R. Jakobson, La poesia contemporanea russa (1921)
“La letterarietà [è] ciò che di una data opera fa un’opera
letteraria. Finora gli storici della letteratura hanno soprattutto
scimmiottato la polizia che, quando deve arrestare una
determinata persona, agguanta per ogni eventualità chiunque e
qualsiasi cosa si trovi nell’appartamento e anche chi per caso si
trovi a passare nella strada accanto. Così anche per gli storici
della letteratura tutto faceva brodo: costume, psicologia, politica,
filosofia. Invece della scienza della letteratura si ebbe un
conglomerato di discipline rudimentali. Pareva che si
dimenticasse che queste categorie rientrano, ognuna, nella
scienza corrispondente, storia della filosofia, storia della cultura,
psicologia ecc., e che queste ultime possono naturalmente
utilizzare anche i monumenti letterari come documenti difettosi,
di seconda scelta”.
Vladimir Nabokov: Introd. a Lezioni di letteratura:
“Quando si legge, bisogna cogliere e accarezzare i particolari. Non
c’è niente di male nel chiarore lunare della generalizzazione, se
viene dopo che si sono amorevolmente colte le solari inezie del
libro. Se si parte invece da una generalizzazione preconfezionata, si
comincia dalla parte sbagliata e ci si allontana dal libro prima
ancora di avere cominciato a capirlo. Non c’è niente di più noioso e
di ingiusto verso l’autore che mettersi a leggere, per esempio,
Madame Bovary, con l’idea preconcetta che sia una denuncia della
borghesia. Non dimentichiamo che l’opera d’arte è sempre la
creazione di un mondo nuovo; per prima cosa, dovremmo quindi
studiare questo mondo nuovo il più meticolosamente possibile,
come se fosse qualcosa che avviciniamo per la prima volta e che
non ha alcun rapporto immediato con i mondi che già conosciamo.
Una volta studiato attentamente questo mondo nuovo, allora
soltanto possiamo analizzarne i legami con altri mondi, con altri
settori della conoscenza”.
Romano Luperini: L’interpretazione dei testi letterari:
la parte del commento
(in L’autocoscienza del moderno, 2006)
“Nella produzione critica si assiste a una pericolosa
divaricazione: da un lato la chiusura specialistica in un
microfilologismo spicciolo, dall’altro […] una propensione
a un ampliamento tematico della ricerca e a un suo
rapidissimo svariare fra testi diversi e lontani che in diversi
casi finisce col perdere di vista la loro concreta materialità
[…]. Da questo punto di vista, la crisi della critica non è che
un aspetto della crisi più generale della funzione
intellettuale e della progressiva scomparsa della figura
storica dell’intellettuale come mediatore civile”.
Romano Luperini: L’interpretazione dei testi letterari
“Nell’attività didattica e nelle indicazioni ministeriali che si
sono succedute nell’ultimo decennio la corrispondente
divaricazione è piuttosto fra un’immagine del docente di
letteratura come esperto e della riduzione dell’insegnamento
della letteratura come riduzione agli schemi e agli schemini
di una lettura esclusivamente linguistica e retorica e, invece,
un’immagine del docente come intrattenitore e tuttologo che
svolge percorsi tematici fra arti e discipline diverse
assumendo la letteratura tutt’al più come documento di
qualcos’altro. Se in un caso l’insegnamento rischia di
diventare arida e meccanica applicazione di metodi
esclusivamente descrittivi, nell’altro ignora la ricca
complessità della letterarietà”.
Romano Luperini: L’interpretazione dei testi letterari
“Sarebbe meglio, nella pratica didattica, lavorare soprattutto
sulla parafrasi del testo (sempre necessaria), sulla differenza
fra lingua del passato e lingua del presente e su poche
fondamentali indicazioni di tipo metrico, narratologico e
stilistico […] per concentrarsi poi sul momento della lettura
e dell’interpretazione. Gli stessi percorsi tematici vanno
accettati e praticati solo a condizione che partano sempre
dallo studio di campioni testuali. In nessun caso, comunque,
il docente dovrebbe rinunciare ad assumere un ruolo di
mediatore culturale, capace di commento e di
interpretazione, di offrire, cioè, modelli di analisi del testo
ma anche prospettive che lo collochino nella storia passata e
ne elaborino il significato per noi, nel nostro presente”.
Mario Lavagetto, Eutanasia della critica (2005)
“Molti anni fa, studente dell’ultimo anno di liceo, andai con
alcuni compagni di classe a sentire una lezione di Ungaretti
su Leopardi all’Università di Roma. Eravamo pieni di
febbrili aspettative e uscimmo sconcertati e delusi: il
vecchio poeta aveva debuttato leggendo
(meravigliosamente) Alla luna. Arrivato alla fine della sua
lettura era rimasto in silenzio, con istrionica impassibilità,
per qualche minuto, poi aveva borbottato: ‘È
meraviglioso… non c’è niente, proprio niente da dire’ e
aveva letto e riletto ripetute volte il testo fino a quando il
tempo della lezione fu completamente esaurito”.
Enrico Testa, Eroi e figuranti.
