Teorie della Complessità Uno sguardo globale Si parla di: • teorie della complessità • epistemologia della complessità • pensiero della complessità • scienze della complessità • … • Non è facile riassumere in poche parole il concetto di complessità in quanto esso rappresenta più un nuovo di modo di pensare che una branca scientifica compiuta. • Si potrebbe dire, con L. Pietronero, che lo studio dei sistemi complessi riguarda l'emergere di proprietà collettive in sistemi con un gran numero di componenti in interazione tra loro. “Il tutto è più della somma delle parti” Dobbiamo dunque considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto del suo stato anteriore e come causa del suo stato futuro. Un’Intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze di cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se perdipiù fosse abbastanza profonda per sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi. Pierre Simon Laplace, Essai philosophique sur les probabilites, 1814 Pensiero profondo Nel romanzo di fantascienza Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams una razza di esseri superintelligenti programma un calcolatore gigantesco – chiamato Pensiero Profondo – con lo scopo di trovare «la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto». Pensiero Profondo impiega sette milioni e mezzo di anni di elaborazioni, ma alla fine riesce a trovare la risposta alla Domanda fondamentale… Guida galattica per autostoppisti – Garth Jennings (2005) La vita non è un mero meccanicismo • Per i teorici della complessità la vita non può essere ridotta a un meccanismo. → prospettiva antimeccanicista → La natura che si comporta in maniera meccanica non è la “natura originaria” (Metzger, 1954, tr. it. 1971, p. 253), ma è quella costretta a funzionare alla stregua di una macchina: si tratta di una natura “violentata dall’uomo”, i cui processi sono stati isolati e costretti a funzionare entro certi limiti ben precisi (Ibidem, pp. 253-54). …sappiamo che il disordine si può escludere e l’ordine instaurare di forza imponendo dall’esterno controlli adeguati sull’azione dei fattori in gioco. […] possiamo obbligare le forze della natura a un lavoro ordinato. Ma in genere si sottintende come certo che questo sia anche il solo modo in cui si possa ottenere dell’ordine negli eventi fisici. A questo modo l’uomo ha concepito la natura per migliaia di anni: e allo stesso modo oggi noi imponiamo ordine alla natura nella stessa maniera quando costruiamo e azioniamo i macchinari delle nostre industrie. In tali macchine permettiamo alla natura di produrre, per esempio, del moto, ma la forma e l’ordine di questo moto sono prefissati dall’anatomia delle macchine che l’uomo e non la natura ha stabilito. (Köhler 1947, tr. it. 1989, p. 75) • Un sistema meccanico è anche, fondamentalmente, un sistema morto. Le interazioni che tengono in vita un cane non possono essere studiate in vivo. Se si volesse studiarle correttamente, bisognerebbe uccidere il cane (N. Bohr. cit. in Morin, 1985, p. 26). → L’ideale sottostante è, in questo caso, quello del corpo-macchina. Siccome questo è formato da parti altrettanto meccaniche, la “forma pura” del comportamento di un organo la si può avere per assurdo quando questo è avulso dall’organismo intero (Metzger, 1954, tr. it. 1971, p. 60). Meccanicismo e esperimenti in laboratorio • Ciò ha delle ripercussioni sul modo con cui ci approcciamo alla conoscenza degli organismi viventi. Infatti deriva fondamentalmente da questo principio anche la credenza che un animale con il corpo integro, ma costretto a stare immobile in una situazione sperimentale, si comporti di fronte agli aspetti di tale situazione nello stesso modo di un animale che abbia libertà di movimento (Ibidem). – Ad esempio, che la percezione visiva di un animale anestetizzato e in determinate situazioni di laboratorio possa essere descritta in termini di stimoli singoli piuttosto che di configurazioni globali, come evidenzia anche F. Varela, deriva dall’applicazione di tutta una serie di costrizioni che rendono quell’animale diverso da come si comporta nel contesto reale. → Più che osservare l’animale in tutte le sue possibilità di azione, pertanto, si vanno ad indagare le reazioni dell’ “animale da laboratorio” nell’ambito di una situazione creata ad hoc: …la natura interrogata dall’esperimento è una natura semplificata, preparata appositamente e occasionalmente, mutilata in funzione dell’ipotesi preesistente (Prigogine, Stengers, 1979, tr. it. 1981, p. 43). • Ottica meccanicista gli oggetti, anche assai complicati, e gli individui sono costituiti da “cose semplici”, potenzialmente conoscibili in modo esaustivo: padroneggiando gli elementi semplici e le leggi in base alle quali essi interagiscono, si può arrivare a comprendere interamente il loro funzionamento. • Un oggetto inteso nell’ottica del meccanicismo, pertanto, può essere assai complicato, ma ciò non esclude che, in linea di principio, possa essere ridotto alla dinamica delle parti semplici di cui è costituito. – Qualcosa è «complicato», cioè, se il suo funzionamento può essere «ridotto» a degli elementi e a delle leggi semplici. Si parla di «riduzionismo» quando si assume «che la grande diversità delle cose che appaiono alla nostra esperienza, quotidiana e scientifica, possa essere spiegata completamente e perfettamente come conseguenza dell’operatività di un insieme assoluto e finale di leggi puramente quantitative che determinano il comportamento di alcuni generi di entità e variabili fondamentali» (Bohm, 1997, pp. 54-55, in De Toni, Comello, 2005, p. 30) L’ottica della complessità esprime un diverso atteggiamento scientifico, che si libera «dalla convinzione di fondo che il mondo microscopico sia semplice e governato da leggi matematiche. Ciò ci appare oggi una fallace idealizzazione. La situazione potrebbe essere simile al ridurre i fabbricati a conglomerati di mattoni; con gli stessi mattoni si può costruire una fabbrica, un palazzo o una cattedrale. È a livello dell’intera costruzione che noi possiamo vedere l’effetto del tempo, dello stile in cui il fabbricato è stato concepito» (Prigogine, Stengers, 1979, tr. it. 1981, p. 9). Phil Anderson, More is different («Science», 1972) 1. «the ability to reduce everything to simple fundamental laws (riduzionismo) not imply the ability to start those laws and reconstruct the universe (costruzionismo)» → la scienza è esplicativa, ma non necessariamente predittiva; → il riduzionismo sembra incapace di cogliere «the very real problem of the rest of the science, much less to those of society» 2. «The behavior of large and complex aggregates of elementary particles, it turns out, is not to be undertstood in terms of a simple extrapolation of the properties of a few particles». → A ogni livello di complessità (fisica delle particelle, chimica, biologia, fisiologia, psicologia…) «entirily new laws, concepts, and generalizations are necessary, requiring inspiration and creativity […] Psychology is not applied biology, nor is biology applied chemistry» → proprietà emergenti • Tuttavia Anderson ammette che possa esistere una forma di riduzionismo “filosoficamente corretta”: cioè la convinzione che l’universo sia governato da leggi naturali. Ciò comporta il credere nell’unità della natura a livello più profondo (Waldrop, 1992, tr. It. 2002, p. 118). • Il Premio Nobel fu conferito ad Anderson nel 1977 per aver descritto teoricamente la sottile transizione di fase per cui certi metalli si trasformano da conduttori elettrici in isolanti La prima pagina dell’articolo del 1972 di Anderson «Dio non gioca a dadi con l'universo» (Einstein) • «Sembra difficile dare una sbirciata alle carte di Dio. Ma che Egli giochi a dadi e usi