Sistemi Economici Comparati
Anno accademico 2013-2014
Prof.sa Renata Targetti Lenti
Le caratteristiche dello sviluppo
economico italiano: gli anni del declino.
Lezione 16 3/12/2013
Letture
-Targetti Lenti R., Sviluppo e declino del sistema economico
italiano, “Il Politico”, n. 228, 2011, pp. 94-128.
Gli anni del declino.
«Nel corso dei passati dieci anni il prodotto interno
lordo è aumentato in Italia meno del 3 per cento; del 12
in Francia, paese europeo a noi simile per popolazione.
Il divario riflette integralmente quello della produttività
oraria: ferma da noi, salita del 9 per cento in Francia. Il
deludente risultato italiano è uniforme sul territorio, da
Nord a Sud. Se la produttività ristagna, la nostra
economia non può crescere».
Sono questi i dati che, secondo il Governatore della
Banca d’Italia, sintetizzano il declino senza precedenti
dell’ultimo decennio (Banca d’Italia, Relazione
annuale
del
governatore
all’assemblea
dei
partecipanti, Roma, 2011, p. 11.).
• Il declino è stato, dunque, non solo assoluto ma anche relativo.
In un’ottica di più lungo periodo si deve sottolineare come
l’Italia, che nel 1950 era uno dei paesi più poveri in Europa
(più povero della Francia, della Germania e del Regno Unito,
ma più ricca della Spagna) avesse «inseguito» e raggiunto
rapidamente gli altri paesi fino a circa l’inizio degli anni 90.
• Questo processo di convergenza si è invertito a partire da quel
momento, ma con una accelerazione proprio in questo ultimo
decennio (Figura 1). Lungo tutto il periodo la crescita
dell’attività produttiva in Italia si è pressoché dimezzata
rispetto alla seconda metà degli anni ‘90.
• “The widening gap between Italy and some other European
countries in the 2009 per capita GDP (in real terms) is shown
in Figure 2. In 2001 the value of per capita GDP in
comparison to the average OECD countries was 107 in Italy,
106 in Germany, 105 in France, 109 in U.K. showing a
convergence process. In the 2009 the trend was reversed: the
value was 95 in Italy, 101 in France, 108 in Germany, 109 in
U.K.
Figure 1, Annual growth of GDP (2000=100)
Figura 2
• Anche la fase depressiva originata dalla crisi
finanziaria del 2008 in Italia è iniziata con anticipo ed
è stata più grave e di maggiore durata rispetto agli
altri paesi dell’area dell’euro (Figura 3).
• Nel periodo giugno 2008-giugno 2010 tutte le
componenti dell’offerta hanno contribuito alla caduta
del Pil ed in particolare a quella della produzione
industriale. Sono diminuite l’occupazione ed il
numero delle industrie manifatturiere.
• A causa della simultaneità della crisi a livello
internazionale si è quindi prodotta una significativa
contrazione delle esportazioni. Inoltre investimenti e
consumi privati sono diminuiti in misura significativa
a causa dell’incertezza, della disoccupazione
crescente e delle restrizioni nel credito al consumo.
Figura 3
• E’ diminuita l’occupazione ed anche il numero di industrie
operanti nel settore manifatturiero. A causa della simultaneità
della crisi a livello internazionale si è verificata una
significativa diminuzione del flusso di esportazioni. Anche gli
investimenti ed i consumi privati sono diminuiti in modo
significativo a causa dell’incertezza, della disoccupazione
crescente e della riduzione del credito al consumo.
• Resta da chiedersi quali siano stati i fattori che nel corso di un
decennio possono spiegare l’accelerazione del «declino» del
nostro sistema economico. Questi fattori sono molteplici e tra
di loro interconnessi, di natura interna ed internazionale.
• 1) il peso del debito pubblico. Gli interessi sul debito
pubblico sono stati, e continuano ad essere, un quota
importante della spesa pubblica a scapito di altre
spese come quelle in ricerca, per l’istruzione inferiore
e superiore e per le infrastrutture (Figura 4).
• La necessità di continuare nel processo di riequilibrio
e di riduzione del debito costringe a mantenere
elevato il livello di tassazione impedendo così di
adottare politiche per lo sviluppo. Nello stesso tempo
il livello e la composizione della spesa sociale
risultano sempre meno sostenibili (Figura 5).
Figure 4, Ratio debt/GDP, 1885-2009
Fonte: Artoni e Biancini (2004) e Banca d’Italia (2010) per i dati dal 2000 al 2009
Figura 5
• 2) Il secondo fattore che può spiegare il declino è da
individuarsi nella «fragilità» della struttura produttiva italiana.
• 3) In terzo luogo le riforme che avevano introdotto un
significativo grado di flessibilità nel mercato del lavoro in
realtà hanno finito per determinare un deterioramento della
qualità dei lavoratori impiegati con effetti negativi sulla
produttività.