Il personaggio nel romanzo (2006)
“Nonostante tutta la distanza, lo scetticismo e il sospetto che si possano
frapporre tra noi e la pagina, la letteratura genera fenomeni di
identificazione tra il lettore e i personaggi. È un processo che, tra gli anni
Sessanta e Settanta, venne sbeffeggiato dallo strutturalismo, che vedeva
in esso una miserevole sopravvivenza dello psicologismo più banale e un
residuo umanistico legato a una concezione vieta e retriva della persona e
del soggetto. Per queste ragioni il personaggio fu messo al bando,
svalutato o, comunque, ritenuto argomento di scarso interesse. Per
Genette è ‘un semplice effetto fra tanti altri’, per Barthes ‘un prodotto
combinatorio di sèmi’, mentre per il Calvino dei Livelli di realtà in
letteratura ‘la funzione del personaggio può paragonarsi a quella di un
operatore, nel senso che questo termine ha in matematica’. Questa
‘disumanizzazione’ del personaggio, questa sua riduzione a pura
funzione o algoritmo non hanno però esaurito la sua nozione né hanno
consentito particolari passi avanti lungo la strada della sua
comprensione”.
Robert Louis Stevenson
(1850-1894)
Infanzia e adolescenza (1850-1867)
13 nov. 1850: R.L.S. nasce a Edimburgo, in una famiglia benestante
Padre: Thomas, è un ingegnere civile specializzato nella costruzione
di fari;
Madre: Margaret Balfour, è figlia di un pastore presbiteriano.
L’infanzia di Stevenson è
segnata subito dalla
malattia, che lo costringe
spesso a letto. Vive una
breve e traumatica
esperienza alla scuola
pubblica, poi viene educato
in casa
Infanzia e adolescenza (1850-1867)
Da uno scritto autobiografico:
«La cronaca della mia malattia è narrata nelle terribili, lunghe notti
durante le quali giacevo sveglio, afflitto da una tosse lancinante, senza
tregua, mentre invocavo dal fondo del mio corpicino squassato
l’avvento del sonno o del mattino… Quando torno col pensiero a quelle
notti, ricordo con gratitudine l’affetto instancabile che mi dimostrava la
mia buona governante [Alison Cunningham, detta Cummy], e con esso
la capacità di soffrire con me. Altre scene notturne, connesse con la mia
malattia, mi ricordano gli accessi di delirio che mi svegliavano
improvvisamente dal torpore febbricitante gettandomi in un terrore tale,
quale non ho mai più provato in tutta la vita».
Tra Edimburgo e Londra (1867-1874)
1867: Si iscrive all’Università di Edimburgo, alla Facoltà di Ingegneria
1869: Entra a fare parte della «Speculative Society», una piccola
associazione di studenti universitari che contesta il conformismo e la
moralità bigotta della società vittoriana
1871: Lascia gli studi di ingegneria e si iscrive a giurisprudenza
(prenderà la laurea nel
1875, ma senza iniziare la professione)
1873: Ha un duro conflitto con il padre,
perché dichiara di avere perso la fede
religiosa e di volersi dedicare alla
letteratura.
Tra Edimburgo e Londra (1867-1874)
1873: Incomincia a gravitare su Londra ed entra in contatto con alcuni
importanti scrittori e intellettuali, tra cui Sidney Colvin, professore di
Cambridge molto introdotto negli ambienti letterari londinesi, che per
tutta la vita rimarrà un punto di riferimento costante
1874: Grazie a Colvin, Stevenson entra a far parte del «Savile Club»,
che in questi anni è il baricentro della Londra letteraria, frequentato da
personalità come Thomas Hardy, Henry James, Leslie Stephen
(direttore del “Cornill Magazine” e padre di Virginia Woolf)
I viaggi (1875-1880)
In questo periodo, Stevenson incomincia a viaggiare molto:
1876: Con un amico, discende in canoa lungo fiumi e canali nel nord
del Belgio e della Francia. Sempre in Francia conosce Fanny Van de
Grift, americana, sposata e
madre di due figli – Belle e Lloyd
1878: Attraversa a piedi, in compagnia di
un asino, le Cevennes (Francia).
Luglio 1878: Fanny viene richiamata a San
Francisco dal marito ed è costretta a rientrare
in America.
Agosto 1879: Stevenson si imbarca per
l’America, e dopo un viaggio molto avventuroso arriva in California;
Fanny riesce a ottenere il divorzio, e possono finalmente sposarsi
I viaggi (1875-1880)
Queste esperienze hanno una ricaduta diretta sulla prima produzione
letteraria di Stevenson, che può essere ripartita in due tipologie
fondamentali:
Saggi, non esclusivamente letterari, pubblicati su varie riviste
Resoconti di viaggio, scaturiti direttamente dalle esperienze più o meno
avventurose di questi anni:
 Un viaggio nell’entroterra
 Viaggio a dorso di mulo nelle Cevennes
 L’emigrante dilettante
Ritorno in Europa (1880-1887)
Agosto 1880: Stevenson lascia l’America, sbarca a Liverpool e rientra
in Scozia
Estate 1881: trascorre una lunga vacanza a Braemar, dove scrive il suo
primo romanzo, L’isola del tesoro (1883)
A causa dei problemi di salute, trascorre due inverni (1881-82, e 188283) a Davos, in un sanatorio per malati di tubercolosi
Trascorre alcuni periodi anche a Hyères, nel sud della Francia, in un
luogo che definisce «l’angolo più dolce dell’universo»
Infine si stabilisce a Bournemouth, sulla costa della Manica, dove
rimane fino al 1887.