metodi "telepatici" [...] è qualcosa a cui non posso credere nemmeno per un attimo» (lettera del 4 dicembre 1926 a Niels Bohr, cit. in Bill Bryson, Breve storia di (quasi) tutto, traduzione di Mario Fillioley, TEA, 2009). • Niels Bohr rispose "Non dire a Dio come deve giocare". «Dio gioca a dadi con l’universo. Ma sono dadi truccati. E il principale obiettivo della fisica di oggi è di trovare per mezzo di quali regole essi sono stati truccati e in che modo possiamo usarli ai nostri fini» (Joseph Ford, 1983) In tutta la storia del pensiero umano vi sono stati paradigmi dominanti riguardo all’universo: queste rappresentazioni mentali spesso ci dicono poco dell’universo, ma molto delle società impegnate a studiarlo. Per quegli antichi greci che avevano elaborato una visione teleologica del mondo, in seguito ai primi studi sistematici degli esseri viventi, il mondo era un grande organismo. Per altri, propensi a venerare la geometria al di sopra di tutte le altre categorie del pensiero, l’universo era un’armonia geometrica di forme perfette. Più tardi, nell’epoca in cui furono costruiti i primi meccanismi di orologeria e i primi pendoli, divenne dominante l’immagine post-newtoniana dell’universo come meccanismo e schiere di apologeti furono spinte alla ricerca dell’Orologiaio cosmico. Per la cultura vittoriana dell’epoca della Rivoluzione industriale, il paradigma prevalente era quello della macchina a vapore […] L’immagine dell’universo come calcolatore forse non è altro che l’ultimo prevedibile frutto del protrarsi delle nostre abitudini mentali: domani, un nuovo paradigma potrà prenderne il posto. Quale? (Barrow, 1991, tr. It 1992, pp. 36667) Il vecchio Dio (di Luigi Pirandello, 1905) Smilzo, un po' curvo, con un abitino di tela che gli sventolava addosso, l'ombrello aperto sulla spalla e il vecchio panama in mano, il signor Aurelio s'avviava ogni giorno per la sua speciosa villeggiatura. Un posto aveva scoperto, un posto che non sarebbe venuto in mente a nessuno; e se ne beava tra sé e sé, quando ci pensava, stropicciandosi le manine nervose. Chi sui monti, chi in riva al mare, chi in campagna: lui, nelle chiese di Roma. Perché no? Non ci si sta forse freschi più che in un bosco? E in santa pace, anche. Nei boschi, gli alberi; qui, le colonne delle navate; lì, all'ombra delle frondi; qui, all'ombra del Signore. — Eh, come si fa? Ci vuol pazienza. Aveva anche lui, un tempo, una bella campagna sotto Perugia, ricca di cipressetti densi, e lungh’esso il canale quell'eleganza di gracili salici violetti e tanto dolce azzurro d'ombra che dilaga; la magnifica villa, con dentro una preziosa raccolta d'oggetti d'arte: ah, quella poi! invidiato decoro di casa Vetti. Gli restavano le chiese, ora, per villeggiare. — Eh, come si fa? Ci vuol pazienza. Da parecchi anni a Roma, non gli era ancora riuscito di visitarne tutte le chiese più famose. L'avrebbe fatto quest'anno per villeggiatura. Speranze, illusioni, ricchezza e tant'altre belle cose aveva perduto il signor Aurelio lungo il cammino della vita: gli era solo rimasta la fede in Dio ch'era, tra il buio angoscioso della rovinata esistenza, come un lanternino: un lanternino ch'egli, andando così curvo, riparava alla meglio, con trepida cura, dal gelido soffio degli ultimi disinganni. Errava come sperduto in mezzo al rimescolio della vita, e nessuno più si curava di lui. — Non importa: Dio mi vede! — si esortava in cuor suo. E n'era proprio sicuro, di questo, il signor Aurelio, che Dio lo vedeva per quel suo lanternino. Tanto sicuro, che il pensiero della prossima fine, non che sgomentarlo, lo confortava. Le strade, sotto il cocente sole, erano quasi deserte. Tuttavia per lui c’era sempre qualcuno, un monellaccio, un vetturino di stazione, che, vedendolo passare col lucido cranio scoperto, la barbetta lieve tremolante sul mento, e la zazzeretta grigia, tremolante anch’essa su la nuca, gli lanciava qualche lazzo. — Guarda oh: due barbette! una davanti e l’altra dietro! Ma il cappello in capo, d’estate, il signor Aurelio non lo poteva sopportare. Sorrideva anche lui al lazzo e affrettava, quasi senza volerlo, quei suoi passettini da pernice, per levar la tentazione d’un altro lazzo a quegli oziosi. — Eh, come si fa? Ci vuol pazienza. Entrando nella chiesa designata quel giorno per villeggiatura, voleva prima di tutto goder della giunta: sedere. E traeva un gran respiro; s’asciugava il sudore; poi, con diligenza, ripiegava in quattro il fazzoletto e se lo poneva in capo, così ripiegato, per riguardarsi dall’umida frescura. Qualche rara divota che si voltava appena a spiarlo, vedendolo con quel buffo copricapo, sbruffava tra sé una risatina. Ma il signor Aurelio, in quel momento, si sentiva beato, respirando quell’umido insaporato d’incenso che stagnava nella solenne vacuità silenziosa dell’interno sacro; né gli nasceva il sospetto che qualcuno, pur lì, nella casa di Dio, potesse provar gusto a ridere di lui. Riposatosi un po’, si metteva a esaminare la chiesa, pian pianino, come uno che ci abbia da passar la giornata. E ne studiava con amorosa attenzione l’architettura, le singole parti. Si fermava davanti a ogni pala d’altare, a ogni opera musiva, a ogni cappella, a ogni monumento funerario, e con l’occhio esperto scopriva subito le peculiarità del tempo, della scuola a cui l’opera d’arte doveva ascriversi e se era sincera o deturpata da toppe e rimessi di restauri infelici. Poi tornava a sedere; e se in chiesa, come spesso avveniva a quell’ora, di quella stagione, non c’era altri che lui, ne approfittava per segnar rapidamente in un modesto taccuino qualche nota, un dubbio da chiarire, le sue impressioni. Soddisfatta così la prima curiosità e adempiuto per quel giorno il compito d’arte che si era prefisso, traeva di tasca qualche libretto d’amena lettura, che per la dimensione poteva parere un libro di preghiere, e si metteva a leggere. Di tanto in tanto levava il capo per riassumere o ungersi davanti agli occhi la scena descritta dal poeta. E con quella lettura di libri profani non temeva d’offendere la casa del Signore. Secondo il suo modo di vedere, Dio non poteva aversi a male delle cose belle create dai poeti per innocente delizia degli uomini. Stanco della lettura s’abbandonava, con gli occhi fissi nel vuoto e strofinando a lungo tra loro l’indice e il pollice delle due manine, alle proprie fantasie o ai ricordi degli anni perduti. Talvolta, mentre fantasticava così, tutto assorto, gli s’avvistava da una nicchietta nel pilastro di fronte qualche busto che pareva se ne stesse lì affacciato a guardare in chiesa. — Oh! — faceva allora, tentennando il capo con un sorriso. — Te beato, amico mio. Si sta bene da morti? E si levava di nuovo per leggere nell’inscrizione funeraria il nome di quel sepolto, poi tornava a sedere e si metteva a conversare con lui mentalmente, guardandolo. — Siamo qua, caro il mio Hieronymus! Peccato che non sia più permesso farsi seppellire in chiesa. Mi farei scavare una bella nicchietta nel pilastro di fronte e, tu di là, io di qua, tutti e due affacciati, sentiresti che belle conversazioncine! Ce l’hai di buon uomo, la faccia, poveretto, e certi guai perciò mi conteresti. Mah! Come si fa? Ci vuol pazienza. Mi sembra però che in chiesa ci si debba star meglio, da morti. Questo buon odor d’incenso; e messe e preghiere tutti i giorni. Nel camposanto, se vogliamo dirla, ci piove. La morte però, anche lì nel camposanto, eh... una liberazione; quando sulla terra, più che per viver bene, ci si duri per prepararsi a morir senza paura. Premi di là, il signor Aurelio, non se n’attendeva; gli bastava portarsi di qua, fino all’ultimo passo, la coscienza tranquilla, di non aver mai fatto il male per volontà. Conosceva i dubbi tenebrosi accumulati