Sistemi Economici Comparati Anno accademico 2013-2014 Prof.sa Renata Targetti Lenti Le caratteristiche dello sviluppo economico italiano: gli anni del declino. Lezione 16 3/12/2013 Letture -Targetti Lenti R., Sviluppo e declino del sistema economico italiano, “Il Politico”, n. 228, 2011, pp. 94-128. Gli anni del declino. «Nel corso dei passati dieci anni il prodotto interno lordo è aumentato in Italia meno del 3 per cento; del 12 in Francia, paese europeo a noi simile per popolazione. Il divario riflette integralmente quello della produttività oraria: ferma da noi, salita del 9 per cento in Francia. Il deludente risultato italiano è uniforme sul territorio, da Nord a Sud. Se la produttività ristagna, la nostra economia non può crescere». Sono questi i dati che, secondo il Governatore della Banca d’Italia, sintetizzano il declino senza precedenti dell’ultimo decennio (Banca d’Italia, Relazione annuale del governatore all’assemblea dei partecipanti, Roma, 2011, p. 11.). • Il declino è stato, dunque, non solo assoluto ma anche relativo. In un’ottica di più lungo periodo si deve sottolineare come l’Italia, che nel 1950 era uno dei paesi più poveri in Europa (più povero della Francia, della Germania e del Regno Unito, ma più ricca della Spagna) avesse «inseguito» e raggiunto rapidamente gli altri paesi fino a circa l’inizio degli anni 90. • Questo processo di convergenza si è invertito a partire da quel momento, ma con una accelerazione proprio in questo ultimo decennio (Figura 1). Lungo tutto il periodo la crescita dell’attività produttiva in Italia si è pressoché dimezzata rispetto alla seconda metà degli anni ‘90. • “The widening gap between Italy and some other European countries in the 2009 per capita GDP (in real terms) is shown in Figure 2. In 2001 the value of per capita GDP in comparison to the average OECD countries was 107 in Italy, 106 in Germany, 105 in France, 109 in U.K. showing a convergence process. In the 2009 the trend was reversed: the value was 95 in Italy, 101 in France, 108 in Germany, 109 in U.K. Figure 1, Annual growth of GDP (2000=100) Figura 2 • Anche la fase depressiva originata dalla crisi finanziaria del 2008 in Italia è iniziata con anticipo ed è stata più grave e di maggiore durata rispetto agli altri paesi dell’area dell’euro (Figura 3). • Nel periodo giugno 2008-giugno 2010 tutte le componenti dell’offerta hanno contribuito alla caduta del Pil ed in particolare a quella della produzione industriale. Sono diminuite l’occupazione ed il numero delle industrie manifatturiere. • A causa della simultaneità della crisi a livello internazionale si è quindi prodotta una significativa contrazione delle esportazioni. Inoltre investimenti e consumi privati sono diminuiti in misura significativa a causa dell’incertezza, della disoccupazione crescente e delle restrizioni nel credito al consumo. Figura 3 • E’ diminuita l’occupazione ed anche il numero di industrie operanti nel settore manifatturiero. A causa della simultaneità della crisi a livello internazionale si è verificata una significativa diminuzione del flusso di esportazioni. Anche gli investimenti ed i consumi privati sono diminuiti in modo significativo a causa dell’incertezza, della disoccupazione crescente e della riduzione del credito al consumo. • Resta da chiedersi quali siano stati i fattori che nel corso di un decennio possono spiegare l’accelerazione del «declino» del nostro sistema economico. Questi fattori sono molteplici e tra di loro interconnessi, di natura interna ed internazionale. • 1) il peso del debito pubblico. Gli interessi sul debito pubblico sono stati, e continuano ad essere, un quota importante della spesa pubblica a scapito di altre spese come quelle in ricerca, per l’istruzione inferiore e superiore e per le infrastrutture (Figura 4). • La necessità di continuare nel processo di riequilibrio e di riduzione del debito costringe a mantenere elevato il livello di tassazione impedendo così di adottare politiche per lo sviluppo. Nello stesso tempo il livello e la composizione della spesa sociale risultano sempre meno sostenibili (Figura 5). Figure 4, Ratio debt/GDP, 1885-2009 Fonte: Artoni e Biancini (2004) e Banca d’Italia (2010) per i dati dal 2000 al 2009 Figura 5 • 2) Il secondo fattore che può spiegare il declino è da individuarsi nella «fragilità» della struttura produttiva italiana. • 3) In terzo luogo le riforme che avevano introdotto un significativo grado di flessibilità nel mercato del lavoro in realtà hanno finito per determinare un deterioramento della qualità dei lavoratori impiegati con effetti negativi sulla produttività. • La quota dell’industria sul valore aggiunto totale è scesa dal 22 al 18 per cento, con un calo che si è accentuato negli anni più recenti. Nell’intero periodo il rallentamento della crescita è stato, invece, meno accentuato nel settore dei servizi, dove il valore aggiunto ai prezzi di mercato è aumentato di quasi il 2 per cento all’anno al netto della locazione dei fabbricati. • La «terziarizzazione» dell’economia italiana si è sostanzialmente compiuta. Nel 2006 il settore dei servizi occupava la maggior