USMI
Prospettive e sviluppi delle Opere degli Istituti religiosi
Seminario per Superiore maggiori e loro Consigli
Roma, 15-16 novembre 2007
RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA
DELLE PERSONE GIURIDICHE
(D.LGS. 8 GIUGNO 2001, N. 231)
I MODELLI ORGANIZZATIVI
Avv. Armando Montemarano
Ci incontriamo di nuovo dopo la giornata di studio del 5 maggio scorso,
indetta congiuntamente da Cism e Usmi, per tornare ancora sul tema della
responsabilità amministrativa degli enti e sull’obbligo di adozione dei modelli
organizzativi, l’ottemperanza al quale è resa, se possibile, ancora più impellente
dalle novità introdotte in materia dalla legge 3 agosto 2007, n. 123.
IL PROBLEMA DELLA RESPONSABILITÀ DEGLI ENTI
La scienza giuridica è riuscita a creare delle persone astratte, che non hanno
un corpo fisico, ma che nonostante ciò sono soggetti di diritto, titolari cioè di
diritti e di doveri.
Questo processo creativo, da molti chiamato «entificazione», cui il diritto
della Chiesa ha impresso un contributo eccezionale, è restato imperfetto, proprio
perché agli enti manca un corpo fisico.
Si è cercato di darglielo, ricorrendo a quella finzione che ha il nome di
«immedesimazione organica», attraverso la quale una persona fisica (o, talora,
più persone fisiche), vale a dire il legale rappresentante, presta il proprio corpo
all’ente, consentendogli di esercitare i diritti, di osservare i doveri, di adempiere
agli obblighi: il legale rappresentante può compiere quegli atti materiali (pensare,
scrivere e parlare, anzitutto), senza i quali queste attività sarebbero, di fatto,
impossibili.
Ma se il legale rappresentante può agire per l’ente - e i suoi atti possono
essere riferiti all’ente, che attraverso di lui è così in grado di agire - almeno due
ostacoli non sono stati ancora superati dalla scienza giuridica, per poter
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equiparare davvero le persone giuridiche alle persone fisiche, gli enti creati dal
diritto alle persone reali:
1) le persone giuridiche, di fatto, non agiscono soltanto attraverso il legale
rappresentante (un esempio: se traggo un assegno bancario, non sarà
materialmente il legale rappresentante della banca a corrispondere il denaro al
suo portatore);
2) le più gravi violazioni di doveri sono punite dagli ordinamenti giuridici
con pene che non è possibile infliggere alla persona giuridica, perché priva di
corpo fisico, e che sarebbe ingiusto infliggere al legale rappresentante, per il
principio di civiltà della personalità della responsabilità penale, in base al quale
non può essere lui a patire le pene per comportamenti che non abbia direttamente
posto in essere (proseguo nell’esempio: se il cassiere della banca dà il denaro a
chi sa avere sottratto l’assegno, invece che al legittimo beneficiario, è giusto che
subisca lui la pena per il reato commesso e non il legale rappresentante della
banca).
Dunque, il problema che si trascina da lungo tempo è quello della
responsabilità delle persone giuridiche, intendendo per «responsabilità» la
situazione di chi, avendo violato un obbligo o commesso un illecito, è chiamato a
risponderne.
La responsabilità civile delle persone giuridiche è stata risolta con una serie
di norme che chiamano a rispondere l’ente degli illeciti civili e degli
inadempimenti contrattuali posti in essere da chi agisce per esso. Soprattutto per
ciò che attiene alla responsabilità extracontrattuale, più difficile da affermare,
assume notevole importanza l’art. 2049 cod. civ., disponendo che «i padroni e i
committenti» sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro
«commessi» nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti.
La norma è collegata in modo trasparente a quella dettata, in ambito
contrattuale, dall’art. 1228 cod. civ., in forza della quale il debitore che
nell’adempimento dell’obbligazione si vale dell’opera di terzi risponde anche dei
fatti dolosi o colposi di costoro.
Presupposto della responsabilità civile è, dunque, l’esistenza di un rapporto
di «committenza» fra il soggetto responsabile e quello che pone in essere
l’illecito, sicché la responsabilità si estende non solo ai datori di lavoro
subordinato in senso stretto, ma a tutti i «committenti». La giurisprudenza di
legittimità la ritiene sussistente, ad esempio, con riferimento agli atti illeciti,
produttivi di danni a terzi, compiuti dalle persone che, indipendentemente
dall’esistenza o meno di uno stabile rapporto di lavoro subordinato, siano
inserite, anche temporaneamente od occasionalmente, nell’organizzazione
dell’ente ed abbiano agito, in questo contesto, su richiesta, per conto e sotto la
vigilanza dell’ente stesso.
