DALLO SCONTRO DI CIVILTA’
ALLE RIVOLUZIONI ARABE
Ben ‘Ali e la sua Tunisia, il Paese
“dove è dolce vivere”
Il 7 novembre 1987 l’anziano za’im Bourghiba viene
deposto e Ben ‘Ali sale al potere definendosi
l’artigiano del cambiamento e promettendo di aprire
una nuova pagina di pluralismo e democrazia.
Amnistia e segnali di apertura politica;
multipartitismo.
Nel 1988, la Tunisia è il primo paese arabo a firmare
la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e
i trattamenti disumani e nello stesso anno promulga
un Patto nazionale di riconciliazione.
• In realtà il presidente si farà rieleggere nel 1994 e
poi nel 1999 e ancora nel 2004 per la quarta volta,
modificando la Costituzione che glielo avrebbe
impedito (ma non prima di aver indetto un
referendum farsa per chiedere al suo popolo di
poter continuare la sua “opera di civilizzazione”).
• Negli anni Novanta il timore del contagio algerino
(violenza terroristica, massacri, destabilizzazione
politica) e la lotta al terrorismo dopo l’11
settembre 2001 concederanno al governo ben ‘Ali
gli strumenti per mostrare il suo vero volto:
politica di repressione incondizionata contro gli
oppositori interni e bavaglio a tutti gli organi di
informazione.
• Si susseguono le denunce di tutte le associazioni per la tutela
dei diritti umani (Amnesty International, Reporters sans
Frontieres, Human Rights Watch, Freedom House); sempre più
difficile l’attività dei movimenti laici e religiosi di opposizione
interna. Funerali blindati di Bourghiba (4 aprile 2000).
• Tutto il decennio sarà caratterizzato da un inasprimento della
repressione e da una sempre più sfrontata gestione patrimoniale
e corrotta delle ricchezze del Paese.
• Nel dicembre 2010, nel piccolo centro di Sidi Bouzidi, un
giovane ambulante, Mohammed Bouazizi, si dà fuoco davanti
al Comune stanco delle angherie e delle umiliazioni subite.
Scoppia una rivolta spontanea, che si diffonde a macchia d’olio
fino a Tunisi.
• È la rivoluzione del gelsomino.
• Ben ‘Ali è costretto a dimettersi il 14 gennaio 2011.
Hosni Mubarak e l’Egitto del “Faraone”
• Morte del presidente Annuar as-Sadat in uno
spettacolare attentato compiuto dal gruppo islamico
Al-Jihad nell’ottobre 1981 e salita al potere di Hosni
Mubarak, vice presidente già dal 1975.
• Uomo forte, assumerà una funzione riequilibratrice
nel tormentato contesto vicino orientale, in primo
piano nei rapporti arabo-israeliani e nella lotta al
terrorismo islamico.
• Anche per lui, come per Ben ‘Ali, la sempre più
fagocitante presenza della famiglia determinerà
coinvolgimenti in loschi traffici e corruzione.
• Viene rieletto senza soluzione di continuità e con
“maggioranze bulgare” ad ogni elezione presidenziale
e prepara la strada al figlio Gamal. Sfugge a ben sei
tentativi di assassinio, l’ultimo dei quali nel 2005.
• La presenza di una forte opposizione religiosa
incarnata nello storico movimento dei Fratelli
Musulmani lo porterà a ridurre sempre più gli spazi di
libertà.
• In Egitto era in vigore dal lontano 1981 la legge
d’emergenza che consente la sospensione delle libertà
previste dalla Costituzione e della libertà
d’informazione (oggi la legge di fatto continua a essere
in vigore).
• Mubarak fugge l’11 febbraio 2011.
Piazza Tahrir
Muammar Gheddafi, “fratello,
leader e combattente”
• Dal 1969, quando rovesciò il re Idris con un colpo di
Stato militare, Gheddafi ha governato la sua
jamahiriyya (governo delle masse) con polso di ferro.
• I suoi avversari hanno più volte cercato di ucciderlo,
si sono succedute ribellioni di oppositori politici, dei
detenuti nelle carceri, degli islamici radicali, sempre
represse nel sangue.
• Nel 1979 ha fatto impiccare pubblicamente in piazza
a Bengasi alcuni studenti dissidenti; scomparsa di
noti attivisti per i diritti umani, fra cui Mansour alKikhiya, che si trovava al Cairo per una conferenza.