parte delle persone ed in esso si produceva ben il 72% del valore aggiunto. • Le attività manifatturiere che hanno perso peso in misura maggiore, sebbene continuino a rappresentare una quota significativa dell’industria italiana, sono quelle riconducibili al cosiddetto made in Italy. • Sono questi (tessile e abbigliamento, prodotti in cuoio e calzature, mobili) i settori nei quali l’Italia gode di un vantaggio comparato. La produzione di mezzi di trasporto ha inoltre risentito delle difficoltà della maggiore impresa italiana. Fra i comparti il cui peso sul complesso delle esportazioni è invece aumentato spiccano macchine e attrezzature, prodotti in metallo e apparecchi elettrici per le comunicazioni. La dinamica della produttività totale dei fattori (TFP) • An immediate snapshot of Italy’s declining path, can be obtained looking at the labour and at the total factors productivity trend (TFP). Its marked deceleration “was not the result of an unfortunate cyclical contingency (the current slowdown is worse than in any former downturn in the last twenty years)” • The declining tendency of TFP in the last ten years or so is mostly caused by a declining performance of labour productivity. • Labour productivity, not hours, is the keyword. As a result of this trend, unit labour costs have soared and profitability has been further squeezed, worsening Italy’s already weak competitive position. • Breaking down GDP growth into labour, capital, and total factor productivity (TFP) contributions shows that the Italian economy’s anemic growth is mostly explained by the declining TFP. • In fact, TFP contributions decreased substantially over the period 1995‒2005, a slowdown which was pervasive across all sectors but especially pronounced in manufacturing and nontradable sectors. • Besides, the reallocation of employment from sectors with higher productivity (typically manufacturing) to sectors with lower productivity (typically services) would not be large enough to justify a sizeable impact on the whole economy. • Figure 6 shows clearly that in the period 1995-2004 labour productivity (measured by GDP per hour worked for the aggregate economy) marked a slowdown compared to the growth rate recorded in the 1970s and in 1980-95. • By contrast, the contribution of labour growth has been positive over recent years. While contribution of capital remained broadly stable, contribution of hours worked increased significantly—also relatively to the EU15—thanks to extensive labour market reforms. • Within the labour factor, labour participation accounted for almost half of the annual GDP growth in 2001‒2007. The contribution of employment was also substantial, while that of average hours worked was marginally negative. In addition, there was a strong contribution from immigration. • In the early 1990 the level of labour productivity used to be higher in Italy in comparison to other European countries and the US. Now, because of decreasing trend, the gap has been reversed. Figura 6, Scomposizione del tasso di crescita del GDP per capita Si stima che, a partire dal 2004 un terzo della crescita complessiva del prodotto sia attribuibile «all’accumulazione di capitale, concentrata nelle componenti di costruzioni, macchinari e attrezzature e ancora trascurabile nelle componenti delle ICT, come nella prima metà del decennio». Questa accumulazione, tuttavia, è stata caratterizzata da investimenti di natura estensiva e non intensiva. Solamente questi ultimi avrebbero potuto tradursi in un’accelerazione del progresso tecnologico e dunque avrebbero determinato un aumento della produttività del lavoro. Il passaggio da pubblico a privato di molti servizi, soprattutto di quelli locali, non ha necessariamente corrisposto ad un aumento dell’efficienza a favore degli utenti. • A seguito della dinamica della produttività il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato e i margini di profitto sono diminuiti, peggiorando la già debole posizione competitiva delle imprese. Infine in Italia sono mancate politiche dirette a stimolare la crescita con adeguate misure di politica industriale e di promozione della concorrenza attraverso interventi di liberalizzazione dei mercati. • Una prima conseguenza è stata la riduzione del “ritmo” del progresso tecnico, e questo nonostante il fatto che, negli anni ’90, gli investimenti e lo stock di capitale fossero cresciuti a tassi elevati, anche a paragone degli altri paesi industrializzati, favoriti da un regime fiscale di vantaggio. • Le spiegazioni del declino della produttività sono di varia natura. Il declino è stato innanzitutto il risultato di fattori strutturali. Si è ampliato infatti il settore dei servizi, caratterizzato da una più elevata intensità di lavoro, ma altresì da livelli inferiori di produttività, circostanza che potrebbe spiegare la discesa della produttività media. • Anche se le recenti revisioni dei conti nazionali segnalano un parziale recupero a partire dal 2004, la produttività nel settore dei servizi resta più bassa rispetto al settore manifatturiero. • Secondo Salvatore Rossi buona parte della spiegazione del