INTERVISTA A GRACE MURRAY HOPPER Una pioniera della programmazione informatica. INTERVISTA REALIZZATA DA PEDRAZZINI OMBRETTA PER IL CORSO DI DIDATTICA DELLA MATEMATICA SVOLTO DAL PROFESSOR GIOVANNI LARICCIA PRESSO L’UNIVERSITA’ CATTOLICA DI MILANO CHI È GRACE MURRAY HOPPER Dovendo intervistare un grande informatico ho scelto una donna che da molti è definita come «una pioniera della programmazione informatica»: Grace Murray Hopper, una matematica, informatica e militare statunitense divenuta famosa per il suo lavoro sul primo computer digitale della Marina Statunitense, Harvard Mark I e per il ruolo fondamentale che ebbe nello sviluppo e progettazione del COBOL, tanto da essere considerata a tutti gli effetti «La nonna del Cobol». PERCHÈ GRACE MURRAY HOPPER Ho scelto Grace Murray Hopper perché oltre al fatto di essere stata una donna con un ruolo determinante nella storia dell’informatica, è stata anche una docente di matematica che ha accostato i suoi allievi a tale scienza attraverso metodi innovativi , pertanto credo che per noi futuri insegnanti possa essere molto interessante approfondire la sua conoscenza. I N T E RV I S TA OP: Buongiorno Signora Hopper, la ringrazio di aver accettato di concedermi questa intervista e di avermi gentilmente accolto nel salotto di casa sua per poterla svolgere. GH: E’ un piacere per me poterti ospitare, ho sempre amato parlare di informatica ed in particolare parlarne «tra donne», solitamente l’informatica viene considerata, fin dalle sue origini, «territorio maschile», ma non è così. OP: E’ vero, non si sente molto spesso citare nomi femminili nella storia dell’informatica. GH: I libri di storia sembrano dirci tutti la stessa cosa: l’informatica ed il computer sono stati pensati, realizzati e fatti progredire solo da uomini, ma non è così. Ci sono molte donne, purtroppo sconosciute al grande pubblico, il cui contributo è stato fondamentale per l’evoluzione del sapere informatico. OP: possiamo, quindi, dire che le donne sono presenti nel campo dell’informatica fin dalle sue origini! GH: Certamente! In pochi sanno che c’è una mente femminile dietro le basi concettuali della programmazione: la figlia di Lord Byron. Ada Byron Lovelace, è una delle prime menti dell’Informatica moderna, ha anticipato i principi organizzativi del calcolo automatico moderno! OP: E’ molto interessante quello che mi sta dicendo, le donne hanno, quindi, avuto un ruolo determinante nella storia dell’informatica, e lei, Signora Hopper, è stata sicuramente una di queste! GH: Chiamami pure Grace! Diciamo che ho cercato di dare il mio contributo allo sviluppo della scienza informatica facendo «fruttare» le conoscenze che avevo maturato in anni di studio e di ricerca! OP: Beh, direi che il suo apporto è stato determinante: ha creato il primo compilatore della storia ed è considerata «la nonna» del linguaggio di programmazione Cobol! Grace scoppia in una spontanea risata OP: Non solo, ma è famosa anche per aver coniato la parola «bug», di largo uso ancora ed in particolar modo oggi! Come e quando è nata la sua passione per l’Informatica? GH: Direi, nell’infanzia. Fin da bambina mi divertivo a giocare con macchine e strumenti meccanici. Certo, amavo molto anche leggere, suonare il piano e poi giocare a nascondino e a guardie e ladri con i miei fratelli. Però avevo una vera e propria passione per gli strumenti meccanici. OP: Quali strumenti meccanici la incuriosivano di più? GH: Sicuramente gli orologi! Mi divertivo a smontarli per capirne il funzionamento! Pensa che quando avevo sette anni, mentre mi trovavo in vacanza con la mia famiglia nel nostro cottage sul Lago di Wentworth in Wolfeboro, nel New Hampshire, cercai di smontare l’orologio a pendolo! OP: Sua madre, sarà stata contenta… Grace ride di cuore rievocando quel lontano ricordo e prosegue… GH: In quella circostanza si arrabbiò molto, però al di fuori di queste situazioni «stravaganti» mia madre incoraggiò sempre questa mia attitudine, forse anche perché anche lei amava molto la tecnica e la matematica come me, quindi credo che mi comprendesse, anzi penso proprio di aver ereditato da lei questa passione. Nonostante i tempi, sai sono nata nel 1906, i miei genitori erano convinti che dovessi ricevere un’educazione qualitativamente uguale ai miei fratelli. OP: Quali scuole ha frequentato? GH: Ho frequentato due scuole private solo per ragazze la Graham School e la Schoonmakers School, entrambe in New York, la città dove sono nata. OP: Le piaceva studiare? Tantissimo!Quando avevo sedici anni feci domanda di ammissione per entrare a Vassar College, ma sbagliai la prova di latino! GH: Così potei entrarvi solo l’anno successivo nel 1924! OP: Quali erano le sue materie preferite? GH: La matematica e la fisica, infatti, dopo la laurea nel 1928, decisi di dedicarmi alla ricerca ed iniziai a lavorare come ricercatrice nella facoltà di Matematica presso la Yale University. OP: Mi sembra di capire che la