• La quota dell’industria sul valore aggiunto totale è scesa dal 22
al 18 per cento, con un calo che si è accentuato negli anni più
recenti. Nell’intero periodo il rallentamento della crescita è
stato, invece, meno accentuato nel settore dei servizi, dove il
valore aggiunto ai prezzi di mercato è aumentato di quasi il 2
per cento all’anno al netto della locazione dei fabbricati.
• La «terziarizzazione» dell’economia italiana si è
sostanzialmente compiuta. Nel 2006 il settore dei servizi
occupava la maggior parte delle persone ed in esso si
produceva ben il 72% del valore aggiunto.
• Le attività manifatturiere che hanno perso peso in
misura maggiore, sebbene continuino a rappresentare
una quota significativa dell’industria italiana, sono
quelle riconducibili al cosiddetto made in Italy.
• Sono questi (tessile e abbigliamento, prodotti in cuoio
e calzature, mobili) i settori nei quali l’Italia gode di
un vantaggio comparato. La produzione di mezzi di
trasporto ha inoltre risentito delle difficoltà della
maggiore impresa italiana. Fra i comparti il cui peso
sul complesso delle esportazioni è invece aumentato
spiccano macchine e attrezzature, prodotti in metallo
e apparecchi elettrici per le comunicazioni.
La dinamica della produttività totale dei fattori (TFP)
• An immediate snapshot of Italy’s declining path, can
be obtained looking at the labour and at the total
factors productivity trend (TFP). Its marked
deceleration “was not the result of an unfortunate
cyclical contingency (the current slowdown is worse
than in any former downturn in the last twenty
years)”
• The declining tendency of TFP in the last ten years or
so is mostly caused by a declining performance of
labour productivity.
• Labour productivity, not hours, is the keyword. As a
result of this trend, unit labour costs have soared and
profitability has been further squeezed, worsening
Italy’s already weak competitive position.
• Breaking down GDP growth into labour, capital, and total
factor productivity (TFP) contributions shows that the Italian
economy’s anemic growth is mostly explained by the declining
TFP.
• In fact, TFP contributions decreased substantially over the
period 1995‒2005, a slowdown which was pervasive across all
sectors but especially pronounced in manufacturing and nontradable sectors.
• Besides, the reallocation of employment from sectors with
higher productivity (typically manufacturing) to sectors with
lower productivity (typically services) would not be large
enough to justify a sizeable impact on the whole economy.
• Figure 6 shows clearly that in the period 1995-2004 labour
productivity (measured by GDP per hour worked for the aggregate
economy) marked a slowdown compared to the growth rate
recorded in the 1970s and in 1980-95.
• By contrast, the contribution of labour growth has been
positive over recent years. While contribution of capital
remained broadly stable, contribution of hours worked
increased significantly—also relatively to the EU15—thanks
to extensive labour market reforms.
• Within the labour factor, labour participation accounted for
almost half of the annual GDP growth in 2001‒2007. The
contribution of employment was also substantial, while that of
average hours worked was marginally negative. In addition,
there was a strong contribution from immigration.
• In the early 1990 the level of labour productivity used to be
higher in Italy in comparison to other European countries and
the US. Now, because of decreasing trend, the gap has been
reversed.
Figura 6, Scomposizione del tasso di crescita del GDP per capita
Si stima che, a partire dal 2004 un terzo della crescita
complessiva del prodotto sia attribuibile «all’accumulazione di
capitale, concentrata nelle componenti di costruzioni,
macchinari e attrezzature e ancora trascurabile nelle
componenti delle ICT, come nella prima metà del decennio».
Questa accumulazione, tuttavia, è stata caratterizzata da
investimenti di natura estensiva e non intensiva. Solamente
questi ultimi avrebbero potuto tradursi in un’accelerazione del
progresso tecnologico e dunque avrebbero determinato un
aumento della produttività del lavoro.
Il passaggio da pubblico a privato di molti servizi, soprattutto
di quelli locali, non ha necessariamente corrisposto ad un
aumento dell’efficienza a favore degli utenti.
• A seguito della dinamica della produttività il costo del
lavoro per unità di prodotto è aumentato e i margini
di profitto sono diminuiti, peggiorando la già debole
posizione competitiva delle imprese. Infine in Italia
sono mancate politiche dirette a stimolare la crescita
con adeguate misure di politica industriale e di
promozione della concorrenza attraverso interventi di
liberalizzazione dei mercati.
• Una prima conseguenza è stata la riduzione del
“ritmo” del progresso tecnico, e questo nonostante il
fatto che, negli anni ’90, gli investimenti e lo stock di
capitale fossero cresciuti a tassi elevati, anche a
paragone degli altri paesi industrializzati, favoriti da
un regime fiscale di vantaggio.
• Le spiegazioni del declino della produttività sono di varia
natura. Il declino è stato innanzitutto il risultato di fattori
strutturali. Si è ampliato infatti il settore dei servizi,
caratterizzato da una più elevata intensità di lavoro, ma altresì
da livelli inferiori di produttività, circostanza che potrebbe
spiegare la discesa della produttività media.
