febbraio 2009 n. 5 così come convertito
dalla l. 9 aprile 2009 n. 33, è stato oggetto di successive modifiche nel 2009, 2010 e
340
) Così C. Triglia, Sviluppo locale. Un progetto per l’Italia, Roma-Bari, 2005. P. Iamiceli, Le reti di
imprese: modelli contrattuali di coordinamento, in F. Cafaggi (a cura di), Reti di imprese tra
regolazione e norme sociali. Nuove sfide per diritto ed economia, Bologna, 2004, p. 128, definisce le
reti quale “insieme di relazioni di tipo cooperativo e tendenzialmente stabili tra due o più imprese
formalmente e giuridicamente distinte, anche concorrenti, tra le cui attività esista o si generi una
qualche interdipendenza ed emerga dunque un’esigenza di coordinamento, alla quale la rete risponda
ricorrendo a strumenti di governo diversi, formali e informali, contrattuali e non”. In termini
analoghi, seppur in un diverso contesto disciplinare, G. Soda, Reti di imprese. Modelli e prospettive
per una teoria del coordinamento, Roma, 1998, p. 65, definisce l’interdipendenza come necessaria
“considerazione reciproca”.
341
) Il sistema delle reti rappresenta un modello particolarmente funzionale alle esigenze
dell’economia italiana nell’attuale momento in cui il Paese soffre di un gap di capacità innovativa
rispetto ai principali partner europei, collocandosi, tra gli Stati membri dell’Unione, nel gruppo di
coda secondo la valutazione complessiva basata sugli obiettivi degli indicatori strutturali fissati a
Lisbona nel 2006: E. Briganti, La nuova legge sui “contrati di rete” tra le imprese: osservazioni e
spunti, in Notariato, 2010, p. 191. R. Bernardinis e S. Giovannelli, Innovazione è competitività.
Potenziare i circuiti della conoscenza nei distretti italiani, in Quaderni LDE, 2008, p. 24, sostengono
che per generare nuova conoscenza e nuovi processi di diffusione della conoscenza è essenziale la
creazione di sinergie, cioè il coordinamento di tutti gli attori, la valorizzazione di relazioni formali ed
informali, la messa in opera di efficaci canali di circolazione e scambio di informazioni, i rapporti fra
università o centri di ricerca con le imprese, i rapporti fra imprese per realizzare processi di diffusione
della conoscenza, il ruolo delle istituzioni locali per promuovere, non solo collegamenti fra le
prospettive globali e le potenzialità locali, ma anche centri di sviluppo dell’innovazione nazionale.
342
) Le principali esperienze nazionale ed internazionali nella gestione dei sistemi locali di
innovazione suggeriscono come l’efficienza di tali sistemi sia fortemente influenzata dalla presenza
locale di enti preposti al coordinamento ed all’indirizzo delle attività da realizzare. Si tratta infatti di
enti capaci di favorire la presenza di fondazioni o enti consortili, di attivare processi di animazione dei
distretti favorendo fenomeni di collegamento, di apprendimento collettivo o di collaborazione diffusa.
154
2012 fino a pervenire all’attuale assetto che trova il proprio punto di riferimento
nella l. 17 dicembre 2012 n. 221343.
Si tratta, nello specifico, di un accordo finalizzato a promuovere e consolidare
forme stabili di collaborazione tra imprese344, attraverso le quali possono essere
costituite, organizzate e gestite strutture volte ad accrescere, individualmente e
collettivamente, la capacità innovativa e competitiva sul mercato345. La
cooperazione permette anche di raggiungere una dimensione minima ottimale che
individualmente è pressoché impossibile a causa delle dimensioni degli investimenti
richiesti in settori come quello delle biotecnologie, del necessario carattere
sistematico dell’attività ovvero per il fatto che risorse complementari sono in mano a
343
) Stante l’esiguità della disciplina, è stato osservato che il legislatore, più che intervenire con
l’intento di disciplinare una nuova tipologia negoziale, avrebbe solo provveduto ad introdurre una
nuova definizione, avrebbe cioè “definito” e non “disciplinato” il contratto di rete: F. Macario, Il
contratto e la rete: brevi note sul riduzionismo legislativo, in I Contratti, 2009, p. 951.
344
) In tal senso F. Cafaggi, Il contratto di rete nella prassi. Prime riflessioni, in I Contratti, 2011, p.
1. Dello stesso Autore F. Cafaggi (a cura di), Il contatto di rete, Commentario, Bologna, 2009. Cfr.
anche P. Iamiceli (a cura di), Le reti di imprese ed i contratti di rete, Torino, 2009.
345
) Il contratto di rete è un contratto di durata plurilaterale d’impresa come la subfornitura ed il
franchising; nelle fattispecie da ultime citate, il legislatore s’ispira all’esigenza fondamentale di
tutelare la parte debole del rapporto con una disciplina composta, consideratane la ratio, da norme
imperative, divieti e sanzioni di nullità. Nel contratto di rete la finalità è invece quella di tipo
promozionale ovvero si vuole favorire il rilancio dell’economia e la competitività dell’industria
italiana e, soprattutto, della piccola e media impresa che, non disponendo di risorse per l’innovazione,
si aggregano per superare questo gap. La norma non pone un limite al numero di imprese che possono
entrare a far parte del contratto; non specifica se si tratta di imprese con una finalità lucrativa piuttosto
che sociale. Sicuramente, non possono far parte della rete gli enti pubblici, le università o sue
articolazioni, centri di ricerca, dipartimenti. Una volta creata, però, la rete potrà stipulare con detti
soggetti accordi e convenzioni potendo, a tal fine, anche costituire un organo che curi i suoi rapporti
esterni. Secondo alcuni Autori, stante la comunione di scopo del contratto di rete, esso costituirebbe
uno schema generale per lo svolgimento di attività compiute con strumenti contrattuali già disponibili.
In tal modo si potrebbe avere una rete-subfornitura, una rete-franchising, una rete-joint venture, una
rete-associazione temporanee di imprese, una rete-consorzio: E. Briganti, op. cit., p. 194, il quale
evidenzia che il legislatore non si è preoccupato di coordinare sistematicamente il contratto di rete con
le altre aggregazioni e formazioni (societarie, consortili, associative) che svolgono egualmente
funzione organizzativa tra le imprese. A tal proposito, M. Granieri, Contratto di rete, programma
comune e gestione della proprietà intellettuale nella collaborazione tra imprese, consultabile sul sito
www.law-economics.net, osserva che lo strumento consortile ha, per definizione, la stessa e già nota
vocazione che ora si ascrive al contratto di rete, cioè quella di creare un’occasione (temporanea) di
cooperazione senza compromettere l’autonomia, caratteristica tipica anche delle associazione
temporanee d’impresa notoriamente considerate “cooperazioni temporanee”. F. Cafaggi, P. Iamicelli,
G.D. Mosco, Contratti di rete: prime applicazioni pratiche, in I Contratti, 2013, p. 799, osservano
invece che il contratto di rete integra il quadro legislativo presente affiancandosi alle a.t.i., ai consorzi,
alle joint ventures, agli accordi di filiera, colmando alcune lacune sistematiche e promuovendo nuove
forme di collaborazione con l’obiettivo di favorire un incremento della capacità innovativa e
competitiva delle imprese che ne fanno parte.
