Politiche migratorie e modelli di integrazione Valentina Di Cesare Mediatrice culturale e linguistica • In Italia il tema dell’immigrazione viene affrontato in modo strutturato, uscendo dalla logica dell’emergenza e accogliendo gli orientamenti e le politiche europee in materia di integrazione, soltanto dalla Turco Napolitano e dal Testo Unico emanato con d.lgs. 25 luglio 1999, n. 286. Per la prima volta nel nostro paese si è allora avviato un percorso di riconoscimento esplicito dei diritti e degli obblighi civili ai cittadini immigrati, in buona sostanza gli stessi riconosciuti ai cittadini italiani (art. 2, comma 2 T.U.), con l’importante eccezione del diritto di voto e alcune forme di esclusione sancite da leggi desuete ancora in vigore o dovute a inevase richiesta di reciprocità rivolte ad alcuni paesi di provenienza. • Le politiche migratorie non solo nel nostro paese, hanno dunque due principali obiettivi teorici: garantire l’ordine e la sicurezza pubblica con il contrasto all’immigrazione clandestina; favorire l’accoglienza e l’integrazione degli immigrati regolari promuovendo la coesione sociale. • In Italia si parla da decenni di immigrazione, e molti partiti hanno fatto messo al centro dei loro programmi la tematica, alcuni scagliandosi contro il fenomeno, altri promuovendo l’integrazione. Dopo numerosi interventi legislativi a riguardo, cosa c'è di vero tra i falsi miti sull'immigrazione in Italia? Quali effetti hanno avuto le politiche pubbliche realizzate negli anni? • Nonostante la sua evidente rilevanza, il dibattito sugli effetti e la desiderabilità (o forse inevitabilità) dei flussi migratori è troppo spesso lasciato a spinte emotive che confondono il merito delle questioni. Secondo i dati della Transatlantic Trends Survey, tra i paesi economicamente avanzati l'Italia è tra quelli in cui l'opinione pubblica è più attenta al tema migratorio: l'80% dei rispondenti dichiara infatti di seguire costantemente news legate all'immigrazione, e più del 50% dichiara di ritenere che ci sono troppi immigrati. Eppure, questa quota scende a circa il 30% per quei rispondenti che, prima della domanda, venivano informati sul reale numero degli stranieri residenti nel Paese. • Nel 2012, gli stranieri con regolare documentazione che vivevano in Italia erano infatti 4,9 milioni – circa l'8 per cento della popolazione totale. Difficile definire il numero di irregolari, ma alcune stime calcolano che questi siano tra i 500 e i 750mila. In totale, si tratta di una popolazione di quasi 6 milioni di persone. Secondo il rapporto "Legal and illegal carriers" pubblicato lo scorso anno dalla Fondazione Rodolfo de Benedetti, l 30% risiede nel Nord-Ovest, il 26% nel NordEst, il 27% al Centro e il restante 13% tra Sud e Isole. Gli oltre 2 milioni di stranieri che lavorano in Italia contano per più del 10 per cento del totale degli occupati. • Il tasso di occupazione dei residenti stranieri, insomma, è molto elevato (il 63% nel 2011, contro il 52% degli italiani). Il 59% di essi è occupato nei servizi, il 20% nella manifattura, il 17% nelle costruzioni e il 4% nell'agricoltura. Per lo più, sono impegnati in occupazioni a bassa qualifica, che secondo alcune stime rimangono scoperte per il 26,7% a causa della mancanza di offerta di lavoro da parte di italiani. Di conseguenza, il reddito dei lavoratori stranieri è circa il 23% più basso rispetto al reddito medio dei lavoratori italiani. • Sempre secondo la Transatlantic Trend Survey, quasi il 70% degli Italiani (la quota più alta tra i paesi avanzati) teme che il fenomeno dell'immigrazione aumenti la criminalità. Nella maggior parte dei paesi Ocse, in effetti, la popolazione immigrata è sovra- rappresentata nelle carceri: in Italia, ad esempio, pur contando solo l'8% del totale della popolazione, gli immigrati pesano per il 33,4% della popolazione carceraria • In realtà, è noto nella letteratura sociologica ed economica che la propensione al crimine della popolazione immigrata è del tutto simile a quella dei nativi, al netto di elementi demografici (la popolazione immigrata è infatti solitamente composta da maschi giovani, quindi di per se più predisposti a commettere crimini) e condizionatamente alla situazione socio-economica in cui questi si trovano. Nel caso italiano, la