Teorie della
Complessità
Uno sguardo globale
Si parla di:
• teorie della complessità
• epistemologia della complessità
• pensiero della complessità
• scienze della complessità
• …
• Non è facile riassumere in poche parole il
concetto di complessità in quanto esso
rappresenta più un nuovo di modo di
pensare che una branca scientifica
compiuta.
• Si potrebbe dire, con L. Pietronero, che
lo studio dei sistemi complessi riguarda l'emergere
di proprietà collettive in sistemi con un gran
numero di componenti in interazione tra loro.
“Il tutto è più della
somma delle parti”
Dobbiamo dunque considerare lo stato
presente dell’universo come l’effetto del
suo stato anteriore e come causa del
suo stato futuro. Un’Intelligenza che, per
un dato istante, conoscesse tutte le forse
di cui è animata la natura e la situazione
rispettiva degli esseri che la
compongono, se perdipiù fosse
abbastanza profonda per sottomettere
questi dati all’analisi, abbraccerebbe
nella stessa formula i movimenti dei più
grandi corpi dell’universo e dell’atomo
più leggero: nulla sarebbe incerto per
essa e l’avvenire, come il passato,
sarebbe presente ai suoi occhi.
Pierre Simon Laplace,
Essai philosophique sur les probabilites, 1814
Pensiero profondo
Nel romanzo di fantascienza Guida galattica per gli
autostoppisti di Douglas Adams una razza di esseri
superintelligenti programma un calcolatore gigantesco
– chiamato Pensiero Profondo – con lo scopo di
trovare «la risposta alla domanda fondamentale
sulla vita, l'universo e tutto quanto».
Pensiero Profondo impiega sette milioni e mezzo di
anni di elaborazioni, ma alla fine riesce a trovare la
risposta alla Domanda fondamentale…
Guida galattica per autostoppisti – Garth Jennings (2005)
La vita non è un mero meccanicismo
• Per i teorici della complessità la vita non
può essere ridotta a un meccanismo.
→ prospettiva antimeccanicista
→ La natura che si comporta in maniera
meccanica non è la “natura originaria” (Metzger,
1954, tr. it. 1971, p. 253), ma è quella costretta a
funzionare alla stregua di una macchina: si tratta
di una natura “violentata dall’uomo”, i cui processi
sono stati isolati e costretti a funzionare entro
certi limiti ben precisi (Ibidem, pp. 253-54).
…sappiamo che il disordine si può escludere e l’ordine
instaurare di forza imponendo dall’esterno controlli
adeguati sull’azione dei fattori in gioco. […] possiamo
obbligare le forze della natura a un lavoro ordinato. Ma in
genere si sottintende come certo che questo sia anche il
solo modo in cui si possa ottenere dell’ordine negli eventi
fisici. A questo modo l’uomo ha concepito la natura per
migliaia di anni: e allo stesso modo oggi noi imponiamo
ordine alla natura nella stessa maniera quando costruiamo
e azioniamo i macchinari delle nostre industrie. In tali
macchine permettiamo alla natura di produrre, per
esempio, del moto, ma la forma e l’ordine di questo moto
sono prefissati dall’anatomia delle macchine che l’uomo e
non la natura ha stabilito. (Köhler 1947, tr. it. 1989, p. 75)
• Un sistema meccanico è anche,
fondamentalmente, un sistema morto.
Le interazioni che tengono in vita un cane non
possono essere studiate in vivo. Se si volesse
studiarle correttamente, bisognerebbe uccidere il
cane (N. Bohr. cit. in Morin, 1985, p. 26).
→ L’ideale sottostante è, in questo caso, quello del
corpo-macchina. Siccome questo è formato da
parti altrettanto meccaniche, la “forma pura” del
comportamento di un organo la si può avere per
assurdo quando questo è avulso dall’organismo
intero (Metzger, 1954, tr. it. 1971, p. 60).
Meccanicismo e esperimenti in laboratorio
• Ciò ha delle ripercussioni sul modo con cui ci
approcciamo alla conoscenza degli organismi
viventi. Infatti
deriva fondamentalmente da questo principio anche
la credenza che un animale con il corpo integro, ma
costretto a stare immobile in una situazione
sperimentale, si comporti di fronte agli aspetti di tale
situazione nello stesso modo di un animale che
abbia libertà di movimento (Ibidem).
– Ad esempio, che la percezione visiva di un
animale anestetizzato e in determinate situazioni
di laboratorio possa essere descritta in termini di
stimoli singoli piuttosto che di configurazioni
globali, come evidenzia anche F. Varela, deriva
dall’applicazione di tutta una serie di costrizioni
che rendono quell’animale diverso da come si
comporta nel contesto reale.
→ Più che osservare l’animale in tutte le sue
possibilità di azione, pertanto, si vanno ad
indagare le reazioni dell’ “animale da
laboratorio” nell’ambito di una situazione creata
ad hoc:
…la natura interrogata dall’esperimento è una natura
semplificata, preparata appositamente e
occasionalmente, mutilata in funzione dell’ipotesi
preesistente (Prigogine, Stengers, 1979, tr. it. 1981, p.
43).
• Ottica meccanicista
 gli oggetti, anche assai complicati, e gli
individui sono costituiti da “cose semplici”,
potenzialmente conoscibili in modo
esaustivo: padroneggiando gli elementi
semplici e le leggi in base alle quali essi
interagiscono, si può arrivare a
comprendere interamente il loro
funzionamento.
• Un oggetto inteso nell’ottica del
meccanicismo, pertanto, può essere assai
complicato, ma ciò non esclude che,
in linea di principio, possa essere ridotto
alla dinamica delle parti semplici di cui è
costituito.
– Qualcosa è «complicato», cioè, se il suo
funzionamento può essere «ridotto» a degli
elementi e a delle leggi semplici.
Si parla di «riduzionismo» quando si
assume
«che la grande diversità delle cose che appaiono
alla nostra esperienza, quotidiana e scientifica,
possa essere spiegata completamente e
perfettamente come conseguenza dell’operatività di
un insieme assoluto e finale di leggi puramente
quantitative che determinano il comportamento di
alcuni generi di entità e variabili fondamentali»
(Bohm, 1997, pp. 54-55, in De Toni, Comello, 2005, p. 30)
L’ottica della complessità esprime un
diverso atteggiamento scientifico, che si libera
«dalla convinzione di fondo che il mondo
microscopico sia semplice e governato da leggi
matematiche. Ciò ci appare oggi una fallace
idealizzazione. La situazione potrebbe essere simile
al ridurre i fabbricati a conglomerati di mattoni; con gli
stessi mattoni si può costruire una fabbrica, un
palazzo o una cattedrale. È a livello dell’intera
costruzione che noi possiamo vedere l’effetto del
tempo, dello stile in cui il fabbricato è stato concepito»
(Prigogine, Stengers, 1979, tr. it. 1981, p. 9).
Phil Anderson, More is different
(«Science», 1972)
1. «the ability to reduce everything to simple
fundamental laws (riduzionismo) not
imply the ability to start those laws and
reconstruct the universe
(costruzionismo)»
→ la scienza è esplicativa, ma non
necessariamente predittiva;
→ il riduzionismo sembra incapace di
cogliere «the very real problem of the
rest of the science, much less to those
of society»
2. «The behavior of large and complex aggregates
of elementary particles, it turns out, is not to be
undertstood in terms of a simple extrapolation of
the properties of a few particles».