155
soggetti diversi346; a questi vantaggi si aggiungono poi, in un’ottica distrettuale347,
gli effetti positivi che la conoscenza generata potrebbe avere sul territorio stesso348,
evitando, peraltro, che detta conoscenza vada perduta a beneficio di contesti lontani
rispetto al luogo di generazione349.
346
) Cfr. M. Granieri, Contratto di reti, cit. F. Cafaggi, P. Iamicelli, G.D. Mosco, Contratti di rete, cit.,
p. 799, osservano che il contratto di rete è concepito come uno degli strumenti in grado di
incrementare la competitività delle imprese sul mercato e che a ricercare questa opportunità sono
soprattutto le imprese collocate nella fascia a monte della catena del valore; si tratta di imprese che
normalmente hanno più difficoltà ad accedere autonomamente al mercato senza l’intervento di
operatori che fungano da intermediari per la commercializzazione. La rete rappresenta, quindi, uno
strumento che, eventualmente riducendo la necessità di tali operatori, accresce le opportunità
commerciali dell’imprese stesse. Le relazioni che il contratto di rete si presta a governare possono
svilupparsi sia in senso orizzontale, tra imprese che operano al medesimo livello della catena, che
verticale, coordinando fasi diverse, tendenzialmente interdipendenti.
347
) Il modello primigenio di aggregazione tra imprese è il c.d. distretto industriale ossia quel
fenomeno industriale, tipicamente italiano, caratterizzato da una elevata concentrazione, in un
territorio ristretto di piccole imprese specializzate nel medesimo settore produttivo, nell’ambito del
quale esse tessono profondi legami in termini occupazionali e sociali con la comunità locale. E.
Briganti, op. cit., p. 191 osserva che nel contratto di rete il richiamo ai distretti è contenuto solo nella
rubrica dell’art. 3 in esame per poi non essere più menzionato. A conferma della circostanza, l’Autore
evidenzia altresì che nella logica del legislatore il contratto di rete sembra abbandonare questa
dimensione in quanto la prospettiva è quella di superare l’ambito regionale in una visione metadistrettuale (visione tipica delle reti trasnazionali).
348
) I vantaggi possono consistere nella creazione di nuovi posti di lavoro qualificati. Una prospettiva
originale è, a tal proposito, quella assunta da R.J. Gilson, The Legal Infrastructure of High Technology
Industrial Districts: Silicon Valley, Route 128, and Covenants not to Compete, 74 N.Y.U.L. Rev. 575
(1999), secondo il quale la competitività di taluni distretti dipenderebbe dalla possibilità di inter-firm
spillovers, che garantirebbero il ricircolo della conoscenza ed il relativo accrescimento. Da questo
punto di vista, un fattore decisivo – osservato per la Silicon Valley – sarebbe quello della scarsa
propensione dei giudici a sanzionare gli accordi di non concorrenza dei dipendenti privati favorendo,
in tal modo, la mobilità e l’imprenditorialità e, soprattutto, la circolazione di quella conoscenza tacita
che sfugge alla codifica ed alle forme di trasferimento basate sul contratto.
349
) Il bilancio tra conoscenza generata localmente e perduta e conoscenza generata altrove e importata
si chiuderebbe almeno in pareggio. Sul punto, specificamente, F. Cafaggi, P. Iamiceli, Le reti di
imprese per la fornitura di servizi alle PMI tra innovazione e crescita imprenditoriale, in A. Lopes, F.
Macario, P. Mastroberardino (a cura di), Reti di imprese: scenari economici e giuridici, Torino, 2007,
p. 308.
156
Nel contratto di rete si può collaborare in varie forme ed ambiti, compreso quello
della ricerca e sviluppo350, scambiarsi informazioni o prestazioni di natura
industriale, commerciale, tecnica o tecnologica; si può esercitare in comune una o
più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa351.
Per quanto riguarda specificatamente le reti per la ricerca e sviluppo, la
configurazione tipica della collaborazione prevede la definizione del problema
comune e del programma di lavoro, la condivisione delle conoscenze disponibili tra
le imprese, solitamente mediante licenze incrociate (il cd. background),
350
) Cfr. M. Granieri, Il contratto di rete, cit. In senso conforme F. Cafaggi, P. Iamicelli, G.D. Mosco,
Contratti di rete, cit., p. 799 i quali osservano che i programmi di rete possono essere orientati
all’attività di ricerca e di sviluppo allo scopo di realizzare nuove soluzioni ovvero prodotti e servizi
che siano in grado di raggiungere quell’obiettivo strategico di aumentare la capacità innovativa delle
imprese. Discutendo della causa del negozio in esame, gli Autori definiscono il contratto di rete come
un contratto con causa di collaborazione. Altra parte della dottrina individua, invece, la causa con la
funzione di accrescere la reciproca capacità innovativa e la competitività nel mercato; così sostenendo,
però, la causa diventa un obiettivo strategico ovvero il fine di un programma, che pone delicatissimi
problemi all’interprete su come verificarne la presenza prima ancora che si sia in effetti realizzato.
Probabilmente, si potrà accertare la mancanza della causa nel contratto di rete solo quando il
programma risulterà assolutamente irrealizzabile in quanto incompatibile con gli obiettivi strategici
perseguiti dalle parti, con le attività che svolgono le imprese per l’inadeguatezza del fondo comune e
dei mezzi disponibili; si dovrà comunque sempre dare un certo grado di fiducia ad un programma che
a priori non si può qualificare come irrealizzabile, impossibile o non meritevole: C. Scognamiglio, Il
contratto di rete: il problema della causa, in I Contratti, 2009, p. 263. L’Autore precisa anche che se
fosse accertata, dopo la sua esecuzione, la non idoneità del contratto di rete a raggiungere i risultati
programmati, questa circostanza potrà rilevare come causa di sopravvenuta impossibilità dello scopo
comune e dare, quindi, luogo alla risoluzione del contratto.