ristagno relativo nella crescita del reddito e della produttività una volta corretti i dati statistici - sta proprio nel peso dei servizi e nella scarsa concorrenza che in genere caratterizza sia quelli privati che quelli pubblici. Al passaggio da pubblico a privato di molti servizi, soprattutto locali, non ha necessariamente fatto seguito un aumento di efficienza. • La “terziarizzazione” dell’economia italiana si è sostanzialmente compiuta. Nel 2005 oltre la metà del valore aggiunto italiano era generato dal comparto dei servizi privati (commercio, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni, intermediazione finanziaria, attività immobiliari e servizi alle imprese) con un aumento del loro peso percentuale di oltre 3 punti rispetto al 1995. • Hanno assunto rilievo crescente i settori delle telecomunicazioni e dei servizi alle imprese, in linea con il processo di esternalizzazione delle attività terziarie osservato anche in altri paesi industrializzati. Nel 2006 il settore dei servizi impiegava la maggior parte degli occupati persone e produceva il 72% del valore aggiunto. • In ogni caso il trasferimento di occupati dai settori a produttività più elevata (manifatturiero) a quelli a produttività più bassa (servizi) non sembra essere stato abbastanza robusto da giustificare un impatto significativo sull’intera economia. • In the period 2000-2009 Italy has been the only European country in which the rate of growth of the number of employed has been higher than the GDP (in real terms) rate of growth. • The comparison of GDP growth rate with the employment rate is impressive (Figure 7). • Since the mid-1990s, Italy has been successful in reducing unemployment and rising employment • A strong labour market performance has been accompanied by a weak real GDP growth (Figure 8). • These trends tell us a quite puzzling story that can summarize in one question: how can an extremely poor performance in GDP growth can be accompanied by a strong employment growth? Figure 7, Growth rates of population, employment and GDP in some european countries, 2000-2009 (% variations) Figure 8 • In passato ad una moderazione salariale seguiva un aumento dell’occupazione e corrispondentemente del prodotto nazionale (Figura 9). • Nell’ultimo decennio la relazione ha cambiato di segno. • Alla crescita dell’occupazione hanno corrisposto infatti il rallentamento della crescita e l’azzeramento dell’aumento della produttività media del lavoro, misurata dal rapporto Pil/ore lavorate (Figura 5). Ne è seguito il declino della produttività totale dei fattori (TFP). Figure 9 • There are many possible explanations for the inverse correlation between employment and productivity as • i) changes in technological progress, • ii) cyclical fluctuations, • iii) capital-labour substitution • iv) effects of migration and changes in the labour market, • v) a shift from industry to services; • Changes in technological progress and changes in the organisation of production contribute to total factor productivity. • Policy action, by stimulating investments in a broader sense can define appropriate “framework conditions” for businesses contributing to the raise of labour and therefore total factor productivity. • Some empirical work seems to support the view that in Italy this stimulus has been lacking, and the technological progress has been weak despite capital accumulation. • In the short run productivity growth can vary inversely with employment, due to labour hoarding during a recession or conversely when capital intensity cannot keep up with the growth of labour input during an expansions. • To some extent this may have played a role in Italy, especially at the beginning of the current decade. • Still, labour hoarding seems to be more useful in explaining the cyclical behaviour of productivity rather than the divergent trend in productivity and employment growth, especially over such a long period of time. • Capital-labour substitution. In the medium term, labour productivity and employment can also deviate from the balanced growth path due to capital-labour substitution. • If employment grows faster than the amount of capital, labour productivity growth would temporarily be below the balanced rate. This should be regarded as a temporary phenomenon and not a trade-off. • In fact, a higher employment rate implies an increase in per-capita GDP and no negative long-term implications for productivity growth in the existing workforce. • Un’ulteriore determinante della stagnazione deve essere infatti individuata nel contesto istituzionale, in particolare nei mutamenti intervenuti nel mercato del lavoro, le cui riforme hanno prodotto solo parzialmente effetti positivi. • Queste hanno, in realtà, generato un mercato dualistico, caratterizzato dal divario tra le remunerazioni dei lavoratori insider e quelle dei nuovi entranti. I primi sono stati protetti: le loro remunerazioni si sono rivelate rigide verso il basso, come bassa è la loro produttività. • Al contrario le politiche dirette a promuovere l’occupazione giovanile, il ricorso ai contratti temporanei e la maggiore flessibilità