Sotto il profilo penale, e dunque proprio in relazione agli illeciti più gravi, il
problema è però, come ho detto, più difficile da risolvere; al che consegue un
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certo grado di irresponsabilità delle persone giuridiche, cui da tempo si tenta di
porre rimedio: da tempo i giuristi cercano la formula per rendere responsabili le
persone giuridiche delle più gravi violazioni delle regole ordinamentali; in altri
termini, cercano di istituire la «responsabilità penale» degli enti.
LA RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA DEGLI ENTI
Il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, reca le disposizioni normative concernenti
la «Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle
società e delle associazioni anche prive di responsabilità giuridica».
Ai sensi dell’art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 231/2001, l’ente può essere ritenuto
responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da chi è
investito di responsabilità gestionale quale:
⎯ soggetto in posizione formale apicale, vale a dire persona che riveste
funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente
ecclesiastico civilmente riconosciuto o di una sua unità organizzativa dotata di
autonomia finanziaria e funzionale;
⎯ soggetto in posizione di fatto apicale, vale a dire persona che esercita,
anche di fatto, senza formale investitura, la gestione e il controllo dell’ente
ecclesiastico civilmente riconosciuto;
⎯ soggetto direttamente sottordinato alle posizioni di vertice, vale a dire
persona sottoposta alla direzione o alla vigilanza di un soggetto in posizione
apicale.
L’uso della formula «nel suo interesse o a suo vantaggio» e la
predeterminazione delle figure interessate non devono trarre in inganno; in effetti
la responsabilità è assai meno circoscritta di quanto appare a prima vista. Il
successivo art. 8, comma 1, lett. a), aggiunge infatti che la responsabilità
dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è
imputabile: questa ipotesi amplia lo spettro di incidenza della responsabilità a
tutte le forme della «criminalità d’impresa», che si riscontrano sia quando il reato
è espressione di vera e propria politica aziendale sia quando è sintomatico di una
politica aziendale non rivolta alla prevenzione della commissione dei reati. In
altri termini, l’ente è punito tanto nel caso in cui il fatto-reato sia l’espressione di
una scelta aziendale («dolo») tanto in quello in cui sia frutto della mancata
predisposizione di modelli organizzativi idonei ad evitare la commissione di reati
(«colpa»).
In caso di commissione di reati, alla pena che colpisce l’autore dell’illecito
si aggiunge necessariamente una «pena» per l’ente, che può essere:
a) una sanzione pecuniaria applicata per quote, in un numero non inferiore a
100 né superiore a 1.000; l’importo di una quota va da un minimo di 238 euro ad
un massimo di 1.548 euro;
b) una sanzione interdittiva, di durata non inferiore a tre mesi e non
superiore a due anni;
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c) la confisca del prezzo o del profitto dell’illecito; se essa non è possibile,
può avere ad oggetto somme di denaro equivalenti;
d) la pubblicazione della sentenza in uno o più giornali indicati dal Giudice
nella sentenza, nonché mediante affissione nel Comune ove l’ente ha la sede
principale.
L’ente, però, non risponde dell’illecito se prova che ha adottato e attuato,
prima della commissione del fatto, il modello organizzativo.
IL MODELLO ORGANIZZATIVO
Il modello organizzativo è un documento - da redigere, conservare ed
applicare - attraverso il quale si predispone un sistema strutturato ed organico di
prevenzione, di dissuasione e di controllo, finalizzato alla riduzione del rischio di
commissione dei reati da parte dei suoi membri, dei suoi dipendenti, dei suoi
collaboratori.