351
) Nello schema normativo è previsto che le parti, prima, predispongano un c.d. programma di rete,
ossia un piano generale d’azione volto ad accrescere la capacità innovativa e la competitività (fase
statica dell’atto giuridico), per poi dare esecuzione concreta alle attività ivi previste (fase dinamica
del rapporto giuridico). Tre sono sostanzialmente i modelli contrattuali che le imprese possono
utilizzare: a) un contratto di rete privo di fondo comune, in cui gli aderenti collaborano per perseguire
obiettivi comuni (es. scambiando informazioni relative a fornitori qualificati o condividendo sistemi di
conoscenze legati alle tecniche di produzione). In questa forma, il programma impegna
individualmente tutti gli aderenti senza benefici di limitazione della responsabilità; b) un contratto di
rete con fondo comune ed organo comune destinato a svolgere attività, anche commerciali, con i terzi.
Si tratta di un modello caratterizzato da un regime di responsabilità limitata al solo fondo comune per
ciò che attiene alle obbligazioni contratte dall’organo stesso in relazione al programma di rete. Le
imprese potrebbero impiegare questa tipologie di rete quando intendano condividere investimenti
importanti (es. acquisto di nuove tecnologie) o quando vogliano accedere a nuovi mercati, anche
esteri, in forma aggregata spendendo un marchio comune e connesso alle singole imprese partecipanti;
c) un modello con soggettività giuridica, in cui l’aggregazione degli aderenti diventa essa stessa nuovo
operatore economico distinto dagli aderenti; in tal caso, è la rete in quanto tale a proporsi sul mercato
senza spendere il nome dei partecipanti che comunque sono chiamati ad attivarsi per la realizzazione
del programma comune. Va detto che, nonostante le numerose modifiche succedutesi nel tempo, la
legge ha continuato a riconoscere ai contraenti un livello molto alto di autonomia contrattuale,
limitandosi a fornire una nozione di contratto di rete e taluni contenuti obbligatori o facoltativi: F.
Cafaggi, P. Iamicelli, G.D. Mosco, Contratti di rete, cit., p. 799.
157
l’individuazione della destinazione delle risorse finanziarie, le disposizioni relative
all’utilizzo delle conoscenze attese dalla collaborazione (cd. foreground)352. Siffatta
configurazione conosce, poi, possibili varianti quante volte nella collaborazione
siano coinvolti gruppi di ricerca quali atenei o enti pubblici di ricerca (solitamente a
livello di strutture dipartimentali)353 e sia previsto l’accesso a canali esterni di
finanziamento a livello regionale, nazionale, europeo354.
Nella disciplina sul contratto di rete non si rinvengono norme dirette a
regolamentare la titolarità della proprietà intellettuale dei risultati ottenuti dalla
ricerca355; l’art. 138, comma 1, lett. a) c.p.i. prevede, a tal proposito, che qualora il
contratto costituisca, modifichi o trasferisca diritti personali o reali aventi ad oggetto
352
) Sui contenuti delle collaborazioni in R&S (inclusi i rapporti di committenza) si veda G. Santini,
Commercio e servizi, Bologna, 1988. Un aspetto centrale per la cooperazione orizzontale in R&S è
quello della compatibilità degli accordi con le norme antitrust. Come noto, nell’Unione europea vige
un’esenzione di blocco ex art. 101, comma 3, del Trattato per gli accordi di ricerca e sviluppo disposta
mediante Regolamento UE 1217/2010.
353
) Si rimanda a M. Granieri, La gestione della proprietà intellettuale nella ricerca pubblica.
Invenzioni accademiche e trasferimento tecnologico, Bologna, 2010, per alcune riflessioni sul tema se
possa considerarsi ancora un contratto di rete quello cui partecipi una università come in effetti pare
emergere sia dalla prassi che da fonti europee.
354
) Deve essere ricordato che, per effetto della modifica al titolo V della Costituzione ed, in
particolare, dell’art. 117, anche le Regioni hanno acquisito competenza in materia di ricerca scientifica
e tecnologica; si tratta di competenze che detti organi esercitano prevalentemente nell’ambito dei piani
operativi regionali (POR). In dottrina, cfr. G. Fares, Ricerca scientifica ed innovazione tecnologica nel
nuovo riparto di competenze fra stato e regioni, in Giur. it., 2005, p. 1795. Molto spesso, le fonti
regionali predeterminano le sorti della proprietà intellettuale derivante dal progetto finanziato e
incidono, così, sul concreto assetto di interessi al quale le parti intendono dar vita.
355
) La causa di questa lacuna può essere accidentale oppure potrebbe essere voluta nel senso che il
legislatore ha ritenuto troppo complicato scrivere norme dispositive posto che, all’interno
dell’ordinamento giuridico italiano, si rinvengono spunti normativi quantomeno per abbozzare una
disciplina della proprietà intellettuale nelle reti per la ricerca e sviluppo. È appena il caso di osservare
che una lacuna su questi aspetti, se non colmata, si potrebbero risolvere in una seria ragione di
sottoutilizzo della proprietà intellettuale e, in ultima analisi, in una frustrazione delle finalità della
cooperazione. Se, dunque, non serve un contratto per far sorgere una rete di imprese o un distretto, è
indispensabile – almeno nella configurazione normativa attuale – un programma di rete dal contenuto
regolamentare per disciplinare i molteplici aspetti della cooperazione in R&S e i ben più complicati
aspetti relativi alla gestione della proprietà intellettuale; la ragione è quella che, non essendo chiari gli
aspetti su titolarità, utilizzo, gestione dei diritti, anche il sistema degli incentivi individuali risulta
indebolito. Basta ragionare sulla durata dei diritti di proprietà intellettuale per rendersi conto della
necessità di regolare, ben oltre la collaborazione che li ha generati, tutti gli aspetti relativi alla
manutenzione dei relativi titoli (compresa la gestione del contenzioso) e il loro sfruttamento: F.
Cafaggi, P. Iamiceli, Le reti di imprese per la fornitura di servizi alle PMI tra innovazione e crescita
imprenditoriale, in A. Lopes, F. Macario, P. Mastroberardino (a cura di), Reti di imprese: scenari
economici e giuridici, Torino, 2007, p. 308. F. Cafaggi, P. Iamicelli, G.D. Mosco, Contratti di rete:
prime applicazioni pratiche, in I Contratti, 2013, p. 799 osservano che solo nell’11% circa dei
contratti di rete si regolamenta l’attribuzione della titolarità dei diritti di proprietà intellettuale sulle
innovazioni realizzate nell’ambito della rete.