dei contratti per i lavoratori “nuovi” possono avere contribuito ad una riduzione del prezzo relativo del lavoro, favorendo quindi la sostituzione del lavoro al capitale, con conseguente aumento dell’occupazione, ma a danno della produttività. Anche la regolarizzazione dell’immigrazione illegale può avere contribuito all’emersione del lavoro già irregolare, con conseguente contrazione della produttività. Figure 10 • The effectiveness of labour market reforms implemented in Italy could have determined a capital-labour substitution, even if the lower interest rates that have prevailed since the run-up to monetary union should have reduced the user cost of capital. • Since the early 1990s there has been a slowdown in the capital deepening, possibly as a result of less capital-intensive technologies and activities and the expansion of the services sector where labour input is prevalent. • This evidence is consistent with capital-labour substitution (Figure 10). Labour could have become cheaper relative to capital and more flexible as a factor of production. • Labour market reforms in Italy have only been partial and they have generated a dual market, opening a gap in earnings and employment flexibility between insider workers (protected) and new labour market entrants. • In addition, policy has been oriented at reducing youth unemployment, thus allowing further reduction in the cost of hiring young workers (for example cuts in social security contributions and tax credits). • Both hiring conditions (increased use of temporary contracts) and wages (downward flexibility) have made for a fall in the relative price of labour at the margin and thus a substitution of capital for labour, benefiting employment. • The empirical evidence, however, does not appear to support the hypothesis of cheaper labour costs on average. • The share of wages on value added does not provide support to the idea of cheaper labour either. This share has declined since the late 1970s (Figure 11) and it was low by international standards at the beginning of the 1990s. • Since the beginning of the current decade, however, there has been a sharp pickup, partly due to poor cyclical conditions (the share of wages on value added tends to follow a cyclical pattern) Figure 11 Infine in Italia sono mancate politiche dirette a stimolare la crescita con adeguate misure di politica industriale e di promozione della concorrenza attraverso processi di liberalizzazione dei mercati. Una prima conseguenza è stata le riduzione del ritmo del progresso tecnico, e questo nonostante negli anni novanta, gli investimenti e lo stock di capitale fossero cresciuti a tassi assai rapidi, anche in confronto agli altri paesi industrializzati, favoriti da un regime fiscale assai favorevole all’accumulazione di capitale. Come conseguenza della dinamica della produttività i costi del lavoro per unità di prodotto sono aumentati e i margini di profitto diminuiti peggiorando la già debole posizione competitiva delle imprese italiane (Figura 12). Figure 12 • Also available measures of nominal unit labour costs suggest that Italy has become less competitive compared to other major European countries over the past few years. • This mainly reflects inflation differentials, especially after monetary union, and a relatively disappointing performance in labour productivity growth, while real compensation per employee has not diverged significantly from that of other major European countries. • It is the cost of the marginal worker that counts for the hiring decisions by companies and this cost has declined significantly in Italy over the past few years, notwithstanding relatively high average cost. However, the entry of less productive “marginal workers” can depresses labour productivity. • The first impression would run counter to the idea of cheaper labour as a factor of production relative to other countries. • A still rigid and protected labour market for insiders and the two-layer bargaining system not allowing downward wage flexibility has prevented a more pronounced moderation in compensation growth which would have put it more in line with the poor productivity developments that have prevailed since the beginning of the decade. • Slow growth in Italy has been accompanied by a steady increase in unit labour costs relative to prices implying a considerable weakening in overall profitability. • This trend has been followed by an increasing number of Italian companies to transfer part or all of their production to eastern European countries. • Effects of migration. Regularization of the illegal immigrant work force may have contributed to bringing to light irregular employment, which had not previously been included in estimates, thereby depressing measured productivity growth. • In the period 2002-4 a significant influx of immigrants was officially recorded. The data show that the phenomenon is sizeable. • Thus, by having long-term positive effects on employment levels, the labour-supply shock is believed to have indirectly contributed to the widening gap between employment and productivity growth. • If