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Cantiere del Cipax
Centro interconfessionale per la pace Un luogo di pace per ascoltare racconti, scambiare esperienze, costruire il futuro
Attività 2010 2011
La pace in cammino: attualità di maestri, esperienze e metodi
1 aprile 2011 NO ALLE GUERRE, SENZA SE E SENZA MA … … MA GHEDDAFI? I pacifisti si interrogano sulle risposte da dare agli avvenimenti in Libia e alle altre crisi internazionali Incontro con Fabio Marcelli, Giovanni Franzoni, Luciano Ardesi. Moderatrice Elena Doni Elena Doni – Introduzione Buonasera a tutti, bentornati. Vi presento i nostri ospiti: Giovanni Franzoni, Fabio Marcelli , esperto di diritti democratici, fa parte dell’associazione internazionale giuristi democratici , ci parlerà di quella che è la legge e quanto può valere una legge internazionale, Luciano Ardesi della Lega per i diritti dei popoli. Io sono Elena Doni, giornalista non particolarmente esperta di Libia. Purtroppo manca Adnane Mokrani che non è con noi stasera per motivi di salute. La mia esperienza riguardo alla Libia è la stessa vostra, cioè ho letto i giornali. In passato però mi sono molto interessata di Nord Africa e in tale occasione ho anche conosciuto Luciano Ardesi. Inoltre ho qualche fonte di informazione più diretta, in quanto mio figlio (Pietro Del Re) lavora per Repubblica, ed è stato inviato in Libia fino al 14 marzo. Mi telefonava tutti i giorni dalla Libia e mi raccontava di questo strato sociale, che io francamente non immaginavo tanto diffuso, tanto importante, di intellettuali, studenti , professionisti, una volta si sarebbero detti “borghesia” , una borghesia colta, illuminata, civile e sostanzialmente pacifica che rappresentava quella parte della società che era ed è contro Gheddafi. 1
Dopodichè si è cominciato, credo tutti noi, a capirne molto poco, perché i ribelli hanno dovuto armarsi, hanno avuto poche armi, anzi non si sa neanche di preciso da chi hanno avuto le armi. L’America, gli Stati Uniti, leggevo oggi, si sono rifiutati di consegnare armi ai ribelli. Però qui arriviamo subito al titolo di questa riunione: No alle guerre? Ed è un no senza appello? E quando è “giusto” ribellarsi con le armi in mano di fronte alle infamie commesse da certi leader politici? Su questo proporrei di sentire prima la voce di Giovanni Franzoni e poi la voce del nostro ricercatore internazionale, Fabio Marcelli. Prego. Giovanni Franzoni: Il problema della pace oggi, rispetto ad esempio ai tempi della guerra del Vietnam, risulta abbastanza complesso. Siamo vittime di espressioni lessicali anche complicate: che significa “intervento armato”, “fornire armi, non fornire armi”, intervenire con delle forze di terra o intervenire semplicemente con gli aerei? Dove è la differenza tra questo? Cosa significa “regime dispotico, autoritario, criminale”? Il giurista poi ci dovrebbe aiutare, dato che esistono una serie di principi del diritto internazionale che in linea di massima dovrebbero essere validi in tutte le situazioni, ma che spesso non vengono posti in evidenza. Poi c’è una grande varietà di attori sulla scena internazionale. Un gruppo di nazioni volontarie ? Una nazione che per conto suo parte e trascina altre nazioni? Oppure la Nato? Oppure il Consiglio di Sicurezza dell’Onu? Chi è competente a intervenire e in che forma? E poi si interviene a caldo, o si interviene preventivamente? Se nasce il principio che una insurrezione in una regione di un paese viene repressa in modo forte, autoritario, e così via, possono intervenire le Nazioni Unite? Ad esempio, la Russia ha avuto recentemente dei problemi in Georgia, cioè dei problemi nelle zone caucasiche, ma per la Russia questa è una questione interna, non possono venire altre nazioni e schierarsi militarmente da una parte. Sarebbe una interferenza. Poi c’è il caso di una guerra civile. Ad esempio in Italia abbiamo avuto una guerra civile quando c’è stata la Repubblica di Salò. Il Regno d’Italia ha cambiato bandiera, si è alleato ed ha consegnato ai nemici i suoi vecchi alleati. E si è scatenata una guerra civile. Ma è il prolungamento di una guerra? Nessuno di noi ha mai a fondo discusso, né ha avuto il coraggio di discutere di questo. Però c’era una guerra, c’erano le armate sul campo che si sono fronteggiate, semplicemente alcune si sono spostate da una parte all’altra. Un altro esempio: cosa succederebbe, se ad un certo punto ci fosse un sommovimento in Tibet. E’ autorizzata la Nato, o le Nazioni Unite a intervenire con le armi, militarmente in Tibet? La Cina ovviamente è fredda su questo punto, lo considererebbe un’intrusione , una invasione interna perché non riconosce il diritto di autonomia culturale. Se ad esempio la Cina costruisse una ferrovia ad alta velocità che passa sull’Himalaya, farebbe secondo il nostro punto di vista una grande profanazione della loro cultura, della loro forma di religiosità, del loro modo di essere. Non si può considerare il Tibet come le ciabatte di casa della Cina, quindi se c’è una devastazione culturale, occorre una insurrezione morale, etica, diplomatica. Non credo però che saremmo autorizzati, siccome la Cina costruisce una ferrovia ad alta velocità che passa sotto all’Himalaya, ad intervenire militarmente e provocare una guerra contro la Cina. Un altro interrogativo: Elena ci parla di questo bellissimo strato di popolazione, di media borghesia, intellettuali, giovani che insorgono. Ora ieri, ho sentito dire che si tratta di monarchici, nostalgici del re. Fino a che punto allora questi gruppi di giovani possono essere stati strumentalizzati dai nostalgici di un regime monarchico in Libia? Fino a che punto questo può pesare? Si tratta di una controrivoluzione? 2