158
diritti di proprietà intellettuale esso deve essere reso pubblico mediante la
trascrizione presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi.
Il problema dell’appropriabilità della conoscenza all’interno delle reti deve essere
gestito dalla governance della rete, cioè dai meccanismi istituzionali che dovrebbero
garantire il funzionamento della rete stessa356; è stato tuttavia osservato che la
creazione di una rete non è, di per sé, idonea a risolvere il problema357.
Per comprendere quanti e quali modelli di appropriazione sono disponibili nella
cooperazione in ricerca e sviluppo sono state formulare due distinte ipotesi; la prima
è quella relativa ad imprese che, al fine di acquisire conoscenze, si pongono come
committenti mentre la seconda riguarda la rete che svolge direttamente, mediante
tutti o parte dei soggetti coinvolti, attività di ricerca preordinata alla generazione ed
alla appropriazione358.
Nella prima ipotesi, il programma di rete prevederà le modalità di acquisizione e
regolerà i rapporti con il soggetto incaricato di svolgere l’attività di ricerca e
sviluppo. Quanto ai risultati, si possono immaginare tre diverse soluzioni: che
appartengano alla rete committente la quale li metterà poi a disposizione, secondo la
logica consortile, delle imprese della rete stessa; che appartengano alla controparte
la quale procederà a licenziarli, per lo più in esclusiva, alla rete committente; che vi
sia una situazione di co-titolarità e licenze incrociate tra titolari affinché ciascuno
possa utilizzare i risultati per le proprie finalità. In quest’ultimo caso, chi ha svolto la
356
) F. Cafaggi e P. Iamiceli, Le reti di imprese, cit., 317, sostengono che la creazione della rete e la
sua governante sono una risposta al problema della appropriabilità della conoscenza a livello
distrettuale. Se ciò è vero per la conoscenza tacita (vista la tendenziale localizzazione delle fonti:
gruppi di ricercatori, imprese consolidate, consulenti, strutture intermedie, ecc.), non lo è
necessariamente per quella codificata o codificabile: M. Granieri, Contratto di rete, programma
comune, cit. Sul ruolo della rete rispetto alla conoscenza tacita cfr. più diffusamente M.A. Rossi,
Innovazione e conoscenza, in F. Cafaggi (a cura di), Reti di imprese tra regolazione e norme sociali.
Nuove sfide per diritto ed economia. Bologna, 2004, p. 345.
357
) In tal senso M. Granieri, Contratto di rete, cit.
358
) Una terza ipotesi può essere quella della rete che si costituisce per fornire (anche all’esito di una
procedura di selezione) prestazioni di ricerca e sviluppo per conto di terzi; in una fattispecie di questo
tipo, che può essere trattata in modo appropriato dal punto di vista dell’appalto, le problematiche
relative alla proprietà intellettuale sono ridotte poiché, solitamente, il committente rivendicherà a sé
stesso la proprietà dei risultati della ricerca o pretenderà, eventualmente, una licenza sugli stessi.
159
ricerca su commissione può avere interesse ad una licenza sui risultati, per campo
d’uso sperimentale, al fine di proseguire l’attività investigativa359.
Più articolata è invece la situazione in cui il programma del contratto di rete
preveda lo svolgimento in comune di un’attività di ricerca e sviluppo in una
dimensione autenticamente cooperativa360.
Secondo una parte della dottrina, in questi tipi di accordo i risultati della ricerca
apparterrebbero, a titolo di co-titolarità, alle imprese della rete361. Il concorso del
personale delle imprese coinvolte nel programma di attività condurrebbe a situazioni
di appartenenza congiunta, rispetto alle quali sarebbe difficile stabilire, con
359
) Quando il soggetto incaricato di svolgere la ricerca è un ateneo o altro ente pubblico di ricerca cofinanziato con denaro pubblico, si possono configurare aiuti di stato cd. indiretti a favore della rete
committente. In questi casi, infatti, l’immediato beneficiario della sovvenzione alla R&S è l’ente
pubblico ma i risultati della ricerca vengono trasferiti ad un committente che paga soltanto per una
parte del loro costo. Si tratta di un’eventualità contemplata dalla Comunicazione della Commissione
del 2006 in materia di aiuti di stato a favore di ricerca, sviluppo e innovazione (2006/C323/01), a
mente della quale, perché non si abbia aiuto di stato, devono essere rispettate le condizioni previste
dall’art. 3.2.2. della Comunicazione stessa che così dispone: “In un progetto di collaborazione,
almeno due partner partecipano alla concezione del progetto, contribuiscono alla sua attuazione e ne
condividono i rischi e i risultati. Nel caso di progetti di collaborazione realizzati congiuntamente da
imprese e da organismi di ricerca, la Commissione ritiene che nessun aiuto di Stato indiretto sia
concesso al partner industriale attraverso l’organismo di ricerca per effetto delle condizioni
favorevoli della collaborazione, se ricorre una delle seguenti condizioni: 1) i costi del progetto sono
integralmente a carico delle imprese partecipanti; 2) i risultati che non fanno sorgere diritti di
proprietà intellettuale possono avere larga diffusione e l’organismo di ricerca è titolare di tutti i
diritti di proprietà intellettuale sui risultati ottenuti dalla sua attività di RSI; 3) l’organismo di ricerca
riceve dalle imprese partecipanti un compenso equivalente al prezzo di mercato per i diritti di
proprietà intellettuale derivanti dall’attività svolta dall’organismo di ricerca nell’ambito del progetto
e che sono trasferiti alle imprese partecipanti. Il contributo delle imprese partecipanti ai costi
dell’organismo di ricerca sarà dedotto da tale compenso. Se nessuna delle succitate condizioni è
soddisfatta, lo Stato membro può basarsi su un esame individuale del progetto di collaborazione. Può
anche non sussistere aiuto quando l’esame dell’accordo contrattuale fra i partner porti a concludere
che tutti i diritti di proprietà intellettuale sui risultati delle attività di RSI, così come i diritti di
accesso a tali risultati, sono attribuiti ai vari partner della collaborazione e rispecchiano
adeguatamente i loro rispettivi interessi, partecipazione ai lavori e contributi finanziari e di altro tipo
al progetto. Se le condizioni 1), 2) e 3) non sono soddisfatte e la singola valutazione del progetto di
collaborazione non conduce al risultato di escludere la presenza di un aiuto di Stato la Commissione
considererà come aiuto alle imprese l’intero valore del contributo dato al progetto dall’organismo
pubblico di ricerca”.