sua famiglia è stata determinante nel consentirle di coltivare ed approfondire questa sua passione. GH: Certo. La mia famiglia ha influenzato molto la mia formazione, mia madre, come ti dicevo, era molto appassionata di matematica e mio padre aveva un costante interesse per la lettura ed un’insaziabile curiosità, la nostra casa, infatti, era piena di libri. Queste sono state le cose che mi hanno influenzato per tutta la vita. OP: Dopo gli studi come è proceduta la sua vita professionale? E’ riuscita a conciliarla bene con la sua vita privata? GH: Sai, credo di essere stata anche molto fortunata, perché le persone a me care, i miei genitori, e mio marito poi, non solo capivano la mia passione. Nel 1930 mi sono sposata con l’attuale mio marito, Vincent Foster Hopper, che era insegnante di inglese presso l’Università di New York, e, l’anno successivo, nel 1931, divenni insegnante di Matematica al Vassar College e, nel frattempo proseguivo la mia attività di ricercatrice presso la Yale University. OP: Quali metodi utilizzava per insegnare la matematica ai suoi allievi? GH: I miei metodi erano, forse, un po’ insoliti per quei tempi. Cercavo di far capire il ruolo della matematica nella vita pratica, proponendo esempi concreti, dimostrando agli studenti il significato della matematica attraverso l’esperienza reale. OP: Potrebbe fare qualche esempio? GH: Per esempio in una delle mie lezioni di statistica feci giocare gli studenti a bridge e li stimolai a predire i risultati del gioco utilizzando la matematica. OP: Quindi non utilizzava la tradizionale lezione frontale per insegnare la ma tematica! GH: No, ho sempre ritenuto inutile e noioso riempire la lavagna di numeri e formule e attendere che gli allievi passivamente le ricopino GH: per poi studiarle passivamente a memoria. Volevo vedere i miei allevi attivi, costruttori del proprio sapere e consapevoli del proprio apprendimento; per questo, spesso, facevo esami all’inizio del corso in modo tale che i miei studenti si rendessero conto di cosa avrebbero imparato alle mie lezioni. OP: Il suo mi sembra un approccio alla didattica molto moderno e attento ai bisogni degli alunni. GH: Ho sempre pensato che per imparare e mettere a frutto le proprie conoscenze traducendole in qualcosa di concreto e di utile per il progresso del pensiero umano, sia necessario apprendere mentre si agisce e nel contempo riflettere sulle proprie azioni per essere sempre consapevoli di ciò che si sta facendo. Solo in questo modo le conoscenze contribuiscono a far crescere e maturare la persona perché divengono esse stesse parte del suo processo di crescita. GH: Sai, Ombretta, è fondamentale che si crei un rapporto circolare tra la persona ed il sapere tale per cui la conoscenza arricchisce il patrimonio conoscitivo dell’individuo, e l’individuo facendo proprie le conoscenze impara a padroneggiarla arricchendole di nuovi apporti cercando nuove piste di ricerca. OP: Mi sembra di intuire che questo approccio al sapere sia stato determinante nel corso della sua vita professionale. GH: Certo, sono sempre stata convinta che la conoscenza non fosse qualcosa di statico ed immutabile, al contrario, che fosse qualcosa di dinamico. Ogni conoscenza è uno spunto per approfondire, ricercare, è uno stimolo dal quale partire per andare oltre. Se non la pensassi così non avrei potuto fare così tanti anni la ricercatrice e nemmeno l’insegnante. OP: Grace, lei è definita da molti una pioniera della programmazione informatica, quando si verificò la svolta nel suo lavoro? GH: In corrispondenza della Seconda Guerra Mondiale, quando decisi di arruolarmi nel corpo di donne volontarie della Marina. OP: La Seconda Guerra Mondiale, quindi, ha rappresentato per lei una svolta personale oltre che professionale. GH: Certo, entrare nel Waves fu una scelta coraggiosa, della quale sono però molto orgogliosa perché mi consentì di servire meglio il mio Paese. OP: Ci può raccontare qualcosa di più di questa esperienza? GH: Certo, molto volentieri GH: Nel 1943 entrai nell’esercito americano, nel corpo della Marina come Sottotenente e venni assegnata al Bureau of Ordinance Computation Project al Cruft Laboratories dell’ Università di Harvard, dove lavorai con Il comandante Howard Aiken. GH: appena arrivata al Cruft Laboratories «incontrai» il Mark I computer. Esercitò subito su di me una grande attrattiva, simile a quella che avevano esercitato su di me gli orologi a pendolo nella mia infanzia. Non vedevo l’ora di iniziare a lavorare sul Mark I. OP: Ci potrebbe spiegare meglio cos’è il Mark I? GH: Certo, il Mark I è uno dei primi supercalcolatori digitali utilizzato dalla Marina USA per calcolare la giusta angolatura nel GH: lancio dei missili. Il Mark I, così come i suoi successori Mark II e III, richiedeva un monitoraggio ed una programmazione costanti. OP: In che cosa consisteva il suo lavoro? GH: programmavo. Diventai la terza programmatrice del Mark I. Elaborai formule