constant returns to scale are assumed the effect of a supply shock would be negative if the marginal worker is assumed to be less productive. La produzione manifatturiera ha cominciato a diminuire a partire dall’inizio del 2007 (Figura 13. Questa, tuttavia, è solo l’ultima fase di una tendenza di lungo periodo. Essa può essere ricondotta alle difficoltà incontrate, e non solo in Italia, nell’adattarsi all’organizzazione post-fordista che richiede nei settori più dinamici una più rapida accumulazione di conoscenza, innovazioni di prodotto e investimenti in ricerca e sviluppo. In Italia la struttura industriale ha continuato a basare il proprio sviluppo sulle imprese di media e piccola dimensione nei settori tradizionali dove più elevata è la concorrenza potenziale dei paesi emergenti. L’elevata presenza di piccole e medie imprese avrebbe frenato le economie di scala ed il progresso tecnologico. Figure 13 La dimensione media ha potuto diminuire grazie anche all’impiego della microelettronica ed alle telecomunicazioni, all’introduzione di elementi postfordisti nell’organizzazione produttiva ed alla flessibilizzazione dell’impiego del lavoro, ad un maggior ricorso alle subforniture. Il tentativo è stato quello di contrastare la riduzione della produttività in quei settori nei quali le economie di scala erano ridotte e la crescita delle vendite stava rallentando. • Tra i fattori che possono spiegare la persistenza di un modello produttivo basato su imprese medio-piccole sottolineiamo la scarsità di risorse manageriali e organizzative adeguate, ma anche la struttura proprietaria familiare, contrariamente a quanto è accaduto in altri paesi industrializzati, dove si è maggiormente sviluppata l’impresa manageriale. • La diffusione del modello familiare nel nostro sistema economico può essere sì spiegato da fattori di efficienza, ma anche da altri di natura culturale. Alcune ricerche empiriche hanno evidenziato che le imprese familiari sono più profittevoli: d’altra parte le stesse sono meno propense all’innovazione tecnologica, così come ad essere quotate sul mercato dei capitali. La struttura proprietaria delle imprese può condizionarne non solo competitività e crescita, ma anche la capacità di penetrare i mercati esteri. • L’ipotesi sottostante è che le imprese familiari, in quanto siano tendenzialmente avverse al rischio, percepiscano i mercati esteri come più rischiosi, in particolare quando la scelta comporta costi elevati di uscita. Tale ipotesi risulta confermata da un’analisi empirica per il periodo 1995- 2003. La crescita dell’economia italiana è stata sempre influenzata dal contesto internazionale in relazione al suo elevato livello d’integrazione e fino al 2000 il tasso di crescita delle esportazioni è sempre stato più sostenuto di quello del Pil. A partire dall’inizio del 2000 questa dinamica si è invertita. Le esportazioni non sono più state un fattore di traino per l’economia. Tra il 1996 e il 2001 la perdita di posizioni delle esportazioni italiane poteva essere integralmente attribuita a fattori congiunturali come l’apprezzamento reale della lira in risposta all’overshooting del tasso di cambio nei tre anni precedenti e soprattutto ad effetti di valutazione (la forza del dollaro e l’aumento del prezzo del petrolio che gonfiano il valore del commercio mondiale extra-europeo). Un calo analogo ha interessato tutti i principali paesi avanzati come conseguenza dell’entrata sui mercati mondiali di nuove imprese localizzate nei paesi emergenti. Per l’Italia, tuttavia, questo calo è stato più significativo. All’inizio del 2000 all’interno dell’Unione a 15 l’Italia aveva una quota di mercato significativa seconda solo alla Germania. Alla fine del decennio, invece, la quota si era sensibilmente ridotta rispetto alla Germania, alla Francia ed al Regno Unito. Il calo della quota di esportazioni dei prodotti italiani sui mercati internazionali evidenzia l’esistenza di un problema strutturale e cioè di una progressiva perdita di competitività del nostro sistema rispetto agli altri paesi industrializzati ed a quelli emergenti. I primi hanno beneficiato del rapido mutamento delle tecniche (la ICT è solo l’esempio più noto) ed i secondi di costi comparati minori nelle tradizionali produzioni dell’Italia. • La perdita di competitività è stata particolarmente rilevante in alcuni settori industriali come il chimico, la microelettronica, le auto ed i farmaceutici. Anche se nel corso del decennio si è verificata l’espansione del «made in Italy» il successo di queste imprese non è stato sufficiente a sostenere la produzione di un’economia importante come quella italiana. • Il saldo delle partite correnti è risultato negli ultimi anni negativo in parte a causa del saldo negativo della voce dei servizi, ma in parte anche per il saldo negativo della voce redditi dai fattori (Tabella 1). L’afflusso di investimenti esteri si è, infatti, progressivamente ridotto. Tabella 1 • Il modello di specializzazione dell’economia italiana appare, dunque, sempre più fragile. La composizione settoriale delle esportazioni è rimasta in larga misura immutata Se confrontata con