PROCESSI DI PRODUZIONE
PRODUZIONE DI ENZIMI
Fino al 1950 gli enzimi sono stati prodotti soprattutto per
estrazione da cellule animali o vegetali. Attualmente, ad
eccezione della tripsina (e. secreto dal pancreas), chimosina (e.
della mucosa gastrica), papaina (e. estratto dalla papaia) e pochi
altri sono prodotti mediante processi fermentativi aerobici
tramite batteri, lieviti e muffe.
Volume fermentatore: 20-1000 m3.
Volume inoculo: 4-12% del volume del fermentatore.
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Il mezzo contiene i nutrienti del microorganismo, spesso prodotti
agricoli come amido, proteina di soia e olio di palma, vari sali (es.
fosfato di K), agenti antischiuma, a volte vitamine.
Una fermentazione discontinua può consistere in una fase di
crescita rapida dei microorganismi durante la quale viene
prodotto poco enzima ed in una fase di crescita lenta durante la
quale si ha formazione vera e propria di enzima. Molti enzimi
sono prodotti fornendo gradualmente la sorgente di carbonio
e/o azoto.
In alcuni casi è impiegata la fermentazione continua.
Concentrazione finale nel brodo di coltura: 1-50 Kg/m3.
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La maggior parte degli enzimi industriali è secreta dai microorganismi:
il primo stadio di recupero dell’enzima è normalmente la separazione
della massa biologica ed altro materiale particellare dal terreno
esaurito.
Nel caso di enzimi confinati entro le cellule, queste possono essere
impiegate tal quali oppure disgregate mediante metodi fisici (es. in
molini) e/o chimici (es. detergenti, solventi, enzimi litici).
Gli enzimi possono essere estratti dalle cellule disgregate e dal
materiale animale (tripsina) o vegetale (papaine) macinato mediante
soluzioni acquose.
L’ultrafiltrazione su membrana è molto usata per separare l’enzima
dall’acqua, sali ed altre impurezze a basso peso molecolare.
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FERMENTAZIONE ALCOLICA
In condizioni anaerobiche molti microorganismi formano etanolo.
Es. i lieviti Saccharomyces producono etanolo dagli esosi (C6H12O6):
C6H12O6 → 2 C2H5OH +2CO2
La resa in etanolo è circa 90-95% sul teorico (parte della sorgente di
carbonio è utilizzata per la generazione di biomassa).
L’etanolo è tossico per il lievito (danneggia la membrana cellulare) ed
a concentrazione dello zucchero >14% inizia la plasmolisi della cellula
del lievito. Quindi è classico esempio di prodotto con effetto inibente
sulla cinetica di produzione.
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PRODUZIONE DI VINO
Pare che il vino sia nato in tempi antichissimi in Oriente.
La Bibbia racconta, nella Genesi, di come Noè, appena sceso
dall’arca, piantò vigne e ne ottenne vino.
Viva Noè gran patriarca
salvato dall'arca sapete perché
ei fu l'inventore del dolce liquore
del dolce liquore che allegri ci fa.
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I geroglifici egizi ci danno informazioni piuttosto dettagliate sulle
tecniche enologiche utilizzate dal popolo dei faraoni.
Ma fu attraverso i Greci e i Fenici che il vino fece la sua comparsa
in Europa, diffondendosi ampiamente soprattutto all’epoca
dell’impero romano.
I romani furono i primi a introdurre, o comunque a enfatizzare, il
concetto di “invecchiamento” del vino, che cominciarono a
conservare in barili di legno e bottiglie di vetro, a differenza dei
Greci che utilizzavano invece anfore di terracotta.
Nel Medioevo fu la Chiesa Cattolica ad influenzare maggiormente
le tecniche enologiche e la produzione del vino.
I vini più prestigiosi erano prodotti proprio da monaci, primi fra
tutti i Benedettini e i Cistercensi.
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Come materia prima si usa il succo (mosto) di uva fresca o
leggermente appassita, contenente una miscela di glucosio e
fruttosio in quantità pressoché uguali, alla concentrazione del
16-35% secondo la specie.
La buccia rappresenta l’involucro
dell’acino. Contiene prevalentemente
cellulosa e tannino; costituisce il
serbatoio delle sostanze coloranti ed
aromatiche dell’uva.
Tannini: sostanze di sapore astringente,
solubili in acqua, contenenti nella
molecola funzioni fenoliche.
