DINAMICHE DEI GRUPPI IN CONTESTI ISTITUZIONALI
Facoltà di Medicina e Psicologia
Sapienza Università di Roma
Prof. Claudio Neri
Anno accademico 2011-2012
12 ottobre 2011
Storia della terapia di comunità.
“Ripa Grande” : storia e attualità.
Il lavoro preparatorio per avviare un gruppo terapeutico nell’ambito di un’Unità ad alta intensità terapeutica*.
Relatori: Maria Grazia Capulli, Marta Scandurra*, Ivana Mazzotti*
Psichiatri e psicoterapeuti presso la Struttura Residenziale ad Alta Intensità Terapeutica (SRAIT) “Ripa Grande” del
Dipartimento di Salute Mentale della ASL RmA.
Abstract
Obiettivo:si descrive un‟esperienza di intervento terapeutico comunitario ad alta intensità del gruppo di lavoro di “Ripa
Grande”.
Metodo: partendo dalla storia della terapia di comunità si accenna alle esperienze pionieristiche inglesi, statunitensi,
francesi e italiane tentando una lettura storica dell‟evoluzione del gruppo di operatori di Ripa Grande: dei cambiamenti
degli obiettivi di lavoro, delle modalità d‟intervento, del tentativo di creare un gruppo di lavoro e delle difficoltà verso il
consolidamento di un‟identità di Servizio orientata in senso psicoterapeutico.
Conclusioni: il Servizio ha definito i confini della sua funzione, cresce conoscendo meglio le dinamiche interne ed
esterne, accetta l‟insaturazione delle sue aspettative con l‟obiettivo di migliorare le sue capacità di svolgere il compito
che si è dato.
Parole chiave: gruppo di lavoro, compito istituzionale, terapia comunitaria, lavoro di gruppo.
Le origini delle comunità terapeutiche.
L‟evoluzione storica della terapia di comunità (Glasser,1977) inizia dalle prime testimonianze di una comunità
di guaritori di “malattie dell‟anima inguaribili” in un periodo tra il 25 AC e il 45 DC. Filo Judeo scriveva, in
Alessandria d‟Egitto, che “sono chiamati terapeutae e terapeutides….perché praticano un‟arte della medicina migliore
rispetto a quella normalmente praticata nelle città in quanto quest‟ultima cura solo il corpo mentre l‟altra cura le
anime…” (A. Lombardo,2007).
Possiamo dire che vi sono due momenti storici, il 1796 (trasformazione culturale in seguito alla rivoluzione
francese) e il 1946 (adattamento ai cambiamenti causati dalla IIa Guerra Mondiale) a cui si ricollegano gli inizi del
nostro operare.
Le comunità si svilupperanno in Gran Bretagna secondo il modello della prima comunità terapeutica, “The
Retreat” di York, con una missione essenzialmente assistenziale. Fondata da William Tuke, quacchero commerciante
di spezie nel 1796, era costituita da un gruppo di persone “normali” che svolgeva le mansioni quotidiane e di assistenza
ai più bisognosi con una trentina di “malati di mente”operando secondo le tre R: Right, Respect, Responsibility.
I movimenti culturali all‟inizio del XX° Secolo, in particolare in Inghilterra e negli Stati Uniti d‟America,
portarono allo sviluppo di una psicologia che passava dal binomio nei rapporti terapeutici individuali alla dimensione
del gruppo sociale. Si delinea una differenza nell‟approccio alla riabilitazione psichiatrica, per alcuni ancora presente,
tra paesi anglosassoni e paesi latini. In questi ultimi (Racamier, Sassolas, Ciompi) appare più importante la terapia
individuale pur in un contesto terapeutico di gruppo mentre nei primi si enfatizza la cultura dei valori della vita di
gruppo e l‟estensione della responsabilità della gestione del malato alla collettività.
Ricordiamo le esperienze iniziate negli anni ‟30 da H.S. Sullivan che pone le basi di ciò che successivamente
sarà chiamato “Milieu Therapy”ovvero un trattamento socio-psichiatrico un cui lo staff medico e paramedico prepara un
“sympathetic environment” includendo gli altri pazienti e il personale nel trattamento. Si arriva così agli interventi di
socioterapia di M. Jones, alle esperienze del Mill Hill (Londra) e del Northfield Hospital con W. Bion a Birmingham.
Dai reparti per la terapia dei veterani di guerra e iniziarono le esperienze di terapia di gruppo: ricordiamo il Cassel
Hospital (Tom Main) e la Tavistock Clinic. Negli USA possiamo menzionare le comunità terapeutiche per adolescenti a
forte impronta pedagogica: H. Lane e T. Burrow che utilizza prevalentemente il “gruppo” come strumento che
“influenza potentemente lo stato di salute e di malattia”.
A partire quindi, dagli anni trenta l‟interesse sociale e scientifico per le dinamiche interne ai gruppi e alle
organizzazioni acquista sempre maggiore importanza sotto la spinta della particolare congiuntura storico-politica e
socio-culturale dell‟epoca. La logica dell‟efficienza produttiva in ambito militare e industriale, l‟ascesa dei regimi
totalitari e infine, la guerra concorrono a sollecitare l‟uso del gruppo e la sua conoscenza come strumento di intervento e
di trasformazione. In ambito psicoanalitico, questo mutamento dà origine a quella miriade di esperienze in istituzioni
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psichiatriche e non, in Europa, Stati uniti, America Latina, che cambiano radicalmente il modo di lavorare e pensare al
rapporto individuo-gruppo-istituzione.
L’esperienza di Northfield.
L‟esperienza della comunità terapeutica ad orientamento psicodinamico nacque in Gran Bretagna grazie alla
fortunata compresenza di Wilfred Bion, John Rickmann, Elliot Jacques, Tom Main, S.Foulkes (M. Vigorelli,
1998).
L‟invenzione del metodo comunitario e gruppale di prendersi cura della sofferenza psichiatrica promuove un
allargamento degli orizzonti teorico-clinici nella concezione della malattia mentale arrivando a coglierne così la radice e
le complicazioni interpersonali e gruppali. Tutto questo ha un‟importante ricaduta sul lavoro clinico che è chiamato ad
operare contemporaneamente su più livelli correlati : individuale, familiare e gruppale; fantasmatico e organizzativo; di
rapporto individuo-gruppo e individuo-gruppo-istituzione.