dalla scienza come tanti nuvoloni su la luminosa spiegazione che la fede ci dà della morte, sì per averne fatta lettura in qualche libro, e sì per averli quasi respirati nell’aria; e rimpiangeva che il Dio dei suoi giorni, anche per lui, credente, non potesse più esser quello che in sei dì aveva creato il mondo, e s’era nel settimo riposato. Quella mattina, entrando in chiesa, era rimasto meravigliato dell’aspetto del sagrestano, bel vecchio enormemente barbuto e capelluto e orgoglioso di quel barbone lanoso e di quella chioma partita nel mezzo e ondulata su le spalle e nei cernecchi. Bella, la testa soltanto. Il corpo tozzo, curvo, cadente, pareva penasse a sorreggerla, con tutto quel volume di peli. Ora, il signor Aurelio, riflettendo intorno alla vita e alla morte, considerando amaramente ai meschini profitti dell’anima in questo tanto decantato secolo dei lumi, rivolto col pensiero al vecchio Dio dell’intatta fede dei padri, a poco a poco s’addormentò. E quel vecchio Dio, nel sogno, ecco che gli venne innanzi, curvo, cadente, reggendo a fatica su le spalle la testa enormemente barbuta e chiomata del sagrestano della chiesa; gli sedette accanto e cominciò a sfogarsi con lui, come fanno i vecchietti seduti sul muretto davanti ai gerontocomi: — Mali tempi, figlio mio! Vedi come mi son ridotto? Sto qui a guardia delle panche. Di tanto in tanto, qualche forestiere. Ma non entra mica per me, sai! Viene a visitar gli affreschi antichi e i monumenti, monterebbe anche su gli altari per veder meglio le immagini dipinte in qualche pala! Mali tempi, figlio mio. Hai sentito? hai letto i libri nuovi? Io, Padre Eterno, non ho fatto nulla: tutto s’è fatto da sé, naturalmente, a poco a poco. Non ho creato Io prima la luce, poi il cielo, poi la terra e tutto il resto, come ti avevano insegnato ne’ tuoi gracili anni. Che! che! Non c’entro più per nulla Io. Le nebulose, capisci? la materia cosmica... E tutto s’è fatto da sé. Ti faccio ridere: uno c’è stato finanche, un certo scienziato, il quale ha avuto il coraggio di proclamare che, avendo studiato in tutti i sensi il cielo, non vi aveva trovato neppur una minima traccia dell’esistenza mia. Di’ un po’: te lo immagini questo pover’uomo che, armato del suo cannocchiale, s’affannava sul serio a darmi la caccia per i cieli, quando non mi sentiva dentro il suo misero coricino ? Ne riderei di cuore, tanto tanto, figliuolo mio, se non vedessi gli uomini far buon viso a siffatte scempiaggini. Ricordo bene quand’Io li tenevo tutti in un sacro terrore, parlando loro con la voce dei venti, dei tuoni e dei terremoti. Ora hanno inventato il parafulmine, capisci? e non mi temono più; si sono spiegati il fenomeno del vento, della pioggia e ogni altro fenomeno, e non si rivolgono più a Me per ottenere in grazia qualche cosa. Bisogna, bisogna ch’io mi risolva a lasciare la città e mi restringa a fare il Padreterno nelle campagne: là vivono tuttora, non dico più molte, ma alquante anime ingenue di contadini, per cui non si muove foglia d’albero se Io non voglia, e sono ancora Io che faccio il nuvolo e il sereno. Su, su, andiamo, figliuolo! Anche tu qua ci stai maluccio, lo vedo. Andiamocene, andiamocene in campagna, fra la gente timorata, fra la buona gente che lavora. A queste parole, il signor Aurelio, nel sogno, sentiva stringersi il cuore. La campagna! il suo sospiro! - La vedeva come se vi fosse; ne respirava l’aria balsamica... - quando, a un tratto, si sentì scuotere e, aprendo gli occhi, stordito, oppresso di stupore, si vide davanti vivo e spirante, il Padre Eterno, proprio lui, che gli ripeteva ancora: — Andiamo, su, andiamo... — Ma se è tanto che... — barbugliò il signor Aurelio, con gli occhi sbarrati, atterrito dalla realtà del suo sogno. Il vecchio sagrestano scosse le chiavi: - Andiamo! La chiesa si chiude. • Il Boeing 747, conosciuto anche come Jumbo Jet, è un quadrigetto di linea prodotto dall'azienda statunitense Boeing dagli anni settanta. Il 747 è uno degli aerei di linea moderni più famosi. Per via della sua forma, delle sue dimensioni e della sua capacità di carico è diventato nel tempo un vero e proprio simbolo di potenza meccanica, oltre che di elegante maestosità. • Dimensioni e pesi – – – – – Lunghezza 70,66 m Apertura alare 64,44 m Altezza 19,41 m Peso a vuoto 178 800 kg; Peso max al decollo 442 253 kg (747-8) Passeggeri: 524 • Prestazioni – – – – – Velocità max 988 km/h Velocità di crociera 913 km/h Corsa di decollo 3018 m Autonomia 13 445 km Dati estratti da 747-400 specifications, (fonte: wikipedia) • Mario Rasetti (ordinario di fisica teorica, UNITO) dice che utilizza il seguente esempio durante le lezioni di fisica per spiegare la differenza fra qualcosa di «complicato» e qualcosa di «complesso»: Un jumbo 747 è un oggetto molto complicato perché è composto da 50 milioni di pezzi. Se io smontassi un jumbo e lo mettessi su un campo di calcio e chiedessi a qualcuno di ricostruirlo gli darei un problema molto complicato, ma non complesso, perché del jumbo abbiamo i progetti. Se invece si studia una rete sociale, o internet, o il cervello umano non si ha a disposizione un progetto. Per cui dai dati, dalle informazioni occorre ricostruire… Sistemi semplici Pochi elementi, Poche connessioni fra elementi Sistemi complicati Sistemi complessi Complicato, dal latino cum – plicàre, piegato insieme Complesso, dal latino cum - plexus, tessuto insieme, intrecciato assieme Molti elementi Molte connessioni «fisse» fra gli elementi Molti elementi Moltissime connessioni «non lineari» fra gli elementi Pensiero Semplice vs. Pensiero Complesso (Edgar Morin) Il Pensiero Semplice ritiene che il mondo sia «complicato». Ne segue che (come spiega I. Licata): • accumulare conoscenza dipana progressivamente l’ignoranza → esiste pertanto un Progresso della conoscenza che procede lungo la strada maestra del definire chiaramente i concetti e le cose da conoscere; • se un sistema è troppo difficile da risolvere può essere suddiviso in tanti sotto-problemi, per i quali è disponibile una spiegazione. Sommando le micro-spiegazione avremo la spiegazione dell’intero fenomeno • esistono questioni che possono essere poste in modo chiaro e che possono essere pertanto essere affrontate da un punto di vista scientifico e questioni «confuse» da relegare nel gioco, nelle opinioni ecc. • Quindi, dire che «il tutto è più della somma delle parti» significa ammettere che i sistemi possono generare «proprietà emergenti». • Naturalmente occorre capire cosa vuol dire, in ogni situazione concreta, che il tutto è più della somma delle parti. Stuart Kauffman (1939) (istituto di Santa Fe): Darwin non sapeva nulla dell’autoorganizzazione → la storia della vita non è la storia di eventi accidentali e casuali, ma quella dell’ordine, di un tipo di creatività profonda, intessuta nella trama stessa della natura (cit. in Waldrop, 1992, tr. it. 2002, p. 151). → Kauffman voleva dimostrare che l’ordine è presente sin dall’inizio, che l’autoorganizzazione è l’altra faccia della selezione naturale. → per Kauffman la complessità dei sistemi biologici e degli organismi è il risultato sia dell'auto-organizzazione e da dinamiche lontane dall'equilibrio sia della selezione naturale darwiniana. → I dettagli specifici di ogni singolo organismo sarebbero il risultato della selezione naturale, in perfetto accordo con la teoria di Darwin. L’organizzarsi della vita stessa, l’ordine, sarebbe invece qualcosa di più profondo ed essenziale. Trarrebbe origine dalla struttura della rete, non dai particolari. L’ordine, dunque, sarebbe uno dei segreti del Grande Vecchio (Waldrop, p. 161) • Kauffman non trovava convincente la teoria sull’origine della vita di Urey-Miller: gli sembrava strano che l’origine della vita dipendesse da qualcosa