sovra-rappresentazione degli immigrati nella popolazione carceraria potrebbe essere quindi legato non tanto alla propensione al crimine, quanto dal funzionamento inadeguato del sistema giudiziario e delle politiche migratorie. Queste, in Italia, si sono basate negli anni sul un sistema di quote e una serie di amnistie. Il sistema di quote, stabilito nel 1998 dalla Turco-Napolitano e confermato nel 2002 dalla Bossi-Fini, si basa su Decreti Flussi annuali (quello del 2014 prevedeva 15mila ingressi), che stabiliscono quanti lavoratori stranieri potranno entrare in Italia in un dato anno, ripartendoli sulla base del tipo di lavoro (stagionale e meno) e a livello regionale. A quanto pare la prassi, in seguito al decreto flussi, la prassi tra i cittadini immigrati è rapidamente diventata quella di entrare nel paese clandestinamente (lasciando ad esempio scadere un visto turistico), trovare un datore di lavoro interessato a legalizzare la posizione professionale e poi aspettare un “decreto flussi” per fare domanda di accoglimento. In totale, a partire dalla loro introduzione, i decreti flussi hanno permesso l'ingresso (o regolarizzazione) di circa 1,7 milioni di lavoratori. Dal 1986 a oggi si sono registrate 7 “amnistie” (1986, 1990, 1995, 1998, 2002, 2009 e 2012, adottate in maniera rigorosamente bipartisan da governi di centro, di sinistra, di destra e di tecnici). Queste hanno legalizzato quasi 2 milioni di immigrati clandestini: ossia poco meno della metà della popolazione attualmente presente in Italia. Nel 2002, ad esempio, la legalizzazione di 650mila immigrati irregolari ha condotto a un aumento del 70% della popolazione totale di origine straniera. Quella delle amnistie, tuttavia, si rivela essere stata una politica fallimentare sotto vari aspetti. • Un analogo discorso può essere fatto per gli effetti delle quote dei decreti flussi. Nel 2007, le richieste sono state inoltrate attraverso dei clickdays (tre nel 2007, il 15 il 18 o il 21 dicembre). Collegandosi al sito del ministero dell'interno, i richiedenti potevano presentare la loro domanda in un orario fissato, seguendo la logica "firstcome-first-served": le domande venivano accettate fino all'esaurimento dei permessi disponibili. (Tutte le informazioni presenti sono tratte dal rapporto sociologico elaborato dagli studiosi Fasani e Pinotti) • I due ricercatori hanno potuto studiare se l'ottenimento dello status di lavoratore regolare ha avuto un effetto sulla probabilità di commettere crimini. Questo dietro l'assunto che la logica del clickday è fondamentalmente casuale. Sebbene possono esserci differenze (ad esempio di attitudini e motivazione verso il proprio status legale, che possono essere legate alla probabilità di commettere crimini) tra un individuo che presenta la propria domanda appena possibile e uno che la presenta con molte ore di ritardo, non ci sarà invece molta differenza tra un individuo che clicca per inviare la domanda di permesso un minuto prima o un minuto dopo l'assegnazione dell'ultimo posto disponibile. Ciononostante, Fasani e Pinotti trovano che la concessione dello status di lavoratore regolarmente soggiornante (una questione di secondi, a volte) diminuisce di per se e in maniera significativa la probabilità di commettere crimini. • Secondo Fasani e Pinotti, le restrittive politiche italiane in termini di permesso di soggiorno hanno contribuito a elevare i tassi di criminalità registrati, incentivando periodi di lavoro irregolari in attesa della successiva sanatoria. Il che lascia con due alternative: o uno sforzo di polizia molto superiore di quello presente, oppure chiudere l'attuale gap tra l'effettivo numero di immigrati permessi dalle quote e il numero di potenziali lavoratori stranieri, spesso già presenti in Italia. • La prima soluzione potrebbe disincentivare nuovi ingressi irregolari, dando l'immagine di un giro di vite sull'immigrazione clandestina, ma avrebbe costi fiscali enormi, probabilità di successo limitate, e peserebbe probabilmente sull'economia italiana. Infatti, un recente studio condotto da due economisti, Gianmarco Ottaviano e Giovanni Peri, mostra che, contrariamente a quanto spesso ritenuto, i lavoratori stranieri non competono al ribasso sui salari dei lavoratori dei paesi d'origine - anzi, la domanda di lavoratori