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Il mosto contiene:
•Glucidi: glucosio, fruttosio, pentosi;
Acido
tartarico
•Acidi organici: tartarico (prevalente), malico;
•Proteine
•Composti polifenolici
Acido
malico
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•Sostanze peptiche: costituite da un polimero dell’acido
galatturonico esterificato con alcool metilico. Si presentano sotto
forma di colloidi e se presenti in quantità sensibile ritardano la
chiarificazione spontanea del vino (per accelerare la
chiarificazione vengono talora impiegati enzimi pectolitici che
demoliscono la molecola peptidica).
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•Sostanze minerali: il loro contenuto nel mosto si aggira sui
3-5 g/L.
su 100 g di ceneri: K2O 31-36, CaO 5, MgO 4, Na2O 3, Fe2O3
0.5-3, P2O5 8, SO3 3, SiO2 3, Cl 0.5 g.
•Enzimi
•Vitamine
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La preparazione del mosto inizia con la pigiatura (comprimendo o
sbattendo i grappoli per provocare la rottura degli acini).
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La pigiatura può essere lenta o veloce, energica o leggera e già
conferisce al vino differenti caratteristiche.
La pigiatura viene eseguita eliminando contemporaneamente i
raspi (diraspatura). Con la diraspatura si toglie dal vino quel
sapore amarognolo, detto appunto “ gusto di raspo”.
Gli acini vengono schiacciati in apposite macchine dette
pigiatrici. Per le uve destinate alla vinificazione in bianco (senza
bucce) si utilizzano torchi.
Dalla pigiatura si ottiene circa un quintale di mosto per 125 kg di
uva; che poi viene messo a fermentare nei tini.
Se necessario la composizione chimica del mosto viene corretta
(zucchero, acidità, colore ed estratti) per ottenere un risultato
migliore.
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I vini bianchi si differenziano dai vini rossi per quanto riguarda le
caratteristiche e lo svolgimento del processo di vinificazione, cioè
quel processo che consente all’uva di trasformarsi in vino.
Nella vinificazione in rosso abbiamo il contatto tra vinacce (le
bucce dell’uva) e mosto in trasformazione (processo di
macerazione), questo non accade nella vinificazione in bianco.
Quindi si possono produrre vini bianchi anche utilizzando uve
rosse: basta effettuare la sgrondatura, che consiste
nell’eliminazione delle bucce, le quali contengono la maggior parte
delle sostanze pigmentanti.
Di solito i mosti vengono decantati e filtrati per ottenere un vino
che sia il più possibile limpido e fine. La vinificazione in bianco è
resa particolarmente delicata dal fatto che bisogna evitare il
contatto con l’aria: questo potrebbe infatti causare ossidazione e
peggiorare notevolmente le caratteristiche organolettiche del
vino.
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La vinificazione è realizzata o con lieviti selvatici presenti sulla
buccia (saccharomyces apiculatus e S. ellipsoideus) o con inoculi di
colture selezionate dagli stessi lieviti, utilizzando normalmente in
questo caso mosti pastorizzati.
La fermentazione si compone di due fasi:
1–
prima fase, aerobia, per far accrescere il lievito, che consiste
nell’ossigenare il mosto per rimescolamento (follatura).
2–
seconda fase (anaerobia) che è la vera e propria
fermentazione.
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Le operazioni sono condotte in modo discontinuo in tini aperti, e
richiedono temperature di 25-30°C e tempi di 5-20 giorni.
Raggiunta una gradazione alcolica di 6-8° (l’alcool deprime
l’attività biologica dei lieviti), il liquido è trasferito in botti dove
avviene una fermentazione secondaria, lenta, che dura 2-3 mesi.
Infine si lascia invecchiare, anche per anni, per favorire una serie
di complesse trasformazioni che portano alla precipitazione di
materiale solido (fecce), costituito prevalentemente da bitartrato
potassico, tartrato di calcio, proteine coagulate con tannino e
sostanze peptiche (eteropolisaccaridi) ed alla formazione di
diversi prodotti secondari (aldeidi, esteri, chetoni, ecc.) che
contribuiscono all’aroma ed al sapore del prodotto finito.
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Pastorizzazione e refrigerazione del vino
Alla pastorizzazione si ricorre non solo per accelerare il processo di
invecchiamento, ma anche e soprattutto per allontanare i pericoli
delle alterazioni batteriche dei vini.
Il riscaldamento del vino alla temperatura di pastorizzazione (65°C
per 15 min) determina la coagulazione delle sostanze proteiche
che sono causa frequente di intorpidimenti, specie nei vini poco
alcolici.
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La refrigerazione dei vini a temperatura vicina a quella di
congelamento (da -2 a -1 °C) provoca la precipitazione del
bitartrato potassico e rende più completa la precipitazione delle
proteine che si sono coagulate durante la pastorizzazione,
insolubilizza un po’ di materia colorante e, quando la
refrigerazione è preceduta dall’areazione (che converte gli ioni
ferrosi in ferrici) contribuisce all’eliminazione parziale del ferro.