All‟inizio della guerra molti psichiatri, analisti e studiosi di scienze sociali si arruolano nei Medical Corps
dell‟esercito e iniziano a occuparsi di attività terapeutiche rivolte all‟individuo e al gruppo e alla cultura dell‟istituzione.
Si adottano nuovi modelli di pensiero, provenienti in gran parte da Kurt Lewin e da altri psicologi della Gestalt,
riguardanti il lavoro con e sui gruppi. Rayner annota che durante la prima parte del conflitto un grande esercito
stazionava in Gran Bretagna, in attesa: addestramento duro ma anche noia. La si affrontò con la modalità di consentire
che ogni unità trascorresse parecchie ore alla settimana a discutere con i suoi ufficiali di avvenimenti di carattere
generale. Questa era l‟unica occasione in cui i soldati erano liberi di discutere con i superiori, anzi erano invitati a farlo:
un‟esperienza di uguaglianza nell‟ambito dell‟esplorazione tramite il pensiero. Molti ufficiali però si opposero
ritenendola un‟operazione sovversiva. Comunque in quel momento, evitò la noia e risollevò il morale. Dunque, la
premessa è questo ambiente militare in cui si era diffusa l‟abitudine al dialogo e alla discussione in gruppo.
Il primo esperimento a Northfield ha come protagonisti Bion e Rickmann (1942) chiamati a dirigere il Training
Wing, reparto militare di addestramento e riabilitazione dedicato alla cura dei soldati vittime di nevrosi di guerra allo
scopo di restituirli ai doveri militari. Utilizzano la “field theory” di Kurt Lewin. allo scopo di individuare prassi
psichiatriche capaci di sviluppare il più possibile le risorse del gruppo, portatore di uno scopo comune, in funzione del
quale vanno valorizzati i singoli contributi individuali e non viceversa. Il gruppo, se si mobilita come unità, attiva
risorse di gran lunga superiori a quelle messe in moto dalla cura del singolo. La terapia deve essere considerata come un
problema del gruppo e gli interventi del terapeuta devono essere incentrati sul gruppo. Un gruppo ha ragione di esistere
quando ha un compito nei confronti del quale si sviluppano, inevitabilmente, delle tensioni contrapposte, alcune
facilitanti e altre in opposizione. Le forze oppositive, a Northefield, assumono l‟aspetto del caos perché Bion aveva
stabilito che tutti gli uomini effettuassero un‟ora al giorno di addestramento fisico e fossero membri di uno o più gruppo
destinati allo studio di un mestiere. Secondo gli interessi che di volta in volta si manifestavano, gli individui potevano
formare nuovi gruppi per sviluppare una particolare attività. Si effettuavano riunioni giornaliere con tutti i pazienti, con
il personale incaricato e con i direttori per la discussione dei programmi, dei problemi e dei provvedimenti da prendere
per risolverli. Bion e Rickmann sottovalutarono l‟importanza e la forza delle resistenze del gruppo dirigenziale
dell‟ospedale, il conflitto tra cultura e compito di impronta militare del gruppo da loro istituito e la cultura e mandato
del‟ospedale orientati a privilegiare il benessere del singolo.
Da quest‟esperienza e da quella, successiva, alla Tavistock Clinic di Londra, Bion trasse alcune conclusioni:
-la gruppalità è intrinseca allo psichismo individuale.
-Il gruppo ha una sua mentalità : attività mentale collettiva prodotta quando si è in gruppo, il gruppo funziona
come un‟unità anche se gli individui non se lo propongono e si articola su due livelli di funzionamento:
1) il livello del compito che si identifica con il gruppo di lavoro, ancorato alla realtà. Non esiste
gruppo senza un compito consapevole per il quale sono necessari collaborazione, impegno e addestramento specifico
(tolleranza della frustrazione, razionalità pragmatica e controllo delle emozioni) ovvero l‟uso sistematico dei processi
psichici secondari (memoria, percezione, giudizio e orientamento);
2) il livello primario o regressivo degli assunti di base ad alto contenuto fantasmatico-emotivo: gli
individui riuniti in gruppo si trovano, sotto la pressione dei processi regressivi indotti, ad agire per “valenza” ovvero, a
condividere e operare in modo istantaneo e involontario secondo gli assunti di base. La cooperazione cosciente dei
membri del gruppo comporta inevitabilmente una circolazione emotiva e fantasmatica inconscia che può paralizzarla o
enfatizzarla. Gli assunti di base sono: dipendenza (il gruppo ha bisogno di protezione e conforto dal leader che viene
idealizzato; se il leader accetta questo ruolo il gruppo può vivere senza conflitti interni); attaco-fuga (il gruppo lotta
sempre contro qualcosa o in difesa di qualcosa individuando un nemico esterno; per accettare questo compito il leader
deve avere tratti di personalità paranoica) e accoppiamento (i membri del gruppo hanno un atteggiamento di attesa di
qualcosa di risolutore: un‟idea nuova o un oggetto idealizzato).
La coesistenza del gruppo di lavoro con il gruppo di base è inevitabile e perenne e determina un conflitto che si
rinnova e ricorre nel gruppo, permeandone l‟organizzazione, ovvero la cultura del gruppo. Sorge dalla dialettica e dal
conflitto tra la mentalità del gruppo e i desideri del singolo. Non vi è conflitto tra gli assunti di base ma un‟alternanza
che può essere evolutiva o determinata dal gruppo di lavoro (razionale).
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Successivamente Bion integrerà questi concetti e rileggerà le dinamiche gruppale e organizzativa inserendole
in una prospettiva in cui il gruppo oscilla fisiologicamente tra la posizione di base e quella emozionale-fantasmatica con
la possibilità di integrare le due dimensioni: quella raziocinante e quella emotiva.