• Anche se le recenti revisioni dei conti nazionali segnalano un
parziale recupero a partire dal 2004, la produttività nel settore
dei servizi resta più bassa rispetto al settore manifatturiero.
• Secondo Salvatore Rossi buona parte della spiegazione del
ristagno relativo nella crescita del reddito e della produttività una volta corretti i dati statistici - sta proprio nel peso dei
servizi e nella scarsa concorrenza che in genere caratterizza sia
quelli privati che quelli pubblici. Al passaggio da pubblico a
privato di molti servizi, soprattutto locali, non ha
necessariamente fatto seguito un aumento di efficienza.
• La “terziarizzazione” dell’economia italiana si è
sostanzialmente compiuta. Nel 2005 oltre la metà del valore
aggiunto italiano era generato dal comparto dei servizi privati
(commercio, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni,
intermediazione finanziaria, attività immobiliari e servizi alle
imprese) con un aumento del loro peso percentuale di oltre 3
punti rispetto al 1995.
• Hanno assunto rilievo crescente i settori delle
telecomunicazioni e dei servizi alle imprese, in linea con il
processo di esternalizzazione delle attività terziarie osservato
anche in altri paesi industrializzati. Nel 2006 il settore dei
servizi impiegava la maggior parte degli occupati persone e
produceva il 72% del valore aggiunto.
• In ogni caso il trasferimento di occupati dai settori a
produttività più elevata (manifatturiero) a quelli a produttività
più bassa (servizi) non sembra essere stato abbastanza robusto
da giustificare un impatto significativo sull’intera economia.
• In the period 2000-2009 Italy has been the only European
country in which the rate of growth of the number of
employed has been higher than the GDP (in real terms) rate of
growth.
• The comparison of GDP growth rate with the employment rate
is impressive (Figure 7).
• Since the mid-1990s, Italy has been successful in reducing
unemployment and rising employment
• A strong labour market performance has been accompanied by
a weak real GDP growth (Figure 8).
• These trends tell us a quite puzzling story that can summarize
in one question: how can an extremely poor performance in
GDP growth can be accompanied by a strong employment
growth?
Figure 7, Growth rates of population, employment and GDP in some
european countries, 2000-2009 (% variations)
Figure 8
• In passato ad una moderazione salariale seguiva un
aumento dell’occupazione e corrispondentemente del
prodotto nazionale (Figura 9).
• Nell’ultimo decennio la relazione ha cambiato di
segno.
• Alla crescita dell’occupazione hanno corrisposto
infatti il rallentamento della crescita e l’azzeramento
dell’aumento della produttività media del lavoro,
misurata dal rapporto Pil/ore lavorate (Figura 5). Ne è
seguito il declino della produttività totale dei fattori
(TFP).
Figure 9
• There are many possible explanations for the inverse correlation
between employment and productivity as
• i) changes in technological progress,
• ii) cyclical fluctuations,
• iii) capital-labour substitution
• iv) effects of migration and changes in the labour market,
• v) a shift from industry to services;
• Changes in technological progress and changes in the organisation
of production contribute to total factor productivity.
• Policy action, by stimulating investments in a broader sense can
define appropriate “framework conditions” for businesses
contributing to the raise of labour and therefore total factor
productivity.
• Some empirical work seems to support the view that in Italy this
stimulus has been lacking, and the technological progress has been
weak despite capital accumulation.
• In the short run productivity growth can vary inversely with
employment, due to labour hoarding during a recession or
conversely when capital intensity cannot keep up with the growth of
labour input during an expansions.
• To some extent this may have played a role in Italy, especially at the
beginning of the current decade.
• Still, labour hoarding seems to be more useful in explaining the
cyclical behaviour of productivity rather than the divergent trend in
productivity and employment growth, especially over such a long
period of time.
• Capital-labour substitution. In the medium term, labour productivity
and employment can also deviate from the balanced growth path due
to capital-labour substitution.
• If employment grows faster than the amount of capital, labour
productivity growth would temporarily be below the balanced rate.
This should be regarded as a temporary phenomenon and not a
trade-off.
• In fact, a higher employment rate implies an increase in per-capita
GDP and no negative long-term implications for productivity
growth in the existing workforce.
• Un’ulteriore determinante della stagnazione deve essere infatti
individuata nel contesto istituzionale, in particolare nei
mutamenti intervenuti nel mercato del lavoro, le cui riforme
hanno prodotto solo parzialmente effetti positivi.
• Queste hanno, in realtà, generato un mercato dualistico,
caratterizzato dal divario tra le remunerazioni dei lavoratori
insider e quelle dei nuovi entranti. I primi sono stati protetti: le
loro remunerazioni si sono rivelate rigide verso il basso, come
bassa è la loro produttività.
• Al contrario le politiche dirette a promuovere l’occupazione
giovanile, il ricorso ai contratti temporanei e la maggiore
flessibilità dei contratti per i lavoratori “nuovi” possono avere
contribuito ad una riduzione del prezzo relativo del lavoro,
favorendo quindi la sostituzione del lavoro al capitale, con
conseguente aumento dell’occupazione, ma a danno della
produttività. Anche la regolarizzazione dell’immigrazione
illegale può avere contribuito all’emersione del lavoro già
irregolare, con conseguente contrazione della produttività.