di così complicato e improbabile come il DNA. Egli propendeva per l’idea che il brodo primordiale avesse costituito un insieme “auto-catalitico”, frutto della naturale tendenza all’autoorganizzazione. → Una volta che un insieme di elementi ha raggiunto una certa complessità, c’è da aspettarsi una transizione. • Kauffman credeva in Dio: non in un Dio personale, ma un Dio intelligente, che spiega come funzionano le cose a chi ascolta. Una volta ebbe addirittura un’esperienza definibile come mistica (Waldrop). → La tendenza all’ordine era una risposta al mistero dell’esistenza umana, capace di spiegare la nostra condizione di creature viventi e pensanti in un universo apparentemente governato dal caos. Stuart Kauffman Reinventare il sacro. Una nuova concezione della scienza, della ragione e della religione I progressi della scienza degli ultimi quattro secoli hanno preteso un prezzo elevato: un divario sempre più ampio tra fede e ragione. Nella sua forma più estrema, il riduzionismo sostiene che tutta la realtà, dagli organismi a una coppia di innamorati a passeggio, sia fatta di sole particelle: le società devono essere spiegate da leggi sulle persone, che sono spiegate da leggi sugli organi, sulle cellule, dalla chimica e infine dalla fisica delle particelle. Per Kauffman il solo riduzionismo è inadeguato sia a praticare la scienza sia a comprendere la realtà: viviamo infatti in una biosfera e in una cultura che, oltre ad essere emergenti, sono radicalmente creative; un universo di creatività esplosiva di cui spesso non possiamo prevedere gli sviluppi. La proposta di Kauffman è quindi quella di porci come co-creatori di una biosfera che letteralmente costruisce se stessa e si evolve, e di una cultura nuova e infinita. Un Dio pienamente naturale identificato con la creatività stessa dell’universo, e una sua concezione che può essere uno spazio spirituale condiviso da tutti, credenti o non credenti (dalla seconda di copertina). • I processi universali di autoorganizzazione permettono di riavvicinare le scienze umane e le altre scienze, di stabilire una nuova alleanza, come recita un celebre libro di Prigogine e di Stengers In molte università chi studia le scienze umane si sente spesso un cittadino declassato. Einstein o Shakespeare, ma non entrambi nella stessa stanza. Questa scissione è una frattura che spacca al centro l’integrità della natura umana (Kauffman, 2008, tr. it. 2010, p. 9) • L’approccio delle teorie della complessità si può definire, in prima approssimazione, di tipo “olista” → ma questo termine è inadeguato e può generare errori in quanto anche l’olismo è un riduzionismo in quanto ambisce a fornire spiegazioni onnicomprensive e semplificanti. → non c’è una «legge» della complessità. Anche il parlare della complessità come «emergenza», come processi bottom-up, piuttosto che top-down, o processi dal basso è una semplificazione. Nozioni come quella di emergenza o di complessità non sono nulla indipendentemente dall’intenzione di quelli che la utilizzano. […] Quanto alla nozione di complessità, essa è portatrice di un problema – non sappiamo a priori che cosa significhi “somma delle parti” – e questo implica che non possiamo trattare tutte le “somme” secondo lo stesso modello generale, con il pretesto che hanno le “stesse” parti (Isabelle Stengers) […] In questo senso la complessità come problema ha, credo, quale primo effetto quasi estetico un arretramento di spiegazioni, antitetici forse, ma vicini, come del resto Bergson aveva già notato ne L’evoluzione creatrice: la spiegazione attraverso la deduzione in senso riduzionista, e la spiegazione attraverso la genesi, nel senso in cui è la struttura finale che, in un modo o nell’altro, spiega la propria formazione. Posso conoscere un tutto soltanto se conosco le parti in maniera specifica, ma posso comprendere le parti solo se conosco il tutto. Pascal • La Stengers sottolinea come l’olismo e il riduzionismo siano due «fratelli nemici» Ognuno dei due è alla ricerca del buon accesso, che renderà un fenomeno semplice e intelligibile. Mentre i discorsi riduzionisti negheranno a priori che tutte le questioni possano, in ultima analisi, non essere ridotte a quelle che si addicono in modo generale al comportamento degli elementi associati nel tutto, i discorsi “funzionalisti” cercheranno altre caratteristiche o proprietà unitarie che assicureranno sia un modello generale sia un procedimento sicuro. È per esempio il caso dell’insieme delle variazioni a proposito dell’affermazione secondo la quale un “sistema” tende a mantenersi […] • Per Morin (1985, in Bocchi, Ceruti, 1985) occorre inaugurare un movimento circolare, che dalle parti conduce al tutto e viceversa. La delucidazione del tutto può avvenire talvolta prendendo le mosse da un punto di vista particolare che concentra in sé, in un dato momento, la tragedia del tutto. – La comprensione dei fenomeni globali ha bisogno di anelli, di andirivieni e di spole fra punti di vista singolari e gli insiemi. • L’approccio della complessità avvalora piuttosto, a livello metodologico, la specificità della situazione concreta, per comprendere la quale leggi e tradizioni sono importanti, ma debbono essere declinate nel momento presente. → occorre «star dentro» la situazione per capire come la situazione evolve: è importante tanto le «competenze» che si possiedono ma anche la sensibilità con cui si riesce a «sentire» la situazione e le «opportunità» in essa disponibili • Per «leggere» la situazione occorrono teorie; utilizzando «teorie» vi è sempre il rischio di oscurare l’oggetto che si sta indagando e di far parlare solamente le nostre teorie – L’egittologo ritaglia il proprio Egitto “egittologizzabile” L’insuperabile problema della pertinenza della manipolazione, della pertinenza della questione, non apre la porta all’irrazionalismo, ma al riconoscimento del rischio sempre presente di “far tacere” l’oggetto stesso che interroghiamo (Stengers) → solo il «procedimento analitico» sembra veramente rispettoso dell’oggetto in quando a svincolarsi al «niente altro che» ed è in grado di comprendere che ciò che porta a «questo» in altre circostanze può portare a «quello» e poi «a quello ancora» (Stengers) → «rendersi artificialmente ciechi» (Freud, Bion) T.S. Eliot e il valore limitato della conoscenza C’è, così ci pare, Nel migliore dei casi, solo un valore limitato Nella conoscenza che deriva dall’esperienza La conoscenza impone una trama e falsifica, Perché la trama in ogni momento è nuova, E in ogni momento è nuova e sconcertante […] Nel mezzo, non solo nel mezzo del cammino Ma per tutto il cammino, in una selva oscura, tra i rovi, Sull’orlo di un pantano, dove il piede non è sicuro, E tra minacce di mostri, luci fantastiche, Col rischio dell’incantesimo. Non voglio sentir parlare Della saggezza dei vecchi, bensì della loro follia La loro paura della paura e della frenesia, la loro paura del possesso, Di appartenere a un altro, o ad altri, o a Dio. La sola saggezza che possiamo sperare di ottenere La saggezza dell’umiltà: l’umiltà è sconfinata (T.S. Eliot, East Coker) A. N. Whitehead concepisce la Realtà come una dimensione fisica e spirituale assieme, animata da un processo intensamente creativo del quale gli individui fanno parte, ma da cui apparentemente si staccano in virtù di un percorso di individualizzazione Alfred North Whitehead (1861 – 1947) è stato un filosofo e un matematico britannico. • Tale impulso di individualizzazione agisce inconsciamente, sospingendo oscuramente i soggetti verso le loro realizzazioni. • Pur essendo dotati di una loro autonomia, gli individui sono parte del processo: ne segue una logica bivalente, in virtù della quale gli individui, pur essendo se stessi, sono contemporaneamente