360
) V. Di Cataldo, Contratti di ricerca e diritti di brevetto, in F. Galgano (a cura di), I contratti del
commercio, dell’industria e del mercato finanziario, Torino, 1999, p. 1243, ove è riprodotto un
modello di accordo.
361
) M. Granieri, Contratto di rete, programma comune, cit.
160
precisione, la misura del contributo individuale362. Queste circostanze ispirerebbero
la soluzione già presente nel codice della proprietà industriale con l’art. 6 che
richiama, a sua volta, la norma codicistica sulla comunione in quanto compatibile363.
Si tratta peraltro di un rinvio ad altro rinvio poiché anche la prima norma in materia
di comunione (art. 1100 c.c.) dichiara applicabile la normativa codicistica se nulla è
previsto dal titolo o dalla legge (titolo che, nel caso del contratto di rete, sarebbe il
programma comune di rete). In questo gioco di rimbalzi, si giungerebbe all’art. 1101
c.c. che stabilisce una presunzione di parità delle quote tra più titolari. Per effetto
dell’art. 6 c.p.i. quindi, là dove nel programma comune di rete nulla le imprese
partecipanti abbiano previsto in ordine all’appartenenza dei risultati di ricerca, dovrà
362
) Bisogna ipotizzare che i ricercatori effettivamente impegnati nella ricerca siano dipendenti delle
imprese ovvero abbiano previamente ceduto ad esse i diritti patrimoniali sui risultati dell’attività
condotta. Nel caso di dipendente di ente pubblico avente finalità di ricerca o istituzione universitaria il
discorso presenta una variante nel caso di titolarità individuale prevista dall’art. 65, comma 1, c.p.i.
363
) Art. 6 c.p.i. così recita: “Se un diritto di proprietà industriale appartiene a più soggetti, le facoltà
relative sono regolate, salvo convenzioni in contrario, dalle disposizioni del codice civile relative alla
comunione in quanto compatibili. In caso di diritto appartenente a più soggetti, la presentazione della
domanda di brevetto o di registrazione, la prosecuzione del procedimento di brevettazione o
registrazione, la presentazione della domanda di rinnovo, ove prevista, il pagamento dei diritti di
mantenimento in vita, la presentazione della traduzione in lingua italiana delle rivendicazioni di una
domanda di brevetto europeo o del testo del brevetto europeo concesso o mantenuto in forma
modificata o limitata e gli altri procedimenti di fronte all’Ufficio italiano brevetti e marchi possono
essere effettuati da ciascuno di tali soggetti nell’interesse di tutti”. In tal senso, anche l’art. 65, comma
1, c.p.i. là dove, nel caso di ricercatori, dipendenti di università o enti pubblici di ricerca, stabilisce
una presunzione di parità di quote ove non risulti una diversa attribuzione.
161
ammettersi una situazione di co-titolarità al cui interno le quote dei partecipanti si
presumono uguali364.
Il rinvio alla disciplina codicistica in materia di comunione è stato fortemente
criticato stante la situazione non ottimale che verrebbe a crearsi nell’ambito della
proprietà intellettuale, con una conseguente, ulteriore, necessaria attività di
regolazione e costi di transazione365.
Altra parte della dottrina ipotizza che ciascuna impresa sia titolare di ciò che
realizza366 oppure che il diritto appartenga, per intero, ad un’impresa della rete che
364
) La giurisprudenza di legittimità ha interpretato le norme sulla comunione civilistica quando
riferite alla proprietà intellettuale (in particolare al brevetto). Il singolo co-titolare può cedere
liberamente la propria quota, anche determinando il frazionamento della stessa, mentre non può, senza
l’autorizzazione degli altri comunisti, sfruttare unilateralmente l’invenzione di cui è coautore
nemmeno sotto forma di concessione di licenze: in tal senso Cass. Civ. 22 aprile 2000, in Foro it.,
Rep. 2000, voce Brevetti, n. 29 per esteso in Giust. Civ., 2000, 2245, con nota di L. Albertini, La
comunione di brevetto tra sfruttamento diretto e indiretto, individuale e collettivo, nonché in Giur. it.,
2001, 1894, con nota critica di R. Gandin, Uno per tutti e tutti per uno: comunione di brevetto e
istruzioni per l’uso in un precedente della suprema corte (ovvero: il - resistibile - fascino della
disciplina codicistica). Anche la giurisprudenza di merito più risalente condivideva questo punto di
vista: P. Bergamo 29 giugno 1982, in Foro it ., Rep. 1983, voce Provvedimenti di urgenza , n. 166, per
esteso in Riv. dir. ind ., 1983, II, 165. M. Granieri, Contratto di rete, programma comune, cit., osserva
che il programma comune di rete, nel dare disciplina ai diritti di proprietà intellettuale nella
prospettiva della comunione, deve invertire la regola della co-titolarità per quota e trasformarla in una
situazione di co-titolarità per l’intero, situazione nella quale i vari co-titolari possono utilizzare
l’invenzione o la creazione senza dover ricorrere ad una manifestazione di consenso da parte degli
altri.
365
) Contrario all’utilizzo plurimo del brevetto da parte di più titolari G. Sena, I diritti sulle invenzioni
e sui modelli industriali, Milano, 1990, p. 249, sul presupposto che, essendo il contenuto del diritto di
brevetto connotato sostanzialmente come un diritto di escludere (e non di attuare), esso “verrebbe
radicalmente negato da uso plurimo”. Contra, M. Granieri, Contratto di rete, programma comune, cit.,
il quale osserva che, di fatto, la comunione dei diritti (di proprietà intellettuale) è la situazione che,
all’esito di attività cooperativa, è più ragionevole attendersi e che, d’altra parte, sarebbe difficile
presumere che, nella normalità dei casi, i partecipanti non vogliano risultare titolari di un’attività che
hanno concorso a finanziare in tutto o in parte.
366
) Si tratta invero di un’ipotesi poco credibile in ragione del carattere programmaticamente
cooperativo dell’attività stabilita nel contratto di rete. Potrebbe comunque ricorrere nella situazione in
cui la rete è finalizzata all’accesso ad un finanziamento che sarebbe individualmente precluso. Si veda
per approfondimenti: M.A. Rossi, Innovazione e conoscenza, in F. Cafaggi (a cura di), Reti di impresa
tra regolazione e norme sociali, Bologna, 2004, p. 372, nonché F. Cafaggi, P. Iamiceli, Le reti di
imprese, cit., 317.
162
agisce, per ipotesi, come mandataria delle altre ovvero al soggetto esterno alla rete
creato appositamente per la gestione dei risultati367.