quella degli altri paesi industrializzati, appare sempre più sbilanciata verso i settori tradizionali, e cioè verso quei settori maggiormente esposti alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo. • Secondo l’OECD, la correlazione tra specializzazione settoriale italiana e quella delle economie asiatiche più dinamiche è significativamente positiva, tra le più elevate all’interno dei paesi OCDE industrializzati e crescente nel tempo. • L’Italia mostra una sostanziale debolezza nei settori ad alta intensità di Ricerca e Sviluppo, generatori di nuova tecnologia, e nei settori a forti economie di scala orientati a produzione di beni di consumo ed intermedi. La quota, a prezzi e cambi correnti, sulle esportazioni mondiali di prodotti afferenti alle ICT ha mostrato un calo nell’ultimo decennio, ai livelli minimi tra i maggiori paesi dell’area dell’euro. • In prospettiva, al pari dei settori tradizionali, anche le produzioni a tecnologia medio-alta, come la meccanica e i mezzi di trasporto, potrebbero soffrire la già significativa e crescente concorrenza dei paesi emergenti. • Vari elementi suggeriscono, tuttavia, che la crisi di competitività del sistema produttivo italiano non si esaurisce in un problema di specializzazione settoriale. • La crescente specializzazione dell’Italia nella produzione e nelle esportazioni di beni a bassa intensità di manodopera qualificata, dipende essenzialmente dalle scelte del passato. Negli anni ’70 e nella prima metà degli anni 90 la competitività era stata assicurata da una svalutazione strisciante. Queste politiche avevano orientato il sistema produttivo verso settori in cui la competizione fra imprese si fonda sul livello dei prezzi o che sono caratterizzati da estrema flessibilità organizzativa e produttiva. La specializzazione era stata distorta verso settori a tecnologia medio-bassa caratterizzati da modeste economie di scala la cui competitività si basava sui prezzi bassi, sulla flessibilità dell’organizzazione e non su aspetti qualitativi e sul contenuto tecnologico dei prodotti. • Quando il vantaggio competitivo basato sul meccanismo monetario è venuto meno in seguito alla partecipazione dell’Italia all’euro le carenze del nostro sistema produttivo si sono manifestate in tutta evidenza. In particolare sono diventati determinanti, ai fini della competitività, i differenziali del costo del lavoro per unità di prodotto. • Questi costi nel decennio 2000-2010 sono cresciuti, a causa della diminuzione della produttività, più della media europea ed in misura significativa rispetto alla Spagna, Germania e Francia (Figure 14). • La quota dei salari sul valore aggiunto è aumentata (figura 15) Figure 14 Figura 15 • “Low productivity growth and the tendency for wage growth to outstrip it are reflected in weak performance, at least according to simple measures of comparative labour cost competitiveness. The share of Italian exports in the trading partners has steadily declined” (Figura 16). • E’ oggi più difficile introdurre innovazioni di prodotto, acquisire posizioni competitive nei settori più dinamici e sperimentare, dunque, aumenti nella produttività del lavoro e di conseguenza anche dei salari e dei profitti. Figure 16 • L’evidenza empirica mostra che, a partire dal 2002, gli esportatori italiani, specie quelli operanti nei settori tradizionali, hanno mantenuto i prezzi all’esportazione più elevati di quelli interni, a fronte di un apprezzamento dell’Euro e della pressione competitiva (Figure 17 e 18). • Alla perdita di quote di mercato hanno corrisposto valori unitari delle esportazioni crescenti lungo il decennio. • Questa opposta dinamica appare paradossale ed esige una spiegazione. Una prima ragione può risiedere nel fatto che le imprese avrebbero tentato di preservare i margini di profitto grazie ad un aumento del potere di fissazione dei prezzi, o più generalmente del potere di mercato. • Una seconda fa riferimento al trasferimento all’estero delle produzioni di bassa qualità in un processo di offshoring, con conseguente miglioramento qualitativo dei prodotti “interni”. Figura 17 Figure 18 • Per fare fronte alla pressione proveniente dai paesi di nuova industrializzazione gli esportatori italiani avrebbero riallocato le produzioni di bassa qualità nei paesi caratterizzati da bassi costi. D’altra parte la concorrenza da parte di questi ultimi potrebbe avere costretto alcune imprese ad uscire dal mercato. • Entrambi i fenomeni avrebbero prodotto una ricomposizione delle esportazioni verso la gamma “alta” per qualità e prezzo, giustificando l’aumento del deflatore delle esportazioni rilevato negli ultimi anni. • Infine, una strategia deliberata volta a migliorare la qualità dei beni prodotti all’interno potrebbe spiegare parzialmente il fenomeno: mentre le imprese che producono per il mercato interno hanno subìto la concorrenza delle economie emergenti nelle produzioni di bassa qualità, altre hanno migliorato la qualità dei prodotti esportati in termini di marketing, contenuto di design, complessità. • Una sorta di paradosso del caso italiano, che deve essere spiegato, è costituito dal fatto