Ritorno in Europa (1880-1887)
Nonostante i frequenti viaggi e i problemi di salute, Stevenson continua
a scrivere:
Scritti saggistici
Una serie di racconti, tra cui Le nuove mille e una notte (1882) e The
Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1886)
Alcuni romanzi:
 Il principe Otto (1885)
 Il ragazzo rapito. Ricordi delle avventure di David Balfour
nell’anno 1751 (1886)
 La freccia nera (1888)
Nei mari del Sud (1887-1894)
Agosto 1887: Dopo la morte del padre, Stevenson si imbarca con la
famiglia e lascia per sempre l’Europa, diretto negli Stati Uniti. Vi
rimane circa un anno, soggiornando soprattutto nel nord dello Stato di
NY, nella regione dei monti Adirondack e del lago Saranac.
Qui nasce l’idea di un nuovo
romanzo, che sarà il Master
di Ballantrae
Nei mari del Sud (1887-1894)
• 1888: Compra una goletta e inizia una lunga
crociera che tocca le isole Marchesi, poi Tahiti,
Honolulu, le isole Gilbert e infine Samoa, dove si
stabilisce definitivamente;
Acquista un terreno (località
Vailima), fa costruire una
casa, dove rimane a vivere
fino alla morte, avvenuta per
emorragia cerebrale
il 3 dic. 1894
Nei mari del Sud (1887-1894)
Anche in questo periodo continua a scrivere:
Scrive racconti, spesso di carattere fantastico: Il diavolo
nella bottiglia, L’isola delle voci, La spiaggia di Falesà
Scrive nuovi romanzi, tra cui Il relitto (1892) e Il riflusso
della marea (1892-94)
Il Master di Ballantrae
Lettera di Henry James del 21 marzo 1890:
“L’emozione più intensa della mia vita letteraria, come di quella di
parecchi altri, è stata The Master of Ballantrae, puro e forte cristallo,
ragazzo mio, lavoro di ineffabile e squisita arte”.
Stevenson, The Genesis of “The Master of Ballantrae” (1893):
“Una notte stavo camminando nella veranda della piccola casa in cui
abitavo, fuori dal piccolo paese di Saranac. Era inverno; la notte era
molto buia; l’aria straordinariamente chiara e fredda, e resa dolce dalla
purezza delle foreste. [...] si sentiva il fiume che lottava con il ghiaccio
e i massi: poche luci apparivano, irregolarmente sparse nell’oscurità,
ma così remote da non poter attenuare il senso di isolamento. Erano
condizioni ottime per fare una storia”.
Il Master di Ballantrae
A questo punto, nella mente di Stevenson affiora il ricordo di una
lettura recente: dice di avere riletto per la terza o quarta volta un libro
del Capitano Frederick Marryat, The Phantom Ship (1839), una
riscrittura del mito dell’Olandese volante, e di essere stato colto dallo
“spirito di emulazione”:
“Forza, [...] facciamo un racconto, una storia di molti anni e di molti
paesi, una storia di terra e di mare, di civiltà e barbarie; una storia che
abbia le stesse ampie caratteristiche e che venga condotta con quello
stesso sommario, ellittico metodo del libro che hai letto e ammirato”.
“ […] Si presentò alla mia memoria il caso singolare di un fachiro
sepolto e resuscitato, un caso che mi era stato spesso raccontato da un
mio zio”.
Il Master di Ballantrae
Si chiede se il protagonista del libro debba essere “un uomo buono, il
cui ritorno alla vita sarebbe stato salutato con gioia dal lettore e dagli
altri personaggi? Tutto questo andava a cadere sul quadro Cristiano, e
venne respinto. Se l’idea, dunque, doveva riuscirmi di qualche utilità,
dovevo creare una sorta di genio malvagio per i suoi amici e la sua
famiglia, farlo passare attraverso varie sparizioni e fare di questa
riapparizione finale dalla fossa della morte, nel ghiacciato deserto
americano, l’ultima e la più sinistra della serie”.
Il Master di Ballantrae
Il libro viene iniziato a Saranac nel novembre 1887. La stesura dura
circa un anno e mezzo, e viene proseguita nel corso di vari spostamenti,
che porteranno Stevenson nei mari del sud
Viene concluso nel maggio 1889, a Honolulu
Quando ancora non è terminata la stesura,
incomincia a essere pubblicato in rivista:
esce in dodici puntate, tra il nov. 1888 e
l’ott. 1889, sulla “Scribner’s Magazine”
1889: Esce l’edizione in volume (Cassel)
Il Master di Ballantrae
Nella costruzione del romanzo, Stevenson attinge a cinque principali
generi o modelli narrativi:
1. Il mito
2. Il romanzo d’avventura
3. Il romanzo storico (il libro è ambientato tra la rivolta giacobita del
1745-46 e la Guerra dei Sette Anni, 1756-63)
4. Il romanzo psicologico
5. La tragedia
G. Genette, Soglie (1987)
Nozione di paratesto
“L’opera letteraria consiste [...] essenzialmente in un testo [...]. Ma
questo testo si presenta raramente allo stato puro, senza il rinforzo e
l’accompagnamento di un certo numero di produzioni, verbali o meno,
come un nome d’autore, un titolo, una prefazione, delle illustrazioni,
[...] che lo attorniano e lo prolungano, appunto per presentarlo”.