Figure 10
• The effectiveness of labour market reforms implemented in Italy
could have determined a capital-labour substitution, even if the
lower interest rates that have prevailed since the run-up to monetary
union should have reduced the user cost of capital.
• Since the early 1990s there has been a slowdown in the capital
deepening, possibly as a result of less capital-intensive technologies
and activities and the expansion of the services sector where labour
input is prevalent.
• This evidence is consistent with capital-labour substitution (Figure
10). Labour could have become cheaper relative to capital and more
flexible as a factor of production.
• Labour market reforms in Italy have only been partial and they
have generated a dual market, opening a gap in earnings and
employment flexibility between insider workers (protected)
and new labour market entrants.
• In addition, policy has been oriented at reducing youth
unemployment, thus allowing further reduction in the cost of
hiring young workers (for example cuts in social security
contributions and tax credits).
• Both hiring conditions (increased use of temporary contracts)
and wages (downward flexibility) have made for a fall in the
relative price of labour at the margin and thus a substitution of
capital for labour, benefiting employment.
• The empirical evidence, however, does not appear to
support the hypothesis of cheaper labour costs on
average.
• The share of wages on value added does not provide
support to the idea of cheaper labour either. This share
has declined since the late 1970s (Figure 11) and it was
low by international standards at the beginning of the
1990s.
• Since the beginning of the current decade, however, there
has been a sharp pickup, partly due to poor cyclical
conditions (the share of wages on value added tends to
follow a cyclical pattern)
Figure 11
Infine in Italia sono mancate politiche dirette a stimolare la
crescita con adeguate misure di politica industriale e di
promozione della concorrenza attraverso processi di
liberalizzazione dei mercati.
Una prima conseguenza è stata le riduzione del ritmo del
progresso tecnico, e questo nonostante negli anni novanta, gli
investimenti e lo stock di capitale fossero cresciuti a tassi assai
rapidi, anche in confronto agli altri paesi industrializzati,
favoriti da un regime fiscale assai favorevole
all’accumulazione di capitale.
Come conseguenza della dinamica della produttività i costi del
lavoro per unità di prodotto sono aumentati e i margini di
profitto diminuiti peggiorando la già debole posizione
competitiva delle imprese italiane (Figura 12).
Figure 12
• Also available measures of nominal unit labour costs suggest that
Italy has become less competitive compared to other major
European countries over the past few years.
• This mainly reflects inflation differentials, especially after monetary
union, and a relatively disappointing performance in labour
productivity growth, while real compensation per employee has not
diverged significantly from that of other major European countries.
• It is the cost of the marginal worker that counts for the hiring
decisions by companies and this cost has declined significantly in
Italy over the past few years, notwithstanding relatively high
average cost. However, the entry of less productive “marginal
workers” can depresses labour productivity.
• The first impression would run counter to the idea of cheaper labour as
a factor of production relative to other countries.
• A still rigid and protected labour market for insiders and the two-layer
bargaining system not allowing downward wage flexibility has
prevented a more pronounced moderation in compensation growth
which would have put it more in line with the poor productivity
developments that have prevailed since the beginning of the decade.
• Slow growth in Italy has been accompanied by a steady increase in unit
labour costs relative to prices implying a considerable weakening in
overall profitability.
• This trend has been followed by an increasing number of Italian
companies to transfer part or all of their production to eastern European
countries.
• Effects of migration. Regularization of the illegal immigrant work
force may have contributed to bringing to light irregular
employment, which had not previously been included in estimates,
thereby depressing measured productivity growth.
• In the period 2002-4 a significant influx of immigrants was
officially recorded. The data show that the phenomenon is sizeable.
• Thus, by having long-term positive effects on employment levels,
the labour-supply shock is believed to have indirectly contributed to
the widening gap between employment and productivity growth.
• If constant returns to scale are assumed the effect of a supply shock
would be negative if the marginal worker is assumed to be less
productive.
La produzione manifatturiera ha cominciato a diminuire a
partire dall’inizio del 2007 (Figura 13. Questa, tuttavia, è solo
l’ultima fase di una tendenza di lungo periodo. Essa può essere
ricondotta alle difficoltà incontrate, e non solo in Italia,
nell’adattarsi all’organizzazione post-fordista che richiede nei
settori più dinamici una più rapida accumulazione di
conoscenza, innovazioni di prodotto e investimenti in ricerca e
sviluppo.
In Italia la struttura industriale ha continuato a basare il
proprio sviluppo sulle imprese di media e piccola dimensione
nei settori tradizionali dove più elevata è la concorrenza
potenziale dei paesi emergenti. L’elevata presenza di piccole e
medie imprese avrebbe frenato le economie di scala ed il
progresso tecnologico.