L’unica cosa che mi è chiara è che noi ci presentiamo come dei puri alla ribalta, le potenze occidentali, Obama, gli Stati Uniti, Napolitano che dice “non potevamo essere indifferenti”, grido di dolore, parole metaforiche. Certamente non essere indifferenti va benissimo, intervenire militarmente però è un’altra cosa. Allora perché siamo stati taciti e indifferenti di fronte ai soprusi quando toccavamo con mano che tutti quelli che fuggivano dal Corno d’Africa passavano per il Sudan, venivano saccheggiati, torturati, le donne stuprate, poi arrivavano in Libia, venivano di nuovo violentate dalla polizia libica, e poi sui barconi arrivavano vicino alle nostre coste, venivano respinti, rimandati là. Poi la Libia, d’accordo con il nostro Ministero degli Esteri, li spedisce verso Israele e stanno accampati sotto il Sinai in pasto a dei predoni che ne chiedono il riscatto, e così via? A quale momento scatta la nostra coscienza “umanitaria”, fino al punto tale da impugnare le armi? Nel momento in cui Gheddafi faceva queste cose, noi eravamo in piena pace, avevamo un trattato di non belligeranza, di non attacco reciproco. Voglio dire che noi i dittatori più o meno feroci ce li coltiviamo accuratamente, li accarezziamo e li facciamo crescere. E’ chiaro che questi dittatori hanno anche un radicamento in certe popolazioni di tipo tribale. Saddam Hussein aveva una gran parte di popolazione che gli era fedele, poi aveva una parte di popolazione potenzialmente capace di insurrezione. Noriega ai tempi suoi, aveva ragione, era un dittatore, era un trafficante di droga, un commesso degli Stati Uniti, ma nel momento in cui si è messo in proprio, che ha negato il rinnovo del trattato del canale di Panama, è diventato un delinquente ed è scoppiata una guerra. Perché ad un dittatore è consentito di esercitare con ferocia, con durezza la sua tirannia finché tratta con noi e ad un certo punto quando si mette in proprio, allora lo licenziamo, come abbiamo licenziato Saddam Hussein che aveva fatto la guerra per commissione nei confronti dell’Iran nell’interesse degli occidentali? Secondo me noi coltiviamo queste situazioni e poi tutto d’un tratto insorge una coscienza democratica, civile. Sono convinto che i diritti delle popolazioni, di questa fascia di popolazione che insorge con delle motivazioni etiche e politiche credibilissime, siano un po’ un pretesto. E ho l’impressione che la Francia voglia tornare ad avere l’egemonia sul Nord Africa. A questo punto mi domando se siamo di fronte ad una guerra tra popolazioni, ad una guerra civile, una guerra fra un dittatore e una ribellione, una guerra fra Total e ENI. Ho paura che questa guerra sia solo un pretesto, che la British Petroleum deve recuperare un po’ di soldi per il disastro che ha fatto nel golfo del Messico e che per questo l’Inghilterra si è subito alleata con la Francia. Sarkozy dovrà presto affrontare le elezioni e oggi ha il consenso dei 2/3 dei francesi , perché sta rialzando “liberté, fraternité, égalité” nel Nord Africa. Elena Doni: Finora sappiamo di non sapere. Ora vorrei sentire il giurista democratico. Vorrei porre una prima domanda, poi introdurrà lei tutti gli elementi che riterrà utili. Può dirci dal punto di vista etico del giurista, quale differenza esiste fra il bombardare dall’aria e sparare da terra, cioè le bombe dagli aerei sì, i proiettili da terra no. Fabio Marcelli: Innanzitutto l’etica è una cosa e il diritto un’altra, non dimentichiamolo mai, perché se confondiamo l’etica e il diritto facciamo una confusione pericolosa. Arriverò poi anche alla sua domanda. Volevo prima fare alcune considerazioni sugli aspetti giuridici di questa guerra, in particolare su tre aspetti che voglio enucleare. C’è una guerra in corso, un intervento che non è umanitario, perché usa le bombe. Prima volevo fare una premessa anche di carattere “personale”. Innanzitutto chiarisco la mia qualifica, sono un ricercatore in un istituto di studi giuridici internazionale del CNR. Il mio campo di studio è il diritto internazionale. Faccio parte dell’associazione dei giuristi democratici, a livello sia internazionale che 3
europeo che nazionale; è un’associazione che raccoglie giuristi, principalmente avvocati, ma anche magistrati, ricercatori, professori, ecc. Non conosco la Libia, non sono mai stato in Libia. Avrei dovuto andarci qualche anno fa, quando mi invitarono ad un convegno di un’associazione di giuristi libici e di altri paesi arabi a Bengasi, ma non mi diedero il visto, perché ero stato in Israele e Palestina qualche tempo prima a seguire il processo contro Marwan Barghouti. Sono stato invece in Tunisia recentemente, il giorno dopo la caduta di Ben Alì. Arrivammo lì il 18 gennaio di quest’anno con una delegazione della rete euro‐mediterranea dei diritti umani, composta da 4‐5 persone di vari paesi europei per renderci conto della situazione lì. Adesso non vi voglio parlare della Tunisia, ma ovviamente le cose sono collegate. Quello che abbiamo visto lì era una rivoluzione con una grande partecipazione popolare, di intellettuali, ma non solo di intellettuali, anche di popolo, di giovani, di sindacati, di donne, di organizzazioni islamiche, non islamiche, ecc. E si diceva che questa rivoluzione contagerà presto anche i paesi vicini, si diceva che Gheddafi era molto preoccupato. Si fece anche un incontro con la delegazione dell’Unione Europea ed erano abbastanza seccati con il governo italiano, ma anche con il governo francese, con quello spagnolo che fino all’ultimo avevano appoggiato Ben Alì. E una delle cose che si profilava era la possibilità