USMI Prospettive e sviluppi delle Opere degli Istituti religiosi Seminario per Superiore maggiori e loro Consigli Roma, 15-16 novembre 2007 RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA DELLE PERSONE GIURIDICHE (D.LGS. 8 GIUGNO 2001, N. 231) I MODELLI ORGANIZZATIVI Avv. Armando Montemarano Ci incontriamo di nuovo dopo la giornata di studio del 5 maggio scorso, indetta congiuntamente da Cism e Usmi, per tornare ancora sul tema della responsabilità amministrativa degli enti e sull’obbligo di adozione dei modelli organizzativi, l’ottemperanza al quale è resa, se possibile, ancora più impellente dalle novità introdotte in materia dalla legge 3 agosto 2007, n. 123. IL PROBLEMA DELLA RESPONSABILITÀ DEGLI ENTI La scienza giuridica è riuscita a creare delle persone astratte, che non hanno un corpo fisico, ma che nonostante ciò sono soggetti di diritto, titolari cioè di diritti e di doveri. Questo processo creativo, da molti chiamato «entificazione», cui il diritto della Chiesa ha impresso un contributo eccezionale, è restato imperfetto, proprio perché agli enti manca un corpo fisico. Si è cercato di darglielo, ricorrendo a quella finzione che ha il nome di «immedesimazione organica», attraverso la quale una persona fisica (o, talora, più persone fisiche), vale a dire il legale rappresentante, presta il proprio corpo all’ente, consentendogli di esercitare i diritti, di osservare i doveri, di adempiere agli obblighi: il legale rappresentante può compiere quegli atti materiali (pensare, scrivere e parlare, anzitutto), senza i quali queste attività sarebbero, di fatto, impossibili. Ma se il legale rappresentante può agire per l’ente - e i suoi atti possono essere riferiti all’ente, che attraverso di lui è così in grado di agire - almeno due ostacoli non sono stati ancora superati dalla scienza giuridica, per poter 1 equiparare davvero le persone giuridiche alle persone fisiche, gli enti creati dal diritto alle persone reali: 1) le persone giuridiche, di fatto, non agiscono soltanto attraverso il legale rappresentante (un esempio: se traggo un assegno bancario, non sarà materialmente il legale rappresentante della banca a corrispondere il denaro al suo portatore); 2) le più gravi violazioni di doveri sono punite dagli ordinamenti giuridici con pene che non è possibile infliggere alla persona giuridica, perché priva di corpo fisico, e che sarebbe ingiusto infliggere al legale rappresentante, per il principio di civiltà della personalità della responsabilità penale, in base al quale non può essere lui a patire le pene per comportamenti che non abbia direttamente posto in essere (proseguo nell’esempio: se il cassiere della banca dà il denaro a chi sa avere sottratto l’assegno, invece che al legittimo beneficiario, è giusto che subisca lui la pena per il reato commesso e non il legale rappresentante della banca). Dunque, il problema che si trascina da lungo tempo è quello della responsabilità delle persone giuridiche, intendendo per «responsabilità» la situazione di chi, avendo violato un obbligo o commesso un illecito, è chiamato a risponderne. La responsabilità civile delle persone giuridiche è stata risolta con una serie di norme che chiamano a rispondere l’ente degli illeciti civili e degli inadempimenti contrattuali posti in essere da chi agisce per esso. Soprattutto per ciò che attiene alla responsabilità extracontrattuale, più difficile da affermare, assume notevole importanza l’art. 2049 cod. civ., disponendo che «i padroni e i committenti» sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro «commessi» nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti. La norma è collegata in modo trasparente a quella dettata, in ambito contrattuale, dall’art. 1228 cod. civ., in forza della quale il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si vale dell’opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro. Presupposto della responsabilità civile è, dunque, l’esistenza di un rapporto di «committenza» fra il soggetto responsabile e quello che pone in essere l’illecito, sicché la responsabilità si estende non solo ai datori di lavoro subordinato in senso stretto, ma a tutti i «committenti». La giurisprudenza di legittimità la ritiene sussistente, ad esempio, con riferimento agli atti illeciti, produttivi di danni a terzi, compiuti dalle persone che, indipendentemente