Figure 13
La dimensione media ha potuto diminuire grazie
anche all’impiego della microelettronica ed alle
telecomunicazioni, all’introduzione di elementi postfordisti nell’organizzazione produttiva ed alla
flessibilizzazione dell’impiego del lavoro, ad un
maggior ricorso alle subforniture.
Il tentativo è stato quello di contrastare la riduzione
della produttività in quei settori nei quali le economie
di scala erano ridotte e la crescita delle vendite stava
rallentando.
• Tra i fattori che possono spiegare la persistenza di un modello
produttivo basato su imprese medio-piccole sottolineiamo la
scarsità di risorse manageriali e organizzative adeguate, ma
anche la struttura proprietaria familiare, contrariamente a
quanto è accaduto in altri paesi industrializzati, dove si è
maggiormente sviluppata l’impresa manageriale.
• La diffusione del modello familiare nel nostro sistema
economico può essere sì spiegato da fattori di efficienza, ma
anche da altri di natura culturale. Alcune ricerche empiriche
hanno evidenziato che le imprese familiari sono più
profittevoli: d’altra parte le stesse sono meno propense
all’innovazione tecnologica, così come ad essere quotate sul
mercato dei capitali. La struttura proprietaria delle imprese
può condizionarne non solo competitività e crescita, ma anche
la capacità di penetrare i mercati esteri.
• L’ipotesi sottostante è che le imprese familiari, in quanto siano
tendenzialmente avverse al rischio, percepiscano i mercati
esteri come più rischiosi, in particolare quando la scelta
comporta costi elevati di uscita. Tale ipotesi risulta confermata
da un’analisi empirica per il periodo 1995- 2003.
La crescita dell’economia italiana è stata sempre influenzata
dal contesto internazionale in relazione al suo elevato livello
d’integrazione e fino al 2000 il tasso di crescita delle
esportazioni è sempre stato più sostenuto di quello del Pil. A
partire dall’inizio del 2000 questa dinamica si è invertita. Le
esportazioni non sono più state un fattore di traino per
l’economia.
Tra il 1996 e il 2001 la perdita di posizioni delle esportazioni
italiane poteva essere integralmente attribuita a fattori
congiunturali come l’apprezzamento reale della lira in risposta
all’overshooting del tasso di cambio nei tre anni precedenti e
soprattutto ad effetti di valutazione (la forza del dollaro e
l’aumento del prezzo del petrolio che gonfiano il valore del
commercio mondiale extra-europeo).
Un calo analogo ha interessato tutti i principali paesi avanzati
come conseguenza dell’entrata sui mercati mondiali di nuove
imprese localizzate nei paesi emergenti.
Per l’Italia, tuttavia, questo calo è stato più significativo.
All’inizio del 2000 all’interno dell’Unione a 15 l’Italia aveva
una quota di mercato significativa seconda solo alla Germania.
Alla fine del decennio, invece, la quota si era sensibilmente
ridotta rispetto alla Germania, alla Francia ed al Regno Unito.
Il calo della quota di esportazioni dei prodotti italiani sui
mercati internazionali evidenzia l’esistenza di un problema
strutturale e cioè di una progressiva perdita di competitività del
nostro sistema rispetto agli altri paesi industrializzati ed a
quelli emergenti.
I primi hanno beneficiato del rapido mutamento delle tecniche
(la ICT è solo l’esempio più noto) ed i secondi di costi
comparati minori nelle tradizionali produzioni dell’Italia.
• La perdita di competitività è stata particolarmente
rilevante in alcuni settori industriali come il chimico,
la microelettronica, le auto ed i farmaceutici. Anche
se nel corso del decennio si è verificata l’espansione
del «made in Italy» il successo di queste imprese non
è stato sufficiente a sostenere la produzione di
un’economia importante come quella italiana.
• Il saldo delle partite correnti è risultato negli ultimi
anni negativo in parte a causa del saldo negativo della
voce dei servizi, ma in parte anche per il saldo
negativo della voce redditi dai fattori (Tabella 1).
L’afflusso di investimenti esteri si è, infatti,
progressivamente ridotto.
Tabella 1
• Il modello di specializzazione dell’economia italiana appare,
dunque, sempre più fragile. La composizione settoriale delle
esportazioni è rimasta in larga misura immutata Se confrontata
con quella degli altri paesi industrializzati, appare sempre più
sbilanciata verso i settori tradizionali, e cioè verso quei settori
maggiormente esposti alla concorrenza dei paesi in via di
sviluppo.
• Secondo l’OECD, la correlazione tra specializzazione
settoriale italiana e quella delle economie asiatiche più
dinamiche è significativamente positiva, tra le più elevate
all’interno dei paesi OCDE industrializzati e crescente nel
tempo.
• L’Italia mostra una sostanziale debolezza nei settori
ad alta intensità di Ricerca e Sviluppo, generatori di
nuova tecnologia, e nei settori a forti economie di
scala orientati a produzione di beni di consumo ed
intermedi. La quota, a prezzi e cambi correnti, sulle
esportazioni mondiali di prodotti afferenti alle ICT ha
mostrato un calo nell’ultimo decennio, ai livelli
minimi tra i maggiori paesi dell’area dell’euro.