Il modello organizzativo, che è per legge un «atto di emanazione dell’organo
dirigente», si compone dei seguenti elementi:
⎯ Mappatura delle attività sensibili: individuazione delle attività gestite
dall’ente astrattamente in grado di ingenerare rischi di commissione di reati o
illeciti potenzialmente propedeutici alla commissione di reati. Si possono
rilevare in genere, nella gestione delle opere educative, formative, sanitarie e
socio-assistenziali, i seguenti processi ed eventi sensibili:
A) rispetto ai reati nei rapporti con la pubblica amministrazione:
1. rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione;
2. gestione e liquidazione di infortuni sul lavoro e prestazioni
previdenziali;
3. acquisti di beni o servizi, di consulenze e sponsorizzazioni;
4. selezione e assunzione del personale;
5. ottenimento e utilizzo di contributi e finanziamenti pubblici;
6. erogazione di contributi commerciali e sovvenzioni private;
7. collegamenti telematici o trasmissione di dati;
8. edilizia e gestione degli immobili;
B) rispetto ai reati contro la personalità dell’individuo:
1. selezione e assunzione del personale;
2. utilizzo di collegamenti telematici;
3. utilizzo di apparecchiature audiovisive;
4. assistenza a minorenni, anziani, portatori di handicap fisici e
sociali;
5. accoglienza di ospiti nelle strutture ricettive;
6. somministrazione di beni e servizi;
C) rispetto ai reati antinfortunistici:
1. omicidio colposo commesso con violazione delle norme
antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro;
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2. utilizzo di collegamenti telematici commesso con violazione delle
norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul
lavoro.
⎯ Distribuzione della responsabilità gestionale: individuazione per
ciascuna attività sensibile dei soggetti in posizione formale apicale, dei soggetti
in posizione di fatto apicale, dei soggetti direttamente sottordinati alle posizioni
di vertice (o «preposti»).
Il sistema di deleghe e di procure deve essere caratterizzato da elementi di
sicurezza che garantiscano la rintracciabilità e l’evidenza delle operazioni svolte
a fronte di delega, ovviamente, per quel che concerne gli enti ecclesiastici, nel
rispetto delle norme dettate dal codice di diritto canonico in materia di potestà di
governo. Ai soli fini del modello organizzativo, la «delega» è un atto interno di
attribuzione di compiti e la «procura» un atto unilaterale con il quale viene
conferito ad un soggetto il potere di rappresentanza.
⎯ Sistema dei controlli: individuazione per ciascuna attività sensibile delle
modalità di gestione approntate dall’ente e del sistema di controllo esistente.
⎯ Interventi di miglioramento: individuazione delle azioni di miglioramento
del sistema di controllo interno in essere.
⎯ Modello gestionale: individuazione delle procedure organizzative
specifiche e degli elementi di controllo identificati al fine di prevenire o limitare
le situazioni a rischio di reato connesse alla gestione delle attività sensibili.
⎯ Mappatura dei reati: individuazione, tra i reati individuati dal D.Lgs. 8
giugno 2001, n. 231, di quelli a rischio di commissione in relazione alle attività
dell’ente.
Vi sono reati previsti dal D.Lgs. n. 231/2001 che non possono essere
considerati rilevanti per l’ente ecclesiastico o in quanto impossibili (i reati
societari, che tuttavia non vanno esclusi per le opere gestite in forma di società di
capitali, di cooperativa, di onlus, di fondazione, di consorzio, ecc., concernendo
la redazione dei bilanci e degli altri documenti contabili, le comunicazioni ai soci
ed a i terzi, le riunioni degli organi sociali, i rapporti con gli organi di controllo
interno ed esterno, e così via) o perché solo astrattamente ipotizzabili (i reati di
falso nummario e i reati con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine
democratico). Altri reati, che invece potrebbero in astratto riguardare le attività
degli enti ecclesiastici, sono presenti in diversi progetti di legge rivolti ad
implementare quelli attualmente contemplati dal D.Lgs. n. 231/2001 (delitti
contro l’ambiente: disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 24
aprile 2007; progetto presentato alla Camera dall’on. Mazzoni il 28 marzo 2007).
Possono riguardare senz’altro la maggior parte delle opere gestite dagli enti
ecclesiastici i reati nei rapporti con la pubblica amministrazione (indebita
percezione di erogazioni a danno dello Stato; malversazione a danno dello Stato;
concussione; corruzione e istigazione alla corruzione; peculato; truffa ai danni
dello Stato o di altro ente pubblico; truffa aggravata per il conseguimento di
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erogazioni pubbliche; frode informatica) ed i reati contro la personalità
individuale e contro la persona (prostituzione minorile; pornografia minorile;
detenzione di materiale pornografico; iniziative turistiche volte allo sfruttamento
della prostituzione minorile; riduzione o mantenimento in servitù; tratta di
persone; pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili). Ma soprattutto
due reati rilevano in qualsiasi Opera, quelli introdotti dalla legge 3 agosto 2007,
n. 123, per la tutela della salute nei luoghi di lavoro, sui quali mi soffermerò in
seguito.