dall’esistenza o meno di uno stabile rapporto di lavoro subordinato, siano inserite, anche temporaneamente od occasionalmente, nell’organizzazione dell’ente ed abbiano agito, in questo contesto, su richiesta, per conto e sotto la vigilanza dell’ente stesso. Sotto il profilo penale, e dunque proprio in relazione agli illeciti più gravi, il problema è però, come ho detto, più difficile da risolvere; al che consegue un 2 certo grado di irresponsabilità delle persone giuridiche, cui da tempo si tenta di porre rimedio: da tempo i giuristi cercano la formula per rendere responsabili le persone giuridiche delle più gravi violazioni delle regole ordinamentali; in altri termini, cercano di istituire la «responsabilità penale» degli enti. LA RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA DEGLI ENTI Il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, reca le disposizioni normative concernenti la «Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di responsabilità giuridica». Ai sensi dell’art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 231/2001, l’ente può essere ritenuto responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da chi è investito di responsabilità gestionale quale: ⎯ soggetto in posizione formale apicale, vale a dire persona che riveste funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale; ⎯ soggetto in posizione di fatto apicale, vale a dire persona che esercita, anche di fatto, senza formale investitura, la gestione e il controllo dell’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto; ⎯ soggetto direttamente sottordinato alle posizioni di vertice, vale a dire persona sottoposta alla direzione o alla vigilanza di un soggetto in posizione apicale. L’uso della formula «nel suo interesse o a suo vantaggio» e la predeterminazione delle figure interessate non devono trarre in inganno; in effetti la responsabilità è assai meno circoscritta di quanto appare a prima vista. Il successivo art. 8, comma 1, lett. a), aggiunge infatti che la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile: questa ipotesi amplia lo spettro di incidenza della responsabilità a tutte le forme della «criminalità d’impresa», che si riscontrano sia quando il reato è espressione di vera e propria politica aziendale sia quando è sintomatico di una politica aziendale non rivolta alla prevenzione della commissione dei reati. In altri termini, l’ente è punito tanto nel caso in cui il fatto-reato sia l’espressione di una scelta aziendale («dolo») tanto in quello in cui sia frutto della mancata predisposizione di modelli organizzativi idonei ad evitare la commissione di reati («colpa»). In caso di commissione di reati, alla pena che colpisce l’autore dell’illecito si aggiunge necessariamente una «pena» per l’ente, che può essere: a) una sanzione pecuniaria applicata per quote, in un numero non inferiore a 100 né superiore a 1.000; l’importo di una quota va da un minimo di 238 euro ad un massimo di 1.548 euro; b) una sanzione interdittiva, di durata non inferiore a tre mesi e non superiore a due anni; 3 c) la confisca del prezzo o del profitto dell’illecito; se essa non è possibile, può avere ad oggetto somme di denaro equivalenti; d) la pubblicazione della sentenza in uno o più giornali indicati dal Giudice nella sentenza, nonché mediante affissione nel Comune ove l’ente ha la sede principale. L’ente, però, non risponde dell’illecito se prova che ha adottato e attuato, prima della commissione del fatto, il modello organizzativo. IL MODELLO ORGANIZZATIVO Il modello organizzativo è un documento - da redigere, conservare ed applicare - attraverso il quale si predispone un sistema strutturato ed organico di prevenzione, di dissuasione e di controllo, finalizzato alla riduzione del rischio di commissione dei reati da parte dei suoi membri, dei suoi dipendenti, dei suoi collaboratori. Il modello organizzativo, che è per legge un «atto di emanazione dell’organo dirigente», si compone dei seguenti elementi: ⎯ Mappatura delle attività sensibili: individuazione delle attività gestite dall’ente astrattamente in grado di ingenerare rischi di commissione di reati o illeciti potenzialmente propedeutici alla commissione di reati. Si possono rilevare in genere, nella gestione delle opere educative, formative, sanitarie e socio-assistenziali, i seguenti processi