matematiche per il calcolo delle traiettorie e scrissi una serie di istruzioni che il computer doveva seguire. Queste istruzioni venivano tradotte in codice binario, trasferite nelle schede GH: perforate da inserire nel calcolatore ed eseguite unicamente nella sequenza in cui venivano ricevute. Una volta completate tutte le operazioni il computer era in grado di ripetere le stesse operazioni ad alta velocità. OP: Quali obiettivi si era posta durante il suo lavoro di ricerca? GH: Il mio obiettivo era scrivere programmi per computer per permettere anche ad altri scienziati e a persone comuni di usare il GH:computer senza dover dipendere necessariamente da specialisti. OP: un obiettivo molto nobile ma anche molto difficile da raggiungere! GH: quasi nessuno tra i miei colleghi era convinto che fosse possibile raggiungere un tale traguardo, poiché solo gli scienziati avevano le conoscenze idonee ad eseguire operazioni del genere. GH: ero molto determinata a la risolvere questione pertanto negli anni successivi alla guerra mi dedicai a raggiungere questo obiettivo. OP: Ci può raccontare meglio cosa fece dopo la guerra? GH: Terminata la guerra continuai a lavorare come ricercatrice presso l’Università di Harvard con il mio gruppo di lavoro, e fu proprio in questo periodo, lavorando sull’Harvard Mark II, che incominciammo ad utilizzare il termine «bug» per indicare un errore nel funzionamento del calcolatore. OP: ci può raccontare come avvenne? GH: Insieme al mio staff trovai un lepidottero all’interno di un relay del Mark II che aveva provocato un arresto del sistema e così per prima intesi il «debug» come la rimozione degli errori di programma. OP: ed il suo obiettivo di creare un programma che rendesse il computer accessibile a tutti si stava concretizzando? GH: certo, impostai un programma che liberò i programmatori dall’esigenza di scrivere in codice binario e strutturato in maniera tale che ogni volta che il computer era chiamato a svolgere una funzione già nota, il compilatore gliela avrebbe messa a disposizione prelevandola da una libreria predisposta allo scopo. Realizzai un sistema che faceva tradurre al computer il proprio codice e che riusciva a chiamare soubroutine pre-programmate quando necessario. OP: Quanto durò questo lavoro? GH: Terminai questo programma nel 1952 e lo chiamai «compilatore A-0». Si tratta del primo compilatore della storia dell’informatica. Deve esserne molto orgogliosa! Certo! Come proseguì la sua brillante carriera? GH: Entrai nella Eckert-Mauchly Computer Corporation, la società che aveva sviluppato l’ENIAC (l’Elettronic Numerical Integrator and Computer)uno dei primi computer digitali della storia, in quel periodo stava progettando l’UNIVAC I, ovvero quello che sarebbe stato il primo modello di computer commerciale, e, continuando a lavorare sull’idea di compilatore mi impegnai nella realizzazione di un programma da utilizzare in ambito commerciale. OP: Per quanto tempo lavorò su questo nuovo progetto? GH: Lo portai a termine nel 1959 e fu chiamato Flow-Matic. Il programma divenne poi un modello del COBOL. OP: E, quindi, grazie al ruolo primario che ebbe nello sviluppo e nella progettazione di questo linguaggio che viene considerata a tutti gli effetti «la nonna del Cobol» Grace sorride compiaciuta. OP: Grace, anche se nel corso dell’intervista non li ha citati è stata insignita di importanti onorificenze. Ce ne vuole parlare? Solitamente non ne parlo mai, però se proprio insisti… nel 1969 ho ricevuto il premio «computer sciences man of the Year» dall’Associazione dei professionisti dell’informatica. Nel 1986, al momento del pensionamento ho ricevuto la «Defense Distinguished Service Medal». OP: So che nel 1971è stato istituito il premio annuale «Grace Murray Hopper Award» per eccellenti giovani informatici professionisti dalla Association for Computing Machinery, ma non finisce qui nel 1973 diventa la prima persona di nazionalità statunitense e la prima donna in assoluto che diventa «Distinguished Fellow of the British Computer Society» e nel 1988 ha ricevuto il premio martelletto d’oro durante la conferenza di Toastmasters International a Washington. Grace si alza dalla poltrona del salotto nella quale era comodamente seduta e prende qualcosa dal cassetto me la mostra: è una medaglia. GH: Questa è la Medaglia Nazionale della Tecnologia, l’ho ricevuta nel 1991, ne sono particolarmente orgogliosa poiché ogni volta che la guardo mi ricordo di essermi impegnata per mettere al servizio della società non solo americana le mie conoscenze affinchè contribuiscano al progresso e alla democratizzazione della conoscenza. OP: Grazie Grace per l’intervista, per l’ospitalità e per le importanti parole che ci hai detto. GH: Grazie a te per questa bella intervista, spero ci siano ancora altre occasioni per vederci e proseguire la nostra chicchierata, in bocca al lupo per l’esame e per il tuo lavoro! OP: crepi il lupo! Arrivederci a presto!