G. Genette, Soglie (1987)
“Il paratesto è dunque ciò che permette al testo di diventare libro e di
proporsi come tale ai suoi lettori, e più in generale al pubblico. Più che
un limite o una frontiera ermetica, si tratta di una soglia, o [...] di un
“vestibolo” che offre a chiunque la possibilità di entrare, oppure di
tornare sui propri passi. Zona indecisa tra il dentro e il fuori, [...]
sempre portatrice di un commento autoriale, o più o meno legittimato
da parte dell’autore, costituisce, tra e testo e fuori-testo, una zona non
solo di transizione, ma anche di transazione: luogo privilegiato di una
pragmatica e di una strategia, di un’azione nei confronti del pubblico ai
fini [...] di una migliore accoglienza del testo e di una lettura più
pertinente”.
G. Genette, Figure III. Discorso del racconto (1972)
[La funzione testimoniale, o di attestazione] “è la funzione che
informa sulla parte presa dal narratore, in quanto tale, alla storia da lui
narrata, cioè sul rapporto fra narratore e storia: rapporto affettivo, certo,
ma anche morale o intellettuale, e che può prendere la forma di una
semplice testimonianza, come quando il narratore indica la fonte da cui
deriva la sua informazione, o il grado di precisione dei suoi ricordi
personali, o i sentimenti risvegliati in lui da un certo episodio”
Stevenson, Lettera a H. James, marzo 1888
“Avevo in mente la situazione di base, una vecchia idea che mi stava a
cuore: il fratello maggiore sparisce nel ’45, resta il più giovane; questi,
ovviamente, eredita titolo, tenuta e sposa la donna designata per il
maggiore, accordo combinato fra le famiglie, solo che lui (il giovane)
l’ha sempre amata, mentre lei era sinceramente innamorata del
maggiore. […] Il fratello maggiore è un INCUBUS: lo si era creduto
morto a Culloden e invece rispunta fuori e cerca di estorcere denaro alla
famiglia, dopodiché torna a vivere con loro, ed è lì che nasce la vera
tragedia, il duello notturno tra i due fratelli (cui si arriva in modo molto
naturale e, credo, ineluttabile) e la seconda presunta morte del
maggiore”.
Struttura a cornici concentriche
Il Ma s te r d i Ba l la n t ra e . P re fa z io n e
M s. d i Ma cke lla r
racco n ta 
R. L.S .
scr i ve 
E dito r
p ub b lic a 
(se t. 1 8 8 9 )
M a cke lla r
(se t. 1 7 8 9 )
i nc l ud e

p arz ial me nt e
S to ri a d e ll a fa m. D ur ie
M s. d i Bu rke
B ur ke

ra cco nt a
Av v e n t ure
d e l M a ster
Mac ke ll ar l a vo ra s u d u e p i a ni, co me n arra to re e co me ed ito r e d i 2 ° gr ad o
L etto r e
R. Ambrosini, R.L. Stevenson, La poetica del romanzo
“Il filtro esotico/avventuroso delle memorie di Burke si sovrappone a
quello domestico/psicologico della narrazione di Mackellar, creando un
ibrido di generi letterari in apparente conflitto tra loro”.
Na rra t o re Mo d o
Gen er e
Mac k el l ar Re al i s mo Ro man zo s t o r i co
/ p si co l o gi co
Lu o g h i
S co zi a, P al az zo
( st at i ci t à)
Bu r k e
Hi gh l an d s, Mar e,
No r d a me r i ca,
I n d i a ( d i n a mi s mo )
Ro ma n ce
Ro man zo
d ’ a vv en t u r a
Tem i
S t o r i a sco zz e se,
f a mi gl i a, fr at el l i ,
er ed i t à e cc.
Gu er r a, vi a g gi o ,
fu g a, p i r at i , t e so r o
ec c.
Pro t a g o n i st a
Hen r y
Ja me s
Struttura che riflette l’impianto tematico della storia (doppio,
rivalità tra i fratelli, lotta tra il bene e il male)
R.L. Stevenson, Author’s Note to “The Master of Ballantrae”
“Il bisogno di un confidente per Mr Henry mi portò a introdurre
Mackellar […]. Nulla mi dà maggior piacere del fatto che uno dei
miei pupazzi si mostri nel suo stesso linguaggio; in nessun altra
forma che questa del monologo drammatico i tratti incongrui e
umoristici vengono presentati in modo così persuasivo. Di
conseguenza, e perfettamente soddisfatto di me stesso, scrissi e
riscrissi precipitosamente la prima metà della mia storia fino alla
fine del duello, attraverso gli occhi e le parole del buon Ephraim. Ma
la codardia viene sempre punita; non avevo ancora preso il largo,
non avevo ancora imparato ad apprezzare i vantaggi del mio metodo,
che fui messo faccia a faccia con i suoi difetti e precipitai in un
terrore folle della conclusione. Come potevo, con un narratore come
Mackellar, rappresentare il melodramma nelle terre selvagge? Come
potevo, con il suo stile così pieno di goffaggini, affrontare un
episodio che doveva essere del tutto travolgente o del tutto sciocco e
assurdo?”