tutt’uno col processo. – Poiché tale separazione non impedisce alle individualità di continuare ad appartenere al processo, la filosofia di Whitehead può essere descritta come una metafisica organicistica (filosofia dell’organismo) • Whitehead chiama “prensione” quell’atto unificante che comporta un dare/prendere → ogni prensione lascia una traccia nella totalità: “ogni cosa che esiste ha due aspetti, il suo io individuale e la sua significazione nell’universo” → concrescenza fra individuo e totalità → logica paradossale: esiste una natura delle cose, ma non è sperimentabile se non nell’ambito dell’interpretazione che se ne da come soggetti → idealrealismo di Whitehead • L’individualizzazione è connessa al valore: il primo bagliore della coscienza è percepire che “qualcosa importa”. • L’esperienza del mondo è più vasta della nostra capacità analitica: viene prima il “vago afferrare la realtà”, una percezione magmatica e inconscia (à la Leibniz) della realtà, e poi la separazione me/altro, che comporta sempre una limitazione. • N.B. Per Whitehead occorre tener conto dell’autonomia del soggetto. • Esiste una “energia di autorealizzazione”, una creatività, una capacità di comprendere la multiformità della realtà a partire da un peculiare ideale che è capace di conferire ordine al processo: Un uso fortunato delle astrazioni fa parte dell’evoluzione verso l’alto. • Qualora si accentui il valore delle astrazioni si smarrisce la linea di derivazione dal magma indistinto primario e “l’astrazione può fuorviarci rispetto alla complessità reale da cui si origina”. • I sentimenti sospingono la creatività e ci fanno comprendere inconsciamente che l’altro è l’io stesso: “la vita è fruizione dell’emozione, che deriva dal passato e tende verso il futuro” Whitehead parla di una “comprensione” che supera l’uso del linguaggio e in particolare del linguaggio speculativo, capace di dire solo tautologie. Comprendere è vivere ( cfr. con il concetto di «formazione») • La realizzazione dell’ideale resterà fatalmente inappagata, perché ciò significherebbe che il soggetto ha realizzato l’unificazione dell’intera realtà. • Ma il soggetto non riuscirà neanche ad avvertire la soddisfazione risultante dalla sua stessa attività creativa, perché la soddisfazione appartiene al processo e non al soggetto. • l’Arte permette invece di sperimentare l’eternità, anche se in maniera imperfetta e transitoria. L’arte permette un primo piano su una singolarità rispetto alla quale ci permette di cogliere anche lo sfondo oscuro dove si svolge la connessione col tutto. Generalizzare significa essere un idiota; la capacità di scendere nel particolare è il solo segno che caratterizza il valore William Blake • L’arte permette di tornare alla natura, è educazione della natura. Il bene dell’universo non può consistere in un infinito posticipare: l’arte si preoccupa della fruizione immediata, qui ed ora: L’arte ha una funzione curativa nell’esperienza umana quando rivela, come in un lampo, la segreta assoluta verità concernente la Natura delle Cose. Se le porte della percezione venissero sgombrate, tutto apparirebbe all'uomo come in effetti è, infinito. William Blake Blake sconfitta • La creatività fa sì che l’universo sia in costante agitazione • Poiché la creatività non potrebbe esplicarsi senza limitazioni che si oppongono, Dio deve contenere in sé un principio di limitazione. • Dio deve essere immaginato come animato da una “tenera preoccupazione che nulla vada perduto” → Dio è pronto a garantire lo sviluppo di tutte le potenzialità. Whitehead e la pedagogia • Whitehead scrisse alcuni saggi sull’ «educazione e suoi fini». – Seguono alcuni brani tratti dai suoi scritti: Gli studenti sono esseri vivi e lo scopo dell’educazione è quello di stimolare e guidare il loro auto sviluppo. Da questa premessa segue il corollario che anche gli insegnanti debbano essere animati da pensieri vivi. L’intero libro è una protesta contro il sapere morto. Un uomo semplicemente ben informato è l’essere più noioso e inutile che ci sia sulla terra. Non dobbiamo dimenticare che il solo e pregevole sviluppo intellettuale è l’autosviluppo. L’interesse è la conditio sine qua non dell’attenzione e dell’apprendimento. …dovremmo cercare di regolare lo sviluppo del carattere seguendo la strada di un’attività naturale, piacevole in se stessa. La mera conoscenza rappresenta un danno. Nel mio lavoro universitario mi ha particolarmente colpito la paralisi del pensiero prodotta negli allievi da una cieca accumulazione di sapere esatto, inerte e inutilizzato. • Le università hanno senso perché dovrebbero riuscire a mantenere viva l’unione fra conoscenza e gusto della vita, unendo il giovane e l’anziano in una concezione immaginativa del sapere. L’immaginazione non deve essere separata dai fatti: essa è un modo di illuminare i fatti. I pazzi agiscono in base all’immaginazione ma senza conoscenza, i pedanti agiscono in base alla conoscenza ma senza immaginazione. Il compito di un’università è di operare la fusione dell’immaginazione con l’esperienza. La complessità fra ordine e caos • Un altro modo di inquadrare l’approccio della complessità è quello di pensare la complessità come qualcosa che sta «al bordo fra ordine e caos» • La scienza classica aveva avvalorato l’idea di un mondo governato da leggi, totalmente prevedibile, auspicando di giungere a «teorie del tutto» onni-esplicative → concezione di un «mondo orologio» o «mondo macchina», totalmente prevedibile e quindi… morto! “Le interazioni che tengono in vita un cane non possono essere studiate in vivo. Se si volesse studiarle correttamente, bisognerebbe uccidere il cane” (N. Bohr) «Quando si raggiunge un equilibrio in biologia si è morti» (Arnold Mandell, cit. in Gleick, p. 292) • Un sistema vivente deve contenere qualcosa di imprevedibile, altrimenti sarebbe morto. • Ma non deve essere neppure totalmente «fuori controllo», come avviene nelle evoluzioni caotiche dei fenomeni, che sono imprevedibili, impedendo così qualsiasi strutturazione di conoscenza. → Si suole dire allora che la scienza della complessità si situa fra ordine e caos • La realtà non un insieme di particelle inerti mosse da forze, ma un fermento di sistemi autoorganizzantesi, sempre sull’orlo del caos e della distruzione Stabilità, ordine ↓ “Margine del caos”, complessità ↓ Caos Ordine perfetto, “cristallizzato” Massima connessione e assenza di differenziazione. Il sistema è descrivibile deterministicamente Mobilità totale, caos Massima differenziazione e assenza di connessione. Il sistema è descrivibile solo statisticamente Complessità Le molecole dell’acqua sono differenziate e connesse perché le molecole sono legate fra loro, ma ciascuna si può spostare rispetto alle altre e il sistema può assumere molteplici configurazioni. Il sistema è descrivibile con meccaniche non lineari Parmenide e Eraclito Essere o divenire? Parmenide (515 a.C. – 450 a.C.) • «L'essere è, e non può non essere» • «Il non-essere non è, e non può essere» « … Orbene io ti dirò, e tu ascolta accuratamente il discorso, quali sono le vie di ricerca che sole sono da pensare: l'una che "è" e che non è possibile che non sia, e questo è il sentiero della Persuasione (infatti segue la Verità); l'altra che "non è" e che è necessario che non sia, e io ti dico che questo è un sentiero del tutto inaccessibile: infatti non potresti avere cognizione di ciò che non è (poiché non è possibile), né potresti esprimerlo. … Infatti lo stesso è pensare ed essere» (Parmenide, Della natura) • L'Essere è immobile (dimostrazione: se si si muovesse sarebbe soggetto al divenire, e quindi ora sarebbe, ora non sarebbe); • L’Essere è Uno (dimostrazione: se non fosse uno, si darebbero due Esseri. Ne segue che