Per l’efficacia del trattamento è necessario refrigerare il vino per
7-8 giorni.
Segue la filtrazione.
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PRODUZIONE DI BIRRA
Si prepara per fermentazione alcolica dell’estratto acquoso
ottenuto dall’orzo germogliato, usando il luppolo come sostanza
aromatizzante (la parte impiegata del luppolo è dai fiori femmina
secchi contenenti la luppolina, sostanza che impartisce alla birra
il sapore amarognolo).
Il processo produttivo consiste nelle seguenti fasi principali:
1. Preparazione del malto (maltizzazione)
Dopo lavaggio accurato, l’orzo viene sottoposto alla macerazione
e alla germinazione.
La macerazione ha lo scopo di far assorbire al grano l’acqua
necessaria alla germinazione (45-50%), rigonfiandolo.
La macerazione, condotta in vasche o in larghi cilindri a fondo
conico, dura da 2 a 5 giorni.
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Dopo macerazione, l’orzo passa ai germinatoi dove si sviluppa la
pianticella (germinazione).
Con la germinazione si ha lo sviluppo e l’arricchimento dei sistemi
enzimatici (amilasi) nell’interno del grano, parziale idrolisi
dell’amido e delle proteine ed infine sviluppo del sapore e
dell’aroma caratteristico del malto.
Durante la germinazione si ha assorbimento di O2 e sviluppo di
CO2 (per respirazione della pianticella, priva di clorofilla); pertanto
nei germinatoi funziona un sistema di ventilazione per la
somministrazione dell’aria necessaria alla respirazione della
pianticella.
Le germinazione dura in media 6 giorni.
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Terminata la germinazione, il malto “verde” viene trasferito in
essiccatoi ad aria calda (80°C) dove il contenuto in acqua in 2-3
giorni viene ridotto al 4% circa.
Oltre che ottenere una riduzione di umidità, con questo
trattamento si ferma la germinazione e si favorisce lo sviluppo
del colore e delle caratteristiche aromatiche del malto.
Il malto essiccato viene quindi fatto passare in un crivello per
eliminare i germogli.
Successivamente il malto viene macinato grossolanamente e la
farina (farina di malto) sottoposta ad ammostamento.
Quindi: il malto è la cariosside (chicco) di un cereale,
comunemente di orzo, che ha subito germinazione.
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2. ammostamento
Ha lo scopo di estrarre dal malto sia sostanze solubili (circa 20%),
come zuccheri e sostanze azotate (peptoni, albumoidi ed
enzimi), sia quelle parti di per se insolubili, come l’amido ed i
protidi, che vengono scisse durante l’ammostamento (per azione
rispettivamente della diastasi e della peptasi).
L’ammostamento viene realizzato sottoponendo la farina di
malto, mescolata con acqua (potabile, inodore ed insapore) ed
eventualmente con farina di cereali crudi (riso, avena, segale) a
cicli di riscaldamento in caldaie, con temperature variabili tra 40
e 100 °C, che hanno lo scopo di favorire l’azione degli enzimi
presenti.
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3. Chiarificazione del mosto
E’ l’operazione successiva all’ammostamento ed ha lo scopo di
liberare il mosto da sostanze difficilmente solubili, come i protidi
(proteine).
La chiarificazione ha luogo in tini (con fondo forato) o in filtri,
dove i residui (trebbie) vengono esauriti con acqua molto calda.
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4. Cottura del mosto e luppolizzazione
Questa operazione ha lo scopo di:
• concentrare il mosto, che è stato fortemente diluito durante la
chiarificazione;
• disciogliere e trasformare vari costituenti del luppolo;
• coagulare e separare prodotti ancora contenuti nel mosto.
Il mosto viene cotto in caldaia all’ebollizione per 1-1.5 h (birre
leggere) o 2-2.5 ore (birre forti). Introdotto il mosto in caldaia, si
aggiunge il luppolo in una o più volte, in quantità diversa a
seconda del tipo di birra (0.2-0.6 Kg/hL).
L’aggiunta del luppolo viene fatta per lo più in due volte, per ¾
all’inizio della cottura (quando vengono meglio utilizzate le
sostanze amare) e per l’ultimo quarto prima della fine della
cottura (ciò che facilita l’assorbimento dell’olio essenziale che
invece nella prima aggiunta si volatilizza).