la perdita di quote sui mercati esteri è stata accompagnata da valori unitari delle esportazioni crescenti nel corso del decennio. I prezzi delle esportazioni italiane sono aumentati più di quelli dei paesi concorrenti, e non solo nei periodi di espansione. • Le opposte dinamiche nell’andamento delle quote di mercato e dei valori unitari delle esportazioni richiedono alcune spiegazioni. Una prima spiegazione può essere che le imprese abbiano tentato di preservare i margini di profitto grazie ad un aumento del potere di fissazione dei prezzi o più generalmente del potere di mercato. Una seconda spiegazione fa riferimento al trasferimento delle produzioni di bassa qualità in un processo di «off-shoring» ed un miglioramento della qualità dei prodotti. Per far fronte alla pressione proveniente dai paesi di nuova industrializzazione gli esportatori italiani potrebbero avere riallocato le produzioni di bassa qualità verso paesi caratterizzati da bassi costi. D’altra parte la concorrenza da parte dei produttori a bassi costi potrebbe avere costretto alcune imprese ad uscire dal mercato. Infine una deliberata strategia per accrescere la qualità dei beni prodotti all’interno potrebbe spiegare parzialmente questo fenomeno. Mentre le imprese che producono per il mercato interno hanno subito la concorrenza delle economie emergenti nelle produzioni di bassa qualità, altre hanno migliorato la qualità dei prodotti in termini di commercializzazione (marketing), contenuto di design, complessità, ed hanno riallocato le produzioni di bassa qualità altrove. Le carenze strutturali. Come sottolineava Mario Draghi «Una crescita stenta alla lunga spegne il talento innovativo di un'economia; deprime le aspirazioni dei giovani; prelude al regresso; preoccupa particolarmente in un paese come il nostro, su cui pesano un'evoluzione demografica sfavorevole e un alto debito pubblico. La grande recessione mondiale ha accentuato queste preoccupazioni. Essa ha impresso un'accelerazione a dinamiche globali che già avevano intaccato il primato delle economie avanzate, ha provocato un deterioramento delle finanze pubbliche che ha tolto spazio di manovra ai governi». • In Italia i fattori che hanno generato il declino hanno natura strutturale ed hanno radici molto lontane. Esistevano ben prima che scoppiasse la crisi finanziaria. Occorrono oggi riforme strutturali, non solo politiche fiscali e monetarie ma soprattutto amministrative ed industriali al fine di ridurre le diverse forme di dualismo tra Nord e Sud, tra industrie che utilizzano tecnologie avanzate e non avanzate, tra lavoratori regolari e precari, tra imprese di grande dimensione e di dimensione piccola e media, tra lavoratori giovani protetti e non protetti. • Per superare la fase depressiva dell’economia italiana occorre allentare il vincolo estero riducendo la dipendenza dalle importazioni di energia. Occorre ridurre i costi di produzione con particolare riferimento a quelli del lavoro e dell’energia. Occorre accrescere la competitività delle imprese, continuare nell’azione di risanamento dei conti pubblici, nell’ammodernamento delle infrastrutture, nella riduzione degli squilibri territoriali e distributivi. • Occorre stimolare il processo d’accumulazione attraverso investimenti privati e pubblici, in capitale fisico ma anche in capitale umano. Infine occorrono politiche per ridurre la diseguaglianza e la povertà. • Una delle più importanti carenze che è necessario fronteggiare è costituita dal basso livello di investimenti in ricerca e sviluppo, in infrastrutture ed in capitale umano. La spesa in ricerca e sviluppo è molto bassa ed inferiore non solo a quella degli altri paesi industrializzati, ma addirittura a quella di paesi emergenti come la Corea del Sud (Figura 19). • Uno dei più gravi problemi strutturali resta il divario tra il Centro-Nord e le regioni del «Mezzogiorno» (Sud d’Italia e Isole). Il tasso di disoccupazione del Sud è il doppio della media nazionale e più del quadruplo di quello del Nord. Il peso dell’agricoltura e dei servizi è superiore alla media. Le esportazioni sono l’8% del Pil contro il 25% del Centro-Nord. La ricchezza familiare è più bassa, la diseguaglianza maggiore. Figura 19 Anche se in alcune zone limitate del Sud si è verificata recentemente un’espansione delle piccole imprese, dei distretti industriali e di attività terziarie moderne, così come la localizzazione di pochi impianti moderni (St microelettronica a Catania) in gran parte del Sud le condizioni economiche e sociali restano piuttosto difficili. Mentre le altre regioni europee che erano restate indietro stanno lentamente convergendo verso la media europea il Sud d’Italia non riesce a decollare. I flussi migratori verso il Centro ed il Nord sono ancora elevati, soprattutto per i giovani, inclusi quelli con un elevato livello d’istruzione. In questo modo si impoverisce il capitale umano al Sud. Il tasso di partecipazione al mercato del lavoro rimane uno dei più bassi in Europa soprattutto per i giovani e per le donne. Un quinto dell’occupazione è ancora irregolare, più del doppio di quella esistente al Centro e al