In fondo noi viviamo di promesse nella nostra vita relazionale quotidiana: «Vengo a prenderti oggi alle sei del pomeriggio»; «Domani andiamo al cinema insieme»; promesse piccole ma che costellano la nostra esistenza. E di fronte a promesse non mantenute, finisce anche la credibilità di una persona e la possibilità che la relazione abbia un futuro. La fiducia nasce da questa affidabilità sperimentata di chi promette e si autoimpegna, resta fedele a questa forma di autoobbligazione che è la promessa. Chi promette, promette se stesso. E si impegna in una sorta di memoria della volontà, per cui continua a volere nel tempo ciò che ha promesso un giorno. Potremmo dire che promettere è rispondere di sé come avvenire, impegnare se stesso al futuro. Certo, è difficile vivere questo dove si va diffondendo il paradigma dell’homo absolutus, l’uomo assoluto, cioè sciolto da legami, quasi che la libertà proprio in questo consistesse. Nella società post-tradizionale che è la nostra, non solo il legame con il passato rischia di smarrirsi nell’oblio di chi è assorbito in maniera totalizzante in un presente assolutizzato, non solo l’uomo rischia di perdere il senso del debito e del legame che lo unisce a chi l’ha preceduto, ma anche la responsabilità e il legame con le generazioni future si stanno allentando e rischiano di svanire in una visione che assolutizza il presente e il soggetto individuale. Come se l’individuo fosse senza un prima e senza un poi. Come se un prima senza di lui, e un poi anch’esso senza di lui fossero del tutto fuori del suo interesse e dunque della sua responsabilità. Quasi fosse un uomo atemporale, che vive in un infinito presente, un uomo che realizza, appunto, il paradigma dell’uomo assoluto. Questa brama di indipendenza, nel senso di non riconoscere l’evidenza della dipendenza da chi ci ha preceduto e di accettare il legame con una comunità, ci conduce a parlare, con Norbert Elias, dell’uomo contemporaneo come homo clausus, cioè di uomo che vive per se stesso, isolato, come monade separata dal mondo esterno19. 19. NOBERT ELIAS, La solitudine del morente, il Mulino, Bologna 1985, 69. Certo, l’uomo che promette, promettendo sempre il futuro, si impegna a donare ciò che non ha: il tempo, il futuro stesso, il quale, dunque, nasce anche dalla follia del promettere, di compiere una scelta. Sappiamo bene che in occidente, soprattutto a partire dal dopoguerra, l’orizzonte della definitività è progressivamente scomparso dal nostro vivere. Come è progressivamente scomparso il senso dell’appartenenza a una comunità, a una famiglia, a un partito, a uno stato. Ora, promettere significa voler appartenere. Ma di tutto questo noi oggi vediamo la spaventosa fragilità. Sappiamo promettere? Sappiamo appartenere? Sappiamo costruire una comunità? Perché da queste realtà dipende in buona parte la fiducia in cui potrà nascere e svilupparsi la fondata speranza di futuro del giovane. Altrimenti non ci si stupisca della fragilità che è il refrain sempre ripetuto nel parlare degli adulti sui giovani. Dove l’elemento fastidioso è che viene pronunciata tale frase come fosse una sentenza di morte, un giudizio di superiorità e una sentenza colpevolizzante. Occorre invece ricordare che la fragilità è una condizione dell’essere umano in quanto tale. Gli umani sono i più fragili degli animali. Ogni uomo, poi, è un insieme di fragilità e di forza: lavoro di maturità è quello di raccordare con sapienza fragilità e punti di forza, perché questa armonia fonda tutta la nostra vita e regge le relazioni con noi stessi e con gli altri. Si tratterà di riconoscere, da parte di ogni giovane, le sue fragilità, che poi sono il più delle volte l’eco di fragilità di altri, di famiglie problematiche o a pezzi, di incapacità di altri a essere fedeli e a promettere (e, ovviamente, a mantenere le promesse), di incapacità di altri a dare fiducia. E si tratterà, per il giovane, di accogliere con serenità e pace le sue particolari fragilità. Spesso è proprio dall’accoglienza della propria peculiare fragilità che prende forma la propria soggettività, la propria originalità; è dalle proprie sofferenze che nasce la propria creatività. La resilienza Colta la dimensione di responsabilità degli adulti nell’opera di costruzione del futuro, vorrei porre l’attenzione sull’incredibile capacità di futuro e di vita da parte di bambini, adolescenti e giovani, che