Dette soluzioni, possibili in quanto le parti le abbiano positivamente previste nel
contratto di rete, presentano il vantaggio di facilitare la gestione dei diritti di
proprietà intellettuale posto che tutte le procedure amministrative per l’ottenimento
dei titoli sarebbero seguite da un unico interlocutore368; il soggetto titolare avrebbe
poi anche il vantaggio di poter attingere al fondo comune o al patrimonio separato
per la copertura delle spese.
I suesposti modelli non sono andati esenti da critiche. Il programma comune di
rete, oltre a prevedere la cessione ex ante dei diritti delle imprese in favore del
titolare, dovrebbe obbligare le medesime a far sì che i propri dipendenti, in quanto
creatori o inventori, conservino i diritti morali sulle creazioni intellettuali (siano esse
a contenuto estetico o tecnologico). In caso di invenzioni di azienda o in presenza di
misure di incentivazione aziendale all’attività inventiva, occorrerà altresì
disciplinare le modalità di corresponsione dell’equo premio o del pagamento
dell’incentivo.
In secondo luogo, bisognerà assicurarsi che l’impresa mandataria non passi di
mano a soggetti diversi e non graditi. Opzioni o prelazioni convenzionali
condizionate potrebbero trovare applicazione in questo caso. Il rischio al quale è,
367
) L’articolazione funzionale del programma può contemplare la possibile costituzione di società,
consorzi, a.t.i., joint ventures, quali strutture deputate a svolgere particolari funzioni o attività (es.
quella commerciale o di gestione dei diritti di proprietà intellettuale). Inizia così a profilarsi una
possibile vocazione del contratto di rete come rete di reti, come strumento di coordinamento
polifunzionale tra entità o organismi monofunzionali: F. Cafaggi, P. Iamicelli, G.D. Mosco, Contratti
di rete, cit., p. 799, i quali evidenziano altresì come alle parti venga riconosciuta una grande
autonomia nel disegnare la struttura organizzativa della rete. In senso conforme F. Cafaggi, Reti
contrattuali e contratti di rete: ripensando il futuro, in F. Cafaggi, P. Iamicelli (a cura di), Reti di
imprese tra crescita e innovazione organizzativa, Bologna, 2007, p. 445. La disciplina del contratto di
rete prevede la costituzione di un organo comune deputato all’attuazione del contratto stesso. Per
approfondire le varie tipologie di organo comune ed i rapporti con le imprese della rete si rimanda alla
dottrina citata in nota.
368
) Cfr. A. Musso, Reti contrattuali tra imprese e trasferimento della conoscenza innovativa , in P.
Iamicelli (a cura di), Reti di imprese, cit., p. 220, secondo il quale, in analogia con la disciplina
societaria dei gruppi, la forma più efficiente (nonché quella più diffusa nella prassi) è quella
dell’accentramento delle conoscenze in capo ad un nodo della rete (che nella prospettiva delle licenze
sarebbe il licenziante).
163
invece, difficile far fronte è quello relativo al possibile fallimento dell’impresa
mandataria369.
Altro compito del programma comune di rete sarà quello di stabilire ex ante a
quali condizioni le imprese della rete potranno accedere alla proprietà intellettuale;
potrà trattarsi di licenza gratuita o onerosa, certamente non esclusiva,
verosimilmente senza facoltà di sublicenziare, eventualmente per campi d’uso
specifici e con dettagliate previsioni in ordine all’appartenenza dei miglioramenti370.
Si deve, poi, tenere anche presente la possibilità che trovi applicazione l’art. 6,
comma 3, della legge 18 giugno 1998, n. 192 (disciplina della subfornitura)371; nelle
reti di subfornitura (che sono di natura gerarchica), l’accentramento dei diritti in
capo ad una sola impresa, che sia anche responsabile della filiera, dovrebbe
prevedere un congruo corrispettivo a favore delle disponenti. L’art. 6 è una norma di
ordine pubblico di protezione e, dunque, non derogabile; difficile teorizzare che un
contratto per la creazione di una rete che svolge ricerca e sviluppo finalizzata alla
produzione in subfornitura, possa non tener conto della sanzione di nullità colà
prevista372.
369
) Per queste ed altre osservazioni critiche cfr. M. Granieri, Contratto di rete, programma comune,
cit.
370
) Sul regime giuridico delle clausole mediante le quali il titolare originario della tecnologia si
assicura l’accesso ai miglioramenti posti in essere dalle altre imprese nodo (cd. grant-back), cfr.
ancora Musso, Reti contrattuali tra imprese, cit., che se ne occupa nella prospettiva della compatibilità
con il Regolamento 772/2004 sull’esenzione di blocco per gli accordi (bilaterali) di trasferimento
tecnologico. Sul regolamento stesso cfr. anche A. Frignani, V. Pignata, Il nuovo regolamento (Ce) n.
772/2004 del 7 aprile 2004 sugli accordi di trasferimento di tecnologia, in Dir. comm. internaz.,
2004, p. 653.
371
) L’articolo in esame prevede, al terzo comma, la nullità del patto con cui il subfornitore disponga, a
favore del committente e senza congruo corrispettivo, di diritti di privativa industriale o intellettuale.
372
) L. Prati, La disciplina della subfornitura, la proprietà intellettuale ed il know-how del
committente, in Riv. dir. ind, 1999, p. 19. Cfr. anche M.C. Cardarelli, La tutela della proprietà
industriale, in V. Cuffaro (a cura di), La subfornitura nelle attività produttive, Napoli, 1998, p. 290.
Le difficoltà di gestione della conoscenza e dei conseguenti problemi a livello di filiera sono state
segnalate anche da F. Cafaggi, P. Iamiceli, Le reti di imprese, cit., p. 311. Si tratta di un tema
complesso, affrontato anche da autori stranieri con riferimento a filiere come quella delle
biotecnologie: cfr. R.P. Merges, A. Arora, Specialized Supply Firms, Property Rights, and Firm
Boundaries, 13, Ind. & Corp. Change 451 (2004). In generale, sull’abuso di dipendenza economica
all’interno delle reti cfr. C. Camardi, Efficienza contrattuale e reti di imprese, in A. Lopes, F.
Macario, P. Mastroberardino (a cura di), Reti di imprese: scenari economici e giuridici, Torino, 2007,
p. 356, nonché M.R. Maugeri, Reti contrattuali e abuso di dipendenza economica: alla ricerca di
nuove discipline ?, in P. Iamiceli (a cura di), Le reti di imprese ed i contratti di rete, cit., p. 295
164
Le problematiche illustrate evidenziano la necessità di predisporre modelli di
regolazione da sottoporre alle imprese.