→ A ogni livello di complessità (fisica delle
particelle, chimica, biologia, fisiologia,
psicologia…) «entirily new laws, concepts, and
generalizations are necessary, requiring
inspiration and creativity […] Psychology is not
applied biology, nor is biology applied
chemistry»
→ proprietà emergenti
• Tuttavia Anderson ammette che possa
esistere una forma di riduzionismo
“filosoficamente corretta”: cioè la
convinzione che l’universo sia governato
da leggi naturali. Ciò comporta il credere
nell’unità della natura a livello più profondo
(Waldrop, 1992, tr. It. 2002, p. 118).
• Il Premio Nobel fu conferito ad Anderson
nel 1977 per aver descritto teoricamente la
sottile transizione di fase per cui certi
metalli si trasformano da conduttori
elettrici in isolanti
La prima pagina
dell’articolo del 1972
di Anderson
«Dio non gioca a dadi con l'universo»
(Einstein)
• «Sembra difficile dare una
sbirciata alle carte di Dio. Ma
che Egli giochi a dadi e usi
metodi "telepatici" [...] è
qualcosa a cui non posso
credere nemmeno per un
attimo»
(lettera del 4 dicembre 1926 a Niels Bohr, cit.
in Bill Bryson, Breve storia di (quasi) tutto,
traduzione di Mario Fillioley, TEA, 2009).
• Niels Bohr rispose "Non dire a
Dio come deve giocare".
«Dio gioca a dadi con l’universo.
Ma sono dadi truccati. E il
principale obiettivo della fisica di
oggi è di trovare per mezzo di
quali regole essi sono stati truccati
e in che modo possiamo usarli ai
nostri fini»
(Joseph Ford, 1983)
In tutta la storia del pensiero umano vi sono stati paradigmi dominanti
riguardo all’universo: queste rappresentazioni mentali spesso ci
dicono poco dell’universo, ma molto delle società impegnate a
studiarlo. Per quegli antichi greci che avevano elaborato una visione
teleologica del mondo, in seguito ai primi studi sistematici degli esseri
viventi, il mondo era un grande organismo. Per altri, propensi a
venerare la geometria al di sopra di tutte le altre categorie del
pensiero, l’universo era un’armonia geometrica di forme perfette. Più
tardi, nell’epoca in cui furono costruiti i primi meccanismi di orologeria
e i primi pendoli, divenne dominante l’immagine post-newtoniana
dell’universo come meccanismo e schiere di apologeti furono spinte
alla ricerca dell’Orologiaio cosmico. Per la cultura vittoriana
dell’epoca della Rivoluzione industriale, il paradigma prevalente era
quello della macchina a vapore […] L’immagine dell’universo come
calcolatore forse non è altro che l’ultimo prevedibile frutto del
protrarsi delle nostre abitudini mentali: domani, un nuovo paradigma
potrà prenderne il posto. Quale? (Barrow, 1991, tr. It 1992, pp. 36667)
Il vecchio Dio (di Luigi Pirandello, 1905)
Smilzo, un po' curvo, con un abitino di tela che gli sventolava addosso,
l'ombrello aperto sulla spalla e il vecchio panama in mano, il signor Aurelio
s'avviava ogni giorno per la sua speciosa villeggiatura.
Un posto aveva scoperto, un posto che non sarebbe venuto in mente a
nessuno; e se ne beava tra sé e sé, quando ci pensava, stropicciandosi le
manine nervose.
Chi sui monti, chi in riva al mare, chi in campagna: lui, nelle chiese di
Roma. Perché no? Non ci si sta forse freschi più che in un bosco? E in
santa pace, anche. Nei boschi, gli alberi; qui, le colonne delle navate; lì,
all'ombra delle frondi; qui, all'ombra del Signore.
— Eh, come si fa? Ci vuol pazienza.
Aveva anche lui, un tempo, una bella campagna sotto Perugia, ricca di
cipressetti densi, e lungh’esso il canale quell'eleganza di gracili salici
violetti e tanto dolce azzurro d'ombra che dilaga; la magnifica villa, con
dentro una preziosa raccolta d'oggetti d'arte: ah, quella poi! invidiato
decoro di casa Vetti.
Gli restavano le chiese, ora, per villeggiare.
— Eh, come si fa? Ci vuol pazienza.
Da parecchi anni a Roma, non gli era ancora riuscito di visitarne tutte le chiese
più famose. L'avrebbe fatto quest'anno per villeggiatura.
Speranze, illusioni, ricchezza e tant'altre belle cose aveva perduto il signor
Aurelio lungo il cammino della vita: gli era solo rimasta la fede in Dio ch'era, tra
il buio angoscioso della rovinata esistenza, come un lanternino: un lanternino
ch'egli, andando così curvo, riparava alla meglio, con trepida cura, dal gelido
soffio degli ultimi disinganni. Errava come sperduto in mezzo al rimescolio
della vita, e nessuno più si curava di lui.
— Non importa: Dio mi vede! — si esortava in cuor suo.
E n'era proprio sicuro, di questo, il signor Aurelio, che Dio lo vedeva per quel
suo lanternino. Tanto sicuro, che il pensiero della prossima fine, non che
sgomentarlo, lo confortava.
Le strade, sotto il cocente sole, erano quasi deserte. Tuttavia per lui c’era
sempre qualcuno, un monellaccio, un vetturino di stazione, che, vedendolo
passare col lucido cranio scoperto, la barbetta lieve tremolante sul mento, e la
zazzeretta grigia, tremolante anch’essa su la nuca, gli lanciava qualche lazzo.
— Guarda oh: due barbette! una davanti e l’altra dietro!
Ma il cappello in capo, d’estate, il signor Aurelio non lo poteva sopportare.
Sorrideva anche lui al lazzo e affrettava, quasi senza volerlo, quei suoi
passettini da pernice, per levar la tentazione d’un altro lazzo a quegli oziosi.
— Eh, come si fa? Ci vuol pazienza.
Entrando nella chiesa designata quel giorno per villeggiatura, voleva prima
di tutto goder della giunta: sedere. E traeva un gran respiro; s’asciugava il
sudore; poi, con diligenza, ripiegava in quattro il fazzoletto e se lo poneva in
capo, così ripiegato, per riguardarsi dall’umida frescura.
Qualche rara divota che si voltava appena a spiarlo, vedendolo con quel
buffo copricapo, sbruffava tra sé una risatina.
Ma il signor Aurelio, in quel momento, si sentiva beato, respirando
quell’umido insaporato d’incenso che stagnava nella solenne vacuità
silenziosa dell’interno sacro; né gli nasceva il sospetto che qualcuno, pur lì,
nella casa di Dio, potesse provar gusto a ridere di lui.
Riposatosi un po’, si metteva a esaminare la chiesa, pian pianino, come
uno che ci abbia da passar la giornata. E ne studiava con amorosa
attenzione l’architettura, le singole parti. Si fermava davanti a ogni pala
d’altare, a ogni opera musiva, a ogni cappella, a ogni monumento funerario,
e con l’occhio esperto scopriva subito le peculiarità del tempo, della scuola
a cui l’opera d’arte doveva ascriversi e se era sincera o deturpata da toppe
e rimessi di restauri infelici. Poi tornava a sedere; e se in chiesa, come
spesso avveniva a quell’ora, di quella stagione, non c’era altri che lui, ne
approfittava per segnar rapidamente in un modesto taccuino qualche nota,
un dubbio da chiarire, le sue impressioni.
Soddisfatta così la prima curiosità e adempiuto per quel giorno il compito
d’arte che si era prefisso, traeva di tasca qualche libretto d’amena lettura,
che per la dimensione poteva parere un libro di preghiere, e si metteva a
leggere. Di tanto in tanto levava il capo per riassumere o ungersi davanti agli
occhi la scena descritta dal poeta. E con quella lettura di libri profani non
temeva d’offendere la casa del Signore. Secondo il suo modo di vedere, Dio
non poteva aversi a male delle cose belle create dai poeti per innocente
delizia degli uomini.