ed eventi sensibili: A) rispetto ai reati nei rapporti con la pubblica amministrazione: 1. rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione; 2. gestione e liquidazione di infortuni sul lavoro e prestazioni previdenziali; 3. acquisti di beni o servizi, di consulenze e sponsorizzazioni; 4. selezione e assunzione del personale; 5. ottenimento e utilizzo di contributi e finanziamenti pubblici; 6. erogazione di contributi commerciali e sovvenzioni private; 7. collegamenti telematici o trasmissione di dati; 8. edilizia e gestione degli immobili; B) rispetto ai reati contro la personalità dell’individuo: 1. selezione e assunzione del personale; 2. utilizzo di collegamenti telematici; 3. utilizzo di apparecchiature audiovisive; 4. assistenza a minorenni, anziani, portatori di handicap fisici e sociali; 5. accoglienza di ospiti nelle strutture ricettive; 6. somministrazione di beni e servizi; C) rispetto ai reati antinfortunistici: 1. omicidio colposo commesso con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro; 4 2. utilizzo di collegamenti telematici commesso con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro. ⎯ Distribuzione della responsabilità gestionale: individuazione per ciascuna attività sensibile dei soggetti in posizione formale apicale, dei soggetti in posizione di fatto apicale, dei soggetti direttamente sottordinati alle posizioni di vertice (o «preposti»). Il sistema di deleghe e di procure deve essere caratterizzato da elementi di sicurezza che garantiscano la rintracciabilità e l’evidenza delle operazioni svolte a fronte di delega, ovviamente, per quel che concerne gli enti ecclesiastici, nel rispetto delle norme dettate dal codice di diritto canonico in materia di potestà di governo. Ai soli fini del modello organizzativo, la «delega» è un atto interno di attribuzione di compiti e la «procura» un atto unilaterale con il quale viene conferito ad un soggetto il potere di rappresentanza. ⎯ Sistema dei controlli: individuazione per ciascuna attività sensibile delle modalità di gestione approntate dall’ente e del sistema di controllo esistente. ⎯ Interventi di miglioramento: individuazione delle azioni di miglioramento del sistema di controllo interno in essere. ⎯ Modello gestionale: individuazione delle procedure organizzative specifiche e degli elementi di controllo identificati al fine di prevenire o limitare le situazioni a rischio di reato connesse alla gestione delle attività sensibili. ⎯ Mappatura dei reati: individuazione, tra i reati individuati dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, di quelli a rischio di commissione in relazione alle attività dell’ente. Vi sono reati previsti dal D.Lgs. n. 231/2001 che non possono essere considerati rilevanti per l’ente ecclesiastico o in quanto impossibili (i reati societari, che tuttavia non vanno esclusi per le opere gestite in forma di società di capitali, di cooperativa, di onlus, di fondazione, di consorzio, ecc., concernendo la redazione dei bilanci e degli altri documenti contabili, le comunicazioni ai soci ed a i terzi, le riunioni degli organi sociali, i rapporti con gli organi di controllo interno ed esterno, e così via) o perché solo astrattamente ipotizzabili (i reati di falso nummario e i reati con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico). Altri reati, che invece potrebbero in astratto riguardare le attività degli enti ecclesiastici, sono presenti in diversi progetti di legge rivolti ad implementare quelli attualmente contemplati dal D.Lgs. n. 231/2001 (delitti contro l’ambiente: disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 24 aprile 2007; progetto presentato alla Camera dall’on. Mazzoni il 28 marzo 2007). Possono riguardare senz’altro la maggior parte delle opere gestite dagli enti ecclesiastici i reati nei rapporti con la pubblica amministrazione (indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato; malversazione a danno dello Stato; concussione; corruzione e istigazione alla corruzione; peculato; truffa ai danni dello Stato o di altro ente pubblico; truffa aggravata per il conseguimento di 5 erogazioni pubbliche; frode informatica) ed i reati contro la personalità individuale e contro la persona (prostituzione minorile; pornografia minorile; detenzione di materiale pornografico; iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile; riduzione