Giorgio Manganelli, L’ordigno letterario
“Mackellar è il servitore fedele di un uomo naturalmente fedele; l’uno e
l’altro intimamente quotidiani, ignari di avventure; la devozione
impersonale di Mackellar si arricchisce di una fondamentale viltà: egli è
definitivamente sacro alle anguste e patetiche dimensioni della vita
domestica. È collaboratore di gesti umili, il discreto assistente, anche
l’amico taciturno, abituato ad avari ma solenni consensi. È anche il
cronista di gran parte della storia [...] Ma un altro compito gli spetta,
inconsapevole ed essenziale: Mackellar deve non capire quello che sta
accadendo, deve registrare con occhi afflitti e diligenti il mostruoso
miracolo, senza intenderlo”
Il narratore inattendibile
Cfr. Wayne Booth, The Rhetoric of Fiction (1961)
 Uno scrittore ha lo scopo fondamentale di comunicare e di imporre al
lettore “il mondo da lui immaginato”;
 Tuttavia, l’artefice di questo mondo non è l’autore empirico, ma è
una sua controfigura all’interno del testo, una sorta di “alter ego”, che
Booth chiama “autore implicito”;
“Quando scrive, [l’autore] non crea semplicemente un ‘uomo in
generale’, impersonale e ideale, ma una versione implicita di se stesso”
Autore Reale → Autore Implicito → Narratore → Lettore
Il narratore inattendibile
Wayne Booth, The Rhetoric of Fiction (1961):
“Ho chiamato attendibile [reliable] il narratore che parla o agisce in
armonia con le norme dell’opera [the norms of the work] (cioè con
quelle dell’autore implicito), inattendibile [unreliable] quello che non lo
fa. […] Di solito l’inattendibilità non ha nulla a che fare con le bugie,
per quanto per alcuni scrittori moderni i narratori menzogneri si siano
rivelati una risorsa preziosa […]. L’inattendibilità è più spesso collegata
con ciò che James chiama inconsapevolezza: il narratore è in errore, o
crede di possedere qualità che l’autore rifiuta di riconoscergli […]. Così
i narratori inattendibili sono notevolmente diversi, a seconda di quanto
e in che direzione si allontanino dalle norme del loro autore. […] Tutti
esigono dal lettore – più di quanto facciano i narratori attendibili –
capacità di deduzione”.
Il narratore inattendibile
Cfr. Wayne Booth, The Rhetoric of Fiction (1961)
Autore Reale
Autore Implicito
Narratore
Lettore
Si crea una forma di complicità, una “intesa segreta” (Booth)
tra Autore implicito e Lettore, alle spalle del Narratore.
Il narratore inattendibile
Seymour Chatman, Storia e discorso. La struttura narrativa nel
romanzo e nel film (1978):
“La narrazione inattendibile è una forma ironica. […] Il lettore […]
avverte una discrepanza tra la ragionevole ricostruzione della storia e il
resoconto datone dal narratore. […] L’autore implicito ha istituito un
rapporto comunicativo segreto con il lettore […]. La inattendibilità del
narratore può derivare da cupidigia (Jason Compson), imbecillità
(Benjy), credulità (Dowling, il narratore di The Good Soldier), ottusità
psicologica e morale (Marcher in The Beast in the Jungle), incertezza o
mancanza di informazioni (Marlow in Lord Jim), innocenza (Huck
Finn) e un gran numero di altri motivi”.
Il narratore inattendibile
Cfr. le riflessioni di Henry James sul punto di vista e sulla prospettiva
ristretta:
 Rifiuta la figura tradizionale del narratore onnisciente;
 Insiste sulla limitazione della prospettiva, perché la storia deve essere
mostrata attraverso gli occhi, la coscienza, la sensibilità di un
personaggio direttamente coinvolto (quello che chiamava “scendere
nell’arena”);
 Un soggetto suscettibile di tutti i dubbi, le incomprensioni, gli errori
a cui può essere soggetto un credibile essere umano.
Di qui: Presupposti narratologici della narrazione inattendibile:
1. Prospettiva ristretta
2. Narrazione in prima persona
Il narratore inattendibile
Wayne Booth, The Rhetoric of Fiction (1961):
I narratori “inattendibili possono ricevere conferme o correzioni da
parte di altri narratori (The Master of Ballantrae, The Sound and the
Fury), oppure non riceverne […]. A volte è quasi impossibile capire se
e fino a che punto un narratore è attendibile; altre, invece, basta una
testimonianza che confermi o smentisca la sua versione. La conferma o
la rettifica si differenziano radicalmente, si noti, a seconda che vengano
fornite all’interno dell’azione […] oppure dall’esterno, al fine di
permettere al lettore di correggere o confermare le sue opinioni
indipendentemente da quelle del narratore”.
R. Ambrosini, R.L. Stevenson: La poetica del romanzo
“Questa ‘Note’ svolge una duplice funzione, nei confronti della scena
in cui è situata, e del testo nel suo complesso. Quando Mackellar
manifesta preoccupazione per come Henry educa il piccolo Alexander,
a motivarlo è la gelosia che prova nel vede come Henry passi tutto il
tempo col bambino. Qui come altrove, è l’affermazione di un affetto, di
un legame di sangue, a farlo sentire un estraneo [...]. ‘R.L.S.’ sta quindi
avvertendo il lettore che Mackellar avrebbe anche in seguito tentato di
svolgere il medesimo ruolo nei confronti delle generazioni successive,
diventando un ‘exacting servant’ di cui ci si è dovuti liberare per la sua
invadenza. [...]