• La Libia non aveva di fatto istituzioni di governo; il
suo congresso di 760 delegati era una istituzione
vuota e di facciata e la politica era (ed è tuttora) di
fatto gestita da alleanze tribali.
• Il patto con il suo popolo si è mantenuto in piedi
grazie a un Pil pro capite molto alto per l’area (14
mila dollari), a un sistema economico stabile, a un
sistema scolastico di buona qualità, ad una
propaganda capillare e inesorabile.
• A febbraio 2011 cominciano le prime manifestazioni in
Cirenaica.
• Il 17 marzo 2011 viene votata dall’ONU la risoluzione
1973: la Nato assume il 31 marzo il comando delle
operazioni militari in Libia.
• Dopo mesi di violentissimi scontri, Gheddafi viene ucciso il
20 ottobre 2011 a Sirte, dove aveva cercato rifugio.
• La sua morte viene filmata da molti dei presenti al
linciaggio e vista da tutto il mondo.
• Comincia per la Libia una fase di forte instabilità politica.
Una visione comparata
• Molti elementi accomunano la parabola politica di questi (ed altri)
leader del mondo arabo e i movimenti di dissenso che li
combattono:
• da un lato le speranze suscitate al momento della presa del potere,
le promesse di apertura democratica rispetto ai precedenti regimi,
l’appello al consenso popolare, la strumentalizzazione delle paure
delle rispettive popolazioni di aggressioni esterne, delle ingerenze
imperialistiche e, non ultimo, del contagio del terrorismo islamico,
che indubbiamente hanno fatto il gioco della repressione e del
progressivo scivolamento delle istituzioni verso una gestione
autoritaria e corrotta del potere.
• Dall’altro le nuove generazioni, che hanno da tempo dimostrato di
non essere più passive di fronte alla retorica della minaccia
imperialistica dell’Occidente, della necessità di forti padri della
nazione, o infine della paura del caos e del terrorismo islamico.
• Le differenze tuttavia esistono (come stanno dimostrando le
vicende della fine del loro potere):
• storie personali e politiche dei leader in questione, parametri
sociali ed economici dei paesi coinvolti, diverso ruolo a livello
internazionale, differente composizione sociale (es. rilevanza
dell’elemento tribale in Libia) ed ancora la specifica funzione
dell’esercito in ognuno dei tre Paesi.
• I presidenti di Tunisia e Egitto hanno giocato la loro credibilità
internazionale puntando proprio sulla lotta al terrorismo e si
sono accreditati come Stati amici dell’Occidente, Gheddafi si è
costruito un consenso come leader panafricano e ostile
all’Occidente imperialista (basti pensare al bacino
d’approvvigionamento di mercenari dall’Africa Nera di cui
solo la Libia ha potuto godere nella spaventosa repressione
della rivolta).
La rivoluzione dei giovani, ovverosia
le folgoranti potenzialità della rete
• Internet come strumento formidabile per la creazione di
movimenti di opinione e di massa, i semplici smartphone come
video per diffondere le immagini in tutto il mondo in mancanza
di possibilità di reale informazione.
• Non movimenti di opposizione tradizionali, ma piazze virtuali
che si muovono all’unisono guidate da indicazioni via facebook
o twitter, capaci di mobilitare migliaia di persone
contemporaneamente, di guidare le varie fasi della rivolta e di
mostrare in tempo reale al mondo quello che succede.
• Una vera rivoluzione tecnologica che ha svelato bruscamente
anche alla vecchia Europa che esistono nuovi linguaggi, nuovi
strumenti, nuove piazze per parlare e fare pressione politica.
• Questa peculiarità delle rivolte arabe del XXI secolo
è strettamente collegata all’età media delle
popolazioni di questi paesi che sono incredibilmente
giovani: società di giovani (istruiti ma disoccupati,
traditi nelle loro aspettative, soffocati nelle loro
libertà fondamentali) governate da uomini anziani
(ricchissimi e corrotti, circondati da un entourage
arrogante e potentissimo, appoggiati dall’Occidente).
• Va ricordato che prima e accanto ad internet, le tv
satellitari (al-Jazeera, solo per citarne una) avevano
già scardinato il monopolio dell’informazione di
Stato, da sempre strumento infallibile della
propaganda governativa nei paesi arabi.