Le emozioni non sono più sentite come un intralcio all‟operatività ma in certi casi costituiscono la forza
propulsiva di cui il gruppo si impregna ed è portatore. Così l‟idea nuova, portata dall‟innovatore con un nuovo
percorso, ha necessità di un contenitore, il gruppo, per essere accolta, fatta vivere ed evolvere. Per questa finalità il
gruppo deve dotarsi di strumenti stabili per consentire il contenimento dell‟idea e la continuità dell‟esperienza gruppale.
Il gruppo tende quindi a darsi un‟organizzazione e delle norme, trasformandosi in un‟istituzione. L‟istituzione, che
sostituisce il concetto di gruppo di lavoro specializzato, ha la funzione di accogliere e custodire il nucleo ideativoemozionale intorno a cui si organizza la vita e la sua storia.
Dopo Bion, a Northfield arriva S. Foulkes che lavora per istituire il gruppo come forma di psicoterapia
praticata dal gruppo nei confronti del gruppo, incluso il suo conduttore. Ciascun individuo è portatore della propria
esperienza di rapporto con i propri gruppi interni di appartenenza (famiglia ristretta, allargata; scuola, gruppo sociale
allargato,etc). Mentre Bion concepisce il gruppo in funzione di un compito, Foulkes lo considera sempre e comunque
uno strumento terapeutico. La personalità e la sua psicopatologia hanno una dimensione multipersonale, entrambe si
costituiscono attraverso reti interattive di relazioni. Queste acquisiscono una dimensione, come comunicazioni inconsce
interattive, e attraversano tutta la vita psichica e sociale.
Il gruppo viene qui visto some un sistema, originato dall‟incontro dei sottosistemi dei singoli membri e
dell‟analista stesso che produce una rete di comunicazione inconscia e dà senso condivisibile a tutti gli eventi che
accadono e che è sempre il risultato della compresenza di quelle persone in quel preciso momento delle loro esistenze
personali, private,sociali e professionali.
Con l‟aiuto di Tom Main, parte a Northfield il primo tentativo di strutturare, volontariamente e non per caso,
una comunità terapeutica aperta. Main considera che l‟attuazione di ogni trasformazione richieda di lavorare
dinamicamente con l‟intera istituzione intesa come sistemi interdipendenti. La Comunità Terapeutica (CT) a Northfield
è un tentativo di utilizzare l‟ospedale non come un‟organizzazione gestita dai medici con l‟interesse rivolto ad una
maggiore efficienza tecnica, bensì come una comunità con l‟obiettivo immediato di una piena partecipazione di tutti i
suoi membri nella vita quotidiana e il cui ultimo scopo è la risocializzazione dell‟individuo per permettergli di vivere
nella società. Questa prima definizione di CT accoglie i due cardini del pensiero di Main: la prospettiva psicoanalitica
delle relazioni d‟oggetto e la visione sistemica dei processi organizzativi.
Il Cassel Hospital
Dopo Northfield, Main è nominato direttore del Cassel Hospital dove istituisce una comunità terapeutica
psicoanaliticamente orientata, una comunità-ospedale modello capace di autoesaminarsi in tutte le sue strutture. Il
setting del Cassel viene strutturato intorno a due aree distinte ma interrelate:
-lo spazio della psicoterapia e
-la comunità terapeutica con una precisa pratica di accudimento, detto “psychosocial nursing”, in cui la
comprensione viene fornita al paziente attraverso parole e azioni meditate e sollecitate. In questo “spazio” di vita e di
lavoro, ogni paziente ha un infermiere referente, nurse, responsabile riferimento di circa cinque pazienti. Centrale è il
concetto di ambiente terapeutico: ogni evento quotidiano viene finalizzato a scopo terapeutico. L‟interazione continua
con il personale in piccoli o grandi gruppi, più o meno strutturati, permette di contenere e confrontare le dinamiche
disfunzionali e i comportamenti disturbanti dei pazienti. La loro patologia viene inevitabilmente agita all‟interno
dell‟ambiente della comunità ma le continue risposte date, che differiscono da quelle cui sono abituati nel loro conteso
sociale, li aiutano a ristrutturare il loro mondo interno e a trovare nuovi modi di essere con gli altri e , dunque, con sé.
Comunità Terapeutiche negli Stati Uniti d’America.
Negli Stati Uniti d‟America possiamo prendere in considerazione tre esempi di istituzioni terapeutiche: il
Chestnut Lodge Hospital, la Menninger Foundation e il Centro di Austen Riggs.
Il Chestnut Lodge Hospital.
Fondato nel 1908 vicino Washington, si configura dal 1933 e per cinquant‟anni, come un laboratorio clinico e
di ricerca per la diagnosi e la cura dei gravi disturbi psichiatrici attraverso la partecipazione della Fromm-Reichmann, di
Sullivan, Searles, Pao, Feinsilver e altri che si sono avvicendati con varie funzioni influenzando il dibattito sul modello
di comprensione delle psicosi e del loro trattamento nel quadro dell‟alleanza tra psicoanalisi e psichiatria. Rappresenta
un modello di integrazione forte tra psicoanalisi e prassi psichiatrica istituzionale. La sua istituzione sperimentale ha
dovuto fare i conti nel corso degli anni con i vincoli imposti dalle trasformazioni socio-culturali esterne e con le
difficoltà connesse al contatto con la psicosi e le sue ripercussioni sulle famiglie dei pazienti e sul personale addetto
all‟assistenza.
A partire dal 1933 Dexter Bullard, figlio del precedente direttore, inaugura un progetto di trasformazione in
ospedale psicoanalitico. L‟intento è quello di verificare l‟applicabilità della terapia psicoanalitica alle psicosi. Questa
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scelta incide sull‟impostazione organizzativa del lavoro: la presa in carico iniziale, secondo i canoni classici, pone il
quesito se sia possibile coniugare le condizioni del setting analitico (colloquio riservato, regolarità spazio-temporale,
neutralità, astinenza, etc.) con l‟agire sollecitato dalle indicazioni assistenziali e dalle pratiche di accudimento della vita
quotidiana. L‟incompatibilità tra queste due funzioni, sentita sin dal primo staff di curanti, orienta la scelta verso due
figure diverse di riferimento: il “therapist” con funzione terapeutica e l‟”administrator” con funzione di gestione di
tutti gli altri aspetti, dalla somministrazione dei farmaci alle attività riabilitative nonché il coordinamento delle altre
figure professionali. Così, ancor prima degli anni ‟40, qui arriva il sistema di cura “integrato” che attualmente si va
sempre più diffondendo in Europa.