La seconda funzione è quella di suggerire [...] che il risentimento
verso la famiglia sia stata la molla che ha spinto il servitore a stendere
le sue memorie”.
Il ruolo del paesaggio
Giorgio Manganelli, L’ordigno letterario (1965):
Ha parlato dei “singolarissimi, stupendi paesaggi
stevensoniani: e quelli del Master di Ballantrae sono tra i più
incantevoli e memorabili”.
R.L. Stevenson, A proposito del “romance” (1882):
“Esiste una particolare predisposizione per ogni luogo o
evento. La vista di un pergolato ombroso e attraente ci fa
venire in mente di sedervisi; certi ambienti suggeriscono
l’idea del lavoro, altri l’ozio, altri ancora il desiderio di
alzarsi presto e di fare lunghe passeggiate nell’erba ancora
umida di rugiada.
Il ruolo del paesaggio
R.L. Stevenson, A proposito del “romance” (1882):
“Le immagini della notte, di un qualsiasi corso d’acqua, di
città illuminate, del baluginare dell’alba, delle navi, dei mari
aperti, ci evocano nella mente miriadi di sensazioni piacevoli
e di desideri indistinti. Sentiamo che qualcosa dovrebbe
accadere; non sappiamo ancora che cosa, ma procediamo,
cerchiamo, in attesa. E molte delle nostre ore più felici ci
scorrono fra le dita nella vana aspettativa dell’apparizione del
genius loci. […] È certo che alcuni luoghi parlano da sé, in
modo distinto: certi giardini umidi e oscuri attendono ansiosi
i più orrendi delitti, certe vecchie case implorano di essere
visitate da spettri, certi scoscesi tratti costieri sono stati creati
apposta per un bel naufragio. Altri sembrano meditare sul
loro stesso destino, suggestivi e impenetrabili”.
La “human tragedy”
Stevenson, Lettera a Henry James (marzo 1888):
Dopo il ritorno del fratello maggiore, “nasce la vera tragedia, il duello
notturno tra i due fratelli (cui si arriva in modo molto naturale e, credo,
ineluttabile) e la seconda supposta morte del maggiore)”.
La “human tragedy”
Stevenson, Lettera a Henry James (marzo 1888): “Il mio romanzo
è una tragedia. [...] Le prime cinque parti sono ben fatte, rendono
efficacemente la tragedia umana, ma le ultime due o l’ultima, lo
dico con rammarico, non hanno una costruzione altrettanto
convincente. Ho provato una sorta di esitazione nello stenderle,
sono senz’altro pittoresche, ma hanno un che di inverosimile,
fanno arrossire la parte iniziale, probabilmente la sciupano. Vorrei
saperlo. Comunque il racconto è venuto fuori così. [...] Perché la
terza e supposta morte e il modo della terza riapparizione sono
inverosimili, signore, inverosimili. Anzi, addirittura troppo
inverosimili, e temo che rovinino tutta la parte buona fino a quel
punto, ma nello stesso tempo sono un finale altamente suggestivo
e che conduce alla morte del fratello maggiore per mano del più
giovane in un delitto perfettamente a sangue freddo, di cui vorrei
(e sottintenderei) il consenso del lettore”.
La figura del Master, tra essere e apparire
Cfr. Lettera di Stevenson a Sidney Colvin (dic. 1887), in cui dice che:
 Mentre Mackellar, Henry e Alison sono “delle gran brave persone”, il
Master “riassume tutto quello che so del diavolo”;
 E benché sia coraggioso come un leone, gli ha voluto attribuire le
qualità diaboliche che nella vita reale aveva incontrato solo in due
vigliacchi;
 Tuttavia, aggiunge di avere trovato “segni della stessa natura in un
altro uomo che non era un codardo; ma lui aveva altre cose di cui
occuparsi; mentre il Master non ha altro che il suo carattere diabolico
[his devilry]”.
La figura del Master , tra essere e apparire
Stevenson, The Genesis of “The Master of Ballantrae”:
“Per il Master non avevo alcun modello [original], ciò che forse è un
altro modo per confessare che il modello non era altri che me stesso.
Tutti noi abbiamo un certo atteggiamento nei confronti del nostro
carattere e del nostro ruolo nella vita; in maggiore o minore misura,
desideriamo che ci sia identità tra l’essere e l’apparire [between the
essence and the seeming], e il segreto del Master è soprattutto questo,
che lui è indifferente a tale problema. Un uomo vivo, un uomo pieno, un
uomo umano sotto tutti gli altri aspetti, che ha quest’unico elemento di
inumanità”.
Il personaggio, tra agente e carattere
Aristotele, Poetica:
“Poiché chi imita, imita persone in azione [práttontas], queste non
possono essere che serie o dappoco (i caratteri seguono sempre solo
questi due tipi, perché gli uomini, per quanto riguarda il carattere,
si distinguono per vizio o per virtù), persone cioè migliori di noi, o
peggiori di noi, o come noi”.
“[L’elemento] più importante è la sistemazione degli eventi, perché
la tragedia non è imitazione di uomini, ma di azione e di vita”.