Stanco della lettura s’abbandonava, con gli occhi fissi nel vuoto e
strofinando a lungo tra loro l’indice e il pollice delle due manine, alle proprie
fantasie o ai ricordi degli anni perduti. Talvolta, mentre fantasticava così,
tutto assorto, gli s’avvistava da una nicchietta nel pilastro di fronte qualche
busto che pareva se ne stesse lì affacciato a guardare in chiesa.
— Oh! — faceva allora, tentennando il capo con un sorriso. — Te beato,
amico mio. Si sta bene da morti?
E si levava di nuovo per leggere nell’inscrizione funeraria il nome di quel
sepolto, poi tornava a sedere e si metteva a conversare con lui
mentalmente, guardandolo.
— Siamo qua, caro il mio Hieronymus! Peccato che non sia più permesso
farsi seppellire in chiesa. Mi farei scavare una bella nicchietta nel pilastro di
fronte e, tu di là, io di qua, tutti e due affacciati, sentiresti che belle
conversazioncine! Ce l’hai di buon uomo, la faccia, poveretto, e certi guai
perciò mi conteresti. Mah! Come si fa? Ci vuol pazienza. Mi sembra però
che in chiesa ci si debba star meglio, da morti. Questo buon odor d’incenso;
e messe e preghiere tutti i giorni. Nel camposanto, se vogliamo dirla, ci
piove.
La morte però, anche lì nel camposanto, eh... una liberazione; quando sulla
terra, più che per viver bene, ci si duri per prepararsi a morir senza paura.
Premi di là, il signor Aurelio, non se n’attendeva; gli bastava portarsi di qua,
fino all’ultimo passo, la coscienza tranquilla, di non aver mai fatto il male
per volontà. Conosceva i dubbi tenebrosi accumulati dalla scienza come
tanti nuvoloni su la luminosa spiegazione che la fede ci dà della morte, sì
per averne fatta lettura in qualche libro, e sì per averli quasi respirati
nell’aria; e rimpiangeva che il Dio dei suoi giorni, anche per lui, credente,
non potesse più esser quello che in sei dì aveva creato il mondo, e s’era nel
settimo riposato.
Quella mattina, entrando in chiesa, era rimasto meravigliato dell’aspetto del
sagrestano, bel vecchio enormemente barbuto e capelluto e orgoglioso di
quel barbone lanoso e di quella chioma partita nel mezzo e ondulata su le
spalle e nei cernecchi. Bella, la testa soltanto. Il corpo tozzo, curvo,
cadente, pareva penasse a sorreggerla, con tutto quel volume di peli.
Ora, il signor Aurelio, riflettendo intorno alla vita e alla morte, considerando
amaramente ai meschini profitti dell’anima in questo tanto decantato secolo
dei lumi, rivolto col pensiero al vecchio Dio dell’intatta fede dei padri, a poco
a poco s’addormentò. E quel vecchio Dio, nel sogno, ecco che gli venne
innanzi, curvo, cadente, reggendo a fatica su le spalle la testa
enormemente barbuta e chiomata del sagrestano della chiesa; gli sedette
accanto e cominciò a sfogarsi con lui, come fanno i vecchietti seduti sul
muretto davanti ai gerontocomi:
— Mali tempi, figlio mio! Vedi come mi son ridotto? Sto qui a guardia delle
panche. Di tanto in tanto, qualche forestiere. Ma non entra mica per me,
sai! Viene a visitar gli affreschi antichi e i monumenti, monterebbe anche su
gli altari per veder meglio le immagini dipinte in qualche pala! Mali tempi,
figlio mio. Hai sentito? hai letto i libri nuovi? Io, Padre Eterno, non ho fatto
nulla: tutto s’è fatto da sé, naturalmente, a poco a poco. Non ho creato Io
prima la luce, poi il cielo, poi la terra e tutto il resto, come ti avevano
insegnato ne’ tuoi gracili anni. Che! che! Non c’entro più per nulla Io.
Le nebulose, capisci? la materia cosmica... E tutto s’è fatto da sé. Ti faccio
ridere: uno c’è stato finanche, un certo scienziato, il quale ha avuto il
coraggio di proclamare che, avendo studiato in tutti i sensi il cielo, non vi
aveva trovato neppur una minima traccia dell’esistenza mia. Di’ un po’: te lo
immagini questo pover’uomo che, armato del suo cannocchiale,
s’affannava sul serio a darmi la caccia per i cieli, quando non mi sentiva
dentro il suo misero coricino ? Ne riderei di cuore, tanto tanto, figliuolo mio,
se non vedessi gli uomini far buon viso a siffatte scempiaggini. Ricordo
bene quand’Io li tenevo tutti in un sacro terrore, parlando loro con la voce
dei venti, dei tuoni e dei terremoti. Ora hanno inventato il parafulmine,
capisci? e non mi temono più; si sono spiegati il fenomeno del vento, della
pioggia e ogni altro fenomeno, e non si rivolgono più a Me per ottenere in
grazia qualche cosa. Bisogna, bisogna ch’io mi risolva a lasciare la città e
mi restringa a fare il Padreterno nelle campagne: là vivono tuttora, non dico
più molte, ma alquante anime ingenue di contadini, per cui non si muove
foglia d’albero se Io non voglia, e sono ancora Io che faccio il nuvolo e il
sereno. Su, su, andiamo, figliuolo! Anche tu qua ci stai maluccio, lo vedo.
Andiamocene, andiamocene in campagna, fra la gente timorata, fra la
buona gente che lavora.
A queste parole, il signor Aurelio, nel sogno, sentiva stringersi il cuore. La
campagna! il suo sospiro! - La vedeva come se vi fosse; ne respirava l’aria
balsamica... - quando, a un tratto, si sentì scuotere e, aprendo gli occhi,
stordito, oppresso di stupore, si vide davanti vivo e spirante, il Padre
Eterno, proprio lui, che gli ripeteva ancora:
— Andiamo, su, andiamo...
— Ma se è tanto che... — barbugliò il signor Aurelio, con gli occhi sbarrati,
atterrito dalla realtà del suo sogno.
Il vecchio sagrestano scosse le chiavi:
- Andiamo! La chiesa si chiude.
• Il Boeing 747, conosciuto anche come Jumbo Jet, è un
quadrigetto di linea prodotto dall'azienda statunitense Boeing
dagli anni settanta. Il 747 è uno degli aerei di linea moderni più
famosi. Per via della sua forma, delle sue dimensioni e della sua
capacità di carico è diventato nel tempo un vero e proprio simbolo
di potenza meccanica, oltre che di elegante maestosità.