traggono forza e progettualità da situazioni disperate e gravemente traumatizzanti. Situazioni di handicap, di abbandono, di incidente che compromette la salute, di abuso, di maltrattamenti, di violenza, anche situazioni di grave tradimento della fiducia da parte delle persone più prossime, che avrebbero dovuto mostrarsi affidabili e buone, non impediscono la creazione di una vita e lo sviluppo di un futuro. La resilienza è questa capacità di una persona a svilupparsi bene, a continuare a progettarsi e proiettarsi nell’avvenire, anche in presenza di eventi destabilizzanti, di condizioni di vita difficili, di traumi a loro volta molto duri. Non si tratta solo di resistenza alla distruzione, ma anche, positivamente, di costruzione di un’esistenza e di un futuro. Si tratta di una dinamica esistenziale che situazioni estreme, come la detenzione in un lager, fanno emergere. Primo Levi, in Se questo è un uomo, aveva annotato: «La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate è stupefacente, e meriterebbe uno studio approfondito. Si tratta di un prezioso lavorio di adattamento, in parte passivo e inconscio, e in parte attivo» . 20 20. PRIMO LEVI, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1963, 67. Le ragazze iraniane che si trovavano coraggiosamente nella casa della loro professoressa per compiere un’attività vitale per loro, anche se proibita, mostrano capacità di resilienza. Il giovane Enaiatollah Akbari, piccolo afghano, portato dalla madre in Pakistan e che attraverso un viaggio di quattro anni, in mezzo a pericoli di morte e a morti vere di tanti altri che non ce l’hanno fatta, riesce a raggiungere l’Italia attraversando Iran, Turchia, Grecia, è un commovente caso di resilienza. In Italia poi, questo giovane, si è visto riconoscere lo statuto di rifugiato politico. Siamo di fronte a una splendida storia di resilienza, di capacità di creare futuro anche a partire da una situazione di assoluta chiusura. Il libro, scritto da Fabio Geda21 e che ne racconta la storia, è una lettura da consigliare a tutti e rappresenta, tra l’altro, un bell’esempio della fecondità dell’incontro interculturale. 21.FABIO GEDA, Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010. «Diceva il personaggio di finzione Holden Coulfield che “un libro ti piace se, dopo averlo letto, ti viene voglia di telefonare all’autore”. Qui si può fare di più: oltre all’autore Fabio Geda, si può incontrare direttamente il personaggio. Che è una persona. Ti risponderà un giovane neo-italiano che si chiama Enaiatollah Akbari e che oggi studia e lavora, mantiene tre famiglie in Afghanistan e si incazza se vede i suoi amici italiani fumarsi, con una canna, l’equivalente di tre stipendi del suo paese. Un ventunenne che vuole raccontare, far sapere perché tutti abbiano in mente cosa accade in certe parti del mondo. Un ventunenne che ama la scuola, diverso dai suoi amici italiani anche perché a lui l’hanno chiusa i talebani armati e gli hanno fucilato davanti il suo amato maestro. Enaiatollah oggi è come tanti ragazzi di 21 anni, ma anche diverso. Ha un sacco di storia alle spalle, ma ancora fame di futuro. Lasciatevi dunque contagiare. Prendete il largo, nel mare forse ci sono coccodrilli, forse ci sono le balene, ma se vi lascerete andare, se muoverete verso colonne d’Ercole senza sapere se quelle esistono veramente, con un decimo del suo coraggio e della sua determinatezza approderete anche voi alla vostra nuova patria, che è già qui, è l’altro, l’altra a fianco a voi e al quale, invece di girarvi dall’altra parte, chiederete: “Chi sei, da dove vieni? Hai bisogno di aiuto ?”». Siamo nuovamente di fronte a un punto interrogativo. L’altro è sempre una domanda, un punto interrogativo. Ma essenzialmente è domanda di solidarietà, di relazione, di amicizia, di amore. E poiché il tempo è l’occasione di incontrare l’alterità, il futuro è costruito dalle nostre relazioni, dalle nostre amicizie, dai nostri amori. Noi costruiamo il futuro a partire dalla nostra interiorità e dalle nostre relazioni con gli altri. Il punto interrogativo iniziale diviene pertanto una domanda molto precisa rivolta agli adulti e riguarda la qualità della nostra interiorità (dunque della relazione che stabiliamo e viviamo con noi stessi) e delle nostre relazioni con gli altri. E tutto questo è molto importante per le giovani generazioni e per il loro futuro.