o mantenimento in servitù; tratta di persone; pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili). Ma soprattutto due reati rilevano in qualsiasi Opera, quelli introdotti dalla legge 3 agosto 2007, n. 123, per la tutela della salute nei luoghi di lavoro, sui quali mi soffermerò in seguito. ⎯ Codice etico: costituisce l’insieme dei princìpi la cui osservanza è reputata di fondamentale importanza per il regolare funzionamento, l’affidabilità della gestione e l’immagine dell’ente; alle sue disposizioni devono uniformarsi tutti i rapporti e tutte le attività compiute nel nome o nell’interesse dell’ente o, comunque, ad esso in ogni modo riferibili, posti in essere sia al suo interno che verso l’esterno. ⎯ Sistema sanzionatorio: determinazione per i dipendenti delle sanzioni collegate alla violazione del codice etico e loro inserimento nel codice disciplinare aziendale; per i collaboratori occorre prevedere la risoluzione dei contratti in ipotesi di commissione delle medesime violazioni; per il personale religioso è da ritenere sufficiente il richiamo alle norme del diritto canonico e del diritto proprio. ⎯ Organismo di vigilanza: istituzione di un organismo interno alla struttura dell’ente, che non si identifichi interamente con l’organo amministrativo (ben è possibile, tuttavia, che alcuni membri di questo siano anche componenti di quello) e che abbia il compito di garantire il rispetto del sistema organizzativo adottato e la vigilanza sull’operato dei destinatari. I compiti assegnati all’Organismo di vigilanza richiedono che lo stesso sia dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; sicché, per non interferire nella «catena gerarchica» tipica dell’Istituto di vita consacrata o della Società di vita apostolica, deve essere nominato dai Superiori individuati in base al diritto proprio e deve rispondere nello svolgimento della sua funzione solo ad essi. ⎯ Sistema informativo e formativo: definizione delle modalità di informazione e formazione rispetto ai contenuti del modello. Ho prima accennato alle novità introdotte dalla L. n. 123/2007 perché esse ampliano a dismisura le occasioni di responsabilità amministrativa degli enti, non riguardando reati che, proprio perché molto gravi, sono fortunatamente di non frequente commissione. Tra i reati alla cui prevenzione il D.Lgs. n. 231/2001 è finalizzato non era finora compreso alcun reato connesso alla gestione dei rapporti di lavoro (tranne volervi annoverare la riduzione in schiavitù). L’art. 9 L. n. 123/2007 inserisce ora nel D.Lgs. n. 231/2001 l’art. 25-septies, includendo tra i reati per i quali l’ente diviene direttamente responsabile l’omicidio colposo e le lesioni colpose gravi o gravissime, commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e 6 sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro. Da notare che per «lesioni gravi» si intendono compromissioni dello stato di salute purtroppo comuni negli infortuni sul lavoro, in quanto l’art. 583 cod. pen. le definisce tali non solo se dal fatto derivi una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ma anche se ne derivi semplicemente una malattia o l’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni ovvero, pure per eventi morbosi di durata inferiore ai quaranta giorni, se il fatto produca l’indebolimento permanente di un senso o di un organo. In relazione ai delitti di cui agli artt. 589 e 590, comma 3, cod. pen., commessi con violazione delle menzionate norme, si applica così all’ente che non abbia adottato un idoneo modello organizzativo una sanzione pecuniaria in misura non inferiore a mille quote (ai sensi dell’art. 10, commi 3 e 4, D.Lgs. n. 231/2001, l’importo di una quota va da un minimo di euro 238 ad un massimo di euro 1.548, e non è ammesso il pagamento in misura ridotta). Nel caso di condanna per uno di questi delitti, si applicano inoltre, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno, le sanzioni della sospensione delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito, del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, dell’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi, nonché del divieto di pubblicizzare beni e servizi. La terminologia adoperata dal codificatore («norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro»), è riferibile, peraltro, non solo