• Dimensioni e pesi
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Lunghezza 70,66 m
Apertura alare 64,44 m
Altezza 19,41 m
Peso a vuoto 178 800 kg; Peso max al decollo 442 253 kg (747-8)
Passeggeri: 524
• Prestazioni
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Velocità max 988 km/h
Velocità di crociera 913 km/h
Corsa di decollo 3018 m
Autonomia 13 445 km
Dati estratti da 747-400 specifications, (fonte: wikipedia)
• Mario Rasetti (ordinario di fisica teorica, UNITO) dice
che utilizza il seguente esempio durante le lezioni di
fisica per spiegare la differenza fra qualcosa di
«complicato» e qualcosa di «complesso»:
Un jumbo 747 è un oggetto molto complicato perché è
composto da 50 milioni di pezzi. Se io smontassi un jumbo
e lo mettessi su un campo di calcio e chiedessi a qualcuno
di ricostruirlo gli darei un problema molto complicato, ma
non complesso, perché del jumbo abbiamo i progetti. Se
invece si studia una rete sociale, o internet, o il cervello
umano non si ha a disposizione un progetto. Per cui dai
dati, dalle informazioni occorre ricostruire…
Sistemi
semplici
Pochi elementi,
Poche connessioni fra
elementi
Sistemi
complicati
Sistemi
complessi
Complicato, dal latino
cum – plicàre, piegato
insieme
Complesso, dal latino
cum - plexus, tessuto
insieme, intrecciato
assieme
Molti elementi
Molte connessioni «fisse»
fra gli elementi
Molti elementi
Moltissime connessioni
«non lineari» fra gli
elementi
Pensiero Semplice vs. Pensiero Complesso
(Edgar Morin)
Il Pensiero Semplice ritiene che il mondo sia
«complicato». Ne segue che (come spiega I. Licata):
• accumulare conoscenza dipana progressivamente
l’ignoranza → esiste pertanto un Progresso della
conoscenza che procede lungo la strada maestra del
definire chiaramente i concetti e le cose da conoscere;
• se un sistema è troppo difficile da risolvere può essere
suddiviso in tanti sotto-problemi, per i quali è disponibile
una spiegazione. Sommando le micro-spiegazione avremo
la spiegazione dell’intero fenomeno
• esistono questioni che possono essere poste in modo
chiaro e che possono essere pertanto essere affrontate da
un punto di vista scientifico e questioni «confuse» da
relegare nel gioco, nelle opinioni ecc.
• Quindi, dire che «il tutto è più della somma
delle parti» significa ammettere che i sistemi
possono generare «proprietà emergenti».
• Naturalmente occorre capire cosa vuol dire,
in ogni situazione concreta, che il tutto è più
della somma delle parti.
Stuart Kauffman (1939)
(istituto di Santa Fe):
Darwin non sapeva nulla
dell’autoorganizzazione
→ la storia della vita non
è la storia di eventi
accidentali e casuali, ma
quella dell’ordine, di un
tipo di creatività
profonda, intessuta
nella trama stessa della
natura
(cit. in Waldrop, 1992, tr. it. 2002, p. 151).
→ Kauffman voleva dimostrare che l’ordine è
presente sin dall’inizio, che l’autoorganizzazione è
l’altra faccia della selezione naturale. → per
Kauffman la complessità dei sistemi biologici e degli
organismi è il risultato sia dell'auto-organizzazione e
da dinamiche lontane dall'equilibrio sia della
selezione naturale darwiniana.
→ I dettagli specifici di ogni singolo organismo
sarebbero il risultato della selezione naturale, in perfetto
accordo con la teoria di Darwin. L’organizzarsi della
vita stessa, l’ordine, sarebbe invece qualcosa di più
profondo ed essenziale. Trarrebbe origine dalla
struttura della rete, non dai particolari. L’ordine, dunque,
sarebbe uno dei segreti del Grande Vecchio (Waldrop, p. 161)
• Kauffman non trovava convincente la teoria
sull’origine della vita di Urey-Miller: gli
sembrava strano che l’origine della vita
dipendesse da qualcosa di così complicato e
improbabile come il DNA. Egli propendeva per
l’idea che il brodo primordiale avesse costituito
un insieme “auto-catalitico”, frutto della
naturale tendenza all’autoorganizzazione.
→ Una volta che un insieme di elementi ha
raggiunto una certa complessità, c’è da
aspettarsi una transizione.
• Kauffman credeva in Dio: non in un Dio
personale, ma un Dio intelligente, che spiega
come funzionano le cose a chi ascolta. Una
volta ebbe addirittura un’esperienza definibile
come mistica (Waldrop).
→ La tendenza all’ordine era una risposta al
mistero dell’esistenza umana, capace di
spiegare la nostra condizione di creature viventi
e pensanti in un universo apparentemente
governato dal caos.
Stuart Kauffman
Reinventare il sacro. Una nuova concezione
della scienza, della ragione e della religione
I progressi della scienza degli ultimi quattro secoli
hanno preteso un prezzo elevato: un divario sempre
più ampio tra fede e ragione. Nella sua forma più
estrema, il riduzionismo sostiene che tutta la realtà,
dagli organismi a una coppia di innamorati a
passeggio, sia fatta di sole particelle: le società
devono essere spiegate da leggi sulle persone, che
sono spiegate da leggi sugli organi, sulle cellule,
dalla chimica e infine dalla fisica delle particelle. Per
Kauffman il solo riduzionismo è inadeguato sia a
praticare la scienza sia a comprendere la realtà:
viviamo infatti in una biosfera e in una cultura che,
oltre ad essere emergenti, sono radicalmente
creative; un universo di creatività esplosiva di cui
spesso non possiamo prevedere gli sviluppi. La
proposta di Kauffman è quindi quella di porci come
co-creatori di una biosfera che letteralmente
costruisce se stessa e si evolve, e di una cultura
nuova e infinita. Un Dio pienamente naturale
identificato con la creatività stessa dell’universo, e
una sua concezione che può essere uno spazio
spirituale condiviso da tutti, credenti o non credenti
(dalla seconda di copertina).
• I processi universali di autoorganizzazione
permettono di riavvicinare le scienze umane e le
altre scienze, di stabilire una nuova alleanza, come
recita un celebre libro di Prigogine e di Stengers
In molte università chi studia le scienze umane si sente
spesso un cittadino declassato. Einstein o Shakespeare,
ma non entrambi nella stessa stanza. Questa scissione è
una frattura che spacca al centro l’integrità della natura
umana (Kauffman, 2008, tr. it. 2010, p. 9)
• L’approccio delle teorie della complessità si
può definire, in prima approssimazione, di
tipo “olista”
→ ma questo termine è inadeguato e può
generare errori in quanto anche l’olismo è
un riduzionismo in quanto ambisce a
fornire spiegazioni onnicomprensive e
semplificanti.
→ non c’è una «legge» della complessità.
Anche il parlare della complessità come
«emergenza», come processi bottom-up,
piuttosto che top-down, o processi dal basso è
una semplificazione.
Nozioni come quella di emergenza o di complessità non
sono nulla indipendentemente dall’intenzione di quelli
che la utilizzano. […] Quanto alla nozione di
complessità, essa è portatrice di un problema – non
sappiamo a priori che cosa significhi “somma delle parti”
– e questo implica che non possiamo trattare tutte le
“somme” secondo lo stesso modello generale, con il
pretesto che hanno le “stesse” parti (Isabelle Stengers)
• La Stengers sottolinea come l’olismo e il
riduzionismo siano due «fratelli nemici»
Ognuno dei due è alla ricerca del buon accesso, che
renderà un fenomeno semplice e intelligibile. Mentre i
discorsi riduzionisti negheranno a priori che tutte le
questioni possano, in ultima analisi, non essere ridotte a
quelle che si addicono in modo generale al
comportamento degli elementi associati nel tutto, i
discorsi “funzionalisti” cercheranno altre caratteristiche o
proprietà unitarie che assicureranno sia un modello
generale sia un procedimento sicuro. È per esempio il
caso dell’insieme delle variazioni a proposito
dell’affermazione secondo la quale un “sistema” tende a
mantenersi […]
[…] In questo senso la complessità come problema ha,
credo, quale primo effetto quasi estetico un arretramento
di spiegazioni, antitetici forse, ma vicini, come del resto
Bergson aveva già notato ne L’evoluzione creatrice: la
spiegazione attraverso la deduzione in senso riduzionista,
e la spiegazione attraverso la genesi, nel senso in cui è la
struttura finale che, in un modo o nell’altro, spiega la
propria formazione.