⎯ Codice etico: costituisce l’insieme dei princìpi la cui osservanza è
reputata di fondamentale importanza per il regolare funzionamento, l’affidabilità
della gestione e l’immagine dell’ente; alle sue disposizioni devono uniformarsi
tutti i rapporti e tutte le attività compiute nel nome o nell’interesse dell’ente o,
comunque, ad esso in ogni modo riferibili, posti in essere sia al suo interno che
verso l’esterno.
⎯ Sistema sanzionatorio: determinazione per i dipendenti delle sanzioni
collegate alla violazione del codice etico e loro inserimento nel codice
disciplinare aziendale; per i collaboratori occorre prevedere la risoluzione dei
contratti in ipotesi di commissione delle medesime violazioni; per il personale
religioso è da ritenere sufficiente il richiamo alle norme del diritto canonico e del
diritto proprio.
⎯ Organismo di vigilanza: istituzione di un organismo interno alla struttura
dell’ente, che non si identifichi interamente con l’organo amministrativo (ben è
possibile, tuttavia, che alcuni membri di questo siano anche componenti di
quello) e che abbia il compito di garantire il rispetto del sistema organizzativo
adottato e la vigilanza sull’operato dei destinatari.
I compiti assegnati all’Organismo di vigilanza richiedono che lo stesso sia
dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; sicché, per non interferire
nella «catena gerarchica» tipica dell’Istituto di vita consacrata o della Società di
vita apostolica, deve essere nominato dai Superiori individuati in base al diritto
proprio e deve rispondere nello svolgimento della sua funzione solo ad essi.
⎯ Sistema informativo e formativo: definizione delle modalità di
informazione e formazione rispetto ai contenuti del modello.
Ho prima accennato alle novità introdotte dalla L. n. 123/2007 perché esse
ampliano a dismisura le occasioni di responsabilità amministrativa degli enti,
non riguardando reati che, proprio perché molto gravi, sono fortunatamente di
non frequente commissione.
Tra i reati alla cui prevenzione il D.Lgs. n. 231/2001 è finalizzato non era
finora compreso alcun reato connesso alla gestione dei rapporti di lavoro (tranne
volervi annoverare la riduzione in schiavitù). L’art. 9 L. n. 123/2007 inserisce
ora nel D.Lgs. n. 231/2001 l’art. 25-septies, includendo tra i reati per i quali
l’ente diviene direttamente responsabile l’omicidio colposo e le lesioni colpose
gravi o gravissime, commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e
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sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro. Da notare che per «lesioni gravi»
si intendono compromissioni dello stato di salute purtroppo comuni negli
infortuni sul lavoro, in quanto l’art. 583 cod. pen. le definisce tali non solo se dal
fatto derivi una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ma
anche se ne derivi semplicemente una malattia o l’incapacità di attendere alle
ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni ovvero, pure per
eventi morbosi di durata inferiore ai quaranta giorni, se il fatto produca
l’indebolimento permanente di un senso o di un organo.
In relazione ai delitti di cui agli artt. 589 e 590, comma 3, cod. pen.,
commessi con violazione delle menzionate norme, si applica così all’ente che
non abbia adottato un idoneo modello organizzativo una sanzione pecuniaria in
misura non inferiore a mille quote (ai sensi dell’art. 10, commi 3 e 4, D.Lgs. n.
231/2001, l’importo di una quota va da un minimo di euro 238 ad un massimo di
euro 1.548, e non è ammesso il pagamento in misura ridotta). Nel caso di
condanna per uno di questi delitti, si applicano inoltre, per una durata non
inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno, le sanzioni della sospensione
delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione
dell’illecito, del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione,
dell’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi, nonché del
divieto di pubblicizzare beni e servizi.
La terminologia adoperata dal codificatore («norme per la prevenzione degli
infortuni sul lavoro»), è riferibile, peraltro, non solo alle norme inserite nelle
leggi specificamente antinfortunistiche, ma anche a tutte quelle che, direttamente
o indirettamente, perseguono il fine di evitare incidenti sul lavoro o malattie
professionali e che, in genere, tendono a garantire la sicurezza del lavoro in
relazione all’ambiente in cui esso deve svolgersi.