Questo modello resse finché il gruppo non superò i 7 reparti, i 20 medici e i 100 pazienti. e finchè non arrivò
una nuova generazione di terapeuti. Nascono quelle dinamiche conflittuali, competitive e scissionali che portano, negli
anni ‟50, ad una revisione complessiva dell‟organizzazione. Si mettono in discussione molti stereotipi, si introducono
momenti sistematici di discussione, confronto e supervisione e si introduce anche un assetto gerarchico separato per le
due funzioni, clinica e gestionale.
Comincia un‟esperienza di “osservazione partecipata”, attraverso un gruppo di ricercatori esterni,
guidata da uno psichiatra e da un sociologo. Questo aiuta lo staff a riconoscere e a mettere in discussione una serie di
credenze stereotipate su cui si fondava la prassi quotidiana di rapporto con il paziente. Si evidenziano altresì gli effetti
che il tipo di organizzazione ha sul comportamento dei pazienti e dello staff, effetto di “campo multindividuale”. La
mancanza di coerenza dei componenti il gruppo curante con i pazienti crea conflitti e incentiva l‟espressione
psicopatologica.
Alla fine degli anni ‟50 inizia la sperimentazione di una gestione clinica di tipo comunitario in uno dei
reparti: lo dirige lo psicoanalista Woodbury che successivamente fece la stessa cosa a Ginevra su invito di Racamier ed
infine collaborò con Racamier nella Struttura del XIII° Distretto. I sette anni di esperienze, le crisi, i conflitti e le
osservazioni quotidiane mettono a fuoco una corrispondenza isomorfica tra metodi clinici adottati, dinamiche di gruppo
ed espressione psicopatologica nei pazienti. Questo percorso gruppale si integra con la psicoterapia individuale.
Negli anni ‟70 il Chestnut Lodge, diretto da Ping-Nie Pao, produce un modello teorico-clinico “comprensivo”
dei disturbi schizofrenici i cui punti salienti sono
la valorizzazione della diagnosi differenziale;
la selezione del terapeuta più adatto per ogni paziente (il “matching”);
la necessità di altri tipi d‟intervento oltre alla psicoterapia (rimedicalizzazione);
il modello biopsicosociale dell‟etiopatogenesi della schizofrenia e
un approccio integrato alla terapia.
Di Pao è anche la classificazione della schizofrenia in quattro sottotipi utilizzando una prospettiva geneticoevolutiva dello sviluppo emotivo utilizzando come criteri la storia della famiglia, la crescita e lo sviluppo nell‟infanzia e
nella latenza, l‟integrazione sociale pre-morbosa e l‟età dell‟esordio. I primi tre tipi sono in ordine di gravità crescente;
l‟ultimo raggruppa i pazienti cronici di tutti e tre i sottotipi, pazienti che sono diventati tali spesso per non aver potuto
usufruire di un trattamento adeguato.
Nel 1994 il Chestnut Lodge viene acquitato da una compagnia no profit impegnata nella prevenzione e nella
salute mentale. I Servizi si diversificano: ambulatoriali e di day hospital, prevenzione sul territorio e attenzione non solo
ai pazienti gravi e loro famiglie ma all‟intera comunità locale. La farmacoterapia acquista maggior spazio pur senza
soppiantare la psicoterapia ad orientamento analitico.
La Menninger Foundation.
Prestigioso centro comprensivo per la cura, la ricerca e la formazione nell‟ambito della salute mentale. Dal
2000 si dedica quasi esclusivamente al trattamento intensivo-residenziale con programmi specifici di trattamento per
bambini, adolescenti e adulti per diversi disturbi, con una valutazione diagnostica su vasta scala mentre ha delegato i
servizi di prevenzione e di assistenza territoriale ad altri fornitori locali.
Gli aspetti qualificanti della Menninger:
un modello biopsicosociale della psicopatologia, un approccio multidisciplinare e integrato alla diagnosi e al
trattamento, un approccio integrato centrato sul paziente nel suo ambiente di vita, un rapporto forte e fecondo tra cura,
formazione e ricerca sostenuto da costanti collegamenti con il mondo accademico e con le istituzioni di cura nazionali.
Ha perseguito con convinzione la via del trattamento terapeutico ambientale nella clinica della malattia mentale:
l‟ambiante complessivo di vita è usato nel trattamento. Stabilisce un programma curriculare accademico per la
formazione specifica di operatori: infermieri, psicologi, psichiatri, operatori sociali). Hanno contribuito allo sviluppo e
alla ricerca delle modalità d‟intervento O.Kernberg, R.Wallerstein, L. Luborsky, G. Klein, M. Gill e G. O.
Gabbard.
Il Centro di Austen Riggs.
Si tratta di un piccolo ospedale psichiatrico privato e senza scopi di lucro nel centro della città di Stockbridge
(Massachusets) fondato nel 1919 e attualmente diretto da E. Shapiro. Abbiamo ascoltato la sua relazione sul
“Trattamento psicodinamico della Resistenza”: l‟Examined Living, il 30 settembre u.s. a Milano, al Convegno
organizzato dall‟Associazione “Mito e Realtà”.
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Comunità Terapeutiche in Francia.
Diverse esigenze si vengono delineando in Francia a partire dal primo decennio del XX° Secolo:
-la necessità di differenziare la cura dall‟assistenza e di svolgere un‟attività preventiva e una di postcura,
-la centralità dell‟interazione tra malato e ambiente e tra curante e paziente,
-l‟esigenza di una presa in carico psicoterapeutica che richiede una continuità nel tempo.
Per tentare di rispondere a tutte queste necessità tra gli anni 1945-47 si delinea la concezione di “settore” come
“territorio a misura d‟uomo”. Notevole il contributo della psicoanalisi all‟evoluzione della psichiatria francese.
Menzioniamo tra gli altri, Ey, Diatkine, Lebovici, Kestemberg, Racamier, Paumelle e Sassolas.