• L’approccio della complessità avvalora
piuttosto, a livello metodologico, la specificità
della situazione concreta, per comprendere la
quale leggi e tradizioni sono importanti, ma
debbono essere declinate nel momento
presente.
→ occorre «star dentro» la situazione per
capire come la situazione evolve: è
importante tanto le «competenze» che si
possiedono ma anche la sensibilità con cui si
riesce a «sentire» la situazione e le
«opportunità» in essa disponibili
• Per «leggere» la situazione occorrono teorie;
utilizzando «teorie» vi è sempre il rischio di
oscurare l’oggetto che si sta indagando e di far
parlare solamente le nostre teorie
– L’egittologo ritaglia il proprio Egitto “egittologizzabile”
L’insuperabile problema della pertinenza della
manipolazione, della pertinenza della questione, non
apre la porta all’irrazionalismo, ma al riconoscimento
del rischio sempre presente di “far tacere” l’oggetto
stesso che interroghiamo (Stengers)
→ solo il «procedimento analitico» sembra
veramente rispettoso dell’oggetto in quando
a svincolarsi al «niente altro che» ed è in
grado di comprendere che ciò che porta a
«questo» in altre circostanze può portare a
«quello» e poi «a quello ancora» (Stengers)
→ «rendersi artificialmente ciechi» (Freud,
Bion)
T.S. Eliot e il valore limitato della conoscenza
C’è, così ci pare,
Nel migliore dei casi, solo un valore limitato
Nella conoscenza che deriva dall’esperienza
La conoscenza impone una trama e falsifica,
Perché la trama in ogni momento è nuova,
E in ogni momento è nuova e sconcertante […]
Nel mezzo, non solo nel mezzo del cammino
Ma per tutto il cammino, in una selva oscura, tra i rovi,
Sull’orlo di un pantano, dove il piede non è sicuro, E tra minacce di
mostri, luci fantastiche,
Col rischio dell’incantesimo. Non voglio sentir parlare
Della saggezza dei vecchi, bensì della loro follia
La loro paura della paura e della frenesia, la loro paura del possesso,
Di appartenere a un altro, o ad altri, o a Dio.
La sola saggezza che possiamo sperare di ottenere
La saggezza dell’umiltà: l’umiltà è sconfinata
(T.S. Eliot, East Coker)
La complessità
fra ordine e caos
• Un altro modo di inquadrare l’approccio
della complessità è quello di pensare la
complessità come qualcosa che sta «al
bordo fra ordine e caos»
• La scienza classica aveva avvalorato l’idea
di un mondo governato da leggi, totalmente
prevedibile, auspicando di giungere a
«teorie del tutto» onni-esplicative
→ concezione di un «mondo orologio» o
«mondo macchina», totalmente prevedibile
e quindi… morto!
“Le interazioni che tengono in vita un cane non
possono essere studiate in vivo. Se si volesse
studiarle correttamente, bisognerebbe uccidere
il cane” (N. Bohr)
«Quando si raggiunge un equilibrio in biologia si
è morti» (Arnold Mandell, cit. in Gleick, p. 292)
• Un sistema vivente deve contenere qualcosa
di imprevedibile, altrimenti sarebbe morto.
• Ma non deve essere neppure totalmente
«fuori controllo», come avviene nelle
evoluzioni caotiche dei fenomeni, che sono
imprevedibili, impedendo così qualsiasi
strutturazione di conoscenza.
→ Si suole dire allora che la
scienza
della complessità si situa fra
ordine e caos
• La realtà non un insieme di particelle inerti
mosse da forze, ma un fermento di sistemi
autoorganizzantesi, sempre sull’orlo del
caos e della distruzione
Stabilità, ordine
↓ 
“Margine del caos”, complessità
↓ 
Caos
Ordine perfetto, “cristallizzato”
Massima connessione e assenza di
differenziazione. Il sistema è descrivibile
deterministicamente
Mobilità totale, caos
Massima differenziazione e assenza di
connessione. Il sistema è descrivibile solo
statisticamente
Complessità
Le molecole dell’acqua sono differenziate e connesse perché le
molecole sono legate fra loro, ma ciascuna si può spostare rispetto
alle altre e il sistema può assumere molteplici configurazioni. Il
sistema è descrivibile con meccaniche non lineari
Parmenide e Eraclito
Essere o divenire?
Parmenide
(515 a.C. – 450 a.C.)
• «L'essere è, e non può non essere»
• «Il non-essere non è, e non può essere»
« … Orbene io ti dirò, e tu ascolta accuratamente il
discorso, quali sono le vie di ricerca che sole sono
da pensare: l'una che "è" e che non è possibile che
non sia, e questo è il sentiero della Persuasione
(infatti segue la Verità);
l'altra che "non è" e che è necessario che non sia, e
io ti dico che questo è un sentiero del tutto
inaccessibile: infatti non potresti avere cognizione di
ciò che non è (poiché non è possibile), né potresti
esprimerlo.
… Infatti lo stesso è pensare ed essere»
(Parmenide, Della natura)
• L'Essere è immobile (dimostrazione: se si si muovesse
sarebbe soggetto al divenire, e quindi ora sarebbe, ora non
sarebbe);
• L’Essere è Uno (dimostrazione: se non fosse uno, si
darebbero due Esseri. Ne segue che l’Essere è uno e che
qualsiasi cosa sia al di fuori di Esso non può essere);
• L’Essere è Uno (dim.: se l'essere fosse solo per un certo
periodo di tempo, a un certo momento non sarebbe. Ciò
sarebbe contraddittorio);
• L'Essere è ingenerato e immortale (dim.: se fosse soggetto
a nascita significherebbe che prima di nascere non era; e se
potesse morire, significherebbe che cesserà di essere);
• L'Essere è indivisibile (dim.: se non fosse tale richiederebbe
la presenza del non-essere come elemento separatore).
• Ritenere, basandosi sui dati sensibili, che
esista il movimento non è pensare
secondo verità, ma rimanere in balìa
dell’opinione (doxa).
Eraclito
(535 a.C. – 475 a.C.)
• Il mondo è un flusso perenne
«non è possibile discendere due volte nello
stesso fiume né toccare due volte una sostanza
mortale nello stesso stato; per la velocità del
movimento, tutto si disperde e si ricompone di
nuovo» (frammento 91)
«Questo mondo, che è lo stesso per tutti,
nessuno degli dei o degli uomini l’ha creato, ma
fu sempre, è e sempre sarà fuoco eternamente
vivo che con ordine regolare si accede e con
ordine regolare si spegne» (frammento 30)
• Eraclito è stato considerato lo scopritore
della dialettica : il logos – il principio
creativo – è uno, ma si manifesta per
opposizioni, conflittualità, lotta.
«La lotta è la regola del mondo e la guerra è
comune generatrice e signora di tutte le cose»
• Hegel disse che non c’era proposizione di Eraclito
che non avesse accolto nella sua Logica. Ma Hegel
interpretò la dialettica fra opposti come
contrapposizione fra Tesi e Antitesi (Assoluto e
Realtà) che poi si conciliano nella Sintesi.