Prima tra tali norme è, allora, quella posta dall’art. 2087 cod. civ., che
istituisce il generalissimo obbligo del datore di lavoro di tutelare le condizioni di
lavoro, per tali intendendosi sia l’integrità fisica che la personalità morale dei
prestatori di lavoro; tale norma, infatti, ha carattere sussidiario, di integrazione
della specifica normativa antinfortunistica, con riferimento all’interesse primario
della garanzia della sicurezza del lavoro ed importa l’inadempimento del dovere
di sicurezza non soltanto quando si inattuino le misure specifiche imposte
tassativamente dalla legge, ma pure quando non si adottino, in mancanza di
queste o nell’ipotesi della loro inadeguatezza rispetto all’evoluzione della tecnica
ed al progresso scientifico, i mezzi comunque idonei a prevenire ed evitare i
sinistri, assunti con i sussidi dei dati di comune esperienza, prudenza, diligenza,
prevedibilità, in relazione all’attività svolta. La giurisprudenza, oltre l’attuazione
dell’art. 2087 cod. civ., è poi concorde nel ritenere che, ai fini della prevenzione
degli infortuni sul lavoro, sono da rispettare non solo le norme specifiche
contenute nelle speciali leggi antinfortunistiche ma pure quelle che, seppure
stabilite da leggi generali, sono ugualmente dirette a prevenire gli infortuni.
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In estrema sintesi: i princìpi contenuti nel modello organizzativo e di
gestione – in particolare, nel codice etico - devono condurre a determinare nel
potenziale autore del reato la consapevolezza di commettere un illecito, la cui
commissione è deprecata e definita contraria agli interessi dell’ente, anche
quando apparentemente esso potrebbe trarne un vantaggio. Inoltre, grazie ad un
monitoraggio costante dell’attività, le soluzioni organizzative e gestionali
adottate devono consentire all’ente di prevenire o - in caso di impossibilità di
prevenzione - di reagire tempestivamente per impedire la commissione del reato.
IL COINVOLGIMENTO DEI LAICI
L’attuazione del modello organizzativo permette indubbiamente un più
penetrante controllo sulle condotte di tutti coloro che operano per l’ente. In
particolare, il codice etico consente di imporre comportamenti e buone prassi di
lavoro, nonché di sanzionare disciplinarmente, finanche con il licenziamento, le
più gravi inosservanze.
Il codice etico può rivelarsi uno strumento efficace, non soltanto per
presentare l’ente ai terzi con la sua identità, ma pure per rendere effettivi sia
l’adempimento da parte dei laici dell’obbligazione di coerenza dei loro
comportamenti lavorativi con la tendenza religiosa perseguita sia la vigilanza da
parte dell’ente sulla fedeltà al carisma di chi è chiamato a concorrere alla
gestione delle opere.
La legge impone di adottare i modelli organizzativi con riferimento ad
alcuni reati rispetto ai quali le attività gestite dagli enti ecclesiastici sono
particolarmente «sensibili», sia per il coinvolgimento di bambini, di adolescenti,
di portatori di handicap fisici e sociali, di lavoratori e collaboratori, sia per
l’utilizzo dei sistemi di posta elettronica o di Internet da parte degli operatori. Si
pensi, ad esempio, oltre ai reati connessi con la normativa antinfortunistica, ai
delitti contro la personalità dell’individuo, nei quali sono compresi i reati di
pornografia minorile e di detenzione di materiale pornografico; oppure ai reati
commessi nei rapporti con la pubblica amministrazione (indebita percezione di
erogazioni, concussione, corruzione, truffa aggravata per il conseguimento di
erogazioni pubbliche, frode informatica).
Qualora reati del genere fossero commessi da personale dell’ente, anche se
non a vantaggio di questo, desterebbe comunque riprovazione nella società civile
verificare che un ente ecclesiastico non abbia adempiuto ad una norma di legge
che gli imponeva di adottare un sistema codificato di precauzioni e di vigilanza
per prevenire la commissione degli illeciti e tutelare, così, i fruitori dei servizi
affidati alle sue cure.