alle norme inserite nelle leggi specificamente antinfortunistiche, ma anche a tutte quelle che, direttamente o indirettamente, perseguono il fine di evitare incidenti sul lavoro o malattie professionali e che, in genere, tendono a garantire la sicurezza del lavoro in relazione all’ambiente in cui esso deve svolgersi. Prima tra tali norme è, allora, quella posta dall’art. 2087 cod. civ., che istituisce il generalissimo obbligo del datore di lavoro di tutelare le condizioni di lavoro, per tali intendendosi sia l’integrità fisica che la personalità morale dei prestatori di lavoro; tale norma, infatti, ha carattere sussidiario, di integrazione della specifica normativa antinfortunistica, con riferimento all’interesse primario della garanzia della sicurezza del lavoro ed importa l’inadempimento del dovere di sicurezza non soltanto quando si inattuino le misure specifiche imposte tassativamente dalla legge, ma pure quando non si adottino, in mancanza di queste o nell’ipotesi della loro inadeguatezza rispetto all’evoluzione della tecnica ed al progresso scientifico, i mezzi comunque idonei a prevenire ed evitare i sinistri, assunti con i sussidi dei dati di comune esperienza, prudenza, diligenza, prevedibilità, in relazione all’attività svolta. La giurisprudenza, oltre l’attuazione dell’art. 2087 cod. civ., è poi concorde nel ritenere che, ai fini della prevenzione degli infortuni sul lavoro, sono da rispettare non solo le norme specifiche contenute nelle speciali leggi antinfortunistiche ma pure quelle che, seppure stabilite da leggi generali, sono ugualmente dirette a prevenire gli infortuni. 7 In estrema sintesi: i princìpi contenuti nel modello organizzativo e di gestione – in particolare, nel codice etico - devono condurre a determinare nel potenziale autore del reato la consapevolezza di commettere un illecito, la cui commissione è deprecata e definita contraria agli interessi dell’ente, anche quando apparentemente esso potrebbe trarne un vantaggio. Inoltre, grazie ad un monitoraggio costante dell’attività, le soluzioni organizzative e gestionali adottate devono consentire all’ente di prevenire o - in caso di impossibilità di prevenzione - di reagire tempestivamente per impedire la commissione del reato. IL COINVOLGIMENTO DEI LAICI L’attuazione del modello organizzativo permette indubbiamente un più penetrante controllo sulle condotte di tutti coloro che operano per l’ente. In particolare, il codice etico consente di imporre comportamenti e buone prassi di lavoro, nonché di sanzionare disciplinarmente, finanche con il licenziamento, le più gravi inosservanze. Il codice etico può rivelarsi uno strumento efficace, non soltanto per presentare l’ente ai terzi con la sua identità, ma pure per rendere effettivi sia l’adempimento da parte dei laici dell’obbligazione di coerenza dei loro comportamenti lavorativi con la tendenza religiosa perseguita sia la vigilanza da parte dell’ente sulla fedeltà al carisma di chi è chiamato a concorrere alla gestione delle opere. La legge impone di adottare i modelli organizzativi con riferimento ad alcuni reati rispetto ai quali le attività gestite dagli enti ecclesiastici sono particolarmente «sensibili», sia per il coinvolgimento di bambini, di adolescenti, di portatori di handicap fisici e sociali, di lavoratori e collaboratori, sia per l’utilizzo dei sistemi di posta elettronica o di Internet da parte degli operatori. Si pensi, ad esempio, oltre ai reati connessi con la normativa antinfortunistica, ai delitti contro la personalità dell’individuo, nei quali sono compresi i reati di pornografia minorile e di detenzione di materiale pornografico; oppure ai reati commessi nei rapporti con la pubblica amministrazione (indebita percezione di erogazioni, concussione, corruzione, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, frode informatica). Qualora reati del genere fossero commessi da personale dell’ente, anche se non a vantaggio di questo, desterebbe comunque riprovazione nella società civile verificare che un ente ecclesiastico non abbia adempiuto ad una norma di legge che gli imponeva di adottare un sistema codificato di precauzioni e di vigilanza per prevenire la commissione degli illeciti e tutelare, così, i fruitori dei servizi affidati alle sue cure. In una fase storica contraddistinta dalla contrazione del personale