“Poiché è imitazione di un’azione, [la tragedia] è realizzata da
personaggi che agiscono, e che necessariamente hanno certe qualità
di carattere [ethos] e di pensiero [diánoian] […]; l’imitazione
dell’azione vera e propria è la trama [mythos]. Per trama intendo in
questo senso la sistemazione dei fatti, per caratteri ciò per cui
diciamo che chi agisce ha certe qualità, per pensiero ciò con cui
parlando si argomenta o si esprime un giudizio”.
Il personaggio, tra agente e carattere
Aristotele, Poetica:
Si delineano due declinazioni principali:
1. Il personaggio come pratton, come agente, come funzione degli
avvenimenti e della trama;
2. Il personaggio come ethos, come portatore di determinate qualità che
definiscono la sua “personalità” e che possono essere ricondotte a un
determinato sistema di valori, culturalmente connotato (bene/male,
virtù/vizio, nobilità/meschinità ecc.).
Il personaggio come funzione
Vladimir Propp, Morfologia della fiaba (1928), il personaggio viene
ridotto all’azione che compie, alla funzione che svolge nell’economia
dell’intreccio, a prescindere dalle sue qualità e anche dalle motivazioni
“psicologiche” che lo muovono:
«Constatiamo così ancora una volta il fatto che la volontà dei
personaggi e le loro intenzioni non possono essere considerate un motivo
essenziale per la loro determinazione. L’importante non è quello che essi
vogliono fare, non i sentimenti che li muovono, ma le loro azioni in
quanto tali, valutate e determinate in base al loro significato per l’eroe e
per lo svolgimento dell’azione».
Il personaggio come funzione
Seymour Chatman, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo
e nel film (1978):
«Le opinioni dei formalisti e di (alcuni) strutturalisti somigliano
sorprendentemente a quelle di Aristotele. Anche loro affermano che i
personaggi sono prodotti dell’intreccio, che il loro statuto è ‘funzionale’,
in breve che essi sono partecipanti o attanti più che persone e che è
sbagliato considerarli come esseri reali».
Il personaggio come paradigma di tratti
Roland Barthes, S/Z (1970):
«Quando sèmi identici [sèma = un tratto semantico che rimanda a una
qualità o a un carattere, ad es. buono, malvagio, generoso, arrogante
ecc.] attraversano a più riprese lo stesso Nome proprio e sembrano
fissarvisi, nasce un personaggio. Il personaggio è quindi un prodotto
combinatorio: la combinazione è relativamente stabile (caratterizzata dal
ritorno dei sèmi) e più o meno complessa (comportando tratti più o meno
congruenti, più o meno contraddittori); questa complessità determina la
‘personalità’ del personaggio, altrettanto combinatoria quanto il sapore di
una pietanza o l’aroma di un vino».
Il personaggio come costrutto aperto
Chatman, Storia e discorso:
«Certi personaggi di narrative sofisticate rimangono costrutti aperti,
proprio come nella vita reale certe persone, per quanto le conosciamo,
rimangono misteriose».
Giorgio Ficara, Homo fictus (in F. Moretti, Il romanzo, vol. IV):
«Ciò che io autore non conosco è precisamente ciò che il mio
personaggio, nel momento stesso in cui viene narrato, mi aiuta a
conoscere o, perlomeno, mi addita come conoscibile o non ancora
conosciuto».
Il personaggio, un “gruppo di parole”
Edward Morgan Forster, Aspetti del romanzo (1927):
“Il romanziere mette insieme una certa quantità di gruppi di parole
[word-masses] che grossomodo rispecchiano l’animo di lui autore
[...], li fornisce di nome e di sesso, assegna loro azioni plausibili, li fa
parlare usando le virgolette, e forse li fa anche agire con una certa
coerenza. Questi gruppi di parole sono i suoi personaggi”.
Paul Valéry, Tel Quel (1943):
“Superstizioni letterarie – così chiamo tutte quelle convinzioni che
concordi dimenticano la condizione verbale della letteratura. Quindi
esistenza e psicologia dei personaggi, queste creature vive senza
viscere”.
Roland Barthes, Introduzione all’analisi strutturale dei racconti (1966):
È ingenuo “vedere il narratore e i personaggi come persone reali, ‘vive’
(conosciamo l’indefettibile potenza di questo mito letterario) [...].
Narratore e personaggi sono essenzialmente degli ‘esseri di carta’ [êtres
de papier]”.
Il personaggio, un “gruppo di parole”
Jacques Lacan, Hamlet (1981-82):
Niente di più sbagliato che considerare i personaggi come dei
nostri vicini di casa: “Amleto non è un nevrotico per la buona
ragione che è una creazione poetica; Amleto non ha una nevrosi, ci
mostra – ed è cosa completamente diversa – una nevrosi [...] L’eroe
è strettamente identico alle parole del testo”.
Il personaggio, tra segno e illusione
Cfr. Arrigo Stara, L’avventura del personaggio. Distingue tra:
a. Il “principio della natura segnica del personaggio”, cioè l’idea che il
personaggio sia un segno come un altro, un “gruppo di parole”
rinchiuso nell’universo circoscritto del testo, privo di un rapporto
effettivo con la realtà extratestuale, con la dimensione referenziale;
b. Il “principio della natura illusionistica del personaggio”, cioè la
constatazione che il personaggio ha un potenziale mimetico o
illusionistico, permette al lettore di identificarsi emotivamente in lui,
come se fosse una persona reale dotata di vita propria.