• In prospettiva, al pari dei settori tradizionali, anche le
produzioni a tecnologia medio-alta, come la
meccanica e i mezzi di trasporto, potrebbero soffrire
la già significativa e crescente concorrenza dei paesi
emergenti.
• Vari elementi suggeriscono, tuttavia, che la crisi di
competitività del sistema produttivo italiano non si
esaurisce in un problema di specializzazione
settoriale.
• La crescente specializzazione dell’Italia nella
produzione e nelle esportazioni di beni a bassa
intensità di manodopera qualificata, dipende
essenzialmente dalle scelte del passato. Negli
anni ’70 e nella prima metà degli anni 90 la
competitività era stata assicurata da una svalutazione
strisciante.
Queste politiche avevano orientato il sistema
produttivo verso settori in cui la competizione fra
imprese si fonda sul livello dei prezzi o che sono
caratterizzati da estrema flessibilità organizzativa e
produttiva.
La specializzazione era stata distorta verso settori a
tecnologia medio-bassa caratterizzati da modeste
economie di scala la cui competitività si basava sui
prezzi bassi, sulla flessibilità dell’organizzazione e
non su aspetti qualitativi e sul contenuto tecnologico
dei prodotti.
• Quando il vantaggio competitivo basato sul meccanismo
monetario è venuto meno in seguito alla partecipazione
dell’Italia all’euro le carenze del nostro sistema produttivo si
sono manifestate in tutta evidenza. In particolare sono
diventati determinanti, ai fini della competitività, i differenziali
del costo del lavoro per unità di prodotto.
• Questi costi nel decennio 2000-2010 sono cresciuti, a causa
della diminuzione della produttività, più della media europea
ed in misura significativa rispetto alla Spagna, Germania e
Francia (Figure 14).
• La quota dei salari sul valore aggiunto è aumentata (figura 15)
Figure 14
Figura 15
• “Low productivity growth and the tendency for wage
growth to outstrip it are reflected in weak
performance, at least according to simple measures of
comparative labour cost competitiveness. The share
of Italian exports in the trading partners has steadily
declined” (Figura 16).
• E’ oggi più difficile introdurre innovazioni di
prodotto, acquisire posizioni competitive nei settori
più dinamici e sperimentare, dunque, aumenti nella
produttività del lavoro e di conseguenza anche dei
salari e dei profitti.
Figure 16
• L’evidenza empirica mostra che, a partire dal 2002, gli
esportatori italiani, specie quelli operanti nei settori
tradizionali, hanno mantenuto i prezzi all’esportazione più
elevati di quelli interni, a fronte di un apprezzamento dell’Euro
e della pressione competitiva (Figure 17 e 18).
• Alla perdita di quote di mercato hanno corrisposto valori
unitari delle esportazioni crescenti lungo il decennio.
• Questa opposta dinamica appare paradossale ed esige una
spiegazione. Una prima ragione può risiedere nel fatto che le
imprese avrebbero tentato di preservare i margini di profitto
grazie ad un aumento del potere di fissazione dei prezzi, o più
generalmente del potere di mercato.
• Una seconda fa riferimento al trasferimento all’estero delle
produzioni di bassa qualità in un processo di offshoring, con
conseguente miglioramento qualitativo dei prodotti “interni”.
Figura 17
Figure 18
• Per fare fronte alla pressione proveniente dai paesi di nuova
industrializzazione gli esportatori italiani avrebbero riallocato
le produzioni di bassa qualità nei paesi caratterizzati da bassi
costi. D’altra parte la concorrenza da parte di questi ultimi
potrebbe avere costretto alcune imprese ad uscire dal mercato.
• Entrambi i fenomeni avrebbero prodotto una ricomposizione
delle esportazioni verso la gamma “alta” per qualità e prezzo,
giustificando l’aumento del deflatore delle esportazioni
rilevato negli ultimi anni.
• Infine, una strategia deliberata volta a migliorare la qualità dei
beni prodotti all’interno potrebbe spiegare parzialmente il
fenomeno: mentre le imprese che producono per il mercato
interno hanno subìto la concorrenza delle economie emergenti
nelle produzioni di bassa qualità, altre hanno migliorato la
qualità dei prodotti esportati in termini di marketing, contenuto
di design, complessità.
• Una sorta di paradosso del caso italiano, che deve essere
spiegato, è costituito dal fatto la perdita di quote sui mercati
esteri è stata accompagnata da valori unitari delle esportazioni
crescenti nel corso del decennio. I prezzi delle esportazioni
italiane sono aumentati più di quelli dei paesi concorrenti, e
non solo nei periodi di espansione.
• Le opposte dinamiche nell’andamento delle quote di mercato e
dei valori unitari delle esportazioni richiedono alcune
spiegazioni. Una prima spiegazione può essere che le imprese
abbiano tentato di preservare i margini di profitto grazie ad un
aumento del potere di fissazione dei prezzi o più generalmente
del potere di mercato. Una seconda spiegazione fa riferimento
al trasferimento delle produzioni di bassa qualità in un
processo di «off-shoring» ed un miglioramento della qualità
dei prodotti.