Si parla di èquipe multidisciplinare che opera sul territorio, in costante raccordo con la rete ospedaliera, per
conoscere l‟ambiente e creare una rete o collegamento tra le risorse per lavorare ad un reinserimento sociale del malato
con strategie di accompagnamento.
Racamier fonda a Besancon, nel 1968, la comunità “La Velotte-Hopital de Jour” quale concreta possibilità di
integrazione tra prassi psichiatrica e metodo psicoanalitico. La terapia per la psicosi deriva dall‟organizzazione
intrinseca della cura che rianima le“complementarietà contraddittorie”: responsablità/sicurezza e
continuità/discontinuità. Termini come mutualità, transizionalità, azione parlante diventano importanti e si diffondono.
Sassolas fonda, nel 1968, a Villeurbanne (Lione) l‟Association Santé Mentale et Communautès de
Villeurbanne (SMC). Si tratta di una complessa organizzazione di presidi di cura: ambulatoriali, residenziale e
semiresidenziale per pazienti psicotici e borderline, con l‟obiettivo di realizzare un sistema integrato di cura, strutturato
e flessibile, che possa gestire i momenti di crisi e accompagni il paziente dalla presa in carico iniziale al reinserimento
sociale. Vi è la comunità terapeutica “La Baisse”(1979), il centro crisi di tipo comunitario (MAP) e il foyer
d‟hebergement “Le Florian”.
L’esperienza in Italia.
Le prime comunità terapeutiche nascono negli anni „60, fortemente influenzate dalla diffusione delle teorie
psicoanalitiche dei gruppi; non avranno un grande avvenire e non produrranno indicazioni teoriche precise a cui si possa
fare oggi riferimento. Successivamente, sul finire degli anni „70, sotto le spinte delle trasformazioni socioculturali che
porteranno alla legge Basaglia e alla chiusura dei manicomi, le comunità ritorneranno in auge e diverranno le strutture
di transizione per consentire l‟effettiva dimissione dei pazienti dai grandi comprensori manicomiali. (M. De Crescente).
Nell‟orizzonte Basagliano non sarebbe dovuto più esistere uno spazio sociologico, qualsiasi esso fosse, che
definisse la follia e la escludesse dal consorzio umano. La legge 180 pertanto non definisce né suggerisce particolari
caratteristiche delle comunità terapeutiche poiché queste sarebbero dovute esistere esclusivamente nel tempo di
transizione intercorrente tra la chiusura degli ospedali psichiatrici e il reinserimento nella società. La storia racconta
una diversa evoluzione e, in altri paesi dove le mura degli ospedali psichiatrici non furono abbattute, come la Francia e
l‟Inghilterra, l‟abominio del manicomio obbligò le menti più lucide ad indirizzare ogni sforzo verso istituzioni
alternative la cui funzionalità, raggiunta tramite i principi di critica della violenza istituzionale, democrazia e tolleranza,
dimostrasse che un cambiamento culturale era possibile. Non può considerarsi quindi un caso che negli anni „60 alcuni
psichiatri, come Laing e Cooper in Inghilterra e Guattarì in Francia, che diverranno in seguito piuttosto famosi per loro
teorie critiche nei confronti della psichiatria, orienteranno le loro ricerche verso modelli innovativi di comunità
terapeutiche. Il lascito di idealità di queste esperienze fa sentire ancor oggi la sua influenza e permette a chi lavora in
questo ambito di interrogarsi sugli aspetti centrali ma spesso dimenticati della sofferenza umana. Date queste premesse
si può provare ad inferire la differenza tra due differenti concezioni utopiche che abbiamo qui voluto prendere in
considerazione. Fatta salva l‟assoluta specularità dell‟idea radicale di trasformazione delle istituzioni psichiatriche degli
autori citati, mentre Basaglia ripone le sue aspettative in trasformazioni sociali radicali che avrebbero dovuto investire
la società intera, Laing, Cooper e Guattarì sembrano orientare maggiormente la loro attenzione sulle comunità
terapeutiche come modelli sociali tolleranti e non escludenti, modelli pilota per così dire, a cui la società avrebbe
dovuto guardare per apprendere nuove forme di socialità.
Oggi in Italia, grazie alla legge 180, che ha permesso il proliferare di queste esperienze, si sta iniziando a dare
avvio ad una singolare tradizione tutta italiana di comunità terapeutica che per la sua originalità e per il suo carattere di
movimento suscita un certo interesse in ambito internazionale. L‟orizzonte utopico di queste nuove comunità
terapeutiche è la loro “intermediarietà”, il loro essere terre di mezzo, quindi zone di passaggio e attraversamento, che
trasformano i confini e ridefiniscono i limiti concettuali, psicologici ed emotivi.
La varietà e complessità dei quadri psicopatologici di cui ci si deve occupare ha reso necessario l‟ampliamento
delle competenze delle psicoterapie e dei relativi setting. Nell‟analisi della realtà psicopatologica della persona non si
può considerare soltanto la struttura individuale; una disamina delle reti relazionali più prossime quali quella familiare,
del gruppo di riferimento e di quelle della propria socio-cultura di appartenenza, diventa importante corollario alla
possibilità di valutare correttamente i bisogni terapeutici della persona. In linea con queste considerazioni tendono
inoltre a confluire i differenti approcci e i vari vertici di osservazione verso un‟ottica integrata e globale.
L‟intervento comunitario nelle strutture residenziali si caratterizza per:
- la continuità del rapporto Paziente-Comunità: la presa in carico della persona e dei suoi bisogni fondato sulla
relazione prolungata nel tempo e intensiva nel quotidiano, all‟interno di una situazione gruppale permanente e, per
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-la discontinuità del rapporto Paziente-Famiglia: il temporaneo allontanamento (ma non assoluto) dalla
famiglia, nei casi in cui questo sia necessario per il trattamento.
La nostra esperienza come struttura residenziale ad alta intensità terapeutica, ci ha suggerito dei criteri selettivi
per i quali l‟uso dell‟intervento residenziale, breve ed intensivo, sia soprattutto finalizzato in senso preventivo:
secondario o terziario, ma anche terapeutico per un‟utenza in grado di usufruire realmente di un‟offerta terapeuticoriabilitativa attivante e trasformativa.