l’Essere è uno e che qualsiasi cosa sia al di fuori di Esso non può essere); • L’Essere è eterno (dim.: se l'essere fosse solo per un certo periodo di tempo, a un certo momento non sarebbe. Ciò sarebbe contraddittorio); • L'Essere è ingenerato e immortale (dim.: se fosse soggetto a nascita significherebbe che prima di nascere non era; e se potesse morire, significherebbe che cesserà di essere); • L'Essere è indivisibile (dim.: se non fosse tale richiederebbe la presenza del non-essere come elemento separatore). • Ritenere, basandosi sui dati sensibili, che esista il movimento non è pensare secondo verità, ma rimanere in balìa dell’opinione (doxa). Eraclito (535 a.C. – 475 a.C.) • Il mondo è un flusso perenne «non è possibile discendere due volte nello stesso fiume né toccare due volte una sostanza mortale nello stesso stato; per la velocità del movimento, tutto si disperde e si ricompone di nuovo» (frammento 91) «Questo mondo, che è lo stesso per tutti, nessuno degli dei o degli uomini l’ha creato, ma fu sempre, è e sempre sarà fuoco eternamente vivo che con ordine regolare si accede e con ordine regolare si spegne» (frammento 30) • Eraclito è stato considerato lo scopritore della dialettica : il logos – il principio creativo – è uno, ma si manifesta per opposizioni, conflittualità, lotta. «La lotta è la regola del mondo e la guerra è comune generatrice e signora di tutte le cose» • Hegel disse che non c’era proposizione di Eraclito che non avesse accolto nella sua Logica. Ma Hegel interpretò la dialettica fra opposti come contrapposizione fra Tesi e Antitesi (Assoluto e Realtà) che poi si conciliano nella Sintesi. • Per Eraclito, invece, non c’è annullamento dell’opposizione. È per questo che l’armonia che soggiace alla discordia è difficile da trovare: perché non è per Eraclito la sintesi degli opposti (Abbagnano, 1993, vol. 1, p. 23) «Gli uomini non sanno come ciò che è discorde è in accordo con sé: armonia di tensioni opposte, come quelle dell’arco e della lira» (Frammento 51) • Per Heisenberg (1952) la posizione di Eraclito è estremamente moderna aggiunse che noi abbiamo solamente nell’attuale fisica sostituito la parola «fuoco» con «energia» • Eraclito, come evidenziò anche Popper, colse il mondo come colossale processo, più che come edificio; non i fatti, ma i mutamenti. Logos vs doxa • Per Eraclito, il logos è ciò che regola ed è comune a tutte le cose, l’opinione (doxa) è la verità privata «tutte le leggi umane si alimentano dell’unica legge divina, poiché quella impone quanto vuole e basta per tutte le cose e avanza». «[occorre] seguire ciò che è comune. Ma benché comune sia questa verità che io insegno, i molti vivono come se avessero un proprio pensiero per loro». • «Il retto pensiero è la massima virtù e la sapienza è dire e fare cose vere ascoltando e seguendo l’intima natura delle cose». • Per Eraclito la sapienza è difficile a conseguirsi perché comporta il pensare assieme l’unità e la conflittualità, «struttura» e «processo», come potremmo dire oggi. • La sapienza non è connessa a un «sapere» ma a un «ricercare»: la natura «ama nascondersi»; ma non bisogna desistere: «se non speri, non troverai l’insperato, introvabile essendo questo e inaccessibile» (fr. 18) • La via per arrivare alla sapienza è la conoscenza della propria anima («Io ho indagato me stesso», frammento 22) «Tu non troverai i confini dell’anima, per quanto vada innanzi, tanto è profonda è la sua ragione» (frammento 45) • Parmenide: visione «statica» della realtà → la conoscenza è conoscenza dei principi primi dell’essere in cui «tutto è» • Eraclito: visione «dinamica» della realtà → la conoscenza è conoscenza della dialetticità del reale e dell’armonia a esso soggiacente • Per rimanere sempre alle radici del pensiero occidentale, già i primi pensatori ebbero la necessità di pensare la coesistenza di regolarità e irregolarità. • Ad esempio, come ricorda Prigogine, Epicuro sentì la necessità di prevedere che «cadono in linea retta nel vuoto», possano, in certi momenti deviare, impercettibilmente la loro traiettoria, appena sufficiente perché si possa appunto parlare di modifica dell’equilibrio. – Il discepolo di Epicuro, Lucrezio, definì questa attitudine degli atomi come clinamen. …ne consegue …che la vita è un «processo» di continuo cambiamento, nell’ambito del quale sempre nuove e imprevedibili perturbazioni portano i sistemi viventi sull’orlo del caos. Le TEORIE DELLA COMPLESSITÀ formulano l’idea che la vita sia un continuo cambiamento utilizzando la formula che la vita è un «processo» che avviene sull’orlo del caos • sempre nuove e imprevedibili perturbazioni portano i sistemi viventi sull’orlo del caos. → la vita è un insieme di struttura e movimento, di caos e ordine, di essere e di divenire: se le strutture non cambiassero, sarebbero rigide e morte; se cambiassero incessantemente, non potrebbero acquisir forma e sarebbero ugualmente morte per «eccesso di cambiamento». • Tali intuizioni hanno sempre fatto parte della sensibilità di filosofi, scienziati, ma anche artisti e studiosi di scienze umane. • Il merito dell’approccio della complessità sta nell’averle codificate e di aver dato loro un linguaggio matematico, di aver offerto un paradigma. • Vediamo alcuni esempi Pirandello e il flusso continuo della vita La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato, non cessi. Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni lo stato in cui tendiamo a stabilirci. Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità. In certi momenti tempestosi, investite dal flusso, tutte quelle nostre forme fittizie crollano miseramente; e anche quello che non scorre sotto gli argini e oltre i limiti, ma che si scopre a noi distinto e che noi abbiamo con cura incanalato nei nostri affetti, nei doveri che ci siamo imposti, nelle abitudini che ci siamo tracciate in certi momenti di piena straripa e sconvolge tutto. Vi sono anime irrequiete, quasi in uno stato di fusione continua, che sdegnano di rapprendersi, d’irrigidirsi in questa o in quella forma di personalità. Ma anche per quelle più quiete, che si sono adagiate in una o in un’altra forma, la fusione è sempre possibile: il flusso della vita è in tutti. E per tutti però può rappresentare talvolta una tortura, rispetto all’anima che si muove e si fonde, il nostro stesso corpo fissato per sempre in fattezze immutabili. Oh perché proprio dobbiamo essere così, noi? - ci domandiamo talvolta allo specchio, - con questa faccia, con questo corpo? - Alziamo una mano nell’incoscienza; e il gesto ci resta sospeso. Ci pare strano che l’abbiamo fatto noi. Ci vediamo vivere. […] In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e più penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita e in sé stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo, una realtà vivente oltre la vista umana, fuori delle forme dell’umana ragione. Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo, e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini si sono scisse e disgregate in essa. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore si sprofondasse negli abissi del mistero. Con uno sforzo supremo cerchiamo allora di riacquistar la coscienza normale delle cose, di riallacciar con esse le consuete relazioni, di riconnetter le idee, di risentirci vivi come per l’innanzi, al modo solito. Ma a questa coscienza normale, a queste idee riconnesse, a questo sentimento solito della vita non possiamo più prestar fede, perché sappiamo ormai che sono un nostro inganno per vivere e che sotto c’è qualcos’altro, a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo di morire o d’impazzire. È stato un attimo; ma dura a lungo in noi l’impressione di esso, come di vertigine, con la quale contrasta la stabilità, pur così vana, delle cose: ambiziose o misere apparenze. La vita, allora, che s’aggira piccola, solita, fra queste apparenze ci sembra quasi che non sia più per davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica. E come darle importanza? come portarle rispetto? Oggi siamo, domani no. Che faccia ci hanno dato per rappresentar la parte del vivo? Un brutto naso? Che pena doversi portare a spasso un brutto naso per tutta la vita... Fortuna che, a lungo andare, non ce n’accorgiamo più. Se ne accorgono gli altri, è vero, quando noi siamo finanche arrivati a credere d’avere un bel naso; e allora non sappiamo più spiegarci perché gli altri ridano, guardandoci. Sono tanti sciocchi! Consoliamoci guardando che orecchi ha quello e che labbra quell’altro; i quali non se n’accorgono nemmeno e hanno il coraggio di ridere di noi. Maschere, maschere... Un soffio e passano, per dar posto ad altre. Quel povero zoppetto là... Chi è? Correre alla morte con la stampella.. . La vita, qua, schiaccia il piede a uno; cava là un occhio a un altro... Gamba di legno, occhio di vetro, e avanti! Ciascuno si racconcia la maschera come può - la maschera esteriore. Perché dentro poi c’è l’altra, che spesso non s’accorda con quella di fuori. E niente è vero! Vero il mare, sì, vera la montagna; vero il sasso; vero un filo d’erba; ma l’uomo? Sempre mascherato, senza volerlo, senza saperlo, di quella tal cosa ch’egli in buona fede si figura d’essere: bello, buono, grazioso generoso, infelice, ecc. ecc. E questo fa tanto ridere, a pensarci. Sì, perché un cane, poniamo, quando gli sia passata la prima febbre della vita, che fa? mangia e dorme: vive come può vivere, come deve vivere; chiude gli occhi, paziente, e lascia che il tempo passi, freddo se freddo, caldo se caldo; e se gli dànno un calcio se lo prende, perché è segno che gli tocca anche questo. Ma l’uomo? Anche da vecchio, sempre con la febbre: delira e non se n’avvede; non può fare a meno d’atteggiarsi, anche davanti a sé stesso, in qualche modo, e si figura tante cose che ha bisogno di creder vere e di prendere sul serio. L’ajuta in questo una certa macchinetta infernale che la natura volle regalargli, aggiustandogliela dentro, per dargli una prova segnalata della sua benevolenza. Gli uomini, per la loro salute, avrebbero dovuto tutti lasciarla irrugginire, non muoverla, non toccarla mai. Ma si! Certuni si sono mostrati così orgogliosi e stimati così felici di possederla, che si son messi subito a perfezionarla, con zelo accanito. E Aristotile ci scrisse sopra finanche un libro, un leggiadro trattatello che si adotta ancora nelle scuole, perché i fanciulli imparino presto e bene a baloccarcisi. È una specie di pompa a filtro che mette in comunicazione il cervello col cuore. La chiamano LOGICA i signori filosofi. Il cervello pompa con essa i sentimenti dal cuore, e ne cava idee. Attraverso il filtro, il sentimento lascia quanto ha in sé di caldo, di torbido: si refrigera, si purifica, si i-de-a-liz-za. Un povero sentimento, così, destato da un caso particolare, da una contingenza qualsiasi, spesso dolorosa, pompato e filtrato dal cervello per mezzo di quella macchinetta, diviene idea astratta generale, e che ne segue? Ne segue che noi non dobbiamo affliggerci soltanto di quel caso particolare, di quella contingenza passeggera; ma dobbiamo anche attossicarci la vita con l’estratto concentrato, col sublimato corrosivo della deduzione logica E molti disgraziati credono di guarire così di tutti i mali di cui il mondo è pieno, e pompano e filtrano, pompano e filtrano, finché il loro cuore non resti arido come un pezzo di sughero e il loro cervello non sia come uno stipetto di farmacia pieno di quei barattolini che portano su l’etichetta nera un teschio fra due stinchi in croce e la leggenda: VELENO. L’uomo non ha della vita un’idea, una nozione assoluta, bensì un sentimento mutabile e vario, secondo i tempi, i casi, la fortuna. Ora la logica, astraendo dai sentimenti le idee, tende appunto a fissare quel che è mobile, mutabile, fluido; tende a dare un valore assoluto a ciò che è relativo. E aggrava un male già grave per sé stesso. Perché la prima radice del nostro male è appunto in questo sentimento che noi abbiamo della vita. L’albero vive e non si sente: per lui la terra, il sole, l’aria, la luce, il vento, la pioggia, non sono cose che esso non sia. All’uomo invece, nascendo è toccato questo triste privilegio di sentirsi vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di sé questo suo interno sentimento della vita, mutabile e vario. Gli antichi favoleggiarono che Prometeo rapì una favilla al sole per farne dono agli uomini. Orbene, il sentimento che noi abbiamo della vita è appunto questa favilla prometèa favoleggiata. Essa ci fa vedere sperduti su la terra; essa proietta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se la favilla non fosse accesa in noi; ombra che noi però dobbiamo purtroppo creder vera, fintanto che quella ci si mantiene viva in petto. Spenta alla fine dal soffio della morte, ci accoglierà davvero quell’ombra fittizia, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere, che avrà rotto soltanto le vane forme della ragione umana? Tutta quell’ombra, l’enorme mistero, che tanti e tanti filosofi hanno invano speculato e che ora la scienza, pur rinunziando all’indagine di esso, non esclude, non sarà forse in fondo un inganno come un altro, un inganno della nostra mente, una fantasia che non si colora? Se tutto questo mistero, in somma, non esistesse fuori di noi, ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi abbiamo della vita? Se la morte fosse soltanto il soffio che spegne in noi questo sentimento penoso, pauroso, perché limitato, definito da questo cerchio d’ombra fittizia oltre il breve àmbito dello scarso lume che ci proiettiamo attorno, e in cui la vita nostra rimane come imprigionata, come esclusa per alcun tempo dalla vita universale, eterna, nella quale ci sembra che dovremo un giorno rientrare, mentre già ci siamo e sempre vi rimarremo, ma senza più questo sentimento di esilio che ci angoscia? Non è anche qui illusorio il limite, e relativo al poco lume nostro, della nostra individualità? Forse abbiamo sempre vissuto, sempre vivremo con l’universo; anche ora, in questa forma nostra, partecipiamo a tutte le manifestazioni dell’universo; non lo sappiamo, non lo vediamo, perché purtroppo quella favilla che Prometeo ci volle donare ci fa vedere soltanto quel poco a cui essa arriva. (dal saggio sull’Umorismo) • Vita / forma • Sentimento mutabile e vario che dipende dalle circostanze / Logica che astrae dalla vita – cfr. Bergson: istinto/intelligenza: «vi sono cose che l’intelligenza sola è capace di cercare ma che per conto suo non troverà mai. Queste cose solo l’istinto le troverebbe; ma non le cercherà mai» • Erwin Schrödinger, Che cos’è la vita? La cellula vivente dal punto di vista fisico (1944), tr. it. Adelphi, Milano 2008 • Schrödinger (1887–1961) è stato un fisico e matematico austriaco, famoso per l’ equazione di Schrödinger che contribuì in maniera fondamentale a «codificare» la meccanica quantistica e che gli valse il Premio Nobel nel 1933. • In Che cos’è la vita? Schrödinger si chiede come la fisica e la chimica possono spiegare l’esser vivo di un organismo vivente, considerando che la fisica di pochi atomi è assai disordinata e solo i legami molecolari riescono a renderla stabile; le altre leggi che governano gli atomi sono quelle di carattere statistico, che valgono quando ci sono aggregati di molti atomi. • Egli sostenne che deve esistere un gene dotato di stabilità e ordine che permette alla vita di replicarsi. Ma che tipo di struttura ha questo gene? • Schrödinger utilizza le nozioni di «salto quantico» – di cui la «mutazione» genetica sarebbe un equivalente – e di «cristallo aperiodico» per rendere conto di come la natura «fabbrichi» corpi non secondo il meccanismo della ripetizione meccanica, ma essendo capace di generare «molecole organiche via via più complicate nelle quali ogni atomo e ogni gruppo di atomi ha una funzione particolare, non interamente equivalente a quella di molti altri». – Watson, Crick e Wilkins identificheranno nel 1953 la struttura a doppia elica della molecola del DNA. Watson, nel suo libro DNA, The Secret of Life, dirà che fu l’intuizione di Schrödinger a dargli l'ispirazione per ricercare il gene. • La «stabilità» del gene non spiega, tuttavia, come si possa arginare la tendenza della materia all’entropia, a passare cioè dall’ordine al disordine, dove il disordine comporta un equilibrio inerte, ovvero ciò che per il vivente corrisponde alla «morte», in contrasto con il funzionamento dell’organismo che invece si fonda sul meccanismo della conservazione dell’ordine interno e della «vita». Dice Schrödinger che «ci deve essere qualcosa nel meccanismo della vita che impedisce alla vita di degradarsi, ci deve essere un fenomeno irreversibile» • Schrödinger sostiene che l’organismo «può tenersi lontano da tale stato [di massima entropia e di «morte»] solo traendo dal suo ambiente continuamente entropia negativa» (p. 123). La vita consisterebbe pertanto in quell’insieme di «originali» strutture fisico‐chimiche che si oppongono alla disgregazione. Prigogine rileva come tuttavia Schrödinger non riuscì a dire molto sull’irreversibilità delle strutture viventi. • Quanto al libero arbitrio? «Il mio corpo funziona come puro meccanismo», oppure «io dirigo i suoi movimenti, dei quali io prevedo gli effetti, che possono essere gravi di conseguenze, nel qual caso io sento e assumo piena responsabilità di essi» (p. 148). • Per Schrödinger, che in questa circostanza abbandona le vesti del fisico e si rifà nientemeno che ai vedanta (per i quali mostrò sempre interesse) bisogna postulare l’esistenza di un «io» «che controlla il "movimento degli atomi” secondo le leggi di natura» (p. 148). La democrazia secondo Lewin Kurt Lewin (1890 – 1947) è stato un celebre psicologo gestaltista, che riuscì a declinare sul versante della psicologia sociale. Come per i gestaltisti della percezione, per Lewin la nostra esperienza non è costituita da un insieme di elementi puntiformi che si associano, ma da percezioni che già sono strutturate come degli interi. E ciò vale anche per le dinamiche dei gruppi e lo sviluppo delle organizzazioni. • I tre stili di leadership secondo Lewin: – Autoritario – Permissivo (laissez faire) – Democratico • Lewin aveva osservato che il gruppo democratico possedeva un «ideale del “noi”» mentre nel gruppo autocratico vi è un maggior uso del sentimento della parola «io». • Coerentemente con l’approccio gestaltico per cui «il tutto è più della somma delle parti», il cambiamento significativo di un gruppo è quello di passare dal regime di una moltitudine di «io» al gruppo inteso come appartenenza ad un «noi» che persegue scopi comuni (Lewin 1942, tr. it. 1972, p. 154). • Lewin evidenzia come il passaggio ad un gruppo democratico non avvenga in maniera necessariamente automatica e spontanea, adottando una politica di «neutralità», ma debba essere attivamente cercato. L’applicazione del principio della ‘libertà individuale’ non porta che al caos. Occorre talvolta forzare l’individuo a rendersi contro del significato delle responsabilità democratiche nei confronti del gruppo complessivo. È vero che non possiamo educare gli uomini alla democrazie con metodi autocratici, ma è altrettanto vero che un leader democratico, per riuscire a modificare in senso democratico l’atmosfera di un gruppo, deve disporre di un potere effettivo ed esercitarlo nella sua opera di rieducazione. Non disponiamo di spazio sufficiente per discutere nei particolari quello potrebbe apparire un paradosso della democrazia (Lewin, Il caso particolare della Germania, 1943, tr. it. 1972, pp. 87-88). • I tre stili di leadership secondo Lewin: – Autoritario → sistema sociale statico, pietrificato, comunicazioni ridotte al minimo, mancanza di gioia e di vitalità. Assenza di conflittualità per eliminazione della possibilità stessa di dissentire → Ordine rigido – Permissivo (laissez faire) → sistema sociale estremamente fluido, presenza di gioia e vitalità; la mancanza di strutturazione del gruppo lascia tuttavia spazio al caos e all’impossibilità di risolvere le inevitabili controversie (rischio di una trasformazione repentina della solidarietà in conflittualità, della gioia in dolore) → Caos – Democratico → sistema che contempla sia la libera iniziativa dei singoli, sia regole comuni di convivenza. L’inevitabile presenza di conflittualità viene incanalata in regole che rappresentano l’istanza cooperativa del gruppo. La dialettica fra conflittualità e cooperazione consente alla società di evolvere → bordo fra ordine e caos La creatività come «mix» fra ordine e caos • Pensiero divergente vs. pensiero convergente • Binomio genio/follia • Insieme di sentire «istintivo» e ragionamento (Winnicott diceva che la creatività contiene sempre qualcosa di un irriverente impulso onnipotente) • Insieme di comportamento finalizzato e casualità → concetto di «serendipità»: chi è competente trova sempre qualcosa, anche se diverso da quello che si aspettava (Robert Merton Viaggi e avventure della serendipity, 2002). Caos come «generatore» di diversità. • Austin sostiene che la creatività si genera quando c’è la compresenza in parallelo delle seguenti quattro circostanze: – il puro caso: il contributo della persona creativa è irrilevante; – la serendipità: chiunque sia molto attivo in un’area può avere un colpo di fortuna; – la fortuna dell’essere bene informati: chiunque ha molte conoscenze su un tema può imbattersi in qualcosa di nuovo; – la fortuna costruita. Il cambiamento come crollo strutturale → passaggio per un momento di caos → ristrutturazione • Spesso il cambiamento psicologico avviene in momenti le «strategie di adattamento» che hanno caratterizzato la nostra vita si rivelano incapaci di consentirci di far fronte alle nuove sfide che la vita ci propone o a eventi critici; → quando non è possibile modificare gli adattamenti consolidati per «riaggiustamento», si sperimenta un momento di «crisi» a cui, auspicabilmente, segue una «ristrutturazione» • È importante, a livello educativo, fornire le «cornici», i contenimenti, il quadro della situazione entro cui possono avvenire le crisi senza che queste divengano destrutturanti – Es. se il bambino cade, impara e si rafforza; l’educatore tenta di capire quando il bambino si può far troppo male • Per Bion ogni autentico cambiamento è potenzialmente «catastrofico»: reca con sé sia una perdita di sicurezza, ma anche la possibilità di una rigenerazione (che chiama «evoluzione in O). Se ci si difende dal cambiamento, si perde la possibilità di rigenerarsi e si diventa più gretti ed egoisti • Lewin: disgelo cambiamento riconsolidamento La salute mentale: fra ordine e caos • Per Winnicott la salute mentale non è sinonimo di tranquillità. La vita di un individuo sano è caratterizzata da paure, sentimenti conflittuali, dubbi e frustrazioni, come pure da elementi positivi. Senza dubbio la gente dà per scontato il sentirsi reali. Ma a quale prezzo? In quale misura essi negano la verità che di fatto esiste il pericolo di sentirsi non reali, posseduti, di non essere se stessi, di precipitare all’infinito, di non avere una direzione, di essere separati dal proprio corpo, annientati, di essere un nulla, di non avere un luogo in cui stare… (D. Winnicott, Il concetto di individuo sano)