Trattandosi di una materia ispirata sostanzialmente al mercato, le soluzioni non
necessariamente devono venire dal legislatore. Un ruolo potrebbe essere rivestito
dalla lex mercatoria che però, sul punto, ancora non è emersa; le associazioni di
categoria e tutti gli enti intermedi potrebbero, dal canto loro, predisporre utili
modelli o raccogliere buone pratiche di settore (best practices) a vantaggio delle
imprese373. Pur non essendo, tecnicamente, fonti del diritto, le buone pratiche
rappresentano soluzioni accessibili alle quali gli operatori si affidano in assenza di
altri modelli dispositivi; la rete e le tecnologie dell’informazione ne costituirebbero
il canale di diffusione mentre l’accettazione da parte delle imprese produrrebbe una
qualche forma di convinzione circa l’obbligatorietà374. Maggiore il prestigio (dato
dalla provenienza) e l’efficienza del modello (dato dai contenuti), maggiore sarà la
propensione delle imprese a seguirlo. La progressiva, spontanea, adozione di tali
modelli favorirebbe un isomorfismo mimetico, prodromico e preparatorio, o
addirittura sostitutivo, di quello istituzionale di tipo coercitivo che si verifica in
presenza di fonti normative a livello primario o secondario375.
373
) Degno di nota è il lavoro svolto da Aster, agenzia della Regione Emilia-Romagna,
nell’elaborazione di un modello contrattuale per la cooperazione in R&S, che dovrebbe costituire il
punto di partenza per tutti i rapporti tra soggetti che accedano a finanziamenti sulla base di misure
regionali. Porzioni del modello sono riprodotte all’interno della parte dedicata ai contratti di
cooperazione tecnologica in AA.VV. Contratti. Formulario commentato, a cura di F. Macario,
Milano, 2011. La Commissione europea, in una Raccomandazione del 2008, ha proposto un codice di
buone pratiche per la gestione dei diritti di proprietà intellettuale quando nella cooperazione sono
coinvolte istituzioni pubbliche di ricerca (Commission Recommendation on the management of
intellectual property in knowledge transfer activities and Code of Practice for universities and other
public research organizations, COM(2008), 1329, in particolare gli allegati I e II). La stessa
Commissione, nell’ambito dei programmi quadro europei per la ricerca, ha da tempo messo a
disposizione dei partecipanti alla ricerca (che nulla esclude poter essere una rete di imprese
eventualmente transnazionale) un modello di consortium agreement noto come DESCA (acronimo di
Development of a Simplified Consortium Agreement) liberamente disponibile alla seguente URL:
http://www.desca-fp7.eu/.
374
) Da un certo punto di vista, le buone pratiche potrebbero essere la materia prima di usi commerciali
che potrebbero dar vita a una nuova lex mercatoria delle reti M. Granieri, Contratto di rete,
programma comune, cit.
375
) M. Granieri, Contratto di rete, programma comune, cit.
165
4. I patent pools
La gestione condivisa dell’innovazione potrebbe, anche, incrementare figure,
prevalentemente sviluppatesi all’estero, come quella dei patent pools. Si tratta di
un’operazione realizzata da alcuni titolari di diritti di proprietà intellettuale per
assegnare le loro esclusive ad una struttura centrale (c.d. common lincensing
administrator) affinché questa possa offrire sul mercato una licenza comune che
copra l’intero portafoglio di brevetti ad essa concesso376; la creazione di piattaforme
condivise con contratti individuali di licenza, controllati dalla piattaforma,
costituisce uno dei possibili impieghi specializzati dei contratti di rete377.
Al di là dell’estrema diversità delle forme organizzative e delle previsioni
contrattuali che li regolano, la funzione economica che accomuna i patent pools è
quella di fornire ai terzi la possibilità di conseguire la licenza di determinati brevetti
attraverso un unico contratto anziché tramite numerosi accordi bilaterali con i singoli
376
) G. Colangelo, Mercato e cooperazione tecnologica. I contratti di patent pooling, in Quaderni
AIDA, 2008, p. 6.
377
) Rispetto ad una ricerca scientifica divenuta, negli anni, sempre più un’attività essenzialmente
collettiva, estremamente complessa e costosa, per la quale occorrono meccanismi di coordinamento
tra gli operatori economici, la collaborazione tecnologica rappresenta una novità organizzativa le cui
prospettive assumono un significato ancora più rilevante alla luce della congestione di diritti esclusivi
che affligge alcuni comparti industriali, impedendo il pieno utilizzo delle risorse e mettendo in serio
pericolo i processi innovativi. La condivisione della proprietà intellettuale e il bisogno di soluzioni
coordinate sono le ragioni della proliferazione spontanea di strutture ed istituzioni finalizzate a fornire
agli operatori un punto di incontro e di comune gestione degli scambi commerciali, scongiurando così
i pericoli insiti nella parcellizzazione delle risorse; ragione per cui, nell’ambito del dibattito in corso
sulla funzione dei diritti di proprietà intellettuale e sui limiti dell’appropriabile, sulla possibilità di
conciliare il contenuto dei diritti di privativa e la tutela dei processi di innovazione, particolare
riguardo si deve al crescente ricorso a nuove forme di organizzazione, quali le collective rights
organizations (CROs). Diversi sono gli esempi di CROs presenti sul mercato. Vi si possono
annoverare le società di gestione collettiva dei diritti d’autore e diritti connessi; le clearinghouses
sviluppate nell’agrobiotecnologia al fine o di fornire un meccanismo di scambio di informazioni in
materia di biodiversità o di facilitare le transazioni favorendo l’incontro tra titolari di brevetti,
offrendo soluzioni alle eventuali controversie, svolgendo funzioni di database, rilevando gli IPRs
presenti e verificandone la disponibilità e le modalità per avervi accesso; le standard setting
organizations (SSOs), con le quali gruppi industriali definiscono standards comuni; infine, i patent
pools, che hanno trovato applicazione in diversi settori, da quello automobilistico a quello
aeronautico, dalla tecnologia video alla farmaceutica, ovvero in tutte le situazioni ed in tutti i comparti
in cui lo sviluppo di un nuovo prodotto esige il conseguimento di molteplici licenze di brevetti
detenuti da soggetti diversi. Si tratta, in buona sostanza, di varie figure di intermediari che proliferano
in ragione della difficoltà che le imprese avvertono nel gestire al meglio tutte le potenzialità offerte
dalla tecnologia digitale e dell’esigenza di individuare un interlocutore unico che faciliti l’incontro tra
gli operatori del mercato. Per queste ed altre riflessioni F. Cafaggi, P. Iamiceli, G. D. Mosco, Contratti
di rete: prime applicazioni pratiche, cit., p. 799.