di un intervento, non armato, però magari attraverso un intervento da parte della Libia per destabilizzare questa rivoluzione tunisina. Non è successo, è stato l’inverso. Abbiamo visto che anche in Tunisia ci sono stati parecchi morti, più di 500 accertati, in Egitto penso anche di più, non è che quei regimi siano stati meno violenti di quello di Gheddafi. La situazione in Libia, però, per una serie di motivi è più complessa di quella che abbiamo visto in Tunisia e Egitto. Ripeto, non conosco la Libia, non ho un’esperienza diretta di visita in questo paese, però mi pare di capire che lì ci siano vari fattori che sono all’opera. Attenzione a non prenderne uno e metterlo come quello decisivo. Perché in realtà i fattori sono tanti e sono convergenti. Il primo, c’è questo effetto di imitazione della rivoluzione araba, che poi si espande anche altrove, al Bahrein, alla Siria, a varie parti del Marocco, Algeria, di questo effetto che ha come cassa di risonanza appunto questi settori di cui parlava prima la sig.ra Doni di intellettuali, di giovani che si sentono parte di questo mondo arabo che per l’occasione riscopre una sua unità in nome di una battaglia contro questi regimi autoritari che poi sono autoritari tutti, in un modo o nell’altro. Ci sono poi fattori di carattere locale, un antagonismo che non risale a oggi fra la Cirenaica e la Tripolitania, quindi fra l’Est e l’ovest della Libia. Sono dunque fattori di ordine locale, anche perché le risorse petrolifere sono per la maggior parte all’est, quindi quelli dell’est rivendicano in qualche modo una loro primogenitura su queste risorse, una sorta Lega Nord libica o Lega Est in questo caso. Terzo fattore di ordine internazionale, e qui c’è un intento chiaro di eliminare Gheddafi e il suo regime che accomuna da tempo le potenze occidentali. Gli Stati Uniti ci hanno provato anche negli anni ’80 a far fuori Gheddafi con i bombardamenti. A quel tempo non c’erano rivolte né guerre civili in corso, ma nonostante ciò hanno trovato il modo di operare quel tentativo che però, come sappiamo, non è andato a buon fine. C’è, come diceva adesso Franzoni, un intento della Francia che era piazzata bene in Tunisia. Sappiamo che la ministra degli esteri francese, Michèle Alliot‐Marie, ha perso il posto, perché fino all’ultimo ha appoggiato Ben Alì, addirittura proponendogli di inviare contingenti di poliziotti in soccorso, probabilmente anche in quel caso avrebbero detto che era un soccorso “umanitario”, o mezzi militari per stroncare la rivolta che c’era stata in Tunisia. Hanno perso quell’alleato, perché attualmente il governo tunisino si trova 4
in una situazione ancora molto fluida, però è chiaro che la Francia ha perso quella posizione e quindi ha il problema di trovarsi un altro cavallo da montare in Nord Africa. E sappiamo che i rapporti tra questo gruppo di Bengasi e la Francia, come pure gli Stati Uniti, non è che risalgono all’altro ieri, sono rapporti che risalgono a parecchio tempo fa, quindi nulla succede per caso, nulla succede in modo rapido. Quindi ci troviamo in una situazione estremamente complessa. Voglio sottolineare che non ho mai avuto tanta simpatia per Gheddafi, tanto è vero che quando ci furono gli attacchi alle manifestazioni fui io a scrivere il comunicato in inglese dell’associazione internazionale, a proporlo agli altri e fu accettato entusiasticamente dagli arabi. Questa è un’associazione che conta 70‐80 paesi di tutto il mondo, dall’America Latina al mondo arabo, all’India, al Giappone, agli Stati Uniti. Quindi c’è una composizione plurale anche dal punto di vista geografico. Sulla base anche delle rivelazioni di Al Jazeera, sulle fosse comuni, che poi in buona parte si sono rivelate delle bufale incredibili. C’è stata una repressione, non è che voglio negare che siano state uccise le persone, però è stato creato un caso che doveva appunto agevolare questo intervento . Rapidamente vengo ai tre punti giuridici che volevo sollevare, anche se non so se ci sarà modo di sviscerarli. Intanto ve li annuncio. Dal punto di vista giuridico ci sono tre problemi: Il primo è che questa è una guerra civile e quindi è una situazione di rilievo essenzialmente interno. La carta delle Nazioni Unite dice all’art. 2 comma 7 che c’è il principio di non intervento negli affari interni, che può essere superato solamente nel caso in cui ci siano situazioni o minaccia che mettano in pericolo la pace e la sicurezza internazionale. In quel caso il Consiglio di Sicurezza può intervenire sulla base del capitolo 7 che dice una serie di cose, c’è l’art. 41 che prevede misure cosiddette pacifiche, quindi interruzioni delle relazioni, sanzioni economiche, e poi c’è l’art. 42 e seguente che invece prevedono il ricorso anche all’azione armata. Ora, il consiglio di sicurezza con la risoluzione 1973 è intervenuto dicendo che appunto c’era l’esigenza di proteggere i civili, però il dubbio che si pone è se il consiglio di sicurezza ha la possibilità o meno di qualificare una situazione come minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale che tale non sia. Ora, era una situazione di carattere essenzialmente interno , il Consiglio di Sicurezza ha ampi poteri, ma non è che può cambiare la natura delle cose, chiamando una cosa in un modo che non è o dando un nome ad una cosa che non corrisponde ad una situazione effettiva. C’è quindi questo primo problema di carattere generale. La seconda questione, è una questione anche questa non nuova. Noi come giuristi democratici abbiamo fatto un opuscolo “Giuristi contro la guerra” con il contributo di diverse persone, come Raniero La Valle, Luigi Ferraioli, ecc. Facemmo