Il personaggio, tra segno e illusione
John Fowles, La donna del tenente francese (1969), cap. 13:
“La storia che sto raccontando è tutta immaginazione. I personaggi
che creo non sono mai esistiti fuori della mia fantasia. Se ho finora
finto di conoscere la loro mente e i loro pensieri più segreti, è perché
sto scrivendo in una convenzione (nonché in parte con un
vocabolario), universalmente accettata all'epoca in cui si si ambienta
il mio racconto, secondo la quale il romanziere siede accanto a Dio.
Può non sapere tutto, ma cerca di fingere il contrario. Io però vivo
nell'epoca di Alain Robbe-Grillet e Roland Barthes; se questo è un
romanzo, non può che esserlo nell'accezione moderna del termine.
[…] Forse voi credete che a un romanziere basti tirare i fili giusti
perché i suoi fantocci si comportino come nella vita, e producano a
richiesta un’analisi approfondita dei propri motivi e delle proprie
intenzioni […]”.
Il personaggio, tra segno e illusione
“Voi forse credete che i romanzieri abbiano sempre un piano
predeterminato per il loro lavoro, e che il futuro previsto nel primo
capitolo sia sempre, inesorabilmente, il presente del tredicesimo. In
realtà i romanzieri scrivono per un’infinita varietà di ragioni: per il
denaro, per la fama, per le recensioni, per i genitori, per gli amici, per
le persone amate […] Potrei riempire un libro di queste ragioni, e
sarebbero tutte vere, ma non vere per tutti. Una sola ragione è comune
a tutti noi: vogliamo creare mondi reali quanto quello che esiste, ma
diversi. Per questo non possiamo far piani. […] Sappiamo anche che
un mondo autenticamente creato deve essere indipendente dal suo
creatore, che un mondo pianificato (un mondo che riveli totalmente la
sua progettazione) è un mondo morto. Incominciamo a vivere soltanto
quando i nostri personaggi e i nostri eventi cominciano a
disobbedirci”.
Il personaggio, tra segno e illusione
“Quando Charles si allontanò da Sarah [sono i due protagonisti del
romanzo] sul bordo della scogliera, gli ordinai di tornare direttamente
a Lyme Regis. Ma lui non mi ascoltò: voltò senza alcuna
giustificazione e scese alla cascina.
Su, andiamo, direte voi: in realtà io voglio dire che mentre scrivevo
mi venne in mente che sarebbe stato più azzeccato farlo fermare a
bere il latte… e incontrare di nuovo Sarah. Ora questo spiegherebbe
sicuramente quanto è accaduto, ma io posso soltanto riferire – e sono
il testimone più attendibile – di aver avuto la netta impressione che
l’idea partisse da Charles e non da me. E non soltanto perché lui ha
cominciato a conquistarsi una certa autonomia, ma perché se voglio
che lui sia reale devo rispettare questa autonomia e non i piani
semidivini che avevo fatto per lui”.
Il personaggio, tra segno e illusione
“Ho scandalosamente distrutto l’illusione? No. I miei personaggi
continuano a esistere, e in una realtà che non è meno, o più, reale di
quella che ho appena distrutto. […] Io ritengo che questa nuova realtà
(o irrealtà) sia più valida, e vorrei che voi pure condivideste la mia
convinzione di non poter controllare del tutto queste creature della
mia mente, come voi non controllate […] i figli, i colleghi, gli amici o
addirittura voi stessi.
Dite che questo è assurdo? Che un personaggio o è ‘reale’ o
‘immaginario’? Se tu la pensi così, hypocrite lecteur, posso soltanto
ridere. Tu non consideri del tutto reale neanche il tuo passato; lo
aggindi, lo indori, lo diffami, lo censuri, lo rattoppi... in una parola lo
romanzi e lo metti su uno scaffale, è il tuo libro, la tua biografia
romanzata. Tutti noi non facciamo che sfuggire alla realtà reale. È
questa una definizione fondamentale dell'homo sapiens”.
Il personaggio, tra segno e illusione
Quando apriamo un romanzo, sottoscriviamo una sorta di patto con
l’autore, che potrebbe essere formulato così: “So benissimo che quello
che mi stai per raccontare è una finzione, che i personaggi non esistono,
che gli eventi sono immaginari ecc.; ma finché durerà la mia lettura io
fingerò di credere che quanto mi racconti sia reale”
 Cfr. S.T. Coleridge: “Volontaria sospensione dell’incredulità (willing
suspension of disbelief”)
Il personaggio, tra segno e illusione
Lev Tolstoj, Infanzia:
Il protagonista sta giocando con un bastone nel bosco, fingendo di
cacciare. Ma suo fratello si rifiuta di farlo, e gli dice che un bastone non
spara.
“Lo so anch'io che con un bastone, nonché ammazzare un uccello, non
gli si può neppure tirare. È un gioco. [...] Se si deve ragionare
seriamente, non sarà più possibile alcun gioco. E se non vi sarà più il
gioco, che cosa rimarrà allora?”.
Scarica

Il Master di Ballantrae