Della terapia in comunità pare giovarsi, con ottimi risultati, soprattutto quella parte di pazienti psicotici giovani
“con potenzialità evolutive”, con i quali sia possibile costruire un‟alleanza di lavoro e una continuità terapeutica
sufficientemente propedeutica a un lavoro sempre più mirato di ricostruzione, ristorificazione e abilitazioneriabilitazione di capacità personali e sociali, e per i quali è consigliabile un distacco temporaneo dal contesto familiare,
pur coinvolgendo la stessa famiglia nel progetto terapeutico. Un lavoro quindi basato sulla relazione e sulla
partecipazione quotidiana ad un contesto gruppale.
Dopo la segnalazione di un paziente, si valuta la compatibilità dell‟intervento comunitario ai bisogni cui
s‟intende tentare di rispondere; si cerca di comprendere quali progetti è possibile attivare e a quali rischi di neoistituzionalizzazione si può andare incontro. A questi rischi si riferiscono le critiche più aspre dell‟intervento
comunitario in particolare nella fascia giovanile.
L‟orientamento psicoterapeutico di una CT è dato anche dalla capacità dei suoi operatori di integrare gli
interventi multidisciplinari, di modificare e adattare i propri presupposti storico-fondativi e i modelli d‟intervento
all‟interno di una continuità che la rende così “fluida” e flessibile, capace di allestire situazioni di cura nella
consapevolezza dell‟importanza del campo d‟intervento condiviso tra gli operatori e coerentemente restituito al
paziente.
Molto importante è l’attenzione alla quotidianità e al clima terapeutico della comunità: interazioni, relazioni
nei momenti non strutturati che sappiamo quanto incidono sul percorso terapeutico di ogni ospite. Questo fattore è a
corollario del precedente poiché assumiamo l‟appartenenza al campo mentale come elemento trasformativo. Infatti
l‟osservazione e l‟attenzione al clima quotidiano della comunità e ai movimenti dell‟ospite al suo interno nelle
situazioni più informali, diventano indicatori significativi della qualità del lavoro terapeutico della comunità.
Pertanto la più evidente differenza tra la situazione della CT e ogni altra terapia risiede proprio nello strumento
osservativo che la residenzialità costituisce per i curanti: la quotidiana e compartecipata frequentazione della psicosi ci
costringe a rapide ed impensate integrazioni, a brusche revisioni, proprio perché ciò che è sotto i nostri occhi è l‟ “agito
della mente”. È per questo che, nella quotidiana prassi di una CT, l‟équipe è costantemente sottoposta a sollecitazioni
“psicotizzanti” che ripropongono al suo interno gli insanabili conflitti di cui sono portatori gli ospiti residenti: da qui ha
inizio la terapia.
L’esperienza a Ripa Grande: trattamento breve, intensivo, psicoterapeutico
Dall‟aprile 2008 abbiamo gradualmente costruito un luogo-ambiente, dedicato alle persone giovani che
attraversano una crisi emozionale o si trovano in uno stato mentale a rischio oppure hanno avuto già un primo episodio
psicotico, dove l‟obiettivo è intervenire per catalizzare quei processi che favoriscono le trasformazioni evolutive per
“far ripartire e ampliare il processo di soggettivazione”(A. Novelletto) e rendere possibile la costruzione di „un posto
per l’Io e per l’altro’, nel mondo interno e nel mondo esterno (A. Ferruta).
L‟età dei nostri ospiti è compresa tra i 18 e i 30 anni; ciò comporta la necessità di comprendere le tematiche
dell‟adolescenza e di utilizzare questo luogo come uno spazio-tempo “intermedio”: dimensione dell'esperienza psichica
che fa da ponte su una discontinuità (D. Winnicott, 1971; R. Kaes, 1979).
La nostra Comunità rappresenta l‟anello di congiunzione tra Ospedale (SPDC) e Territorio nelle situazioni di
post-acuzie in cui il giovane paziente accede con maggiore disponibilità ad una cura comunitaria della durata di tre mesi
rispetto a proposte di più lungo termine. Si propone anche d‟intervenire sugli episodi pre-crisi in pazienti già in cura sul
Territorio.
Così Ripa Grande diventa il luogo dove comprendere l‟angoscia del paziente e della sua famiglia. E‟ qui che si
può riflettere su quanto accaduto, “accompagnati”, e dove cercare di costruire una risposta insieme al Territorio,
sollevato dal “dover fare” in tempi rapidi. Qui si possono “ricomprendere” tutti i possibili fattori che hanno determinato
la frattura critica della persona con la sua realtà (A. Ferruta).
Da qui anche la necessità di un lavoro parallelo con le famiglie includendole nel percorso terapeutico
comunitario (M.F.Gazale, M.Stuflesser, M.Vigorelli ). Il lavoro con le famiglie degli ospiti in comunità è integrato ed
essenziale al obiettivo terapeutico.
L‟organizzazione deve fornire una cornice di riferimento entro cui far muovere gli elementi trasformativi
possibili. “Ripa Grande” ha un Regolamento che tutti gli ospiti si impegnano a rispettare per il tempo del percorso,
stabilito con la sottoscrizione di un Accordo che comprende l‟impegno alla partecipazione al programma terapeutico
comunitario per raggiungere gli obiettivi terapeutici che paziente e famiglia condividono con i curanti invianti e con il
gruppo degli operatori della comunità.
La brevità del nostro intervento è accompagnata dall‟intensità del trattamento. Con ciò intendiamo la
molteplicità degli interventi che si articolano nel nostro percorso terapeutico che oltre allo spazio per i colloqui
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individuali e con la famiglia, pone particolare attenzione all‟organizzazione di un ambiente terapeutico con i laboratori
quotidiani in gruppo per facilitare la riappropriazione del contatto con la realtà, del graduale recupero delle capacità
relazionali e l‟avvio dei processi interni che portano all‟appropriazione del mondo esterno con significati propri.