Per far fronte alla pressione proveniente dai paesi di nuova
industrializzazione gli esportatori italiani potrebbero avere
riallocato le produzioni di bassa qualità verso paesi
caratterizzati da bassi costi. D’altra parte la concorrenza da
parte dei produttori a bassi costi potrebbe avere costretto
alcune imprese ad uscire dal mercato. Infine una deliberata
strategia per accrescere la qualità dei beni prodotti all’interno
potrebbe spiegare parzialmente questo fenomeno.
Mentre le imprese che producono per il mercato interno hanno
subito la concorrenza delle economie emergenti nelle
produzioni di bassa qualità, altre hanno migliorato la qualità
dei prodotti in termini di commercializzazione (marketing),
contenuto di design, complessità, ed hanno riallocato le
produzioni di bassa qualità altrove.
Le carenze strutturali.
Come sottolineava Mario Draghi «Una crescita stenta alla
lunga spegne il talento innovativo di un'economia; deprime le
aspirazioni dei giovani; prelude al regresso; preoccupa
particolarmente in un paese come il nostro, su cui pesano
un'evoluzione demografica sfavorevole e un alto debito
pubblico.
La grande recessione mondiale ha accentuato queste
preoccupazioni. Essa ha impresso un'accelerazione a
dinamiche globali che già avevano intaccato il primato delle
economie avanzate, ha provocato un deterioramento delle
finanze pubbliche che ha tolto spazio di manovra ai governi».
• In Italia i fattori che hanno generato il declino hanno natura strutturale ed
hanno radici molto lontane. Esistevano ben prima che scoppiasse la crisi
finanziaria. Occorrono oggi riforme strutturali, non solo politiche fiscali e
monetarie ma soprattutto amministrative ed industriali al fine di ridurre le
diverse forme di dualismo tra Nord e Sud, tra industrie che utilizzano
tecnologie avanzate e non avanzate, tra lavoratori regolari e precari, tra
imprese di grande dimensione e di dimensione piccola e media, tra
lavoratori giovani protetti e non protetti.
• Per superare la fase depressiva dell’economia italiana occorre allentare il
vincolo estero riducendo la dipendenza dalle importazioni di energia.
Occorre ridurre i costi di produzione con particolare riferimento a quelli del
lavoro e dell’energia. Occorre accrescere la competitività delle imprese,
continuare
nell’azione
di
risanamento
dei
conti
pubblici,
nell’ammodernamento delle infrastrutture, nella riduzione degli squilibri
territoriali e distributivi.
• Occorre stimolare il processo d’accumulazione attraverso investimenti
privati e pubblici, in capitale fisico ma anche in capitale umano. Infine
occorrono politiche per ridurre la diseguaglianza e la povertà.
• Una delle più importanti carenze che è necessario fronteggiare
è costituita dal basso livello di investimenti in ricerca e
sviluppo, in infrastrutture ed in capitale umano. La spesa in
ricerca e sviluppo è molto bassa ed inferiore non solo a quella
degli altri paesi industrializzati, ma addirittura a quella di paesi
emergenti come la Corea del Sud (Figura 19).
• Uno dei più gravi problemi strutturali resta il divario tra il
Centro-Nord e le regioni del «Mezzogiorno» (Sud d’Italia e
Isole). Il tasso di disoccupazione del Sud è il doppio della
media nazionale e più del quadruplo di quello del Nord. Il peso
dell’agricoltura e dei servizi è superiore alla media. Le
esportazioni sono l’8% del Pil contro il 25% del Centro-Nord.
La ricchezza familiare è più bassa, la diseguaglianza maggiore.
Figura 19
Anche se in alcune zone limitate del Sud si è verificata
recentemente un’espansione delle piccole imprese, dei distretti
industriali e di attività terziarie moderne, così come la
localizzazione di pochi impianti moderni (St microelettronica a
Catania) in gran parte del Sud le condizioni economiche e
sociali restano piuttosto difficili. Mentre le altre regioni
europee che erano restate indietro stanno lentamente
convergendo verso la media europea il Sud d’Italia non riesce
a decollare.
I flussi migratori verso il Centro ed il Nord sono
ancora elevati, soprattutto per i giovani, inclusi quelli
con un elevato livello d’istruzione. In questo modo si
impoverisce il capitale umano al Sud. Il tasso di
partecipazione al mercato del lavoro rimane uno dei
più bassi in Europa soprattutto per i giovani e per le
donne. Un quinto dell’occupazione è ancora
irregolare, più del doppio di quella esistente al Centro
e al Nord, dove, in ogni caso, vi sono più lavoratori
irregolari che in Francia, Germania e Regno Unito.
• Elevati livelli di diseguaglianza e di povertà sono altri due
aspetti strutturali che meritano attenzione. I dati provenienti
dell’indagine campionaria biennale della Banca d’Italia sui
bilanci delle famiglie Italiane consentono di stimare la
dinamica della diseguaglianza misurata dall’indice di Gini.