La presidenza Obama e il ruolo degli USA
• Quali avrebbero potuto essere gli esiti di queste rivolte di massa durante gli
anni della presidenza di George W. Bush?
• Quale è stato il ruolo del discorso di Obama al Cairo nel giugno 2009?
• Qui si entra nel campo rischioso delle influenze vere o presunte, più o meno
dirette, dell’amministrazione americana sui fatti in questione.
• Alcuni osservatori parlano di rivolte eterodirette, finalizzate a sbarazzarsi di
leader ormai impresentabili e proporre nuove alleanze con presidenti solo
apparentemente più democratici ma legati comunque da un lato agli eserciti
locali e dall’altro alle potenze occidentali, USA in primis.
• Altri invece propongono la tesi di rivolte popolari autonome, che hanno colto
di sorpresa la comunità internazionale, a cui ha fatto seguito tuttavia una
frenetica attività diplomatica e di intelligence internazionale, nel tentativo di
adeguamento (e interferenza, inutile nasconderlo) di fronte alle nuove realtà
politiche emergenti e ai nuovi equilibri nel mondo arabo mediterraneo.
L’effetto domino
• La rivoluzione dei gelsomini in Tunisia ha avuto effetti
dirompenti nel resto del mondo arabo: le rivolte sono oggi
diffuse anche in Paesi diversissimi come la Siria, la Giordania, il
Marocco, il Bahrein, lo Yemen.
• Questo effetto domino sembra far riemergere i legami ancestrali,
“ummico”, di tipo religioso-culturale, la lingua e la fede, la storia
comune, elementi non meno globalizzanti della tecnologia
informatica.
• Ma l’effetto “ummico” si ferma qui: la tradizione ha uno spazio
molto limitato in questi avvenimenti e le modalità sono del tutto
inedite per il mondo arabo-islamico e aprono prospettive nuove
tutte da valutare: ognuno di questi paesi ha una sua dolorosa
storia di repressione e violazione dei diritti umani e sta
percorrendo una sua strada personale verso una transizione
democratica.
La deriva islamica e le rivoluzioni tradite
• È innegabile la cifra sostanzialmente laica e progressista di
questi movimenti di piazza, in cui gli slogan religiosi non
hanno avuto la meglio, non ci sono state bandiere degli Stati
Uniti o di Israele bruciate né altri segni di militanza islamica
(neppure in Libia).
• La prospettiva di una soluzione in stile Iran khomeninista, che
tanto ha spaventato l’Occidente, è altamente improbabile e
ormai abbandonata; molto più realistico un modello alla turca,
con l’ascesa politica di partiti conservatori religiosi, votati
peraltro liberamente dalla popolazione.
• Il tema della deriva islamica poi non va assolutamente
confuso con la deriva terroristica, proprio perché il maggior
nemico del terrorismo è proprio lo sviluppo di regimi
democratici o, se si vuole, di una via islamica alla democrazia.
A mo’ di conclusione. Compatibilità
fra Islam e democrazia
• Da decenni si affronta il tema della incompatibilità fra cultura e
religione islamica e democrazia, uno dei punti di forza dei
fautori, ancora tanti, dello scontro di civiltà.
• Una via islamica alla democrazia significa, nel rispetto delle
peculiarità delle culture, dei contesti politico-istituzionali e delle
storie recenti dei paesi in questione, libertà di pensiero, di parola
e di informazione, istituzioni democratiche e non corrotte,
governanti legittimati da libere elezioni, alternanza politica,
gestione oculata e corretta della ricchezza nazionale, giustizia
sociale.
• Queste piazze infiammate stanno squarciando finalmente il
velo di mistificazione che da sempre oscurava la verità.
• Finalmente si può sperare in una risposta a questo dilemma
che esca dalle teorizzazioni molteplici che ne sono state
fatte e si faccia realtà concreta per il bene e il benessere dei
popolari arabi mediterranei e di tutto il mondo musulmano.
• In questa fase difficile ma straordinaria l’Europa e gli Stati
Uniti hanno un ruolo fondamentale: sarebbe gravissimo
perdere l’occasione che ci viene offerta per inaugurare una
nuova fase di rapporti ed equilibri internazionali più
corretti, equilibrati, umani, onesti e, non da ultimo, capaci
di creare un mondo più sicuro e prospero per tutti.
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