Le attività, insieme al gruppo degli operatori, scandiscono la giornata comunitaria che comincia con la sveglia
alle ore 7:30. Gli infermieri e operatori socio-sanitari (oss) hanno questo compito affatto semplice: richiede tatto,
fermezza, t..e..n…a…c…i..a. Gli ospiti spesso hanno bisogno di essere aiutati nelle cure personali. Talvolta si
effettuano i prelievi ematici necessari e si somministra la terapia farmacologica prevista.
Alle 8:30 si fa colazione tutti insieme. I tre vitti arrivano pronti ma gli ospiti possono scegliere il proprio menù
con un‟anticipazione settimanale. Dalle ore 9 alle 10: il tecnico della riabilitazione con gli infermieri e oss in turno
conducono il gruppo di discussione mattutino. I ragazzi raccontano come hanno dormito, riferiscono eventuali problemi
che coinvolgono gli altri; se emergono riflessioni personali si invita l‟ospite e riferirle nello spazio individuale che ha
con il proprio referente. Talvolta si legge un quotidiano e si raccolgono suggerimenti per le uscite del sabato e la
domenica.
Dalle 7:30 alle 9.30 i ragazzi possono effettuare le telefonate che desiderano compatibilmente alle esigenze
degli altri ospiti. Utilizzano un telefono cordless per garantire loro uno spazio privato di comunicazione con l‟esterno
poiché l‟uso del proprio telefono cellulare non è consentito all‟interno della Struttura.
Le mattine sono utilizzate dai referenti clinici per i colloqui individuali: il contenitore del gruppo di ospiti
rimane attivo e in attesa che le persone tornino dai colloqui organizzando attività ludiche o attendendo alle attività di
riordino delle proprie stanze, sempre in presenza del personale di assistenza. Il martedì mattina vi è un laboratorio
artistico condotto dalle ore 10 alle 12 da una signora capace di relazionarsi con gli ospiti in modo piacevolmente attento
e flessibile: conosce il Servizio da anni, fa parte della nostra storia, attraverso l‟Associazione Volontari Ospedalieri
(AVO).
Coloro che non hanno colloqui programmati il mercoledì mattina possono uscire, sempre con il tecnico
riabilitazione ed un altro operatore, per piccole spese personali. Il giovedì mattina il tecnico riabilitazione conduce un
gruppo sull‟educazione alimentare e talvolta gli ospiti escono per andare al mercato.
Il mercoledì, dalle ore 11 alle 12.30, i ragazzi partecipano con grande attesa al gruppo psicoterapeutico
condotto da due psichiatri.
Generalmente durante le mattine si effettuano esami clinici o consulenze specialistiche se occorrono. Si pranza
tutti insieme intorno alle 12:30.
Dalle ore 13 alle ore 15 gli ospiti hanno il tempo libero: possono trascorrerlo in stanza o negli spazi comuni.
Alle ore 15 si somministra la terapia farmacologica. La tendenza è quella di procedere entro quattro-sei settimane di
percorso ad una somministrazione farmacologica unica e serale.
Durante i pomeriggi gli ospiti sono impegnati con laboratori terapeutico-riabilitativi: teatro, fotografia,
psicomotricità, arte terapia e danza-movimento terapia. Nel pomeriggio si effettuano altresì i colloqui con le famiglie.
Intorno alle 19:30 gli infermieri e oss, conducono un gruppo di discussione riepilogativo della giornata. Si cena
subito dopo e si programma il dopo-cena: tv, lettura, visione di un dvd.
Alle 22 si somministra la terapia farmacologica serale. Intorno alle 23 ci si avvia al riposo notturno.
Il sabato mattina generalmente si effettua un‟uscita più lunga. Si vanno a vedere mostre, si visitano musei o
luoghi di interesse culturale. Sabato pomeriggio è possibile andare al cinema. La domenica ha tempi più rilassati e gli
operatori con gli ospiti concordano le attività scelte da una serie di opzioni elaborate in gruppo durante la settimana. Gli
ospiti cominciano ad avere permessi per trascorrere del tempo a casa durante i fine settimana a partire dalla quarta
settimana di percorso.
Vi è una Riunione di Servizio settimanale che si effettua il martedì dalle ore 10 alle ore 14. Gli altri snodi per
le comunicazioni di servizio e per gli aggiornamenti clinici sono al mattino e all‟inizio dei turni pomeridiano e notturno.
La comunicazione scritta si avvale di tre Registri: per le comunicazioni tra Operatori, per le notizie sugli
Ospiti e per riferire i contenuti dei due Gruppi di discussione quotidiani. Inoltre vi sono due agende settimanali da
tavolo: una utilizzata dai referenti psichiatri ed una collocata in Medicheria: vengono aggiornate congiuntamente
durante la riunione settimanale per la programmazione generale di attività che riguardano gli ospiti e le loro famiglie.
Una funzione del Servizio, sollecitata dalle osservazioni dei Colleghi che operano sul Territorio nel corso di
questi primi anni di lavoro, è quella di facilitare il passaggio del paziente verso una comunità terapeutica estensiva.
Il nostro Dipartimento ha tre comunità terapeutiche estensive, con progetti terapeutici della durata dai due
ai quattro anni. I pazienti che presentano una patologia grave, dopo aver accettato un accordo terapeutico dai tre ai sei
mesi a “Ripa Grande,” maturano insieme alla loro famiglia la necessità di proseguire la terapia comunitaria e sviluppare
l‟espressione delle proprie potenzialità attraverso nuovi spazi temporali e nuovi interessi. In un‟esperienza più lunga nel
tempo si possono costruire opportunità di apprendimento e di ri-apprendimento delle capacità sociali, si può continuare
a lavorare per trovare un luogo interno ed esterno di appartenenza, di identità, di apprendimento di valori quali
partecipazione, solidarietà, dialogo, amicizia, amore. Si può soprattutto accettare i propri limiti e considerare non
catastrofiche eventuali ricadute, imparare a considerarle eventi della propria vita e conviverci sapendo che non vi sarà
un‟interruzione irreparabile dei propri progetti esistenziali.
A “Ripa Grande” i referenti dei pazienti si occupano sia degli interventi psicoterapeutici che di quelli
farmacologici.