• Per Eraclito, invece, non c’è annullamento
dell’opposizione. È per questo che l’armonia che
soggiace alla discordia è difficile da trovare: perché
non è per Eraclito la sintesi degli opposti
(Abbagnano, 1993, vol. 1, p. 23)
«Gli uomini non sanno come ciò che è discorde è in
accordo con sé: armonia di tensioni opposte, come
quelle dell’arco e della lira» (Frammento 51)
• Per Heisenberg (1952) la posizione di
Eraclito è estremamente moderna
aggiunse che noi abbiamo solamente
nell’attuale fisica sostituito la parola
«fuoco» con «energia»
• Eraclito, come evidenziò anche Popper,
colse il mondo come colossale processo,
più che come edificio; non i fatti, ma i
mutamenti.
Logos vs doxa
• Per Eraclito, il logos è ciò che regola ed è
comune a tutte le cose, l’opinione (doxa) è la
verità privata
«tutte le leggi umane si alimentano dell’unica
legge divina, poiché quella impone quanto vuole e
basta per tutte le cose e avanza».
«[occorre] seguire ciò che è comune. Ma benché
comune sia questa verità che io insegno, i molti
vivono come se avessero un proprio pensiero per
loro».
• «Il retto pensiero è la massima virtù e la
sapienza è dire e fare cose vere
ascoltando e seguendo l’intima natura
delle cose».
• Per Eraclito la sapienza è difficile a
conseguirsi perché comporta il pensare
assieme l’unità e la conflittualità,
«struttura» e «processo», come potremmo
dire oggi.
• La sapienza non è connessa a un
«sapere» ma a un «ricercare»: la natura
«ama nascondersi»; ma non bisogna
desistere: «se non speri, non troverai
l’insperato, introvabile essendo questo e
inaccessibile» (fr. 18)
• La via per arrivare alla sapienza è la
conoscenza della propria anima («Io ho
indagato me stesso», frammento 22)
«Tu non troverai i confini dell’anima, per quanto
vada innanzi, tanto è profonda è la sua ragione»
(frammento 45)
• Parmenide: visione «statica» della realtà
→ la conoscenza è conoscenza dei
principi primi dell’essere in cui «tutto è»
• Eraclito: visione «dinamica» della realtà
→ la conoscenza è conoscenza della
dialetticità del reale e dell’armonia a esso
soggiacente
• Per rimanere sempre alle radici del pensiero
occidentale, già i primi pensatori ebbero la
necessità di pensare la coesistenza di regolarità
e irregolarità.
• Ad esempio, come ricorda Prigogine, Epicuro
sentì la necessità di prevedere che «cadono in
linea retta nel vuoto», possano, in certi momenti
deviare, impercettibilmente la loro traiettoria,
appena sufficiente perché si possa appunto
parlare di modifica dell’equilibrio.
– Il discepolo di Epicuro, Lucrezio, definì
questa attitudine degli atomi come clinamen.
…ne consegue
…che la vita è un «processo» di continuo
cambiamento, nell’ambito del quale sempre
nuove e imprevedibili perturbazioni portano i
sistemi viventi sull’orlo del caos.
Le TEORIE DELLA COMPLESSITÀ
formulano l’idea che la vita sia un continuo
cambiamento utilizzando la formula che la vita
è un «processo» che avviene sull’orlo
del caos
• sempre nuove e imprevedibili
perturbazioni portano i sistemi viventi
sull’orlo del caos.
→ la vita è un insieme di struttura e
movimento, di caos e ordine, di essere e di
divenire: se le strutture non cambiassero,
sarebbero rigide e morte; se cambiassero
incessantemente, non potrebbero acquisir
forma e sarebbero ugualmente morte per
«eccesso di cambiamento».
• Tali intuizioni hanno sempre fatto parte
della sensibilità di filosofi, scienziati, ma
anche artisti e studiosi di scienze umane.
• Il merito dell’approccio della complessità
sta nell’averle codificate e di aver dato loro
un linguaggio matematico, di aver offerto
un paradigma.
• Vediamo alcuni esempi
Pirandello e il flusso continuo della vita
La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in
forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo
forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che
però possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che, irrigidendosi
man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato, non cessi. Le
forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso
continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci
coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni lo stato in cui
tendiamo a stabilirci. Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo
anima, e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini,
oltre i limiti che noi imponiamo, componendoci una coscienza,
costruendoci una personalità. In certi momenti tempestosi, investite dal
flusso, tutte quelle nostre forme fittizie crollano miseramente; e anche
quello che non scorre sotto gli argini e oltre i limiti, ma che si scopre a
noi distinto e che noi abbiamo con cura incanalato nei nostri affetti, nei
doveri che ci siamo imposti, nelle abitudini che ci siamo tracciate in certi
momenti di piena straripa e sconvolge tutto.
Vi sono anime irrequiete, quasi in uno stato di fusione continua, che
sdegnano di rapprendersi, d’irrigidirsi in questa o in quella forma di
personalità. Ma anche per quelle più quiete, che si sono adagiate in una
o in un’altra forma, la fusione è sempre possibile: il flusso della vita è in
tutti.
E per tutti però può rappresentare talvolta una tortura, rispetto all’anima
che si muove e si fonde, il nostro stesso corpo fissato per sempre in
fattezze immutabili. Oh perché proprio dobbiamo essere così, noi? - ci
domandiamo talvolta allo specchio, - con questa faccia, con questo
corpo? - Alziamo una mano nell’incoscienza; e il gesto ci resta sospeso.
Ci pare strano che l’abbiamo fatto noi. Ci vediamo vivere. […]
In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di
tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e più
penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita e in sé stessa la vita, quasi
in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo assaltare da una strana
impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da
quella che normalmente percepiamo, una realtà vivente oltre la vista
umana, fuori delle forme dell’umana ragione.
Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi
sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso,
priva di scopo, e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza
impassibile e misteriosa, poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di
sentimenti e d’immagini si sono scisse e disgregate in essa. Il vuoto
interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo diventa vuoto intorno a noi,
un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro
silenzio interiore si sprofondasse negli abissi del mistero. Con uno sforzo
supremo cerchiamo allora di riacquistar la coscienza normale delle cose, di
riallacciar con esse le consuete relazioni, di riconnetter le idee, di risentirci
vivi come per l’innanzi, al modo solito. Ma a questa coscienza normale, a
queste idee riconnesse, a questo sentimento solito della vita non possiamo
più prestar fede, perché sappiamo ormai che sono un nostro inganno per
vivere e che sotto c’è qualcos’altro, a cui l’uomo non può affacciarsi, se
non a costo di morire o d’impazzire. È stato un attimo; ma dura a lungo in
noi l’impressione di esso, come di vertigine, con la quale contrasta la
stabilità, pur così vana, delle cose: ambiziose o misere apparenze. La vita,
allora, che s’aggira piccola, solita, fra queste apparenze ci sembra quasi
che non sia più per davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica.
E come darle importanza? come portarle rispetto?
Oggi siamo, domani no. Che faccia ci hanno dato per rappresentar la
parte del vivo? Un brutto naso? Che pena doversi portare a spasso un
brutto naso per tutta la vita... Fortuna che, a lungo andare, non ce
n’accorgiamo più. Se ne accorgono gli altri, è vero, quando noi siamo
finanche arrivati a credere d’avere un bel naso; e allora non sappiamo più
spiegarci perché gli altri ridano, guardandoci. Sono tanti sciocchi!
Consoliamoci guardando che orecchi ha quello e che labbra quell’altro; i
quali non se n’accorgono nemmeno e hanno il coraggio di ridere di noi.