questo opuscolo che tuttora secondo me mantiene un suo interesse e una sua attualità, ai tempi della prima guerra del Golfo, quella dopo l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. In quel caso la situazione internazionale c’era, perché si trattava di un invasione di uno Stato da parte di un altro Stato. Anche gli iracheni dicevano che in fondo il Kuwait era una loro provincia che si era auto‐staccata tempo prima. Nessuno in realtà ha accettato questa posizione degli iracheni e quindi lì la situazione internazionale era chiara. Ciò nonostante, la critica che noi facemmo all’epoca a quel tipo di intervento era che c’era una sorta di delega in bianco agli Stati. Mentre il capitolo 7 prevede una procedura molto precisa, quale il Comitato dei Capi di Stato Maggiore che non è mai stato istituito, per far sì che queste azioni in effetti siano azioni che adesso si dicono di “intervento umanitario”, un tempo si dicevano di polizia internazionale. Quindi erano circoscritte nei mezzi per ottenere il risultato di risanamento dell’ordine internazionale violato e basta. Ora in questo caso si ripone il problema. Perché? Perché anche qui siamo di fronte ad una delega in bianco nei confronti degli Stati che è estremamente ampia. Non c’è nessuno strumento di controllo che permetta di verificare che gli Stati non vadano al di là di quanto 5
prescritto dalla risoluzione. La risoluzione parla di protezione dei civili, però quando si comincia a bombardare il porto di Tripoli o la casa di Gheddafi o installazioni militari nel deserto, che c’entra questo con la protezione dei civili? Si possono fare interpretazioni un po’ troppo ampie che possono permettere qualsiasi cosa agli Stati autorizzati a intervenire. Non a caso alcuni Stati che avevano avvallato la risoluzione non esercitando il diritto di veto, ovvero astenendosi, come la Russia, la Cina, la Germania, oggi, specialmente la Russia e la Cina, fanno marcia indietro. Non era questo che noi volevamo, dicono, non volevamo che ci fosse un appoggio così esplicito nei confronti dei ribelli. Questo è un intervento in una guerra civile, non è un intervento di protezione civile, è una cosa diversa. Terza questione, l’articolo 11 della Costituzione italiana: qui Napolitano ha detto che c’è la seconda parte dell’articolo 11. La stessa cosa che all’epoca avevano detto i sostenitori dell’intervento nella prima guerra del Golfo. La seconda parte dell’articolo 11 “consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. E qui c’è da dire però che se c’è del peso relativo alle due parti, è molto maggiore il principio pacifista della prima parte rispetto alla seconda parte. Non è che si possono mettere sullo stesso piano, non è che la seconda parte può diventare un machiavello, un grimaldello per scassinare la prima parte. E poi se questa è una guerra, e di fatto si sta configurando come guerra, non è comunque consentito all’Italia intervenire, perché c’è comunque una violazione del principio pacifista. Su questo ci sono stati poi vari interventi, da ultimo Azzariti sul Manifesto, professore di diritto costituzionale che faceva tra l’altro il discorso che sì, la seconda parte prevede le limitazioni di sovranità, però la guerra in fondo non è una limitazione di sovranità, è una manifestazione di sovranità nel massimo grado e nel modo più aperto, quindi non centra niente con la seconda parte dell’articolo 11, che può servire a promuovere la cooperazione internazionale, che è stata usata appunto dalla Corte Costituzionale per motivare l’adesione italiana all’Unione Europea e tutti i meccanismi di normazione automatica, regolamenti, ecc. Questa seconda parte però non centra con la partecipazione ad un’azione militare che poi di fatto è una guerra. Come vedete non sono affatto un entusiasta di questo intervento, anzi, pur non avendo mai amato Gheddafi, non penso che questo intervento sia la strada giusta, per lo meno c’erano altre strade che si potevano perseguire. Quali erano queste strade? La comunità internazionale ha un suo potere negoziale. Fatto sta che pochi minuti dopo l’approvazione di questa risoluzione sono partiti subito i bombardamenti. Noi non sappiamo, perché non abbiamo accesso, nonostante Wikileaks, a quello che avviene nelle segrete stanze della diplomazia internazionale, però colpisce il fatto che alcuni tentativi di mediazione messi in campo da paesi del terzo mondo come il Brasile, il Venezuela, l’Unione africana, ecc. sono stati completamente ignorati. Evidentemente c’era un interesse comunque a portare avanti questo intervento nel modo in cui si è fatto. Elena Doni: Grazie. Poi dopo potrete magari fare qualche domanda per vedere di chiarire alcuni punti. Ma vorrei prima sentire Luciano Ardesi che, come ho accennato prima, ho conosciuto molti anni fa ai tempi della guerra in Algeria, una guerra civile che è stata determinata dalla posizione presa da una grossa fetta della società algerina contro un risultato elettorale. Quindi assolutamente a torto secondo le regole democratiche. Ma visto a distanza di tanto tempo, è stato umanamente giusto? E’ stato storicamente opportuno che la società si sia ribellata e abbia rovesciato in pratica il risultato di una consultazione elettorale. Cosa ne pensi Luciano a distanza di 15 anni? 6