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Abbiamo cercato e trovato la nostra specificità anche rispetto all‟organizzazione dipartimentale come previsto
dalle nostre Delibere istitutive: Delibera di Giunta Regione Lazio n. 424 del 14-07-2006) e Delibera ASL RmA n.953
del 29-07-2008, come Struttura Residenziale ad Alta Intensità Terapeutica (S.R.A.I.T.) a breve termine. Nel 2010
abbiamo avuto la richiesta di ampliare la competenza professionale per i Disturbi del Comportamento Alimentare
(DCA), sancita con delibera ASL.
Il Gruppo degli Operatori: oggi, la sua storia e le sue fasi.
Oggi.
Gli Operatori di “Ripa Grande”attualmente costituiscono un gruppo di sedici persone professionalmente
qualificate come psichiatri-psicoterapeuti (tre), tecnico della riabilitazione psichiatrica (uno), infermieri professionali
(otto) e operatori socio-sanitari (quattro). La presenza in Comunità è, per psichiatri (dalle ore 9 alle ore 18 nei giorni
feriali e fino alle 14 il sabato), per il tecnico della riabilitazione (dalle ore 9 alle 18, con articolazione flessibile e nei
giorni feriali), per infermieri e operatori socio-sanitari (oss), la presenza in Comunità è nelle 24 ore con turni di sette e
dodici ore, diurni e notturni, feriali e festivi.
La storia e le sue fasi.
Dal Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura alla Comunità Terapeutica.
Dapprima, il gruppo di operatori del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) aveva un compito
istituzionale definito e regolamentato da una Legge nazionale e da chiari rapporti istituzionali all‟interno dell‟Ospedale,
all‟interno del Dipartimento di Salute Mentale (DSM) e all‟esterno. Ha previsto la fine della propria funzione e ha colto
la necessità di un cambiamento per non “perdere” l‟esperienza acquisita, ha reso il cambiamento funzionale e utile, ben
accetto quindi al Dipartimento di Salute Mentale cui afferisce.
Nel passaggio da Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) a Comunità Terapeutica (CT) il gruppo ha
percepito la possibilità di una chiusura della Struttura, ha deciso quindi di trasformarsi e, dopo aver svolto
transitoriamente una funzione di Day Hospital, la CT ha trovato la sua vocazione come area terapeutica intermedia fra
la gestione delle situazioni di acuzie psichiatrica e quella delle situazioni psichiatriche stabilizzate.
Il gruppo di lavoro all’inizio dell’esperienza di Comunità Terapeutica
.
La CT è subito sollecitata a darsi in fretta competenze e metodologia e deve anche avere subito pazienti
altrimenti potrebbe essere soppressa. Costa troppo!
E‟ il Servizio nuovo con l‟importante funzione deputata all‟intervento precoce e tempestivo, pone le basi per
attuare la prevenzione della cronicizzazione della psicosi e della sua cura: le si chiede di ridare entusiasmo nel
programmare gli interventi più adeguati per i pazienti giovani.
Una Struttura così organizzata deve intercettare i casi di psicosi incidenti nell‟anno nella popolazione generale.
Si comprende l‟importanza di una stretta collaborazione con i Medici di Famiglia e di un‟attenzione nei confronti dei
problemi disadattivi e delle crisi emozionali nell‟adolescenza per aumentare la possibilità di effettuare interventi precoci
e tempestivi.
Il lavoro di terapia comunitaria del gruppo di operatori di “Ripa Grande”.
Il gruppo di lavoro è multidisciplinare e dispone sia di professionalità orientate all‟azione che di professionalità
più riflessive, integrate nella comprensione e condivisione del valore simbolico di atti ed eventi. Si orienta all‟ascolto
dei bisogni dei pazienti e dei suoi componenti, si prende cura della qualità dell‟ambiente: accogliente e attento.
Collabora strettamente con le famiglie e gli operatori del Territorio; presenta e discute i risultati del lavoro con incontri
regolari e almeno una volta l‟anno li presenta ai vari Servizi che inviano i pazienti al fine di creare dei percorsi
assistenziali terapeutici ottimizzati per rispondere al meglio ai bisogni dei pazienti psicotici.
La supervisione esterna del lavoro di gruppo.
Il bisogno di tutelare l‟evoluzione positiva del lavoro di gruppo pone l‟opportunità del ricorso a due
supervisori esterni al fine di facilitare l‟acquisizione di una consapevolezza di unità di Servizio basata sulle differenze
tra gli operatori, aiutare a comprendere l‟importanza di sviluppare un obiettivo comune coerente e condiviso, favorire
una riflessione critica su quanto accade con i pazienti e tra i componenti del gruppo, sostenere l‟autostima degli
operatori, rendere il gruppo attento a riconoscere situazioni a rischio di “seduzione narcisistica” nella gestione del
paziente e proporre strumenti per evitare le chiusure depressive o narcisistiche degli operatori che possono portare alla
non condivisione del lavoro di gruppo rendendolo inefficace e foriero di un pervasivo sentimento d‟impotenza.
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Il gruppo di lavoro internalizza gli strumenti riflessivi derivati dalle supervisioni e
condivisione dell’esperienza clinica e del fare quotidiano.
dalla
Il gruppo così riconosce e “apprende” dai propri errori, si interroga sulle cause e modifica la propria
operatività. Impara a privilegiare la relazione con i pazienti e con i curanti esterni che si sentono così sostenuti nei
processi di assistenza e cura.
Lo sviluppo del gruppo di lavoro e del lavoro di gruppo.
La qualità del legame tra i componenti del gruppo è fondata sull‟interazione, la coesione, il senso di
appartenenza, l‟interdipendenza ovvero sulla consapevolezza di dipendere gli uni dagli altri e sull‟integrazione ovvero
l‟equilibrio tra somiglianze e differenze, tra bisogni individuali e bisogni del gruppo, tra esigenze interne e richieste
esterne.
Nel tempo il gruppo di lavoro di “Ripa Grande” si è strutturato e riesce a gestire situazioni difficili e
problematiche anche se esistono dinamiche interne che, variando, sono in perenne ricerca di equilibrio. Forse ha
imparato a prendersi tutto il tempo che occorre per fare e che il fare può avere tempi diversi.
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