Nord, dove, in ogni caso, vi sono più lavoratori irregolari che in Francia, Germania e Regno Unito. • Elevati livelli di diseguaglianza e di povertà sono altri due aspetti strutturali che meritano attenzione. I dati provenienti dell’indagine campionaria biennale della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie Italiane consentono di stimare la dinamica della diseguaglianza misurata dall’indice di Gini. • Questo indice sembra indicare che la diseguaglianza in Italia ha seguito nel complesso un moderato andamento ad U mostrando una diminuzione dalla metà degli anni ’70 fino alla fine degli anni ’80, un aumento tra la fine degli anni 80 e la prima metà degli anni 90 ed una relativa stabilità, su livelli più alti, a partire dal 1993. • L’indice di Gini è passato da valori vicini alla media dei paesi OCDE a livelli simili a quelli degli altri paesi del sud Europa, molto vicino a quello del Regno Unito e degli Stati Uniti, più elevato di quello esistente negli altri paesi europei continentali (Figura 20). Figura 20 Figura 21 • In Italia si è cercato di contrastare la crescita della diseguaglianza aumentando la tassazione e contemporaneamente la spesa per trasferimenti. L’Italia è l’unico paese che in questi ultimi dieci anni ha aumentato questa voce di spesa. Tuttavia le politiche redistributive hanno finito per beneficiare soprattutto le classi medio-alte (Figura 20). • I trasferimenti per prestazioni sociali hanno in Italia, rispetto ad altri paesi della Comunità Europea, effetti perequativi meno rilevanti di quanto ci si possa attendere in relazione al loro ammontare complessivo. I trasferimenti sono costituiti quasi totalmente da pensioni, si distribuiscono con un peso decrescente nei diversi decili di popolazione, ma contribuiscono in modo rilevante alla formazione anche dei redditi più elevati. Manca uno strumento che tuteli contro i rischi di disoccupazione ed abbia carattere di universalità. L’invecchiamento della popolazione costituisce, infine, un altro vincolo stringente. La quota di popolazione superiore ai 65 anni è elevata e crescente. Di conseguenza crescente è la spesa pensionistica e sanitaria. Si tratta di un fattore di natura istituzionale che si è aggravato nel corso del tempo e che contribuisce alla crisi finanziaria del settore pubblico. Un meccanismo perverso che può essere definito trappola della vecchiaia. si autoalimenta grazie al controllo «politico» da parte delle generazioni più anziane che impediscono un miglioramento delle aspettative delle fasce più giovani. L’elevato livello dell’indebitamento non solo ostacola il mantenimento degli attuali livelli di sicurezza sociale, ma li rende non sostenibili per le generazioni future. Il trend demografico insieme all’assenza di serie politiche famigliari non garantisce in futuro il mantenimento di quella sorta di «contratto sociale»che oggi lega la popolazione anziana a quella giovane. • Infine la globalizzazione e deboli istituzioni hanno generato un elevato livello di incertezza e di insicurezza limitando le prospettive di crescita per i giovani. • La crisi finanziaria è stata particolarmente severa in termini di crescita della disoccupazione giovanile. Essa è cresciuta nell’intera area OCDE ed ha raggiunto un livello molto elevato pari a circa il 30% in Italia. • Nel nostro paese poi, la situazione è aggravata dal fatto che anche lavoratori qualificati, se giovani, risultano disoccupati ed esclusi dal mercato del lavoro (circa il 79% della “nuova” disoccupazione). Considerazioni conclusive. Il modello di sviluppo italiano presenta numerose caratteristiche che lo distinguono da quello degli altri paesi occidentali. Alcune sono positive, altre sicuramente negative. Tra le prime occorre segnalare la vitalità delle piccole e medie imprese che hanno contribuito all’elevata crescita del reddito pro capite, dell’occupazione e alla diffusione dell’industrializzazione nel Centro e nel Nordest d’Italia, grazie anche a modelli organizzativi come i distretti industriali. Tra le seconde è necessario includere la propensione al ricorso all’inflazione ed all’indebitamento pubblico per mantenere gli assetti distributivi e per assicurare adeguate prestazioni di carattere sociale. A questi fattori si deve aggiungere il basso livello di concorrenza che caratterizza i mercati dei beni, dei capitali e delle imprese. • A partire dall’inizio degli anni Novanta i limiti di questo modello sono apparsi del tutto evidenti. • Il processo di trasformazione ha subito un’accelerazione non solo per la difficoltà a sostenere l’assetto tradizionale in un contesto internazionale modificato, ma anche per ragioni di natura politica oltre che per la necessità di partecipare all’Unione monetaria. • Questo processo ha richiesto non solo il riequilibrio dei conti pubblici, ma l’introduzione di importanti riforme strutturali del mercato del lavoro, del governo delle imprese, di liberalizzazione dei mercati e di privatizzazione delle imprese. Questo processo non è certamente compiuto. Tuttavia è destinato a proseguire se l’Italia desidera continuare ad essere un importante attore della costruzione europea