Luciano Ardesi: Diciamo che questo interrogativo se lo stanno riproponendo coloro, soprattutto le associazioni femminili, che all’epoca appoggiarono il colpo di stato, per così dire, militare che annullò il primo turno delle elezioni. Il colpo venne invocato per impedire al partito fondamentalista, il Fronte Islamico di Salvezza (FIS), di ottenere la maggioranza assoluta che consentiva di modificare a proprio piacere la Costituzione, tenuto conto che questo partito aveva nel programma elettorale l’instaurazione dello stato islamico. Ecco che per una volta tanto ci fu questo fatto straordinario: un’alleanza tra i militari e una parte della società civile. E tra la società civile che appoggiò il colpo dei militari ci fu una larga parte del movimento femminile che aveva già subìto negli anni precedenti l’attuazione del programma elettorale di questo partito che si era scatenato in modo particolare contro i diritti delle donne e fisicamente anche contro le donne. Con il senno di poi le algerine e gli algerini si stanno chiedendo, se fu la scelta migliore. Certo è che in questo momento gli algerini e le algerine si trovano in una situazione molto particolare rispetto alle rivolte popolari in Tunisia e in Egitto. Si tirano fuori un po’ dalle rivoluzioni in atto. Dicono: non aspettatevi da noi una rivoluzione come quella in Tunisia e in Egitto. Perché? Noi la nostra rivoluzione l’abbiamo già fatta nell’ottobre del 1988. Allora gli algerini erano scesi in piazza contro il regime militare il quale fu obbligato a fare un passo indietro dopo al sanguinosa repressione di cui fu responsabile. Il risultato fu la fine del sistema del partito unico, l’allargamento del campo delle libertà politiche e civili, e l’esposione, fra l’altro, delle associazioni e dei sindacati, soprattutto della stampa libera, qiuest’ultima è la conquista più consolidata ancora oggi in Algeria. Quella rivoluzione costò circa 800 morti, un bilancio definitivo non è mai stato fatto. Quella rivoluzione si misurò più tardi con il fatto che il campo politico così aperto al multipartitismo consentì al partito islamico di presentarsi alle elezioni, peraltro tradendo la costituzione. La nuova costituzione infatti, approvata dopo il 1988, proibiva la formazione di partiti su base religiosa e regionale. Quindi no ai partiti fondamentalisti, no ai partiti di stampo berbero e cabilo che chiedevano la secessione. La costituzione materiale che cosa vide? Vide il peso preponderante del partito e del movimento islamico di fronte ad uno stato e ad un governo molto indebolito. Del resto era anche il periodo della crisi del welfare algerino che aveva consentito grazie ai proventi del petrolio di assicurare a tutta la popolazione una copertura dei bisogni sociali essenziali. Il partito islamico vinse il braccio di ferro sul piano della legalità, quindi la costituzione che proibiva la formazione di un tale partito, venne completamente disattesa. E quindi oggi gli algerini dicono ai tunisini, agli egiziani, ma anche ai cugini del Marocco e a quelli della Libia: attenzione appunto alla rivoluzione. Questa rivoluzione implica una attenzione e un monitoraggio particolare di tutto il processo di transizione. E credo che questa sia peraltro oggi la preoccupazione che noi abbiamo rispetto a quello che sta accadendo in Libia. Io ho questa percezione. Non conosco bene la Libia, è vero che ci sono stato, ho incontrato Gheddafi , poi se volete discutiamo su chi è Gheddafi, ma diciamo che, come del resto in tutti i paesi del Nord Africa, esiste una società civile molto complessa, anzi esiste una società molto complessa. In Libia di fatto non esiste una società civile, perché Gheddafi e il suo sistema di potere ha azzerato completamente la possibilità di costituirsi in organizzazioni, in associazioni, la possibilità di esprimere idee diverse. Ed è questo il punto certamente di debolezza di una futura transizione. Ci sono, come ci ricordava Elena, e li ho potuti incontrare anch’io, docenti universitari, intellettuali di grande livello. Ho seguito un po’ della letteratura, quantomeno in inglese, ed è vero, è sicuramente una elaborazione intellettuale, certo di un’élite, un’elaborazione intellettuale estremamente ricca ed interessante. Chiaro che le forze sociali che si esprimono si esprimono talvolta sotto forme che a noi incutono paura. 7
Ad esempio, in queste settimane ci è stata ridata della Libia l’immagine di un paese composto da una serie di tribù. Ora è vero che nel momento in cui viene meno in una società la possibilità di identificarsi con movimenti politici, con organizzazioni, con espressioni della società civile, è chiaro che l’elemento identitario diventa, almeno per la stragrande maggioranza della popolazione, quello delle origini, quello tribale. E’ quindi chiaro che questo elemento ha giocato e gioca un ruolo estremamente importante nel seguito della lotta, se seguito ci sarà, perché le notizie che abbiamo sono molto contraddittorie. Quindi credo che bisogna tener conto di questa realtà, e di non avere paura. E comunque ritengo positivo il fatto che anche una identità di carattere tribale possa costituire la molla e il movente per contestare il potere, tanto più che questo potere non aveva lesinato l’appello alla identità tribale per mantenersi. Gheddafi stesso ad un certo punto si è trovato in qualche modo a dover regredire sul piano dei suoi riferimenti . Sì, certo, il libro verde, il popolo, i comitati popolari, poi di fatto, facendo gestire la sua rete di potere attraverso persone che gli erano legate da rapporti naturalmente di alleanza politica, ma il più delle volte questa alleanza politica presupponeva la comune origine nella tribù da cui lui proveniva. Poi mi piacerebbe discutere sul problema di cosa fare di fronte a questa transizione. Noi diciamo no alla guerra, sicuramente, senza se e senza ma, ma ‐come è stato un po’ provocatoriamente suggerito nel titolo‐ di Gheddafi che cosa vogliamo fare? Che cosa vogliamo che queste forze, di cui io