stranieri è complementare (e non sostituta) di quella dei lavoratori d'origine così che, nelle zone a maggiore integrazione, si registra un aumento di produttività e salari grazie alla maggiore specializzazione produttiva. • Stime confermate da un recente studio sui paesi Ocse, secondo cui un moderato aumento dell'immigrazione aumenterebbe il benessere dei lavoratori nativi dell'1,25 per lavoratori ad alta qualifica e dell'1% per lavoratori a bassa qualifica. L'Italia sarebbe tra i paesi che più beneficerebbero da una politica sull'immigrazione più informata. • La disinformazione o l’informazione negativamente gestita, l’impreciso uso dei termini, contribuiscono e a creare tra i cittadini del paese d’accoglienza una fitta rete di pregiudizi rispetto ai cittadini stranieri, che non si rivelano affatto benefici in una società. • La regolazione dei flussi migratori è difficile. La probabilità di fallimento è elevata e quasi sempre le riforme introdotte producono cambiamenti molto inferiori alle aspettative. Negli Stati democratici, l’opinione pubblica è quasi sempre insoddisfatta con la situazione migratoria del proprio Paese e tende automaticamente ad attribuirne la responsabilità ai propri decisori politici. Gli studi storici ci dicono che i sistemi migratori moderni si sono sviluppati quasi sempre in modo diverso da quanto i politici dei Paesi d’arrivo dichiaravano di volere e in misura diversa da quanto i sondaggi, se disponibili, informavano la popolazione • dichiarasse di desiderare. Non sorprende dunque, che le politiche migratorie siano al centro dei dibattiti nei paesi particolarmente interessati dal flusso migratorio e scatenino frequentemente conflitti anche accesi. • Anche in questo quadro generale, tuttavia, si può sospettare che la situazione italiana presenti alcune caratteristiche particolari. In Italia, infatti, le politiche migratorie sono oggetto di conflitti continui, non solo nelle aule parlamentari ma in tutta la società. Sotto certi aspetti, il dibattito italiano sull’immigrazione è quasi esclusivamente un dibattito sulle politiche migratorie: l’andamento dell’attenzione pubblica sul fenomeno è quasi esclusivamente legato ai conflitti parlamentari e l’ampia maggioranza degli intervistati è costituita da politici • La nostra incapacità di gestire bene il tema immigrazione è forse anche dovuto al fatto che l'Italia si è trasformata da un paese di emigrazione ad un paese di immigrazione. Il fenomeno dell'immigrazione cominciò dalla metà del 1970, ma il più grande afflusso avviene dopo la metà degli anni '80. • Nel periodo postbellico i paesi europei come la Germania, la Francia e la Gran Bretagna hanno adottato delle politiche come risposta alla presenza delle minoranze etniche degli studenti nelle scuole. Questi tre paesi avevano promosso sostanzialmente diverse politiche. Tuttavia in Italia non abbiamo nè un uniforme curriculum nelle scuole nè una uniforme politica per integrare i migranti nel sistema educativo europeo per quanto riguarda i modelli di integrazione e la loro realizzazione. • E’ bene ricordare però che la globalizzazione ha determinato nuovi ed inediti rapporti tra gli Stati e tra gli individui: ha reso evidente la necessità di forme nuove di convivenza sociale e civile regolata dai rapporti tra diversi gruppi sociali e culturali. • Di conseguenza le identità culturali ed etniche, ma anche gli stessi individui hanno subito modificazioni nelle loro condizioni di vita, nei rapporti sociali e nella stessa percezione della loro condizione umana. • Lo Stato-nazione così si è indebolito in seguito all'aumento dell'immigrazione (ha una propria identità linguisticoculturale). La messa in discussione dello Stato-nazione ha portato alla formazione di tre modelli di integrazione degli immigrati: • − il “modello assimilazionista” francese, basato sull'idea che chi sceglie di far parte di una comunità nazionale deve condividerne gli ideali e le tradizioni; • − il “modello di istituzionalizzazione delle precarietà” tedesco, che considera gli immigrati ospiti temporanei dello Stato, che ne tutelano le diversità in vista del loro rientro nel loro stato; • − il “modello pluralista” inglese, che accetta un certo grado di diversità sia culturale che religiosa, espressa nello spazio pubblico • Negli Stati Uniti d'America, in cui è presente una molteplicità di culture con proprie caratteristiche, per quanto riguarda l'assimilazionismo sono state formulate due tipi di metafore: il melting pot e il salad bowl • Il primo prevede la fusione delle diverse etnie e culture in un'unica cosa; questo tipo di integrazione è però considerata da alcuni come una minaccia per l'identità culturale della comunità autoctona. Questo atteggiamento che è considerato pericoloso perché potrebbe inquinare e corrompere l'identità della comunità con la mescolanza di culture diverse è stato definito mixofobia, paura cioè della mescolanza. Secondo altri che non temono l'interazione fra le culture pensano che il melting pot sia comunque dannoso, perché gli immigrati per non venire emarginati e per essere accettati cancellano la propria identità culturale. • Il salad bowl prevede invece una mescolanza, ma non una fusione delle diversità, cioè una grande varietà di culture in un territorio senza annullare le differenze né far prevalere una sulle altre. Non a caso è stato scelto il termine “insalatiera” per indicare una società in cui si valorizza il rispetto delle differenze culturali • Nella cultura anglosassone il modello pluralista si ispira a due filosofie in contrasto tra di loro, quella liberale e quella comunitaria. • La prima sostiene il primato della libertà individuale, garantita da uno stato neutrale, in campo religioso, culturale e politico. • Questa concezione vede una netta scissione tra Stato e Chiese, ritenendo la confessione religiosa un fatto puramente privato e quindi non rientrante nei doveri dello Stato. • La seconda, invece, crede fermamente nell'esistenza di un'identità naturale dell'individuo in cui lo Stato, al contrario della filosofia liberale, non deve essere neutrale perché ha l'obbligo di occuparsi del bene comune di ogni cittadino comprese le minoranze etniche che si trovano all'interno di esso. • Questi modelli si sono venuti a creare negli Stati che per primi hanno avuto un numero alto di immigrati, come la Francia, la Inghilterra e la Germania. L'Italia che fino agli anni '70 del Novecento ha avuto un alto livello di emigrazione non ha quindi potuto formare un modello proprio. • Le società moderne sono, a tutti gli effetti società multiculturali e dovrebbero dunque “adattarsi” a questa nuova realtà e a riconoscere le minoranze culturali ed etniche. (esempi minoranze) • Ad esempio in Canada c'è stato bisogno di una serie di scontri per il riconoscimento di due culture distinte all'interno del paese. Alla lotta dei franco-canadesi per il bilinguismo nelle istituzioni statali e il biculturalismo scolastico, molto probabilmente si deve la nascita del termine “multiculturalismo. • Con questo termine i francofoni intendevano una condizione in cui francofoni e inglese coesistevano con separazione e autonomia gli uni dagli altri. • Con la politica multi-culturalista del governo Trudeau nel 1971 si ha la netta divisione in due culture con proprie identità, determinate dalla loro differente storia. • Il multiculturalismo ha incontrato però inevitabilmente qualche problema, in ambito scolastico soprattutto in Europa dove è più esplicita la volontà dello Stato di esprimere la cultura del paese. • In Italia, a proposito della scuola multiculturale, è ancora in corso il dibattito e la questione rimanda soprattutto ad un problema linguistico: il rapporto tra la lingua italiana e la lingua madre. (esempi didattica L2) • Se alcuni sostengono che nella scuola multiculturale non si devono esercitare pressioni linguistiche sugli studenti stranieri mentre è opportuno valorizzare l'uso della lingua d'origine, essenziale in famiglia, altri sostengono l'importanza dell'integrazione degli alunni nella cultura e nella lingua del nostro paese. A questo riguardo è significativo il fatto che in una scuola di Mantova un bambino cinese abbia vinto il premio per una poesia scritta in dialetto. • L'insegnamento deve avere come scopo l'educazione collettiva, coinvolgendo oltre agli studenti e agli insegnanti, anche il dirigente e le famiglie. C'è quindi la necessità di un modello non centralizzato, in quanto non si possono affrontare queste nuove problematiche con modelli di un passato in cui l'immigrazione non era a questi livelli.