• Questo indice sembra indicare che la diseguaglianza in Italia
ha seguito nel complesso un moderato andamento ad U
mostrando una diminuzione dalla metà degli anni ’70 fino alla
fine degli anni ’80, un aumento tra la fine degli anni 80 e la
prima metà degli anni 90 ed una relativa stabilità, su livelli più
alti, a partire dal 1993.
• L’indice di Gini è passato da valori vicini alla media dei paesi
OCDE a livelli simili a quelli degli altri paesi del sud Europa,
molto vicino a quello del Regno Unito e degli Stati Uniti, più
elevato di quello esistente negli altri paesi europei continentali
(Figura 20).
Figura 20
Figura 21
• In Italia si è cercato di contrastare la crescita della
diseguaglianza
aumentando
la
tassazione
e
contemporaneamente la spesa per trasferimenti. L’Italia è
l’unico paese che in questi ultimi dieci anni ha aumentato
questa voce di spesa. Tuttavia le politiche redistributive hanno
finito per beneficiare soprattutto le classi medio-alte (Figura
20).
• I trasferimenti per prestazioni sociali hanno in Italia, rispetto
ad altri paesi della Comunità Europea, effetti perequativi meno
rilevanti di quanto ci si possa attendere in relazione al loro
ammontare complessivo. I trasferimenti sono costituiti quasi
totalmente da pensioni, si distribuiscono con un peso
decrescente nei diversi decili di popolazione, ma
contribuiscono in modo rilevante alla formazione anche dei
redditi più elevati. Manca uno strumento che tuteli contro i
rischi di disoccupazione ed abbia carattere di universalità.
L’invecchiamento della popolazione costituisce, infine, un
altro vincolo stringente. La quota di popolazione superiore ai
65 anni è elevata e crescente. Di conseguenza crescente è la
spesa pensionistica e sanitaria.
Si tratta di un fattore di natura istituzionale che si è aggravato
nel corso del tempo e che contribuisce alla crisi finanziaria del
settore pubblico. Un meccanismo perverso che può essere
definito trappola della vecchiaia. si autoalimenta grazie al
controllo «politico» da parte delle generazioni più anziane che
impediscono un miglioramento delle aspettative delle fasce più
giovani.
L’elevato livello dell’indebitamento non solo ostacola il
mantenimento degli attuali livelli di sicurezza sociale, ma li
rende non sostenibili per le generazioni future. Il trend
demografico insieme all’assenza di serie politiche famigliari
non garantisce in futuro il mantenimento di quella sorta di
«contratto sociale»che oggi lega la popolazione anziana a
quella giovane.
• Infine la globalizzazione e deboli istituzioni hanno
generato un elevato livello di incertezza e di
insicurezza limitando le prospettive di crescita per i
giovani.
• La crisi finanziaria è stata particolarmente severa in
termini di crescita della disoccupazione giovanile.
Essa è cresciuta nell’intera area OCDE ed ha
raggiunto un livello molto elevato pari a circa il 30%
in Italia.
• Nel nostro paese poi, la situazione è aggravata dal
fatto che anche lavoratori qualificati, se giovani,
risultano disoccupati ed esclusi dal mercato del lavoro
(circa il 79% della “nuova” disoccupazione).
Considerazioni conclusive.
Il modello di sviluppo italiano presenta numerose
caratteristiche che lo distinguono da quello degli altri paesi
occidentali. Alcune sono positive, altre sicuramente negative.
Tra le prime occorre segnalare la vitalità delle piccole e medie
imprese che hanno contribuito all’elevata crescita del reddito
pro
capite,
dell’occupazione
e
alla
diffusione
dell’industrializzazione nel Centro e nel Nordest d’Italia,
grazie anche a modelli organizzativi come i distretti industriali.
Tra le seconde è necessario includere la propensione al ricorso
all’inflazione ed all’indebitamento pubblico per mantenere gli
assetti distributivi e per assicurare adeguate prestazioni di
carattere sociale. A questi fattori si deve aggiungere il basso
livello di concorrenza che caratterizza i mercati dei beni, dei
capitali e delle imprese.
• A partire dall’inizio degli anni Novanta i limiti di questo
modello sono apparsi del tutto evidenti.
• Il processo di trasformazione ha subito un’accelerazione non
solo per la difficoltà a sostenere l’assetto tradizionale in un
contesto internazionale modificato, ma anche per ragioni di
natura politica oltre che per la necessità di partecipare
all’Unione monetaria.
• Questo processo ha richiesto non solo il riequilibrio dei conti
pubblici, ma l’introduzione di importanti riforme strutturali del
mercato del lavoro, del governo delle imprese, di
liberalizzazione dei mercati e di privatizzazione delle imprese.
Questo processo non è certamente compiuto. Tuttavia è
destinato a proseguire se l’Italia desidera continuare ad essere
un importante attore della costruzione europea
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Le forme di mercato non concorrenziali. Oligopolio.