In una fase storica contraddistinta dalla contrazione del personale religioso,
che pone agli Istituti di vita consacrata ed alle Società di vita apostolica il
problema della sostenibilità delle opere, l’adozione del modello organizzativo
costituisce una misura da sola insufficiente, ma che potrebbe essere adottata
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congiuntamente ad altre. E penso non soltanto alla riconoscibilità agli effetti
civili delle case religiose, ma al ricorso a strumenti organizzativi moderni, quale
ad esempio la certificazione di qualità dei sistemi gestionali; e pure a strumenti
giuridici nuovi (le obsolete figure degli appalti o dei comodati sono spesso
inconferenti ai bisogni), quali il contratto di affiliazione commerciale (legge 6
maggio 2004, n. 1219) o il negozio di destinazione (art. 2645-ter cod. civ.,
aggiunto dall’art. 39-novies D.L. 30 dicembre 2005, n. 273).
Questo insieme di misure potrebbe costituire un’alternativa alla gestione
delle opere in nome proprio ma per conto altrui, che purtroppo si realizza nei
fatti quando la responsabilità viene assunta dall’ente, magari attraverso le firme
apposte da chi ne ha la legale rappresentanza, ma le decisioni sono assunte da
laici chiamati a divenire collaboratori direttivi, consulenti, consiglieri,
amministratori di fatto; oppure alla chiusura o alla cessione delle attività, o
all’adozione di strumenti giuridici gestionali - società di capitali, cooperative,
onlus, fondazioni civilistiche, associazioni – che, talora necessari, sminuiscono
però la riconoscibilità della natura ecclesiale delle opere, sottraggono gli enti
gestori al regime concordatario, confliggono spesso con la necessità di
assoggettare i beni ecclesiastici ai controlli canonici.
Un’ultima riflessione al riguardo: il coinvolgimento dei laici nella gestione
delle Opere richiede una capacità di guida e di controllo da parte dell’Istituto,
proprio per evitare l’assunzione di responsabilità per fatti dei laici investiti di
funzioni apicali, che era esclusa in passato dall’adibizione alle Opere di solo
personale religioso.
Tanto più scarso è il personale religioso da adibire alla gestione delle Opere
quanto più esso deve essere, a mio parere, anche professionalmente preparato. E
al giorno d’oggi una sufficiente preparazione professionale - per la gestione
consapevole ed efficiente di Opere che sono ormai considerate, anche dalla
giurisprudenza, «imprese» a tutti gli effetti - non può aversi prescindendo da una
cultura di base di livello universitario; è illusorio che la (pur indispensabile)
frequenza, da parte dei religiosi e delle religiose, almeno di quelli che debbano
essere investiti di compiti manageriali, di appositi corsi di formazione possa
supplire alla mancanza di una preparazione di base più generale che, stante anche
la qualità dell’offerta formativa scolastica, a mala pena un diploma di laurea
riesce ormai a garantire.
Le Suore infermiere o maestre all’inizio del secolo scorso erano donne che
avevano studiato e che svolgevano un’attività oggettivamente professionale,
quando in Italia il 49% della popolazione era analfabeta e di donne impegnate in
un lavoro non agricolo e non industriale se ne contavano pochissime. Quelle
Suore erano donne all’avanguardia. Questa posizione va recuperata, ovviamente
con riferimento al ben diverso livello di cultura e di professionalità espresso
dalla società contemporanea.
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Mi rendo conto che ciò comporta scelte congregazionali foriere di non pochi
problemi, che derivano dalla difficoltà di coniugare tutto ciò con il fine di
religione e di culto delle famiglie religiose. Ritengo, tuttavia, che quando queste
scelte, per la necessità del perseguimento di quel fine ben superiore, si
indirizzassero altrimenti, e la presenza di religiose in grado di gestire con
professionalità e preparazione specifica le Opere affidate quasi per intero a
personale laico non fosse assicurata, meglio sarebbe disgiungere la responsabilità
dell’Istituto da quella dei laici effettivi gestori della singola Opera. Meglio
separarsi dalla gestione dell’Opera piuttosto che divenire strumenti
inconsapevoli delle decisioni altrui e rendere l’Istituto responsabile di atti
organizzativi e gestionali solo apparentemente adottati da membri dell’ente
ecclesiastico ma, di fatto, concepiti e voluti da persone, senz’altro corrette ed in
buona fede, ma non legate all’Istituto con il vincolo che solo i voti pronunciati
possono assicurare.
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Montemarano