166
detentori (accordi di cross licensing). Qualora per lo sviluppo di una tecnologia o la
realizzazione di un prodotto sia necessario avere accesso a numerosi brevetti, in
possesso di altrettanti detentori, la funzione del pool sarà quella di riunire tali
soggetti e convogliare i brevetti, considerati essenziali, in un portafoglio da offrire
sul mercato attraverso un’unica licenza.
La previsione di un’amministrazione centralizzata consente, da un lato, di ridurre
drasticamente i costi di transazione attraverso un contratto standard di licenza,
dall’altro favorisce uno sfruttamento economico efficiente degli IPRs, fornendo ai
licenzianti un meccanismo sia di composizione delle controversie, sia di raccolta che
di ripartizione delle royalties generate dalle licenze concesse ai terzi.
Sotto il profilo strutturale, i pools tecnologici sono realizzati seguendo diversi
modelli organizzativi; in ossequio alle molteplici manifestazioni del fenomeno della
cooperazione tecnologica, i pools possono assumere la forma di semplici intese tra
un numero limitato di parti oppure di accordi organizzativi complessi, mediante i
quali il programma di licenze del portafoglio brevettuale viene affidato ad un
organismo societario indipendente378.
I benefici che possono derivare dal patent pool nella promozione della ricerca e
dello sviluppo sono stati espressamente riconosciuti dall’USPTO379. Quale esempio
significativo degli effetti positivi scaturenti dall’adozione del pooling, segnatamente
ai fini dell’accesso a determinate tecnologie, è stata proprio indicata l’industria
biotecnologica380. Si pensi alle invenzioni basate sulle informazioni genetiche ed il
378
) Al di là delle diverse possibili sembianze, gli accordi di patent pooling condividono il medesimo
interesse e perseguono un obiettivo economico unitario: una integrazione produttiva giustificata
essenzialmente da ragioni di efficienza rispetto ai meccanismi di contrattazione individuale, la quale
offra agli aderenti possibilità di remunerazione superiori a quelle ipotizzabili in un sistema di libere
contrattazioni. Dunque, sinteticamente, possiamo indicare, quali aspetti comuni di tali accordi,
l’integrazione di economie individuali omogenee e di risorse complementari, l’offerta di un
programma comune di licenze, l’accentramento presso un’organizzazione comune della fase di
negoziazione dei diritti, la realizzazione di efficienze tramite il risparmio sui costi di transazione: G.
Colangelo, Mercato e cooperazione, cit., p. 7.
379
) USPTO, United States Patent and Trademark Office, Patent Pools: a Solution to the Problem of
Access
in
Biotechnology
Patents?,
dicembre
2000
in
http://www.uspto.gov/web/offices/pac/dapp/opla/patentpool.pdf.
380
) I. Musu, Diritti di proprietà intellettuale e biotecnologie, in Mercato, concorrenza e regole, 2005,
p. 209.
167
conseguente rischio di veder precluso l’accesso a tali conoscenze essenziali; d’altra
parte, nessuna impresa ha da sola le risorse sufficienti per sviluppare una frazione
significativa dell’informazione genetica presente in un organismo. Il risultato finale
è che l’applicazione dei patent pools in ambito biotecnologico si presenta come una
“winwin situation”, della quale beneficiano sia il settore pubblico che quello
privato381.
Di diverso avviso è l’OECD382 che ha messo in discussione l’applicabilità dei
patent pools al settore delle invenzioni genetiche; a suo dire, queste ultime
tecnologie sarebbero fondamentalmente diverse da quelle del settore elettronico nel
quale i pools sono utilizzati più frequentemente per via dell’importanza degli
standards e dell’interoperabilità383.
Non si possono sicuramente ignorare i potenziali rischi anticompetitivi inerenti,
principalmente, le ipotesi che il pool possa trasformarsi in uno strumento di strategie
collusive, grazie al quale si concordano condotte, si stabiliscono prezzi, si
scambiano informazioni rilevanti; evenienza perfettamente materializzabile ove esso
includa brevetti concorrenti. Se questo è vero appare, però, ancora più chiaro che, in
un’ottica antitrust, la questione di fondo non è tanto quella di inibire o avallare la
formazione di tali accordi, quanto invece di ponderare e discriminare gli elementi
381
) G. Colangelo, Mercato e cooperazione, cit., p. 9.
) OECD, Organisation for Economic Co-operation and Development, Genetic Inventions,
Intellectual
Property
Rights
and
Licensing
Practices,
dicembre
2002
in
http://www.oecd.org/dataoecd/42/21/2491084.pdf .
383
) Scettico sull’utilizzo dei patent pools nel settore biotecnologico, anche, F. Leonini, Il ruolo del
brevetto nella ricerca biotecnologica, in AA.VV., Studi di diritto industriale in onore di Adriano
Vanzetti, Milano, 2004, p. 825: “quando, come accade di frequente nel campo delle biotecnologie, i
vari brevetti hanno ad oggetto prodotti tra loro concorrenti, ipotizzare un libero accordo tra i loro
titolari appare illusorio, poiché il titolare del brevetto a monte avrà interesse a far valere il suo diritto
di esclusiva per impedire lo sfruttamento dei brevetti dipendenti e non ad accordarsi con i titolari di
questi e subire la loro concorrenza”.
382
168
che sono essenziali al loro funzionamento rispetto a quelli che possono rappresentare
una minaccia alle logiche concorrenziali384.
384
) In tal senso G. Colangelo, Mercato e cooperazione, cit., p. 13, cui si rimanda per approfondire le
tematiche accennate nel testo. L’Autore evidenzia che in ambito comunitario le Linee guida che
accompagnano il Regolamento 772/2004 relativo all’applicazione dell’articolo 81, paragrafo 3, del
trattato CE a categorie di accordi di trasferimento di tecnologia , individuano come rilevanti ai fini di
una valutazione antitrust: a) la misura in cui esperti indipendenti sono coinvolti nella gestione; b) le
modalità previste per lo scambio di informazioni riservate; c) i meccanismi per la composizione delle
controversie; d) gli obblighi di retrocessione devono essere non esclusivi e limitati agli sviluppi
essenziali per l’utilizzazione delle tecnologie messe in comune; e) licenzianti e licenziatari devono
essere liberi di sviluppare prodotti e norme concorrenti e concedere licenze al di fuori del pool; f)
qualora il pool detenga una posizione di forza sul mercato, le royalties e le altre condizioni della
licenza non devono essere discriminatorie e le licenze non devono essere esclusive.
169
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