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Con la cottura si estraggono dal luppolo gli acidi amari (umulone
e lupulone), le resine, l’olio essenziale ed i tannini (gli acidi
amari e le resine sono responsabili dell’amaro ed in parte della
schiuma della birra).
Vengono inoltre distrutti gli enzimi, in particolare l’amilasi, che,
finita la saccarificazione, non deve essere più presente nel
mosto.
Con la cottura il mosto scurisce per la formazione di melanoidine
e tanto maggiormente quanto più viene prolungata la cottura
(per le birre chiare si richiede perciò una cottura di durata
minore).
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Il punto giusto di cottura è dato dalla separazione di protidi
coagulabili, che si depositano sul fondo in forma di fiocchi,
mentre il liquido soprastante appare chiaro.
Il luppolo si deposita dopo la cottura e viene separato.
I mosti per le birre leggere hanno un contenuto in estratto di
circa il 10 %, quelli delle birre forti dal 14 al 18%.
La composizione media del mosto è:
• maltosio 8.80%
• non maltosio 4.82%
• sostanze azotate 0.83%
• ceneri 0.234%.
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5. Raffreddamento del mosto
Separati i residui del luppolo, il mosto viene raffreddato a 5-6 °C
per la fermentazione bassa, a 10-15 °C per la fermentazione
alta.
6. Fermentazione
Il mosto raffreddato è inoculato con Saccharomyces cerevisiae o
carlsbergensis. Nel primo caso il lievito tende a disporsi nella
parte alta del fermentatore (fermentazione alta), nel secondo
tende a sedimentare (fermentazione bassa).
La fermentazione viene condotta in tini chiusi o in vasche.
La fermentazione alta ha luogo a 10-25°C e dura 2-5 giorni.
La fermentazione bassa ha luogo a 5-10 °C e dura 8-14 giorni.
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Alla fermentazione primaria (tumultuosa) segue una
stagionatura lenta in botti chiuse con valvole tarate che
mantengono una pressione tale da favorire la saturazione della
birra con CO2.
La birra a bassa fermentazione si prepara esclusivamente con
malto d’orzo. Per le birre a fermentazione alta si impiegano
anche altri malti (zucchero di canna e di barbabietola).
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La birra doppio malto non esiste. E' una invenzione del legislatore
italiano che - per motivi di tassazione alla produzione - ha
suddiviso le birre in varie categorie (analcolica, light, normale,
speciale, doppio malto) in relazione alla quantità di zuccheri
contenuti nel mosto di birra. Non c‘è una stretta relazione diretta
tra tale quantità e la gradazione alcolica, né ovviamente rispetto
allo stile: possiamo avere una "doppio malto" di 4.5 gradi alc. ed
una "speciale" di 6. In altri paesi ci sono suddivisioni simili: in
Belgio ad esempio, la suddivisione è in Cat. S, I, II, III.
La birra puro malto ha invece un senso: alcuni (molti, quasi tutti...)
produttori industriali utilizzano cereali non maltati come mais,
riso, etc.... Vi diranno che è per dare un gusto particolare alla birra,
ma in realtà la motivazione è solamente economica: il malto
d'orzo è molto più costoso del mais! In generale, tranne per alcune
eccezioni di stile, la birra dovrebbe essere fatta solo con malto.
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Bionda, rossa, scura si tende a suddividere le birre per colore,
ma questo è molto sbagliato: il colore infatti non ci dice molto
della birra che stiamo per bere, se non che una birra nera
potrebbe dare un carattere "tostato" o che una rossa potrebbe
avere note di caramello.
Non ci comunica il grado alcolico (una "nera" Guinness ha solo 4.1 ,
mentre una pallida ed innocua Tennents Super ne ha 9), nè il grado
di amaro o il corpo. Parlando di stili (weizen, pilsner, dubbel...)
abbiamo una idea ben più precisa di quello che ci aspetta nel
bicchiere.
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Trappiste o di abbazia non identificano uno stile di birra.
Sono solamente notazioni commerciali: le birre "trappiste"
sono prodotte da monaci / religiosi con precise limitazioni
(numero di laici che lavorano nella produzione, destinazione di
quote degli utili in beneficenza...).
Attualmente i produttori trappisti che possono fregiarsi del
logo sono solo 7; sei in Belgio: Chimay , Rochefort, Westmalle ,
Westvleteren , Achel , Orval , ed uno in Olanda: De
Koningshoeven (La Trappe).
Per le "birre di abbazia“ non esiste una normativa precisa:
sostanzialmente sono birre che per qualche motivazione
(ricetta, vicinanza a monasteri, nome della birra...) hanno un
qualche riferimento a vere o presunte antiche produzioni
monastiche.
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