ho tutto sommato fiducia, cosa possiamo fare affinché queste forze si possono liberare, liberare nella direzione migliore, riportare la Libia tra i paesi democratici? Elena Doni: Oggi stiamo parlando di Libia ed è molto interessante sentire, vedere la questione da diversi punti di vista. Ma è inevitabile pensare alle altre rivoluzioni, perché non siamo di fronte al problema di un singolo paese e le rivoluzioni che sono cominciate prima in Tunisia, poi in Egitto e che poi si stanno estendendo anche nei confronti di un paese considerato solido come la Siria e poi il Bahrein e così via. Ma questo ci fa dire una cosa, che noi possiamo osservare, possiamo giudicare, ma dobbiamo prendere atto di una transizione importante e grandissima che un po’ ricorda l’Unità d’Italia. Alla radice dell’Unità d’Italia c’è il ’48, quando successe in tutta Europa un quarantotto, appunto. Perché furono tanti i paesi dove ci furono rivoluzioni e sollevazioni di giovani, tali e quali quelle che abbiamo visto nei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. E anche quella volta lì non hanno avuto successo subito i rivoltosi. Sono dovuti passare anni e anni, poi però c’è stato un movimento profondo nelle popolazioni che ha portato alla creazione degli Stati nazionali. Chissà se anche questo succederà in Nord Africa e/o nel Medio Oriente. Giovanni Franzoni: Sì questi flussi, riflussi storici, certo il ’48 ha avuto una significanza, c’è stata anche una impennata di laicità ai tempi del Kulturkampf, indubbiamente nel bene e nel male anche attraverso le guerre napoleoniche i principi del diritto di cittadinanza della rivoluzione francese hanno cominciato a filtrare fra la gente. I fisici dicono che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale o contraria. E molte di queste pulsioni rivoluzionarie hanno prodotto una reazione, nel senso della fierezza della propria identità culturale e anche della ricchezza del confronto fra identità culturali. Quando siamo usciti dal fascismo, ricordo che a fatica i nostri educatori ci spiegarono che la libertà di uno finisce dove comincia la libertà della persona che gli sta accanto. Ho impiegato molti anni per riuscire a buttare nella mondezza questo principio. La nostra libertà comincia e si nutre della libertà della persona che ci sta accanto. Perché se io coltivo una mia libertà stando attento semplicemente, come ci insegnavano a tavola, a non invadere coi gomiti il posto del vicino, abbiamo una coesistenza di allineati che non si 8
nutrono della convivenza, non si nutrono della ricchezza, non gioiscono, non godono della diversità. Questo purtroppo è ancora abbastanza difficile anche oggi. Da dove cominciare allora? Ci sono vari livelli. Dal punto di vista del diritto internazionale ci vuole maggiore chiarezza. Già Marcelli l’ha detto, molti dei principi del diritto internazionale sono da chiarire, sono oscuri, non lasciano trasparire cosa si nasconde dietro certe parole, per esempio, dietro alla parola “democrazia”. Io prima sono stato zitto, ma mi veniva proprio da dire, ma come mai nei nostri recitativi salmodici tutte le volte che si parla di Israele si dice che è il paese più democratico del Medio Oriente? Ma se nel paese c’è una parte della cittadinanza che per motivi tribali, per motivi etnici, per motivi linguistici ha dei diritti limitati, non ha accesso a certe forme di professione, non partecipa al reclutamento militare in un paese in cui l’esercito, l’armata, ha un peso anche politico notevolissimo, e così via? In un paese, dove c’è una disobbedienza per così dire evidentissima con l’insediamento di colonie in territori che le Nazioni Unite non avevano attribuito quando si costruì lo Stato di Israele? Come si fa a dire che lì c’è democrazia? Si tratta semplicemente di un modo per camuffare la situazione, la realtà. Meglio allora metterci anche noi in ginocchio, come ha fatto l’imperatore del Giappone l’altro giorno, di fronte alla consapevolezza che la democrazia italiana è una cosa sfaldata, che anche le maggioranze elettorali vengono acquistate con favori, spesso addirittura con denari sotto gli occhi di tutti, e questo persino nella maggioranza all’interno del Parlamento; sembra l’acquisto dei calciatori nella campagna acquisti dei campionati di calcio. Abbiamo una grande tradizione culturale, letteraria, religiosa, umanistica, però dal punto di vista della democrazia siamo proprio all’ABC anche in Italia. E anche Israele è all’ABC come gli altri. E forse perché più attrezzato e più armato, più pericoloso degli altri, tanto è vero che in alcuni sondaggi che sono stati fatti in Europa, è risultato che il massimo pericolo per al pace e gli equilibri nel Medio Oriente, è non l’esistenza di Israele, assolutamente, ma l’esistenza di questa politica, di questo Israele. Quindi “detronizzare”! Nessuno è democratico. Siamo una banda di banditi tutti quanti. In Iraq ho partecipato con l’associazione di amicizia Italia‐Iraq a diversi scambi. Ad un certo punto abbiamo perso i contatti con certe delegazioni che avevamo incontrato qui in Italia. Poi finalmente è giunta a Pisa una delegazione della società civile irachena e abbiamo potuto fare delle domande sulla situazione del governo, delle tribù, i diritti civili, i sunniti, i curdi, e così via. Alla fine arriva in arabo una domanda: perché vi interessate di politica? E ci hanno spiegato che la politica in Iraq funziona così: si fanno le elezioni, chi vince le elezioni vince, poi una volta finite le elezioni c’è “the cake”, la torta. Chi ha vinto le elezioni prende la sua parte di torta. Chi le ha perse, perde il resto. Questa è la nostra politica, la nostra