Maschere, maschere... Un soffio e passano, per dar posto ad altre. Quel
povero zoppetto là... Chi è? Correre alla morte con la stampella.. . La vita,
qua, schiaccia il piede a uno; cava là un occhio a un altro... Gamba di
legno, occhio di vetro, e avanti! Ciascuno si racconcia la maschera come
può - la maschera esteriore. Perché dentro poi c’è l’altra, che spesso non
s’accorda con quella di fuori. E niente è vero! Vero il mare, sì, vera la
montagna; vero il sasso; vero un filo d’erba; ma l’uomo? Sempre
mascherato, senza volerlo, senza saperlo, di quella tal cosa ch’egli in
buona fede si figura d’essere: bello, buono, grazioso generoso, infelice,
ecc. ecc.
E questo fa tanto ridere, a pensarci. Sì, perché un cane, poniamo,
quando gli sia passata la prima febbre della vita, che fa? mangia e
dorme: vive come può vivere, come deve vivere; chiude gli occhi,
paziente, e lascia che il tempo passi, freddo se freddo, caldo se caldo; e
se gli dànno un calcio se lo prende, perché è segno che gli tocca anche
questo. Ma l’uomo? Anche da vecchio, sempre con la febbre: delira e
non se n’avvede; non può fare a meno d’atteggiarsi, anche davanti a sé
stesso, in qualche modo, e si figura tante cose che ha bisogno di creder
vere e di prendere sul serio.
L’ajuta in questo una certa macchinetta infernale che la natura volle
regalargli, aggiustandogliela dentro, per dargli una prova segnalata della
sua benevolenza. Gli uomini, per la loro salute, avrebbero dovuto tutti
lasciarla irrugginire, non muoverla, non toccarla mai. Ma si! Certuni si
sono mostrati così orgogliosi e stimati così felici di possederla, che si son
messi subito a perfezionarla, con zelo accanito. E Aristotile ci scrisse
sopra finanche un libro, un leggiadro trattatello che si adotta ancora nelle
scuole, perché i fanciulli imparino presto e bene a baloccarcisi. È una
specie di pompa a filtro che mette in comunicazione il cervello col cuore.
La chiamano LOGICA i signori filosofi.
Il cervello pompa con essa i sentimenti dal cuore, e ne cava idee.
Attraverso il filtro, il sentimento lascia quanto ha in sé di caldo, di torbido:
si refrigera, si purifica, si i-de-a-liz-za. Un povero sentimento, così,
destato da un caso particolare, da una contingenza qualsiasi, spesso
dolorosa, pompato e filtrato dal cervello per mezzo di quella
macchinetta, diviene idea astratta generale, e che ne segue? Ne segue
che noi non dobbiamo affliggerci soltanto di quel caso particolare, di
quella contingenza passeggera; ma dobbiamo anche attossicarci la vita
con l’estratto concentrato, col sublimato corrosivo della deduzione logica
E molti disgraziati credono di guarire così di tutti i mali di cui il mondo è
pieno, e pompano e filtrano, pompano e filtrano, finché il loro cuore non
resti arido come un pezzo di sughero e il loro cervello non sia come uno
stipetto di farmacia pieno di quei barattolini che portano su l’etichetta
nera un teschio fra due stinchi in croce e la leggenda: VELENO.
L’uomo non ha della vita un’idea, una nozione assoluta, bensì un
sentimento mutabile e vario, secondo i tempi, i casi, la fortuna. Ora la
logica, astraendo dai sentimenti le idee, tende appunto a fissare quel
che è mobile, mutabile, fluido; tende a dare un valore assoluto a ciò che
è relativo.
E aggrava un male già grave per sé stesso. Perché la prima radice del
nostro male è appunto in questo sentimento che noi abbiamo della vita.
L’albero vive e non si sente: per lui la terra, il sole, l’aria, la luce, il vento,
la pioggia, non sono cose che esso non sia. All’uomo invece, nascendo è
toccato questo triste privilegio di sentirsi vivere, con la bella illusione che
ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di sé questo suo interno
sentimento della vita, mutabile e vario.
Gli antichi favoleggiarono che Prometeo rapì una favilla al sole per farne
dono agli uomini. Orbene, il sentimento che noi abbiamo della vita è
appunto questa favilla prometèa favoleggiata. Essa ci fa vedere sperduti
su la terra; essa proietta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di
luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe,
se la favilla non fosse accesa in noi; ombra che noi però dobbiamo
purtroppo creder vera, fintanto che quella ci si mantiene viva in petto.
Spenta alla fine dal soffio della morte, ci accoglierà davvero quell’ombra
fittizia, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra
illusione o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere, che avrà
rotto soltanto le vane forme della ragione umana?
Tutta quell’ombra, l’enorme mistero, che tanti e tanti filosofi hanno invano
speculato e che ora la scienza, pur rinunziando all’indagine di esso, non
esclude, non sarà forse in fondo un inganno come un altro, un inganno
della nostra mente, una fantasia che non si colora? Se tutto questo
mistero, in somma, non esistesse fuori di noi, ma soltanto in noi, e
necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi abbiamo
della vita? Se la morte fosse soltanto il soffio che spegne in noi questo
sentimento penoso, pauroso, perché limitato, definito da questo cerchio
d’ombra fittizia oltre il breve àmbito dello scarso lume che ci proiettiamo
attorno, e in cui la vita nostra rimane come imprigionata, come esclusa per
alcun tempo dalla vita universale, eterna, nella quale ci sembra che
dovremo un giorno rientrare, mentre già ci siamo e sempre vi rimarremo,
ma senza più questo sentimento di esilio che ci angoscia? Non è anche
qui illusorio il limite, e relativo al poco lume nostro, della nostra
individualità? Forse abbiamo sempre vissuto, sempre vivremo con
l’universo; anche ora, in questa forma nostra, partecipiamo a tutte le
manifestazioni dell’universo; non lo sappiamo, non lo vediamo, perché
purtroppo quella favilla che Prometeo ci volle donare ci fa vedere soltanto
quel poco a cui essa arriva.
(dal saggio sull’Umorismo)
• Vita / forma
• Sentimento mutabile e vario che dipende dalle
circostanze / Logica che astrae dalla vita
– cfr. Bergson: istinto/intelligenza: «vi sono cose che
l’intelligenza sola è capace di cercare ma che per
conto suo non troverà mai. Queste cose solo
l’istinto le troverebbe; ma non le cercherà mai»
• Erwin Schrödinger, Che
cos’è la vita? La cellula
vivente dal punto di vista
fisico (1944), tr. it. Adelphi,
Milano 2008
• Schrödinger (1887–1961) è
stato un fisico e
matematico austriaco,
famoso per l’ equazione di
Schrödinger che contribuì
in maniera fondamentale a
«codificare» la meccanica
quantistica e che gli valse il
Premio Nobel nel 1933.
• In Che cos’è la vita? Schrödinger si chiede come la fisica e
la chimica possono spiegare l’esser vivo di un organismo
vivente, considerando che la fisica di pochi atomi è assai
disordinata e solo i legami molecolari riescono a renderla
stabile; le altre leggi che governano gli atomi sono quelle di
carattere statistico, che valgono quando ci sono aggregati
di molti atomi.
• Egli sostenne che deve esistere un gene dotato di stabilità
e ordine che permette alla vita di replicarsi. Ma che tipo di
struttura ha questo gene?
• Schrödinger utilizza le nozioni di «salto quantico» – di cui la
«mutazione» genetica sarebbe un equivalente – e di
«cristallo aperiodico» per rendere conto di come la natura
«fabbrichi» corpi non secondo il meccanismo della
ripetizione meccanica, ma essendo capace di generare
«molecole organiche via via più complicate nelle quali ogni
atomo e ogni gruppo di atomi ha una funzione particolare,
non interamente equivalente a quella di molti altri».