religioso, che pone agli Istituti di vita consacrata ed alle Società di vita apostolica il problema della sostenibilità delle opere, l’adozione del modello organizzativo costituisce una misura da sola insufficiente, ma che potrebbe essere adottata 8 congiuntamente ad altre. E penso non soltanto alla riconoscibilità agli effetti civili delle case religiose, ma al ricorso a strumenti organizzativi moderni, quale ad esempio la certificazione di qualità dei sistemi gestionali; e pure a strumenti giuridici nuovi (le obsolete figure degli appalti o dei comodati sono spesso inconferenti ai bisogni), quali il contratto di affiliazione commerciale (legge 6 maggio 2004, n. 1219) o il negozio di destinazione (art. 2645-ter cod. civ., aggiunto dall’art. 39-novies D.L. 30 dicembre 2005, n. 273). Questo insieme di misure potrebbe costituire un’alternativa alla gestione delle opere in nome proprio ma per conto altrui, che purtroppo si realizza nei fatti quando la responsabilità viene assunta dall’ente, magari attraverso le firme apposte da chi ne ha la legale rappresentanza, ma le decisioni sono assunte da laici chiamati a divenire collaboratori direttivi, consulenti, consiglieri, amministratori di fatto; oppure alla chiusura o alla cessione delle attività, o all’adozione di strumenti giuridici gestionali - società di capitali, cooperative, onlus, fondazioni civilistiche, associazioni – che, talora necessari, sminuiscono però la riconoscibilità della natura ecclesiale delle opere, sottraggono gli enti gestori al regime concordatario, confliggono spesso con la necessità di assoggettare i beni ecclesiastici ai controlli canonici. Un’ultima riflessione al riguardo: il coinvolgimento dei laici nella gestione delle Opere richiede una capacità di guida e di controllo da parte dell’Istituto, proprio per evitare l’assunzione di responsabilità per fatti dei laici investiti di funzioni apicali, che era esclusa in passato dall’adibizione alle Opere di solo personale religioso. Tanto più scarso è il personale religioso da adibire alla gestione delle Opere quanto più esso deve essere, a mio parere, anche professionalmente preparato. E al giorno d’oggi una sufficiente preparazione professionale - per la gestione consapevole ed efficiente di Opere che sono ormai considerate, anche dalla giurisprudenza, «imprese» a tutti gli effetti - non può aversi prescindendo da una cultura di base di livello universitario; è illusorio che la (pur indispensabile) frequenza, da parte dei religiosi e delle religiose, almeno di quelli che debbano essere investiti di compiti manageriali, di appositi corsi di formazione possa supplire alla mancanza di una preparazione di base più generale che, stante anche la qualità dell’offerta formativa scolastica, a mala pena un diploma di laurea riesce ormai a garantire. Le Suore infermiere o maestre all’inizio del secolo scorso erano donne che avevano studiato e che svolgevano un’attività oggettivamente professionale, quando in Italia il 49% della popolazione era analfabeta e di donne impegnate in un lavoro non agricolo e non industriale se ne contavano pochissime. Quelle Suore erano donne all’avanguardia. Questa posizione va recuperata, ovviamente con riferimento al ben diverso livello di cultura e di professionalità espresso dalla società contemporanea. 9 Mi rendo conto che ciò comporta scelte congregazionali foriere di non pochi problemi, che derivano dalla difficoltà di coniugare tutto ciò con il fine di religione e di culto delle famiglie religiose. Ritengo, tuttavia, che quando queste scelte, per la necessità del perseguimento di quel fine ben superiore, si indirizzassero altrimenti, e la presenza di religiose in grado di gestire con professionalità e preparazione specifica le Opere affidate quasi per intero a personale laico non fosse assicurata, meglio sarebbe disgiungere la responsabilità dell’Istituto da quella dei laici effettivi gestori della singola Opera. Meglio separarsi dalla gestione dell’Opera piuttosto che divenire strumenti inconsapevoli delle decisioni altrui e rendere l’Istituto responsabile di atti organizzativi e gestionali solo apparentemente adottati da membri dell’ente ecclesiastico ma, di fatto, concepiti e voluti da persone, senz’altro corrette ed in buona fede, ma non legate all’Istituto con il vincolo che solo i voti pronunciati possono assicurare. 10