democrazia! E per questa democrazia l’Italia a Nassirya ha perso i suoi ragazzi, tanti americani hanno perso la vita, tanti inglesi, tanti polacchi, sono andati a farsi ammazzare. Adesso noi abbiamo il coraggio di dire: non mandiamo truppe di terra in Libia, perché non vogliamo un altro Afghanistan e un altro Iraq. Quindi stiamo deplorando quello che abbiamo fatto e che seguitiamo a fare e che seguitavamo a magnificare, dicendo che i nostri ragazzi vanno là per costruire la democrazia e la democrazia che hanno costruito è esattamente quella della spartizione dei proventi in un modo da tacitare chiunque e questo potrebbe essere anche la conclusione di queste rivoluzioni. Allora detronizziamoci tutti quanti, mettiamoci umilmente a rispettare le persone e i diritti degli studenti , dei docenti, dei medici, dei sanitari, dei militari, di tutti quanti. Ma non gonfiamoci con questa parola “democrazia” che in questo momento è pervertitrice. Fabio Marcelli: Fondamentalmente sono d’accordo con quello che ha detto adesso Giovanni. Questa democrazia non dobbiamo avere nemmeno un attimo la presunzione di insegnarla a nessuno, ma non solo noi, neanche 9
Sarkozy o tanto meno Obama, non esistono i maestri di democrazia in questo mondo. Questo mi pare evidente. Secondo punto: io penso che queste rivoluzioni arabe siano molto importanti, però per mantenere il loro carattere debbano essere assolutamente lasciate libere di esprimersi e di autodeterminarsi, senza nessun tipo di interferenza. Nel dibattito di questi giorni, a volte anche molto violento verbalmente ‐ l’ho visto sul blog che tengo su questi argomenti ‐ mi è capitato varie volte di intervenire sulla Libia, intervenivano anche molti giovani animati dallo spirito per così dire “umanitario” scrivendo: “se tutti fossero come te, non ci saremmo liberati di Hitler”. Sembra quasi che se uno è contro la guerra, passa quasi per un codardo, una sorta di Chamberlain del terzo millennio che fa l’acquiescente nei confronti dei dittatori. Gheddafi è dipinto come una specie di moloch planetario, l’Hitler del terzo millennio, cosa che mi pare assolutamente ridicola come descrizione. Inoltre, questi giovani facevano il parallelo con la resistenza durante la seconda guerra mondiale che secondo me è un parallelo assolutamente infondato. Questo vale anche per il confronto con la guerra di Spagna che questi giovanotti evidentemente poco istruiti facevano. E’ assolutamente demenziale, perché lì sappiamo che c’è stato un intervento evidente degli alleati, ma sulla base di una guerra già internazionalizzata da tempo, perché in Italia già erano entrati i nazisti. Se non ci fossero stati i nazisti in Italia, penso che il popolo italiano si sarebbe liberato da solo di Mussolini e dei suoi quattro scagnozzi di Salò e probabilmente sarebbe stato un bene perché avremmo evitato di subire tutti i condizionamento che abbiamo subito, la Nato, gli Stati Uniti e altri. Questo discorso è applicabile anche a quello del Nord Africa, penso anche della Libia. Io non dico che non ci debba essere un intervento, ma l’intervento dovrebbe essere di natura diplomatica, per fare in modo che il popolo libico si possa esprimere. Noi in fondo non sappiamo, se il popolo libico è per Gheddafi o contro Gheddafi, chi ce lo racconta? Al‐Jazeera sa cosa pensa il popolo libico? E poi chi è il popolo libico? E’ frammentato in regioni , in tribù, in settori sociali. Bisogna mettere in campo dei meccanismi che consentano al popolo libico in quanto tale di decidere per sé stesso, sulla base del mantenimento dell’unità nazionale di questo paese, che è comunque un obiettivo che per lo meno a parole tutti quanti dicono di voler affermare. Meccanismi quali, primo di cessate il fuoco, secondo di negoziato, terzo di espressione democratica. Lì davvero ci vorrebbe un intervento della comunità internazionale. Io sono convinto che è stato fatto di tutto per impedire questa possibilità, da parte di chi ha oggi interesse a intervenire militarmente in Libia, Obama, Sarkozy, anche Berlusconi, con ovviamente delle problematiche un po’ peculiari. Insomma, le grandi potenze dell’Occidente hanno preso oggi almeno tre piccioni con una fava grazie all’intervento militare in Libia. Vogliono liberarsi di Gheddafi che per una serie di motivi gli stava “sul gozzo”. Secondo, hanno messo una grossa zampa nel Nord Africa, condizionando così non solo la Libia, ma tutte le rivoluzioni democratiche, che peraltro non sono rivoluzioni filo‐occidentali . Ben Alì e Mubarak erano i due servi della Francia e degli Stati Uniti nell’area e di Israele anche, così come dell’Arabia Saudita che oggi è minacciata a sua volta da una rivoluzione, è il cuore nero, il cuore di tenebra dell’Occidente nel mondo arabo. E in Bahrein, che è la sede da dove la democratica Al‐Jazeera trasmette le sue trasmissioni che incendiano il mondo arabo, c’è una rivolta in corso e nessuno ne parla, tanto meno Al‐Jazeera, che vede la maggioranza della popolazione che è sciita ribellarsi al dominio di una minoranza legata all’Arabia Saudita con un intervento militare dei tank sauditi che vanno a sparare sulla folla. Quindi attenzione a capire tutte quante le implicazioni di questa situazione molto complessa che però ci richiede di avere dei punti di riferimento solidi. Probabilmente il diritto internazionale con tutti i suoi limiti alcuni punti di riferimento li dà. 10