– Watson, Crick e Wilkins identificheranno nel 1953 la
struttura a doppia elica della molecola del DNA. Watson, nel
suo libro DNA, The Secret of Life, dirà che fu l’intuizione di
Schrödinger a dargli l'ispirazione per ricercare il gene.
• La «stabilità» del gene non spiega, tuttavia, come si possa
arginare la tendenza della materia all’entropia, a passare cioè
dall’ordine al disordine, dove il disordine comporta un equilibrio
inerte, ovvero ciò che per il vivente corrisponde alla «morte», in
contrasto con il funzionamento dell’organismo che invece si
fonda sul meccanismo della conservazione dell’ordine interno e
della «vita». Dice Schrödinger che «ci deve essere qualcosa
nel meccanismo della vita che impedisce alla vita di
degradarsi, ci deve essere un fenomeno irreversibile»
• Schrödinger sostiene che l’organismo «può tenersi lontano
da tale stato [di massima entropia e di «morte»] solo
traendo dal suo ambiente continuamente entropia
negativa» (p. 123). La vita consisterebbe pertanto in
quell’insieme di «originali» strutture fisico‐chimiche che si
oppongono alla disgregazione. Prigogine rileva come tuttavia
Schrödinger non riuscì a dire molto sull’irreversibilità delle
strutture viventi.
• Quanto al libero arbitrio?
«Il mio corpo funziona come puro meccanismo», oppure «io dirigo i
suoi movimenti, dei quali io prevedo gli effetti, che possono essere
gravi di conseguenze, nel qual caso io sento e assumo piena
responsabilità di essi» (p. 148).
• Per Schrödinger, che in questa circostanza abbandona le
vesti del fisico e si rifà nientemeno che ai vedanta (per i quali
mostrò sempre interesse) bisogna postulare l’esistenza di un
«io» «che controlla il "movimento degli atomi” secondo le
leggi di natura» (p. 148).
La democrazia secondo Lewin
Kurt Lewin (1890 – 1947) è stato un
celebre psicologo gestaltista, che
riuscì a declinare sul versante della
psicologia sociale. Come per i
gestaltisti della percezione, per Lewin
la nostra esperienza non è costituita
da un insieme di elementi puntiformi
che si associano, ma da percezioni
che già sono strutturate come degli
interi. E ciò vale anche per le
dinamiche dei gruppi e lo sviluppo
delle organizzazioni.
• I tre stili di leadership secondo Lewin:
– Autoritario
– Permissivo (laissez faire)
– Democratico
• Lewin aveva osservato che il gruppo democratico
possedeva un «ideale del “noi”» mentre nel
gruppo autocratico vi è un maggior uso del
sentimento della parola «io».
• Coerentemente con l’approccio gestaltico per cui
«il tutto è più della somma delle parti», il
cambiamento significativo di un gruppo è quello di
passare dal regime di una moltitudine di «io» al
gruppo inteso come appartenenza ad un «noi»
che persegue scopi comuni (Lewin 1942, tr. it.
1972, p. 154).
• Lewin evidenzia come il passaggio ad un gruppo
democratico non avvenga in maniera necessariamente
automatica e spontanea, adottando una politica di
«neutralità», ma debba essere attivamente cercato.
L’applicazione del principio della ‘libertà individuale’ non
porta che al caos. Occorre talvolta forzare l’individuo a
rendersi contro del significato delle responsabilità
democratiche nei confronti del gruppo complessivo. È vero
che non possiamo educare gli uomini alla democrazie con
metodi autocratici, ma è altrettanto vero che un leader
democratico, per riuscire a modificare in senso democratico
l’atmosfera di un gruppo, deve disporre di un potere effettivo
ed esercitarlo nella sua opera di rieducazione. Non
disponiamo di spazio sufficiente per discutere nei particolari
quello potrebbe apparire un paradosso della democrazia
(Lewin, Il caso particolare della Germania, 1943, tr. it. 1972, pp. 87-88).
• I tre stili di leadership secondo Lewin:
– Autoritario → sistema sociale statico,
pietrificato, comunicazioni ridotte al minimo,
mancanza di gioia e di vitalità. Assenza di
conflittualità per eliminazione della possibilità
stessa di dissentire → Ordine rigido
– Permissivo (laissez faire) → sistema sociale
estremamente fluido, presenza di gioia e
vitalità; la mancanza di strutturazione del
gruppo lascia tuttavia spazio al caos e
all’impossibilità di risolvere le inevitabili
controversie (rischio di una trasformazione
repentina della solidarietà in conflittualità,
della gioia in dolore) → Caos
– Democratico → sistema che contempla sia la
libera iniziativa dei singoli, sia regole comuni
di convivenza. L’inevitabile presenza di
conflittualità viene incanalata in regole che
rappresentano l’istanza cooperativa del
gruppo. La dialettica fra conflittualità e
cooperazione consente alla società di
evolvere → bordo fra ordine e caos
La creatività come «mix» fra ordine e caos
• Pensiero divergente vs. pensiero convergente
• Binomio genio/follia
• Insieme di sentire «istintivo» e ragionamento
(Winnicott diceva che la creatività contiene sempre
qualcosa di un irriverente impulso onnipotente)
• Insieme di comportamento finalizzato e casualità →
concetto di «serendipità»: chi è competente trova
sempre qualcosa, anche se diverso da quello che si
aspettava (Robert Merton Viaggi e avventure della
serendipity, 2002)
• Austin sostiene che la creatività si genera
quando c’è la compresenza in parallelo delle
seguenti quattro circostanze:
– il puro caso: il contributo della persona creativa è
irrilevante;
– la serendipità: chiunque sia molto attivo in un’area
può avere un colpo di fortuna;
– la fortuna dell’essere bene informati: chiunque ha
molte conoscenze su un tema può imbattersi in
qualcosa di nuovo;
– la fortuna costruita.
Il cambiamento come crollo strutturale →
passaggio per un momento di caos →
ristrutturazione
• Spesso il cambiamento psicologico avviene in
momenti le «strategie di adattamento» che hanno
caratterizzato la nostra vita si rivelano incapaci di
consentirci di far fronte alle nuove sfide che la vita ci
propone o a eventi critici;
→ quando non è possibile modificare gli
adattamenti consolidati per «riaggiustamento», si
sperimenta un momento di «crisi» a cui,
auspicabilmente, segue una «ristrutturazione»
• È importante, a livello educativo, fornire le
«cornici», i contenimenti, il quadro della
situazione entro cui possono avvenire le crisi
senza che queste divengano destrutturanti
– Es. se il bambino cade, impara e si rafforza;
l’educatore tenta di capire quando il bambino si può
far troppo male
• Per Bion ogni autentico cambiamento è
potenzialmente «catastrofico»: reca con sé sia
una perdita di sicurezza, ma anche la possibilità
di una rigenerazione (che chiama «evoluzione in
O). Se ci si difende dal cambiamento, si perde la
possibilità di rigenerarsi e si diventa più gretti ed
egoisti
• Lewin:  disgelo  cambiamento 
riconsolidamento
La salute mentale: fra ordine e caos
• Per Winnicott la salute mentale non è sinonimo di
tranquillità. La vita di un individuo sano è
caratterizzata da paure, sentimenti conflittuali,
dubbi e frustrazioni, come pure da elementi positivi.
Senza dubbio la gente dà per scontato il sentirsi reali. Ma a
quale prezzo? In quale misura essi negano la verità che di
fatto esiste il pericolo di sentirsi non reali, posseduti, di non
essere se stessi, di precipitare all’infinito, di non avere una
direzione, di essere separati dal proprio corpo, annientati, di
essere un nulla, di non avere un luogo in cui stare… (D.
Winnicott, Il concetto di individuo sano)
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