Luciano Ardesi: Io sono fondamentalmente fiducioso nella fase che si è aperta con le rivolte e le proteste, credo che noi dobbiamo guardare con fiducia, non possiamo bollare queste rivolte come pericolo fondamentalista, non possiamo darle l’interpretazione che in questo momento le sta dando la Lega Nord e praticamente anche il governo che legge queste rivolte solamente dal punto di vista dell’emigrazione. Certo non dobbiamo essere ciechi né sordi, sapendo che la transizione è tutta aperta. Allora come movimento di solidarietà e come pacifisti ci dobbiamo anche interessare a sostenere queste forze, sostenendo quella parte della società civile che interpreta certi valori e certi diritti. Elena ricorda perfettamente che su questo punto rispetto alla rivolta algerina dopo il 1988 il movimento della solidarietà si spaccò. Con Elena e con altri giornalisti, Giuliana Sgrena e altri, costituimmo un comitato italiano di solidarietà con l’Algeria (CISA) che si impegnò a sostenere anche da un punto di vista materiale le associazioni di donne, le associazioni democratiche, mentre un’altra parte del movimento pacifista e della solidarietà internazionale, in questo caso la Comunità di S.Egidio, organizzava qui a Roma un colloquio in cui il partito fondamentalista aveva diritto di cittadinanza. Io credo che non si debba ripetere questo errore. Noi dobbiamo schierarci, questo sì per quello che noi possiamo, a favore di quella parte della società civile che esprime questi valori. Ma pongo a noi stessi e anche agli amici e alle amiche che sono intervenute questa sera, una domanda che nasce da una insoddisfazione, avendo partecipato ad un po’ di discussioni sul che fare, prima ancora dell’intervento armato, poi con l’intervento armato. Io credo che come movimento pacifista abbiamo fatto un errore, l’errore di dedicare molte delle nostre energie, se non l’essenziale delle nostre energie a fare l’ennesima manifestazione in piazza, forse perdendo l’occasione di esprimere meglio, che cosa vuole il movimento pacifista, che cosa vuole fare nei confronti ad esempio della Libia e della ribellione. Credo che questa domanda sia un po’ il senso di questa serata, una domanda alla quale una risposta dobbiamo dare. Noi abbiamo dato credo l’unica risposta giusta: no alla guerra, senza se e senza ma. Ma è sufficiente per un movimento pacifista? Questa etichetta che ci è stata appiccicata ci ha fatto un danno enorme, sia al movimento pacifista, sia al no alla guerra. Voglio ricordare che il no alla guerra non è lo slogan del movimento pacifista, è un principio di diritto internazionale e nessuno, un governo, i governi, gli Stati dovrebbero mettere in dubbio questo principio. Non possono venire a dire che questa è un’idea di noi movimenti pacifisti. Questo è un impegno che degli Stati e dei governi, che hanno sottoscritto nel 1945 nella Carta delle Nazioni Unite. Mi sembra importante ristabilire questa verità. Però dobbiamo anche fare i conti con questa Carta. E’ vero che la Carta delle Nazioni Unite, come la nostra Costituzione, proibiscono la guerra, ma è vero che vi si parla di uso della forza. Noi non possiamo eludere questo fatto. Credo che noi dovremmo dare un contributo alla cultura della pace cercando anche di chiarire quali sono le possibili misure, le possibili azioni che possono prevedere anche l’uso della forza, perché non sempre l’uso della forza vuol dire la guerra. Tanto è vero che l’uso della forza di cui parla la Carta delle Nazioni Unite viene interpretata dal giurista internazionale come un’azione di polizia, come la forza che è usata anche all’interno di uno Stato. Lo Stato ha il monopolio della forza nei confronti dei suoi cittadini. Allora noi questo problema ce lo dobbiamo porre, ma non in astratto. Quando una parte della società civile, diciamo una parte della società, perché una società civile come l’abbiamo in mente noi non c’è oggi in Libia. Ma quando una parte dei libici ci chiedono: intervenite, perché ci stanno ammazzando! Io credo che a questa domanda noi dobbiamo saper rispondere, perché altrimenti la risposta viene dagli Stati, dai governi nelle forme che stiamo vedendo in questi giorni. Non ci deve più soddisfare il fatto che ancora una volta 11
abbiamo ragione, perché diciamo no alla guerra. Dobbiamo confrontarci. Che cosa fare di fronte alla domanda di appello da parte dei libici? Vi faccio un esempio, sempre a proposito dell’Algeria. Noi ci siamo trovati di fronte ad associazioni di donne, in modo particolare quelle che difendevano le vittime del terrorismo, che si lamentavano perché l’Unione Europea, gli Stati dell’Unione Europea avevano rifiutato di dare alcuni strumenti all’esercito algerino che avrebbe potuto difendere la popolazione. Naturalmente l’esercito algerino era un esercito classico, assolutamente impreparato a combattere il terrorismo, quindi non aveva quegli strumenti di intervento e monitoraggio del territorio che sono fondamentali appunto nel caso di azioni di tipo terroristico. Di fronte a una domanda di questo tipo di parte della società civile del paese noi cosa diciamo? No, noi siamo nonviolenti? Sbrigatevela voi? O dobbiamo cercare, insieme naturalmente, di trovare una risposta? Una risposta che chiaramente ha i suoi rischi. Noi abbiamo un certezza però. Che la guerra non risolve nessun problema e anche questo ci dovrebbe preoccupare. Noi dobbiamo già preoccuparci del fatto che comunque vada a finire in Libia, sicuramente, anche se vincesse la ribellione, il fatto che quella società, quel paese, quel territorio è stato contaminato dalla guerra, sicuramente ci saranno enormi problemi, ci saranno delle dinamiche tali a cui noi dovremmo già adesso pensare di dare delle risposte. E non attendere ancora che gli avvenimenti in qualche modo ci passino sopra la testa. 12
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No alle guerre, senza se e senza ma ma Gheddafi?